Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Le attività di liquidazione in esecuzione della proposta di concordato preventivo omologata


Francesco Carelli
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Il ricorso “a corrente alternata” alla continuità normativa fra legge fallimentare e Codice della crisi: la diversa (dubbia) soluzione adottata dalle Sezioni Unite


Stefano Ambrosini

Data pubblicazione
17 marzo 2022

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Sommario: 1. Primo interrogativo (generale): il codice della crisi è già “parte dell’ordinamento”? – 2. Secondo interrogativo (specifico): vi è realmente continuità normativa con riferimento alla prededucibilità dei crediti? – 3. Terzo interrogativo (specifico): vi è davvero discontinuità normativa relativamente al rapporto fra pronuncia di risoluzione del concordato preventivo e declaratoria di fallimento? – 4. Conclusioni: una proposta “abdicativa”.


1. Primo interrogativo (generale): il codice della crisi è già “parte dell’ordinamento”?

In ormai diverse occasioni la Cassazione ha affermato e ribadito che il codice della crisi[1] va inteso come già parte integrante del nostro ordinamento, ancorché esso non sia, se non in minima parte, entrato a tutt’oggi in vigore. In quello che, a quanto consta, è il primo provvedimento di questo tenore la Suprema Corte ha invitato le Sezioni Unite a rivedere un proprio orientamento in tema di azione revocatoria, affermando testualmente: “Tale ultimo orientamento, pur autorevolmente e recentemente espresso dalla giurisprudenza di vertice, merita, tuttavia, un ulteriore momento di riflessione e un meditato ripensamento, soprattutto alla luce delle novità introdotte dal ‘Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza’, la cui disciplina (sebbene, qui, non direttamente applicabile ratione temporis) viene qui richiamata a fini interpretativi e ricostruttivi, perché, da un lato, la stessa fa ora parte integrante dell’ordinamento positivo (nonostante la lunga vacatio legis prevista) e perché, dall’altro, segna un’evidente incrinatura nelle argomentazioni spese dalle Sezioni Unite nel precedente arresto”[2].

Prima di verificare l’uso che i giudici di legittimità hanno fatto del criterio della continuità normativa, tuttavia, occorre domandarsi, a monte, se esso sia effettivamente invocabile; e siccome detto principio si fonda sulla premessa che il codice della crisi costituisce, già oggi, parte dell’ordinamento, è precisamente questa premessa che dev’essere resa oggetto di scrutinio, pena altrimenti un’inammissibile apoditticità dell’assunto.

Com’è a tutti noto, il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza è stato emanato con il d. lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019, in attuazione della legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017: di esso tuttavia sono entrate in vigore poche norme (e precisamente gli artt. 27, comma 1, 350, 356, 357, 359, 363, 364, 366, 375, 377, 378, 379, 385, 386, 387 e 388), mentre tutto il resto del corpus normativo di cui trattasi non è ancora vigente. Nell’amplissimo novero delle nuove norme tutt’oggi prive di effetto rientrano anche, ai fini che ci occupano, quelle sulla prededucibilità dei crediti e sulla risoluzione del concordato preventivo.

Orbene, il primo interrogativo che dev’essere posto – il codice della crisi è già “parte dell’ordinamento” oppure no? – attiene, com’è chiaro, assai più alla teoria dell’interpretazione che al diritto della crisi d’impresa. È per questa ragione che in argomento mi è stato assai utile uno scambio di idee con un attento cultore della nostra materia, che è però anzitutto un apprezzato studioso di filosofia del diritto e di teoria generale del diritto[3] (e che è anche stato fra i primissimi a commentare, proprio su questa Rivista, la pronuncia delle Sezioni Unite sulla prededuzione dei crediti professionali[4]).

Risulta quindi necessario domandarsi come si atteggino le regole dell’ermeneutica[5] rispetto al principio di continuità normativa. E la risposta, a onor del vero, non sembra in linea con la posizione assunta dalla Cassazione.

Alla luce dei canoni largamente condivisi in materia, infatti, non appare fondatamente predicabile il ricorso a una disposizione di legge non ancora vigente per interpretare una norma attuale. E ciò per la semplice – ma decisiva – ragione che una norma, prima della sua vigenza, è inidonea a spiegare qualsivoglia effetto, anche sul piano interpretativo, tenuto conto oltre tutto che essa ben potrebbe venire modificata dal legislatore prima della sua entrata in vigore.

E a ben vedere è proprio ciò che sta accadendo in questo frangente, in cui parecchie previsioni del codice della crisi sono oggetto di ipotesi di riformulazione e, in taluni casi, addirittura espunzione. D’altronde, se il legislatore fosse stato sicuro dell’indistinta bontà e opportunità delle scelte a suo tempo operate dai redattori del codice, non avrebbe esitato a decretarne l’efficacia già da tempo, come pure da alcuni autorevolmente invocato[6]. Senza dire che il codice della crisi non può certamente essere letto – il dato appare acquisito – in chiave di interpretazione autentica della legge fallimentare, mirando esso, anzi, a soppiantare quest’ultima in toto[7].

D’altra parte, gli argomenti che potrebbero condurre nella direzione opposta appaiono entrambi scivolosi.

Il primo di essi – la presunzione del legislatore come “agente razionale”, il quale non potrebbe disporre per domani ciò che non vuole per oggi (e viceversa) – si scontra con l’estrema difficoltà di definire il concetto di razionalità (e di ragionevolezza) e non pare comunque sufficiente a sorreggere il principio di continuità normativa[8].

Quanto alla possibilità di invocare l’interpretazione adeguatrice delle vecchie disposizioni alle nuove (recte: a quelle future/futuribili), neppure questa strada risulta di per sé risolutiva, tanto più che dovrebbe farsi riferimento, in questa prospettiva, ai princìpi della legge delega (peraltro a sua volta non immodificabile) piuttosto che a singole disposizioni tuttora prive di efficacia[9].

In base a quanto detto fin qui, pertanto, non risulta propriamente agevole, in un approccio che intenda essere rigoroso sul piano metodologico, pretendere di interpretare le disposizioni della legge fallimentare alla luce di ciò che stabiliscono norme – quelle del codice della crisi – che a) all’attualità sono, incontestabilmente, prive di efficacia; b) sono destinate, con ogni probabilità, a essere in buona parte modificate; c) non è ancor oggi del tutto chiaro se e quando entreranno in vigore. Il che solleva l’interrogativo circa l’opportunità stessa di utilizzare, nelle decisioni inerenti alla legge fallimentare, la lente interpretativa offerta da disposizioni inefficaci in quanto appunto non vigenti e proprio per questo non facenti parte, a rigore, dell’attuale ordinamento (inteso, rettamente, come legislazione vigente).

Volendo poi utilizzare, per così dire, il rasoio di Occam, si potrebbe osservare – estremizzando consapevolmente il ragionamento – che vi è continuità normativa quando la nuova norma ricalca sostanzialmente il contenuto della vecchia (e allora il problema non si pone, perché sarà semmai l’esegesi passata a illuminare l’interprete), mentre quando vi è discontinuità non vi è, per definizione, modo di ricorrere a tale ausilio interpretativo[10].

Siccome, peraltro, le Sezioni Unite hanno di recente fatto ricorso al criterio della continuità normativa, non si può prescindere dal verificarne, nei paragrafi che seguono, l’applicazione che in concreto ne è stata data.

 

2. Secondo interrogativo (specifico): vi è realmente continuità normativa con riferimento alla prededucibilità dei crediti?

L’annosa questione della prededuzione dei crediti dei professionisti che abbiano a vario titolo prestato la loro attività nel tentativo dell’imprenditore di risolvere il proprio stato di crisi è stata decisa dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite, che ha sancito il seguente principio di diritto: “il credito del professionista incaricato dal debitore di ausilio tecnico per l’accesso al concordato preventivo o il perfezionamento dei relativi atti è considerato prededucibile, anche nel successivo e consecutivo fallimento, se la relativa prestazione, anteriore o posteriore alla domanda di cui all’art.161 l.f., sia stata funzionale, ai sensi dell’art.111 co.2 l.f., alle finalità della prima procedura, contribuendo con inerenza necessaria, secondo un giudizio ex ante rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, alla conservazione o all’incremento dei valori aziendali dell’impresa, sempre che il debitore venga ammesso alla procedura ai sensi dell’art.163 l.f., ciò permettendo istituzionalmente ai creditori, cui la proposta è rivolta, di potersi esprimere sulla stessa; restano impregiudicate, da un lato, la possibile ammissione al passivo, con l’eventuale causa di prelazione e, per l’altro, la non ammissione, totale o parziale, del singolo credito ove si accerti l’inadempimento della obbligazione assunta o la partecipazione del professionista ad attività fraudatoria”.

Di là da ogni valutazione nel merito della soluzione offerta (e dall’impressione che, pur attraverso un robusto e articolato percorso argomentativo, il criticato – ed invero criticabile – requisito dell’utilità concreta, apparentemente espulso dalla porta, sia stato fatto in realtà rientrare, sotto diversa forma, dalla finestra), ciò che rileva ai fini che ci occupano è il passaggio della sentenza in cui viene invocato, seppur in qualche modo ad abundantiam, il principio di continuità normativa fra legge fallimentare e codice della crisi. Afferma sul punto la Corte: “l’attingimento dalla scelta del CCII che, a riforma vigente, di per sé risolverebbe in modo diretto la controversia di causa laddove subordina la prededuzione all’apertura della procedura (art.6 co.1 lett. c), si potrebbe allora porre in termini di continuità regolativa sia con le descritte divaricazioni della concorsualità a cerchi concentrici (più ristretti quanto al perimetro delle procedure concorsuali, più estesi nella anticipazione degli effetti e nella loro persistenza anche dopo la chiusura in senso stretto della procedura, quesito v), sia con una nozione non universalistica del fenomeno della consecuzione delle procedure, sia infine con i precisi precedenti in tema […] risulta dunque evidente che, per questa via, l’adozione dell’indirizzo già ora sintonico con il precetto dell’art.6 co.1 lett. c) CCII contribuisce a ricondurre a sistema, come osservato dal Procuratore Generale, una soluzione presente nel formante giurisprudenziale e che diverrebbe armonizzata rispetto ad un assetto normativo destinato a compiersi nella sua interezza con la prossima entrata in vigore integrale del d.lgs. n.14 del 2019”[11].

A una lettura “laica” di quanto disposto dall’art. 6 del codice della crisi (rubricato “Prededucibilità dei crediti”), appaiono tuttavia innegabili – e prevalenti – i numerosi profili di discontinuità rispetto al vigente art. 111 l. fall.

La nuova disposizione stabilisce infatti, fra l’altro, che sono prededucibili:

i crediti professionali sorti in funzione della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e per la richiesta delle misure protettive, nei limiti del 75% del credito accertato e a condizione che gli accordi siano omologati;

i crediti professionali sorti in funzione della presentazione della domanda di concordato preventivo nonché’ del deposito della relativa proposta e del piano che la correda, nei limiti del 75% del credito accertato e a condizione che la procedura sia aperta ai sensi dell’articolo 47.

A tale stregua, l’impressione che si ricava dal raffronto fra norma vigente e previsione futura è, francamente, nel senso che gli elementi di discontinuità prevalgano sensibilmente su quelli di continuità e che, pertanto, il principio richiamato dalle Sezioni Unite non risulti così agevolmente invocabile.

 

3. Terzo interrogativo (specifico): vi è davvero discontinuità normativa relativamente al rapporto fra pronuncia di risoluzione del concordato preventivo e declaratoria di fallimento?

La (quasi altrettanto annosa) querelle sulla configurabilità del c.d. fallimento omisso medio – vale a dire senza la previa risoluzione del concordato preventivo – è stata definita dalle Sezioni Unite[12] a poche settimane di distanza da quella sulla prededuzione dei crediti professionali e anche in questo caso si è fatto ricorso al principio di continuità normativa, escludendone l’applicazione.

Il percorso argomentativo è il seguente: “il legislatore del D.Lgs. n. 14 del 2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza) ha stabilito [all’art. 119], quanto segue: […] 7. Il Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale solo a seguito della risoluzione del concordato, salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo’. Quest’ultima previsione (comma 7), quella più calzante al problema in esame, è stata introdotta dal primo intervento integrativo e correttivo di cui al D.Lgs. n. 147 del 2020. È scontato che si tratti di disposizione qui non applicabile, dal momento che il Codice della Crisi non è ancora vigente avendo subito, come è noto, vari rinvii; d’altra parte, la disposizione in esame non potrebbe governare la presente fattispecie neppure se esso fosse - per ipotesi - già in vigore, visto il regime transitorio previsto nell’art. 390, comma 1” e l’assoggettamento delle procedure pendenti alla disciplina previgente. Ciò non toglie che si tratti di una fonte che costituisce già oggi parte integrante del corpus legislativo dell’ordinamento, così che il ricorso ad essa in funzione interpretativa non può ritenersi aprioristicamente inibito. Soccorre, esattamente in termini, quanto stabilito da queste Sezioni Unite - chiamate a pronunciarsi sulla proponibilità dell’azione revocatoria ordinaria tra procedure fallimentari - nella sentenza n. 12476/20 cit., nella quale si legge che la pretesa di rinvenire nel CCII norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare oggi ancora vigente può sì ammettersi, ma ‘se (e solo se) si possa configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro’. Analogamente, Cass. SSUU n. 8504/21 (in tema di impugnazione del rigetto della proposta di trattamento dei crediti tributari avanzata nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti L. Fall., ex artt. 182 bis e ter) ha riaffermato l’utilità interpretativa del ‘codice della crisi’ qualora ricorra, nello specifico segmento considerato, un ambito di continuità tra i due regimi (v. anche Cass. SSUU n. 35954/21). Dunque è proprio in applicazione di questo indirizzo – prosegue la Corte – che va negata, nel caso qui in esame, qualsivoglia influenza ermeneutica a quanto prescritto dall’art. 119 CCII in ordine al fatto che il Tribunale possa dichiarare aperta la liquidazione giudiziale (salvo che lo stato di insolvenza consegua a debiti sorti successivamente al deposito della domanda di apertura del concordato preventivo) ‘solo a seguito della risoluzione del concordato’. È infatti evidente il difetto di quel requisito di continuità di regime che si è detto essere essenziale per il recupero della valenza interpretativa postuma”.

Ora, sembra in realtà possibile osservare che l’art. 119 ha una portata innovativa tutto sommato contenuta rispetto all’art. 186, l. fall., se è vero che vengono tenuti fermi i precetti “cardine” in base ai quali: (i) ciascuno dei creditori può richiedere la risoluzione del concordato per inadempimento; (ii) il concordato non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza; (iii) il ricorso per la risoluzione deve proporsi entro un anno dalla scadenza del termine fissato per l'ultimo adempimento previsto dal concordato; (iv) le disposizioni in tema di risoluzione non si applicano quando gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore.

Sul piano generale, poi, viene in evidenza come il legislatore del codice continui ad affidarsi, per affrontare le vicende patologiche del concordato, ai tradizionali rimedi della risoluzione e dell’annullamento.

I soli elementi di discontinuità, a ben vedere, sono quelli relativi alla legittimazione del commissario giudiziale, ove richiesto da un creditore, a chiedere la risoluzione del concordato e alla necessaria presenza del garante nel procedimento di risoluzione; oltre appunto alla preclusione del fallimento omisso medio, che secondo la prevalente dottrina, peraltro, poteva ricavarsi interpretativamente dal sistema già in precedenza.

Quel che risulta difficilmente confutabile, in ogni caso, è l’assunto in base al quale il legislatore del codice ha innovato assai più la disciplina delle prededuzioni che non quella della risoluzione del concordato. Eppure, come si è visto, nel primo caso le Sezioni Unite hanno applicato il principio di continuità normativa, disconoscendone invece i presupposti nel secondo: con una valutazione che, per le ragioni testé illustrate, non appare pienamente coerente né convincente.

 

 

4. Conclusioni: una proposta.

Le considerazioni che precedono mettono in luce quanto ambivalente sia il principio di continuità normativa e quanto i tentativi di sua applicazione vadano a collocarsi sopra un terreno obiettivamente sdrucciolevole.

Alla luce di ciò, ma ancor più alla stregua dei rilievi esposti nel primo paragrafo circa le forti perplessità che suscita, in base alla teoria dell’interpretazione, la pretesa di leggere una norma vigente sulla base di quanto disposto, per la medesima fattispecie, da una previsione non ancora in vigore (e per sua natura suscettibile, fino a quel momento, di modifiche), ci si domanda sommessamente – pur nella consapevolezza di andare “controcorrente” rispetto al mainstream giurisprudenziale – se non sia preferibile rinunciare a questo strumentario esegetico, proprio perché foriero di più problemi di quanti, a ben vedere, risulta in grado di risolvere.

Senza tornare a rilevare che l’assunto secondo il quale il codice della crisi è parte dell’ordinamento concorsuale nonostante non sia in vigore dovrebbe, a ben vedere, costituire oggetto di dimostrazione anziché essere dato per presupposto.

In ogni caso, i tempi di attesa per l’entrata in vigore del codice dovrebbero essere, ormai, ragionevolmente contenuti. Salvo sorprese dell’ultim’ora, naturalmente![13]



[1] È stato possibile riscontrare che la dicitura “codice della crisi d’impresa”, consultando le banche dati, compare già in oltre un centinaio di pronunce della Suprema Corte.

[2] Cass. 23 luglio 2019, n. 19881 in Ced Cassazione. E v. Cass., SS.UU., 24 giugno 2020, n. 12476, in Fallimento, 2020, pp. 1526 ss., con commento di Panzani, La natura costitutiva dell’azione revocatoria ed il credito per equivalente della curatela del solvens nei confronti del fallimento dell’accipiens.

[3] Casa, Epistemologia e metodologia giuridica dopo la fine della modernità, Soveria Mannelli (CZ), 2020.

[4] Id., La “quadratura del cerchio”; note minime su una sentenza importante (Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2021, n. 42093), in questa Rivista, 24 gennaio 2022.

[5] In materia si vedano, ex aliis,Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, soprattutto pp. 180-340; più di recente, Guastini, Interpretare e argomentare, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu-Messineo-Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2011; Velluzzi, Le Preleggi e l’interpretazione. Un’introduzione critica, Pisa, 2013, pp. 180-210; Modugno, Interpretazione giuridica, Padova, 2015.

[6] Rordorf, Il codice della crisi e dell’insolvenza in tempi di pandemia, in www.giustiziainsieme.it, 8 aprile 2020, pp. 2-3; Ferro, Riapertura dei concordati e degli accordi di ristrutturazione: le proroghe eccezionali del DL 23/2020, in Quotidiano giuridico, 14 aprile 2020, p. 1.

[7] Il tema costituisce un “classico” sin dall’inizio del Novecento e la dottrina che per prima si è interessata alla questione pare ancor’oggi attuale: cfr. Cammeo, L’interpretazione autentica, in Giur. it., 1907, IV, pp. 305 ss.; Lavagna, L’interpretazione autentica delle leggi e degli altri atti giuridici, Roma, 1942, e in Ricerche sul Sistema normativo, Milano, 1984, pp. 373 ss.; Amorth, Leggi interpretative e leggi di sanatoria nei rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 1, pp. 76 ss.; Rescigno, Leggi di interpretazione autentica e leggi retroattive non penali incostituzionali, in Giur. cost., 1964, pp. 770 ss.; Castellano, Interpretazione autentica della legge e politica del diritto, in Politica del Diritto, 1971, pp. 593 ss.; più di recente il tema è trattato da Pino, L’interpretazione del diritto, Torino, 2021. Le indicazioni bibliografiche che precedono sono frutto di un confronto con il prof. Federico Casa, che ringrazio sentitamente.

[8] Cfr. Tarello, L’interpretazione della legge, cit., p. 91-123. Cfr. Guastini, La sintassi del diritto, Torino, 2011, pp. 299-306; Velluzzi, Tra teoria e dogmatica. Altri sei studi sull’interpretazione, Pisa, 2020.

[9] Cfr. Pino, L’interpretazione del diritto, cit.

[10] Il ragionamento si desume da Guastini, La sintassi del diritto, cit., pp. 283-298; 406-411.

[11] Cass., SS. UU., 31 dicembre 2021, n. 42093, in questa Rivista.

[12] Cass., SS.UU., 14 febbraio 2022, n. 4696 in questa Rivista.

[13] Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia, audita il 15 marzo dalla Commissione giustizia del Senato sull'Attuazione del Pnrr, ha dichiarato: “Questa settimana, almeno le previsioni sono queste, in Consiglio dei Ministri sarà portato un decreto legislativo di attuazione di una direttiva dell'Unione europea che va a completare un segmento importante della riforma della Crisi di impresa e dell'insolvenza. Ci sono delle valutazioni in corso sulla necessità eventuale di rinviare, per lo meno di un certo periodo, l'entrata in vigore del Codice della crisi di impresa, operando i necessari ritocchi a causa della pandemia ed oggi della nuova crisi dovuta alla guerra, che ha un ritorno immediato sui costi dell'energia che toccano le famiglie e tantissimo le imprese”. “Un ulteriore segmento a cui stiamo lavorando - ha concluso -, ma siamo un pochino più indietro, è quello di modificare il sistema dei reati fallimentari, anche per allinearlo a questa nuova logica che riguarda appunto la crisi d'impresa”.

D’altronde, secondo il recente studio che il Censis ha realizzato per Confcooperative, il combinato effetto tra caro-energia e crisi provocate dalla guerra rischia di «incenerire» il 3% del Pil. «Un macigno che potrebbe mandare in default 184.000 imprese che danno lavoro a 1,4 milioni di persone», ha avvertito il presidente di Confcooperative. In pratica, il 10,5% degli addetti delle imprese italiane e il 10,9% del “valore aggiunto” sarebbe a rischio.