, 22 febbraio 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Premessa: il nome (improprio) del nuovo istituto. – 2. I presupposti del nuovo istituto: il presupposto procedurale. – 3. I presupposti soggettivo e oggettivo. – 4. Il contenuto della proposta concordataria. – 5. L’enigmatico quadro delle regole nella prospettiva del passaggio dalla Legge fallimentare al Codice della crisi e dell’insolvenza. – 6. Il giudizio di ammissione. – 7. Le ulteriori verifiche demandate al tribunale. – 8. Gli effetti sostanziali del concordato semplificato e le relative criticità.
1. Premessa: il nome (improprio) del nuovo istituto
Il concordato «semplificato», introdotto nel nostro ordinamento giuridico – unitamente alla «composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa» - dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla l. 21 ottobre 2021, n. 147 (a sua volta integrata dal d.l. 6 novembre 2021, n. 152, convertito con modificazioni dalla l. 29 dicembre 2021, n. 233), è al momento l’ultima creazione del legislatore in tema di procedure concorsuali e in periodo di pandemia, di cui però non è chiaro quasi nulla, salvo appunto la sua natura concorsuale ed il suo presupposto soggettivo (di cui infra) [1].
La sua disciplina, apparentemente molto succinta, è contenuta negli artt. 18 e 19 del menzionato d.l. n. 118 del 2021[2], i quali però richiamano – come vedremo – una cospicua serie di norme della Legge fallimentare, destinata, come si sa, ad essere sostituita dal Codice della crisi e dell’insolvenza a partire dal 16 maggio 2022 (sempre salvo ulteriori proroghe), tanto da porre un primo dubbio sulla sorte del concordato semplificato allorché la Legge fallimentare non costituirà più il regolamento generale delle procedure concorsuali aperte successivamente a tale data (artt. 389 e 390 CCII).
Intanto il nome stesso non è appropriato: infatti l’istituto si chiama «concordato», ma non si concorda nulla, né fra il debitore e i suoi creditori (anzi proprio la mancanza di un accordo con i creditori o con taluni di essi in sede di composizione negoziata è uno dei presupposti della nuova disciplina), né con il tribunale (del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale, analogamente a quanto dispone il primo comma dell’art. 9 l. fall., che però non è richiamato, così ponendo il dubbio riguardante l’applicabilità degli ulteriori commi di detta norma, ad esempio quanto al trasferimento della sede o al caso che l’impresa abbia sede all’estero); ai creditori è concesso unicamente il potere di proporre opposizione all’omologazione – peraltro come a qualunque interessato – nel termine perentorio di dieci giorni prima della relativa udienza; analogamente al c.d. concordato «di liquidazione» (art. 214 l. fall.) e ai concordati nelle amministrazioni straordinarie (art. 78 d.lg. n. 270 del 1999) non è prevista alcuna manifestazione di voto (che ovviamente non necessita di motivazione, a differenza dall’opposizione), neppure secondo la regola del silenzio-assenso, tipica del concordato fallimentare (art. 128, comma 2 l. fall.), ma anche delle amministrazioni straordinarie delle grandi imprese in stato di insolvenza (art. 4-bis, comma 8 d.l. n. 347 del 2003) e, per un breve periodo di tempo (fra il 2012 e il 2015), anche del concordato preventivo, ma riprodotta nel Codice della crisi e dell’insolvenza anche per il c.d. concordato «minore» (art. 74 ss.).
La tutela dei creditori è rimessa interamente ai controlli demandati al tribunale in sede di omologazione (di cui infra), con un chiaro depotenziamento del loro ruolo, intermediato appunto dal tribunale, come se il legislatore, in relazione ad uno dei presupposti della procedura in esame, abbia inteso punirli per non aver trovato prima un accordo con il debitore nell’ambito della composizione negoziata della crisi secondo una delle modalità elencate nell’art. 11, che però possono riguardare uno o più creditori, ma non tutti i creditori, molti dei quali potrebbero non avere alcuna responsabilità nel fallimento del tentativo di soluzione idoneo al superamento della situazione di crisi o di insolvenza.
In generale nel concordato, preventivo o fallimentare che sia, a qualunque creditore ammesso al voto è data la possibilità di valutare, prima che il procedimento giunga alla fase dell’omologazione, la convenienza per lui (o per la sua classe) della proposta del debitore, il quale, in quello preventivo, deve in ogni caso indicare, fra l’altro, «l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile» che lo stesso si obbliga ad assicurare a ciascun creditore (art. 161, lett. e l. fall., ripreso nel Codice della crisi e dell’insolvenza dall’art. 84, comma 3, ma solo per il concordato con continuità aziendale); qui invece è il tribunale che, in sede di omologazione, deve valutare che la proposta, oltre a non arrecare pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione «fallimentare» (sic! ma al fallimento sono sottratte molte imprese che pure possono ricorrere al concordato semplificato), assicuri comunque un’utilità a ciascun creditore (art. 18, comma 5): ciò che – fra assenza di pregiudizio e presenza di utilità – ha tutta l’aria di costituire un mascherato giudizio di convenienza, affidato al tribunale in barba alla precedente riforma della disciplina concordataria.
Ciononostante non si può ancora né affermare, né negare che al depotenziamento del ruolo dei creditori corrisponda un potenziamento di quello del tribunale, essendo prima necessario delineare il perimetro delle verifiche demandate a questo sia in sede di ammissione (nonostante una opinione dottrinale contraria a ritenere che vi sia un simile giudizio), sia in sede di omologazione, anche in relazione al contenuto specifico della proposta, ben delimitata nel primo comma dell’art. 18.
2. I presupposti del nuovo istituto: il presupposto procedurale
Per l’accesso al concordato semplificato devono ricorrere tre presupposti: procedurale, soggettivo e oggettivo.
Il primo, nel panorama della legislazione in tema di crisi di imprese, è una novità; infatti la domanda può essere presentata solo da chi in precedenza abbia tentato, senza successo, ma agendo «secondo correttezza e buona fede», la via della composizione negoziata, allorché nella relazione finale dell’esperto di cui all’art. 5, comma 8, risultino impraticabili le soluzioni elencate nell’art. 11, commi 1 e 2 (accordi di vario tipo con uno o più creditori, convenzione di moratoria, accordo di ristrutturazione dei debiti).
Il concordato semplificato (con tutte le varianti rispetto al comune concordato preventivo) è stato concepito come un beneficio riservato solo all’imprenditore (iscritto nel registro delle imprese) onesto e (forse) sfortunato, il quale però – sfortuna a parte – si sia dato da fare (s’intende in modo non opportunistico) incanalando la crisi nel nuovo strumento pensato per lui, senza impedirgli l’eventuale ricorso a tutti gli altri strumenti (concorsuali e non) previsti dal legislatore (art. 11, comma 3, lett. a e c).
Gli echi di consenso sulla composizione negoziata provenienti da varie parti probabilmente non tengono conto, per un verso, del fatto che un imprenditore in crisi è comprensibilmente poco propenso ad esternare, sia pure in modo riservato, ai creditori o a qualcuno di essi la sua situazione, almeno fintanto che, con l’ausilio dei professionisti che lo assistono, ritenga (a ragione o a torto) di riuscire a superarla; e, per un altro verso, del fatto che, se invece si tratta di vera e propria insolvenza, magari già manifesta all’esterno o prossima a manifestarsi, l’imprenditore potrebbe essere tentato di ricorrere alla composizione negoziata con l’unico vero scopo di giungere appunto al concordato semplificato, per sottrarre le sorti della sua impresa al consenso dei creditori, anche in relazione alla ristrettezza dei tempi previsti per completare il percorso (centottanta giorni dall’accettazione della nomina dell’esperto, più eventualmente altri centottanta giorni di proroga, più altri sessanta giorni dalla comunicazione della relazione finale dell’esperto (art. 5, commi 7 e 8 e art. 18, comma 1): ristrettezza generalmente confliggente in molti casi con la laboriosità delle trattative con taluni creditori, come gli istituti bancari di dimensioni maggiori (in relazione ai quali altrettanto frequentemente è persino complesso individuare chi, tra i funzionari, abbia il potere della decisione finale) o come gli interlocutori del personale dipendente, ovviamente interessati alla salvaguardia di tutti i rapporti di lavoro in corso.
D’altra parte, se è vero che per il quinto comma dell’art. 5 l’esperto sin dal primo incontro con l’imprenditore deve valutare l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento, in assenza della quale lo stesso deve avviare il procedimento verso l’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata, è altrettanto vero che, invece, per il settimo comma dell’art. 5, in apparente contraddizione, la soluzione adeguata per il superamento della crisi o dell’insolvenza (e quindi per la verifica della concreta prospettiva di risanamento) deve essere individuata nel termine sopra indicato, così probabilmente limitando l’ambito applicativo dell’immediata archiviazione ai casi più disperati, al di là del semplice «test pratico» di cui all’art. 3, comma 2 (per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento), che potrebbe assumere in qualche caso un carattere meramente sperimentale.
Ma se, per accedere al concordato semplificato, occorre che la relativa domanda sia preceduta dal tentativo abortito della composizione negoziata, è evidente che gli altri due presupposti, soggettivo e oggettivo, possono essere solo quelli propri di quest’ultimo istituto, sui quali dunque è necessaria qualche riflessione.
3. I presupposti soggettivo e oggettivo
Per quanto riguarda il presupposto soggettivo, la composizione negoziata e dunque anche il concordato semplificato sono riservati ad una cerchia amplissima di soggetti che siano imprenditori, commerciali (sopra o sotto soglia ex art. 1 l. fall.) o agricoli, , i quali però risultino iscritti nel registro delle imprese e quindi abilitati a chiedere (a mezzo di una piattaforma telematica nazionale) al segretario generale della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (o, se imprenditori sotto soglia, cioè in possesso dei requisiti di cui all’art. 1, comma 2 l. fall., anche alternativamente all’organismo di composizione della crisi: art. 17, comma 2), nel cui ambito territoriale si trova la sede legale dell’impresa, la nomina dell’esperto indipendente che dovrà agevolare le trattative tra l’imprenditore istante, i suoi creditori ed eventuali terzi interessati, per il superamento della crisi (artt. 2, 3 e 5).
Come detto, anche l’imprenditore commerciale sotto soglia o quello agricolo, che diversamente sarebbero esclusi dal fallimento e dal concordato preventivo e assoggettabili semmai alle procedure di cui alla l. 27 gennaio 2012, n. 3 (salva la facoltà, se imprenditori agricoli, di avvalersi dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis l. fall. o della transazione fiscale di cui all’art. 182-ter l. fall., a norma dell’art. 23, comma 43 del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modificazioni dalla l. n. 111 del 2011[3], norma peraltro destinata all’abrogazione ai sensi dell’art. 374 CCII), una volta individuato con l’ausilio dell’esperto il mezzo idoneo al superamento della situazione di crisi, possono accedere, fra le varie opzioni, anche al concordato semplificato (art. 17, comma 4, lett. e), che però – come vedremo – è disciplinato mediante un cospicuo richiamo di disposizioni dettate per il concordato preventivo, che a loro volta richiamano numerose disposizioni dettate per il fallimento, cioè precisamente per le due procedure dalle quali in realtà quegli imprenditori (o perché sotto soglia o perché agricoli) sarebbero esclusi.
Ma un enigma ben più inquietante è annidato nel presupposto oggettivo della composizione negoziata[4] (e dunque anche del concordato semplificato)[5], consistente per l’imprenditore commerciale o agricolo in uno stato «di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza», purché – e questo è il punto – risulti «ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa» (art. 2, comma 1, ma anche art. 3, comma 2, art. 5, comma 5 e art. 17, comma 1), tant’è che, se l’esperto indipendente, una vota accettato l’incarico, non ravvisa «concrete prospettive di risanamento», ne deve dare notizia al segretario generale della camera di commercio, che dispone l’archiviazione dell’istanza di composizione negoziata; in tal caso deve ritenersi che non ci sia spazio per l’eventuale domanda di concordato semplificato, che presuppone invece che sia stata precedentemente «individuata una soluzione idonea al superamento della situazione» di crisi o di insolvenza (di cui all’art. 11, commi 1 e 2), che si siano svolte «secondo correttezza e buona fede» trattative con creditori e terzi e che queste non abbiano avuto esito positivo (art. 18, comma 1).
Non è certo possibile in questa sede verificare in modo adeguato a che cosa corrisponda precisamente la nozione adottata dal legislatore nell’art. 2, comma 1, peraltro distaccandosi da quella enunciata nell’art. 2, comma 1, lett. a) del Codice della crisi e dell’insolvenza, quale «stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore»; posto che la valutazione di quest’ultima consista in una prognosi probabilistica di insolvenza, risultante («si manifesta») sul piano finanziario da inadeguatezza di flussi di cassa prospettici a fronte delle obbligazioni pianificate, da adempiere «regolarmente» (in linea con la definizione di insolvenza di cui alla lett. b del medesimo art. 2, comma 1 del Codice, ma non molto distante da quella temporanea difficoltà di adempimento delle obbligazioni di cui all’art. 187 l. fall. per l’abrogata amministrazione controllata), per dare un senso alla prima nozione così come testualmente disegnata, qui la prognosi probabilistica riguarderebbe la stessa crisi[6], prima ancora che l’insolvenza; occorre cioè ipotizzare che alla composizione negoziata possa accedere anche l’imprenditore che attualmente non è affatto in crisi, ancorché si trovi in una situazione che potrebbe evolvere in futuro in una crisi[7].
E’ poco realistico immaginare che un imprenditore non ancora in stato di insolvenza, ma neppure in stato di crisi attuale decida di proteggere la sua impresa vaccinandola con la composizione negoziata e mettendosi nelle mani di un estraneo (l’esperto indipendente), affinché contatti i suoi creditori (sempre che dello strumento non si abusi, esclusivamente per ottenere qualche beneficio).
E’ molto più probabile che a detto strumento ricorra l’imprenditore già in crisi, che decida di mettersi al riparo da una probabile insolvenza; o che, già in stato di insolvenza conclamata, si ponga come (realistico) obiettivo quello di salvare se stesso e magari anche la sua impresa, non mediante gli strumenti di cui all’art. 11, commi 1 e 2, ma precisamente mediante il concordato semplificato (art. 11, comma 3, lett. b), che è sì un concordato con cessione dei beni, quindi meramente liquidatorio, ma realizzabile anche a mezzo della cessione a terzi dell’azienda o di un suo ramo o di specifici beni (art. 19, comma 2) o forse anche a mezzo delle altre ipotesi mirate ad assicurare la continuità aziendale c.d. «indiretta» di cui all’art. 186-bis, comma 1 l. fall. ed all’art. 84, comma 1 CCII (ad esempio conferimento in una o più società anche di nuova costituzione).
D’altra parte che l’insolvenza possa emergere anche nel corso della composizione negoziata lo riconosce espressamente l’art. 9, comma 1, che in tal caso si limita ad imporre all’imprenditore di gestire l’impresa «nel prevalente interesse dei creditori» (ferme restando le sue eventuali responsabilità).
Ove di vera e propria insolvenza si tratti, resterebbe semmai da verificare la compatibilità di questa (che l’art. 5 l. fall e l’art. 2, comma 1, lett. b CCII definiscono come «lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni») con la ragionevole prospettiva del «risanamento» dell’impresa, che è parte fondante del presupposto oggettivo della composizione negoziata[8].
E’ qui che si nascondono le più fondate prospettive di «abuso» sia della composizione negoziata, sia del concordato semplificato, su cui spetterebbe ai giudici vigilare, già in sede di ammissione di questo.
In verità non si è mai dubitato, nella dottrina giuridica e aziendalistica, che qualsiasi crisi d’impresa, salvo poche eccezioni, sia in astratto reversibile e, dunque, temporanea, tutto dipendendo dalla quantità e qualità degli interventi necessari (e dei costi) per il suo superamento[9]; prospettiva di risanamento e stato di insolvenza non sono termini reciprocamente preclusivi[10], come dimostra la disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, già nell’art. 1 del d.lg. n. 270 del 1999 e poi soprattutto nell’art. 27, a norma del quale le imprese, benché insolventi, possono accedere alla menzionata procedura «qualora presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali» (comma 1), anche «tramite la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni» (comma 2, lett. b).
E con riferimento al presupposto oggettivo dello stesso fallimento (ma in futuro anche della liquidazione giudiziale) è condivisibile la tesi secondo la quale, ai fini dell’apertura del procedimento, il tribunale dovrebbe verificare l’idoneità dell’impresa (in funzionamento) all’eliminazione delle disfunzioni che hanno provocato la manifestazione dell’insolvenza, compiendo una valutazione attuale delle capacità anche future dell’imprenditore all’adempimento di tutte le sue obbligazioni alle rispettive scadenze[11], dal momento che, se la formula adottata nell’art. 5 l. fall. riguardasse solo un giudizio conclusivo ex post dell'inadempimento di obbligazioni già scadute, non solo il «più» sarebbe pleonastico, ma al «regolarmente» non sarebbe possibile attribuire alcun plausibile significato (col rispetto delle scadenze, con mezzi normali di pagamento, o congiuntamente con entrambe le modalità).
Anche nella prospettiva di una valutazione dinamica di entrambe le componenti del patrimonio del fallendo (l'attivo e il passivo) ciò che l'art. 5 l. fall. intende evidenziare non è la definitività di una qualsiasi incapacità di adempiere (ad escludere la quale basterebbe la mera rilevazione contabile di un attivo superiore al passivo), ma è la definitività dell'incapacità di adempiere «regolarmente»[12], come riaffermato nell’art. 2, comma 1 del Codice della crisi e dell’insolvenza, tanto con riferimento alla nozione di «insolvenza» (lett. b), quanto con riferimento a quella di «crisi» (lett. a), qui avendo ad oggetto per un verso «i flussi di cassa prospettici» e per un altro verso le «obbligazioni pianificate».
E’ ben vero – come è stato insegnato nel passato[13] – che la crisi d’impresa è fenomeno (economico) talmente complesso che nessuna formula giuridica appare veramente in grado di ingabbiarla in rigide schematizzazioni; ma, se già la nozione di insolvenza di cui all’art. 5 l. fall., almeno secondo un’interpretazione evolutiva, comporta un giudizio prognostico sull’idoneità dell’impresa a far fronte in futuro alle sue obbligazioni, scadute o pianificate, giustapporre ad essa ulteriori definizioni preconfezionate dello stato di crisi, comunque riferibili come la prima alla «regolarità» degli adempimenti delle obbligazioni o del soddisfacimento dei crediti dell’imprenditore, non è stata a mio avviso un’iniziativa opportuna ed ancor meno lo è il fatto di aver ipotizzato, per la composizione negoziata (quindi per il concordato semplificato), una diversa definizione riferita, come detto, ad una generica situazione di «squilibrio patrimoniale o economico-finanziario» non ancora rilevabile all’esterno, che solo in base ad un giudizio prognostico potrebbe eventualmente condurre a quelle manifestazioni di «inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici» di cui alla nozione di crisi ai sensi dell’art. 2, comma 1 CCII, anch’esse oggetto di un giudizio prognostico circa la definitività («più») dell’incapacità di soddisfare «regolarmente» le passività dell’impresa»[14].
4. Il contenuto della proposta concordataria
Quanto al suo contenuto la proposta di concordato può avere ad oggetto esclusivamente la mera liquidazione dei beni (art. 18, comma 1), con cessazione dell’attività di impresa, o la cessione dell’azienda o di uno o più rami di azienda, quindi assicurando la continuità aziendale c.d. indiretta (art. 19, commi 2 e 3); detta proposta, che comunque «deve assicurare un’utilità a ciascun creditore», può prevedere anche la suddivisione dei creditori in classi, ma a condizione che non arrechi agli stessi «pregiudizio» rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare (art. 18, comma 8); non sono previsti altri limiti, quali il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari (art. 160, comma 4 l. fall.) o l’apporto incrementativo di risorse esterne per almeno il 10% rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale (art. 84, comma 4 CCII).
E’ invece ammissibile, unitamente alla cessione dei beni, l’intervento di un garante, visto che il parere dell’esperto indipendente deve vertere anche sulle «garanzie offerte» (art. 18, comma 3); e ugualmente deve ritenersi ammissibile la presenza di un assuntore, al quale cedere quei beni.
Tuttavia, per ciò che riguarda in particolare la formazione delle classi qui il legislatore, a differenza da quanto è stabilito per il concordato preventivo dall’art. 160, comma 1, lett. c) e d) l. fall. (che in effetti non è stato richiamato), non ha indicato alcun criterio (quali l’omogeneità di posizione giuridica o di interessi economici o la possibilità di trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse), lasciando l’interprete disarmato, dal momento che detta suddivisione ha senso solo nell’ipotesi di trattamenti differenziati, ma non ne ha alcuno se il trattamento deve essere uguale per tutti; ed inoltre, trattandosi di cessione dei beni, non è affatto chiaro come conciliare la suddivisione dei creditori in classi con la pretesa che la proposta non arrechi «pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare» (art. 18, comma 3), dal momento che nel fallimento il riparto della liquidità deve rispettare i criteri fissati dall’art. 111 l. fall., che fra l’altro è espressamente richiamato per il concordato semplificato anche dall’art. 18, comma 2 del d.l. che ci occupa, cosicché anche in questa procedura quanto ricavato dalla liquidazione va distribuito ai creditori, per un verso, con «il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione» e comunque, per un altro verso, assicurando «un’utilità a ciascun creditore» (art. 18, comma 5), anche chirografario (ciò che impedisce l’ammissibilità della proposta ove le risorse disponibili non consentano di soddisfare integralmente i creditori con diritti di prelazione e di corrispondere almeno una quota, sia pure modesta, ai creditori chirografari), a meno che non soccorra in qualche caso l’apporto finanziario di un terzo, diretto a consentire con danaro altrui trattamenti migliori per alcuni creditori rispetto ad altri, che comunque in sede fallimentare non percepirebbero nulla di più.
5. L’enigmatico quadro delle regole nella prospettiva del passaggio dalla Legge fallimentare al Codice della crisi e dell’insolvenza
Come detto in precedenza, anche gli imprenditori commerciali sotto soglia o gli imprenditori agricoli, che non sono soggetti al fallimento, ma neppure possono ricorrere al concordato preventivo, hanno la possibilità di presentare, in caso esito negativo della composizione negoziata, la domanda di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 17, comma 4, lett. e).
Ma, come pure si è anticipato, l’istituto qui in esame è in gran parte disciplinato (dagli artt. 18 e 19) anche mediante il richiamo a numerose norme della Legge fallimentare, che riguardano (direttamente) il concordato preventivo e (indirettamente) il fallimento; il loro elenco è quanto mai significativo (e indicativo della natura concorsuale del concordato semplificato), includendo il rinvio (nell’ordine) alle seguenti disposizioni: l’art. 161, comma 2, lett. a, b, c, d; l’art. 111; l’art. 167; l’art. 168; l’art. 169 (che richiama a sua volta gli artt. 43, comma 4, 45, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63); l’art. 17; l’art. 183 (che a sua volta richiama l’art. 180, comma 7); l’art. 173 (che a sua volta richiama direttamente gli artt. 171, comma 2, 15, 1, 5, 18; e indirettamente le ulteriori disposizioni da questi ultimi richiamate); l’art. 184; l’art. 185 (che a sua volta richiama gli artt. 136, comma 2, 173 e 182); l’art. 186 (che a sua volta richiama direttamente gli artt. 137 e 138; e indirettamente le ulteriori disposizioni da questi ultimi richiamate); l’art. 217-bis, con i relativi richiami, l’art. 236, pure con i relativi richiami e l’art. 182 (che a sua volta rinvia agli artt. 28, 29, 37, 38, 39 e 116 l. fall.).
Alcune di dette norme sono applicabili tout court; altre (in particolare quelle elencate nell’ottavo comma dell’art. 18 e nel primo comma dell’art. 19) solo «in quanto compatibili», in definitiva lasciando al giudice l’onere e l’onore di compiere quella verifica e di stabilirne i relativi criteri, ma creando nel frattempo gravi incertezze interpretative, certamente non favorevoli ad una proficua e pronta fruibilità del nuovo istituto.
Oltre alle difficoltà nascenti dalla necessità di ridefinire il complessivo quadro delle regole del concordato semplificato in modo meno approssimativo di quanto risultante dalla lettura degli artt. 18 e 19 (e di quanto può essere qui segnalato), non può sfuggire al lettore la natura transitoria di quella disciplina, prevalentemente incardinata sul richiamo di norme di una legge (il r.d. 16 marzo 1942, n. 267), destinata ad essere soppiantata per tutte le nuove procedure dall’entrata in vigore del Codice della crisi e dell’insolvenza (art. 390), con cui peraltro gli istituti introdotti dal d.l. n. 118 del 2021 andrebbero coordinati, tenendo conto, per esempio, del fatto che per le imprese sotto soglia il legislatore della riforma ha previsto uno strumento specifico, quale il c.d. concordato «minore» (art. 74 ss.).
6. Il giudizio di ammissione
Neppure quanto alla fase introduttiva del procedimento di concordato semplificato vi sono certezze circa la previsione di un vero e proprio giudizio di ammissione, che anzi un’opinione formatasi sul punto, ma non condivisibile, tenderebbe ad escludere, trattandosi di precisare, in base a ciò che è scritto nell’art. 18, quali verifiche siano effettivamente demandate al tribunale prima della nomina dell’ausiliario (comma 3) e della fissazione dell’udienza per l’omologazione (comma 4), con un decreto che «equivale all’ammissione al concordato» (comma 8).
In verità il testo normativo è estremamente laconico, limitandosi a stabilire che il tribunale debba valutare «la ritualità della proposta» ed acquisire la relazione finale e il parere dell’esperto indipendente.
Ma prima ancora il tribunale ovviamente dovrà valutare la propria competenza, in relazione al «luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale» (comma 2), che però potrebbe non corrispondere in qualche caso con quello eventualmente adito in sede di composizione negoziata, ad esempio con riferimento alle misure protettive e cautelari, per il quale l’art. 7 fa espresso riferimento al «tribunale competente ai sensi dell’art. 9 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267», le cui previsioni sono ben più articolate.
Poi certamente il tribunale dovrà verificare l’assenza di comportamenti qualificabili come atti di frode (di cui all’art. 173 l. fall.) e la completezza della documentazione allegata alla proposta di cessione dei beni, oltre alla relazione finale e al parere dell’esperto: quindi i documenti indicati nell’art. 161, comma 2, lett. a), b), c) e d) l. fall. e soprattutto il piano di liquidazione (comma 1).
Peraltro il fatto che la valutazione del tribunale debba avere ad oggetto la «ritualità della proposta», oltre all’acquisizione della relazione finale dell’esperto, e la constatazione che il parere di quest’ultimo debba a sua volta fare «specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte» inducono a ritenere che il tribunale non possa sottrarsi al compito di verificare fin da subito l’esistenza dei presupposti (oggettivo e procedurale) dell’istituto che ci occupa; e innanzitutto se, nella situazione di crisi o di insolvenza del proponente nei termini descritti in precedenza, le trattative, in sede di composizione negoziata, si siano svolte «secondo correttezza e buona fede», pur non avendo avuto esito positivo per impraticabilità delle soluzioni elencate nell’art. 11, commi 1 e 2, anche indipendentemente dalle affermazioni dell’esperto, la cui attendibilità sul punto non può non costituire anch’essa oggetto di verifica da parte del tribunale.
E poiché la composizione negoziata può essere attivata solo «quando risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa» (art. 2, comma 1), non importa se in pre-crisi, in crisi o in stato di insolvenza, non è difficile prevedere che proprio su questo presupposto si giocherà l’ammissibilità o l’inammissibilità in concreto del concordato semplificato, ben evidente essendo la contrapposizione normativa fra la ragionevole prospettiva del risanamento (oltretutto di un’impresa eventualmente già in stato di insolvenza) e la constatazione dell’impraticabilità (peraltro in un tempo forse eccessivamente breve) di tutte le numerose soluzioni alternative elencate nell’art. 11, che a sua volta è uno dei presupposti della domanda concordataria in esame.
«Correttezza e buona fede» non riguardano solo il comportamento tenuto dal debitore nel corso delle trattative, ma riguardano anche l’effettiva ragionevolezza della prospettiva del risanamento dell’impresa fin dal momento della presentazione della domanda di nomina dell’esperto indipendente e dunque dal momento iniziale del ricorso alla composizione negoziata (che non può essere utilizzata in modo opportunistico, se non addirittura abusivo, per giungere al concordato semplificato).
Non è per caso che in uno degli emendamenti all’art. 18 in sede di conversione del d.l. (poi non approvato) fosse stato fatto riferimento ad un criterio diverso: quello della non imputabilità all’imprenditore dell’impraticabilità delle soluzioni alternative, ciò che, forse in modo meno criptico, avrebbe spalancato la porta ad una verifica giudiziaria di quella «ragionevolezza» ed un ostacolo all’uso spregiudicato della composizione negoziata.
Deve inoltre riconoscersi che, se per un verso «la proposta può prevedere la suddivisione dei creditori in classi», per un altro verso, pur nel silenzio dell’art. 18 sul punto, tale suddivisione non può avvenire senza regole, ma dovrà corrispondere a ben precisi criteri, la cui ragionevolezza dovrà essere valutata dal tribunale già nella fase di ammissione, tanto più che qui si tratta di una cessio bonorum, che difficilmente può prescindere (salvo apporti finanziari esterni) dal rigoroso rispetto dell’ordine delle prelazioni e dei principi enunciati sia nell’art. 111 l. fall., sia nel quinto comma dell’art. 18, ai quali prima si è accennato.
7. Le ulteriori verifiche demandate al tribunale
Scorrendo il testo dell’art. 18, comma 5, ulteriori verifiche sono demandate al tribunale in sede di omologazione; alcune evidentemente presuppongono un iter già avviato verso la sua conclusione, riguardando la «regolarità del contraddittorio», in caso di eventuali opposizioni di creditori o di qualche interessato (comma 4) o la regolarità «del procedimento»; ma per altre ci si può domandare perché solo in quella sede e non al momento dell’ammissione.
Del rispetto dell’ordine delle cause di prelazione si è già detto sopra, anche in relazione al richiamo dell’art. 111 l. fall.; a questo però occorre aggiungere: (i) la verifica della «fattibilità del piano di liquidazione», per la quale peraltro la norma non specifica se solo «giuridica» o anche «economica»; (ii) l’assenza di «pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione fallimentare» (una sorta di giudizio di convenienza); (iii) la necessità che la proposta «comunque» assicuri «un’utilità a ciascun creditore».
Quanto alla prima, laddove la proposta si limiti ad una mera attività liquidatoria dei beni ceduti ai creditori o della cessione dell’attivo concordatario ad un assuntore, la fattibilità «giuridica» è in re ipsa, trattandosi semmai di valutare quella «economica» in base agli altri presupposti sopra menzionati; ma laddove la proposta consista nella cessione o nel conferimento dell’azienda o di uno o più rami particolari, cioè in ipotesi di continuità aziendale indiretta, la verifica della fattibilità (giuridica od economica che sia)[15], assume un contenuto necessariamente più articolato, peraltro non diverso da ciò che è previsto per il concordato preventivo.
Semmai lascia perplessi quanto al secondo presupposto (l’assenza di pregiudizio per i creditori) il riferimento alla «alternativa della liquidazione fallimentare»; e non solo perché non è chiaro se tale requisito si identifichi con il principio del «miglior soddisfacimento dei creditori» (più volte enunciato nella disciplina del concordato preventivo) o si ponga su un piano inferiore, peraltro tutto da decifrare, una volta che si riconosca che una liquidazione «fallimentare» è normalmente più onerosa e, in fin dei conti, meno soddisfacente per i creditori, salvi gli apporti derivanti dall’eventuale esercizio di azioni (come le revocatorie) non previste per i concordati preventivi; ma anche perché al concordato semplificato possono accedere le imprese commerciali sotto soglia o le imprese agricole, sottratte al fallimento e dunque ad una liquidazione propriamente «fallimentare» (a meno di ritenere che con detta espressione il legislatore abbia voluto far riferimento anche alla liquidazione di cui alla l. n. 3 del 2012 sul sovraindebitamento).
Imperfezioni tecniche, si dirà; ma inopportune e disarmanti, soprattutto in una delicata fase di transizione da un sistema normativo (la Legge fallimentare) ad un altro (il Codice della crisi e dell’insolvenza).
Orbene, se il tribunale, pur dopo aver acquisito il parere dell’esperto indipendente («con specifico riferimento ai presumibili risultati della liquidazione e alle garanzie offerte»), nell’ambito dei suoi poteri di valutazione della «ritualità della proposta», accerta che questa non rispetta l’ordine delle cause di prelazione o non appare (né giuridicamente, né economicamente) fattibile o appare tale da arrecare pregiudizio ai creditori rispetto ad un’alternativa liquidatoria concorsuale o non assicura un’utilità a qualcuno dei creditori (neppure sotto le forme di opportunità di affari), si potrebbe legittimamente dubitare dell’utilità di avviare (con la nomina dell’ausiliario) un iter procedimentale, carico di effetti sostanziali, comunque destinato ad un epilogo negativo, anche in assenza di opposizioni.
8. Gli effetti sostanziali del concordato semplificato e le relative criticità
Peraltro anche per ciò che riguarda gli effetti sostanziali, non mancano talune criticità.
Quanto a quelli per il debitore l’art. 18, comma 2 si limita a richiamare l’art. 167 l. fall., che – come noto – distingue fra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione: i primi soggetti alla «vigilanza» del commissario giudiziale, i secondi all’autorizzazione del giudice delegato; inopinatamente è stato stabilito che detti effetti si producano «dalla data della pubblicazione del ricorso» nel registro delle imprese a cura del cancelliere entro il giorno successivo al suo deposito in cancelleria, quando cioè non c’è ancora chi svolga le veci del commissario giudiziale (presumibilmente l’ausiliario da nominare in caso di ammissione, la cui figura per determinate funzioni sostituisce quella del commissario giudiziale, ai sensi dell’ottavo comma dell’art. 18), né è prevista (neppure dopo) la nomina di un giudice delegato (che non può ritenersi compresa nel semplice richiamo dell’art. 167 l. fall.); e infatti l’art. 19, comma 3, per una ipotesi particolare di trasferimento anticipato (prima dell’omologazione) di azienda o di ramo di azienda o di specifici beni a favore di un terzo offerente già individuato nel piano di liquidazione, prevede l’autorizzazione del tribunale.
In concreto il debitore, in mancanza di un organo di controllo, non potrebbe operare neppure nell’ambito dell’ordinaria amministrazione, almeno fino a quando, esaurite da parte del tribunale le complesse verifiche di cui sopra si è detto, l’ausiliario non abbia accettato (entro i tre giorni dalla comunicazione della nomina).
Poiché l’ottavo comma dell’art. 18 richiama anche l’art. 173 l. fall., l’eventuale compimento di un atto di straordinaria amministrazione privo di autorizzazione del giudice, che per il secondo comma dell’art. 167 l. fall. è inefficace rispetto ai creditori anteriori al concordato, costituisce motivo di revoca dell’ammissione al concordato, cui seguirebbe, per l’imprenditore commerciale sopra soglia, anche la dichiarazione di fallimento, ove lo chieda un creditore o il pubblico ministero; ma per l’imprenditore non fallibile la revoca del concordato lo rimetterebbe semplicemente in bonis, vanificando la stessa sanzione di inefficacia dell’atto, che è funzionale alla consecuzione del fallimento al concordato.
Minori problemi pone la disciplina degli effetti per i creditori concorsuali, risultante, per la fase successiva alla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, dal richiamo degli artt. 168 e 169 l. fall. da parte del secondo comma dell’art. 18 e, per la fase successiva all’omologazione, dal richiamo dell’art. 184 l. fall. da parte dell’ottavo comma dell’art. 18, norme evidentemente applicabili anche agli imprenditori commerciali sotto soglia e agli imprenditori agricoli, ivi compreso il richiamo dell’art. 45 l. fall. nell’art. 169 l. fall., con tutte le relative e gravi implicazioni (ad esempio quanto all’equiparazione degli effetti della dichiarazione di fallimento a quelli del pignoramento, all’opponibilità ai creditori di trascrizioni, iscrizioni, notificazioni, data certa, ecc.), sulle quali evidentemente non è possibile qui indugiare[16].
Manca invece qualunque riferimento alla sorte dei rapporti giuridici preesistenti, non essendo stati richiamati né l’art. 169-bis l. fall., né l’art. 186-bis l. fall., ciò che comporta l’impossibilità per il debitore di farsi autorizzare alla sospensione o allo scioglimento di detti rapporti, che per la verità potrebbero essere più funzionali proprio in una procedura liquidatoria, come il concordato semplificato, che non in una procedura diretta alla continuità aziendale, tanto più che la rideterminazione (secondo buona fede) di alcuni obblighi contrattuali (nei contratti ad esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita, ove la prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa a causa della pandemia), finalizzata ad un riequilibrio tra le prestazioni, come misura «indispensabile ad assicurare la continuità aziendale», è invece espressamente prevista dall’art. 10, comma 2 per la precedente fase della composizione negoziata, ma non per quella liquidatoria.
In sintesi, per concludere, una lettura critica del testo normativo qui scrutinato non induce a formulare un giudizio positivo sul nuovo istituto concordatario, che appare largamente ambiguo, sia in quanto lo si è legato, a mezzo di cospicui richiami, ad una disciplina, quella della Legge fallimentare, destinata ad essere sostituita dal Codice della crisi e dell’insolvenza, sia in quanto applicabile a qualsiasi impresa, indipendentemente dalla sua natura e dalle sue dimensioni, come se le crisi fossero tutte uguali.
Quel testo però consente, se non altro, di ipotizzare che forse lo stesso legislatore (post-pandemico) si sia reso conto della necessità di rivedere (e di adeguare ai tempi) la complessiva disciplina del concordato preventivo (anche in prospettiva futura in relazione al Codice della crisi e dell’insolvenza), ora caratterizzata (dopo le modifiche alla Legge fallimentare introdotte nel 2015) da regole (fin troppo rigide) che ne limitano oggettivamente la fruibilità da parte degli imprenditori in crisi[17], magari distinguendo in modo più dettagliato, anche in relazione ai relativi effetti, quanto attiene al concordato con continuità aziendale per ristrutturazione diretta e quanto al concordato liquidatorio, ivi compresa la cessione dell’azienda, che assicura sì la continuità aziendale, ma come esito di un’attività tipicamente liquidatoria.
(*) Questo contributo è destinato agli Studi in onore di Sabino Fortunato e costituisce, con i dovuti aggiornamenti, lo sviluppo della relazione tenuta presso la Camera di Commercio di Modena in data 8 ottobre 2021 in occasione del Convegno dal titolo: La “Mini-Riforma” della legge fallimentare.
[1] Sul concordato semplificato ad oggi i contributi non sono molti, mentre l’attenzione della dottrina (giuridica e aziendale) è stata assai più ampiamente attratta dalla disciplina della composizione negoziata, che peraltro ne costituisce uno dei presupposti; comunque si possono utilmente consultare: G. D’ATTORRE, Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, in Fallimento, 2021, p. 1603 ss.; A. JORIO, Qualche ulteriore considerazione sul d.l. 118/2021, e ora sulla legge 21 ottobre 2021, n. 147, in Ristrutturazioni aziendali del 1° dicembre 2021, p. 10 ss.; A. MANCINI, Composizione negoziata e sovraindebitamento (note intorno all’art. 17 dl. 118/2021), in Crisi d’Impresa e Insolvenza-Il Caso.it del 7 febbraio 2022, p. 15 ss.; M. DI SARLI, Composizione negoziata della crisi e concordato semplificato: il d.l. 118/2021 ha dimenticato le start up innovative?, in Crisi d’Impresa e Insolvenza-Il Caso.it del 21 settembre 2021; S. AMBROSINI, Il concordato semplificato: primi appunti, in Ristrutturazioni aziendali del 23 settembre 2021; R. GUIDOTTI, La crisi d’impresa nell’era Draghi: la composizione negoziata e il concordato semplificato, in Ristrutturazioni aziendali dell’8 settembre 2021; L. PANZANI, Il D.L. “Pagni” ovvero la lezione (positiva) del covid, in Diritto della crisi.it del 25 agosto 2021; Id., I limiti all’autonomia negoziale nella disciplina della crisi, in Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021, Liber amicorum per Alberto Jorio, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2021, p. 201 ss., ivi a p. 227 ss.; L. A. BOTTAI, La rivoluzione del concordato liquidatorio semplificato, in Diritto della crisi.it del 9 agosto 2021; S. LEUZZI, Analisi differenziale fra concordati: concordato semplificato vs. ordinario, in Diritto della crisi.it del 9 novembre 2021; G. FICHERA, Sul nuovo concordato semplificato: ovvero tutto il potere ai giudici, in Diritto della crisi.it dell’11 novembre 2021; G. BOZZA, Il concordato semplificato introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche dalla l. n. 147 del 2021, in Diritto della crisi.it del 9 novembre 2021; giustamente P. VELLA, La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale, in Ristrutturazioni aziendali del 1° gennaio 2022, p. 23 ss. osserva che “al di là degli istituti vigenti della l. fall., il panorama del nostro ordinamento concorsuale consta di una lunga serie di istituti e strumenti già in vigore, o di applicazione imminente o rinviata, la cui tassonomia è già di per sé impressionante”, elencandone ben 24.
[2] Peraltro l’art. 19 interessa solo relativamente ai primi tre commi, perché gli altri riguardano materie ben diverse, che nulla hanno a che fare con il concordato semplificato.
[3] Su cui cfr. A. LA MALFA, La transazione fiscale dell’impresa agricola, in Fallimento, 2013, p. 137 ss.
[4] All’indomani della novella, S. AMBROSINI, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in Ristrutturazioni Aziendali, 23 agosto 2021, p. 8, ha per primo osservato che l’istituto è destinato anche alle imprese insolventi: “Beninteso, non può trattarsi di insolvenza irreversibile, giacché il nuovo istituto mira dichiaratamente ad affrontare situazioni connotate da “una concreta prospettiva di risanamento”. E che questa lettura, escludente la sola insolvenza irreversibile, sia quella corretta risulta confermato dal fatto che non è dato cogliere indici di una volontà più limitativa dello spettro di applicazione della composizione negoziata; al contrario, nella Relazione illustrativa si legge testualmente: “L’imprenditore in difficoltà, in crisi, o in stato di insolvenza reversibile, può decidere quindi di intraprendere un percorso, del tutto riservato finché non viene chiesta la concessione di misure protettive, chiedendo la nomina di un esperto indipendente che valuti lo stato dell’impresa e che lo assista nelle trattative da attivare per il buon esito della composizione negoziata (e, di conseguenza, per la ricerca delle possibili soluzioni di risanamento dell’attività)”.
[5] Sul tema cfr. le lucide considerazioni di A. ROSSI, Il presupposto oggettivo, tra crisi dell’imprenditore e risanamento dell’impresa, in Fallimento, 2021, p. 1501 ss.;A. JORIO, op. cit., p. 1 ss.; M. IRRERA e P. RIVA, La convergenza tra le indicazioni del Codice della crisi e del d.l. 118/2021: is cash still king? DSCR e TdR a confronto, in Ristrutturazioni aziendali del 20 ottobre 2021, p. 1 ss.; V. MINERVINI, La “composizione negoziata” nella prospettiva del recepimento della Direttiva “Insolvency”. Prime riflessioni, in Ristrutturazioni aziendali del 17 ottobre 2021.
[6] È stato osservato in proposito che “il presupposto della composizione negoziata si colloca (recte, come si dirà fra breve, può collocarsi) in un momento anteriore a quello della probabilità di insolvenza, contemplando anche la situazione in cui è probabile – ma non ancora in atto – il verificarsi di un semplice stato di crisi: quella c.d. twilight zone (o pre-crisi) che si colloca temporalmente in un momento (spesso di poco) anteriore alla vera e propria crisi” (S. AMBROSINI, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, cit., p. 6).
[7] Nel senso che dall’early warning codicistico il trattamento della crisi viene qui anticipato, sia pure su base volontaria e riservata, alla c.d. twilight zone, dando vita ad una intrinseca problematicità (ma io aggiungerei un vero e proprio cortocircuito) del nesso intercorrente fra la composizione negoziata e le misure di allerta previste dal Codice della crisi e dell’insolvenza, cfr. V. MINERVINI, op. cit., p.7.
[8] Non è un caso che nel corso del passaggio dal decreto legge alla legge di conversione, ancora nel settembre del 2021, fosse stato (vanamente) proposto di eliminare dall’art. 2 del d.l. il riferimento all’insolvenza, limitando l’accesso alla composizione negoziata all’imprenditore commerciale e agricolo che si trova «in stato di crisi o in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che la rendono probabile».
[9] Cfr. G. BRUGGER, I piani di risanamento nel quadro delle prospettive e dei vincoli dell’amministrazione controllata, in Crisi di impresa e amministrazione controllata, a cura di M Cattaneo, F. Cesarini, A. Provasoli e B. Quatraro, Milano, 1986, p.195; A. GAMBINO, Sull’uso alternativo della procedura di amministrazione controllata, in Giur. comm., 1979, I, p. 241; P. LOCATELLI, Proroga del termine del «beneficio» di amministrazione controllata e consenso dei creditori, Torino, 1983, p. 93; L. PAZZAGLIA, L’amministrazione controllata, Milano, 1957, p. 6, nota 4.
[10] Anche se, come giustamente osserva V. MINERVINI, op. cit., p. 11, l’accertamento di serie e concrete prospettive di recupero dell’impresa è ancora oggi ostaggio di quell’alone di incertezza che le connota, essendo la “risanabilità” un concetto tecnico proprio delle scienze aziendalistiche e pertanto intrinsecamente opinabile e spesso anche indeterminabile con certezza a priori.
[11] In questo senso cfr. anche A. AMATUCCI, Temporanea difficoltà e insolvenza, Napoli, 1979, p. 77 s.
[12] Sul tema mi limito a rinviare, anche per i richiami, a G. FAUCEGLIA, Insolvenza e crisi; e P. F. CENSONI, Lo stato di insolvenza, entrambi i contributi in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, diretto da L. Panzani, I, Torino, 2012, rispettivamente alla p. 77 ss. e alla p. 90 ss.
[13] Cfr. S. SATTA, Diritto fallimentare³, Padova, 1996, p. 50, secondo cui un criterio obbiettivo in base al quale si possa riconoscere l’insolvenza non è facile trovarlo; A. BONSIGNORI, Diritto fallimentare, Torino, 1992, p. 38.
[14] Sotto questo profilo non mi pare condivisibile quanto osservato da M. IRRERA e P. RIVA, op. cit., p. 3, laddove ritengono che la nozione di crisi contenuta nel d.l. n. 118 del 2021 sia certamente coerente con la definizione contenuta nel Codice della crisi e dell’insolvenza.
[15] Nel senso che, pur in assenza di una precisazione nella norma, la verifica demandata al tribunale non possa prescindere dalla fattibilità economica, cfr. anche S. AMBROSINI, op. cit., p. 4; e G. D’ATTORRE, op. cit., p.1615.
[16] E’ vero che gli effetti per il debitore e per i creditori si producono – come detto – sin dal momento della pubblicazione del ricorso introduttivo, ma la loro sopravvivenza è condizionata al provvedimento di ammissione del tribunale, che equivale all’ammissione al concordato (art. 18, comma 8), e quindi all’esito delle verifiche da questo compiute, decadendo automaticamente in caso di giudizio negativo, senza necessità di uno specifico provvedimento con il quale, dichiarata l’irritualità della proposta, il tribunale dichiari cessati quegli effetti; nel senso invece della necessità di detto provvedimento cfr. G. D’ATTORRE, op. cit., p. 1614; peraltro, ove il tribunale neghi ingresso al procedimento, il relativo decreto dovrebbe essere soggetto alle medesime forme di pubblicità del provvedimento conclusivo del giudizio di omologazione ex art. 18, comma 6, che richiama l’art. 17 l. fall., ivi compresa dunque l’annotazione nel registro delle imprese.
[17] Sul punto concordo con M. ARATO, La scelta dell’istituto più adeguato per superare la crisi d’impresa, in Ristrutturazioni aziendali dell’8 ottobre 2021, p. 6.