, 09 giugno 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. La fattibilità del piano come sua non manifesta inadeguatezza. – 2. Le “attitudini” prescritte dalla legge per il piano in continuità. – 3. L’interesse “generale” versus quello del creditore opponente. – 4. Il criterio del trattamento non deteriore dei creditori rispetto alla liquidazione giudiziale. – 5. Il (non indispensabile) requisito della convenienza/preferibilità del concordato. – 6. Conclusioni.
1. La fattibilità del piano come sua non manifesta inadeguatezza
Nella legge fallimentare – come progressivamente modificata fino al 2019 – la fattibilità del piano di concordato[1] e la necessità di scrutinarla ad opera di un esperto indipendente sono postulate dal terzo comma dell’art. 161, ai sensi del quale – com’è a tutti noto – il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti della norma devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lett. d), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano.
Nel codice della crisi del 2019, modificato dal decreto correttivo del 2020[2], il termine “fattibilità” è assai più ricorrente, comparendo esso – affiancato all’aggettivo “economica” – anzitutto negli artt. 47 e 48, dedicati, rispettivamente, all’apertura del concordato preventivo e all’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
In alcune disposizioni successive, invece, si parla tout court di “piano fattibile” (art. 85, c. 2), o di “fattibilità del piano” (art. 87, c. 2), senza aggettivazioni di sorta.
L’espressione “fattibilità economica” ricorre poi, notoriamente, anche al di fuori della disciplina concordataria: basti pensare alla norma sugli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento (art. 56, c.4) e agli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57, c. 4); e in entrambi i casi l’espressione è correttamente riferita al piano che sta alla base dei predetti accordi e non già a questi ultimi.
In progresso di tempo la giurisprudenza ha fornito del concetto in esame una nozione sempre più restrittiva, che ha finito per coincidere con la manifesta inattitudine del piano concordatario a conseguire i propri obiettivi[3]: il che ha comportato una minor pregnanza del controllo giudiziale su tale requisito rispetto a una determinata giurisprudenza di merito degli esordi, connotata, per così dire, da un certo grado di “invadenza”.
Questo opportuno chiarimento in sede nomofilattica ha indotto alcuni partecipanti al dibattito in corso, fra cui chi scrive[4], a domandarsi se non fosse preferibile adottare espressamente, da parte del legislatore, la definizione di matrice giurisprudenziale, apparendo il ricorso al sintagma “fattibilità” non esattamente irrinunciabile e anzi foriero di persistenti ambiguità interpretative.
Nel riformulare l’art. 47 il legislatore del 2022 (stando allo schema di decreto legislativo A.G. n. 374)[5] ha in primo luogo confinato il requisito della fattibilità del piano all’ambito del concordato liquidatorio (c. 1, lett. a), giacché non se ne trova traccia nella successiva lett. b) in tema di concordato in continuità (e la scelta è ribadita, come si vedrà, con riguardo allo scrutinio in sede di omologazione, salvo tuttavia prevedere il contrario l’art. 87, c. 3, in merito al contenuto dell’attestazione); in secondo luogo, ha opportunamente stabilito che tale fattibilità del piano va intesa, sempre in ambito liquidatorio, “come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati”.
Quest’ultima formulazione riecheggia quasi verbatim il tenore dell’art. 7, c. 2, lett. b)[6], ove è prescritto – stavolta in via generale e quindi anche con riferimento al concordato in continuità – che, ai fini della trattazione prioritaria delle domande diverse da quella di liquidazione giudiziale, il piano “non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati”. E proprio l’anzidetta previsione denota la volontà del legislatore di richiedere che ogni tipo di soluzione concordataria sia caratterizzata dalla fattibilità del piano necessariamente intesa in questa nuova e più circoscritta accezione.
2. Le “attitudini” prescritte dalla legge per il piano in continuità
Se la locuzione “obiettivi prefissati” di cui si è detto poc’anzi sembra rimandare ai risultati che di volta in volta il singolo piano si propone di raggiungere in ragione delle peculiarità del caso concreto, per il concordato in continuità è la legge stessa a esplicitare tali obiettivi, declinandoli in modo diverso a seconda del soggetto chiamato a verificarne il perseguimento.
Ed invero, l’art. 47, alla lett. b), richiede che il piano sia idoneo (recte: non manifestamente inidoneo) alla “soddisfazione dei creditori, come proposta dal debitore, e alla conservazione dei valori aziendali”; mentre il successivo art. 87 stabilisce al terzo comma che il professionista indipendente deve attestare che il piano in continuità “è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale”.
Come si vede, la prima norma mira a scongiurare iniziative scopertamente abusive e a tutelare la soddisfazione dei creditori: non – si badi – il (teorico) miglior soddisfacimento degli stessi, ma ciò che concretamente il debitore ha proposto in termini di entità e di tempi della recovery. E sul medesimo piano, a livello di interessi protetti, l’art. 47 colloca l’obiettivo della conservazione dei valori aziendali, con un’espressione che inevitabilmente rimanda all’art. 1, d. lgs. n. 270/1999, dove si parla di “finalità conservative del patrimonio produttivo”[7] ma non anche – e non pour cause – di soddisfazione dei creditori.
La seconda previsione codicistica testé menzionata riveste un’importanza centrale, dal momento che nell’art. 87, c. 3, si rinviene la declinazione dei precetti-chiave in tema di continuità aziendale, che vanno oltre quello di fattibilità del piano (autonomamente prescritta dalla disposizione in esame, unitamente alla veridicità dei dati aziendali, senza distinzioni fra tipologie di concordati) e che costituiscono il nucleo stesso dell’attestazione in rapporto alla risanabilità dell’impresa[8] e alla tutela minima del ceto creditorio.
Coerente con i differenti ruoli in questione risulta il fatto che il tribunale possa e debba “accontentarsi”, in base all’art. 47, della non manifesta inidoneità del piano e che l’attestatore sia invece tenuto a verificarne l’effettiva attitudine a realizzare le suddette finalità.
Quanto poi alla fase finale della procedura, il tribunale è chiamato, in sede di omologazione, ad una determinata verifica nell’ipotesi di piano in continuità e a una di diverso tipo negli altri casi. Ed infatti, il primo comma dell’art. 112 richiede, alla lett. f), che il piano in continuità “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”; mentre in base alla successiva lett. g) è prescritto, “in ogni altro caso”, lo scrutinio in ordine alla fattibilità del piano, che si ribadisce anche qui espressamente doversi intendere “come non manifesta inattitudine del medesimo a raggiungere gli obiettivi prefissati”.
3. L’interesse “generale” versus quello del creditore opponente
Si è poc’anzi ricordato come, ai sensi dell’art. 47, c. 1, lett. b), la domanda di accesso al concordato in continuità “è comunque inammissibile” se il piano è, prima facie e sulla base del parere del commissario giudiziale, se già nominato, manifestamente inidoneo alla conservazione dei valori aziendali (e con essi, implicitamente, anche dei posti di lavoro), oltre che alla soddisfazione dei creditori.
Di regola, i due obiettivi tendono a coincidere, giacché la preservazione dei valori aziendali consente, normalmente, un più elevato livello di recovery dei creditori.
Può tuttavia accadere che uno o più creditori, al fine di scongiurare l’omologazione del concordato[9] contro cui si siano espressi, eccepiscano il difetto di convenienza della proposta. Per questa eventualità l’art. 112, c. 3, stabilisce che il tribunale debba omologare il concordato ogniqualvolta risulti che il credito dell’opponente è destinato a essere soddisfatto in misura – non già necessariamente superiore, bensì semplicemente – non inferiore rispetto a quanto accadrebbe nella liquidazione giudiziale. La domanda di concordato approvata dai creditori, quindi, non deve superare, ai fini dell’omologazione, il test di convenienza, ma (almeno) quello di “neutralità” degli effetti per i creditori opponenti in rapporto allo scenario alternativo indicato dalla legge.
Il problema tuttavia, come si è sovente constatato nella pratica, è di veder preclusa l’omologazione per il fatto che anche uno solo dei creditori dissenzienti dimostri che il proprio trattamento in ambito concordatario risulta deteriore a quello prospettabile in caso di liquidazione giudiziale. Ebbene questa conseguenza, improntata all’ipertutela del singolo creditore a scapito della maggioranza del ceto creditorio, nonché degli stakeholders coinvolti dal tentativo di salvataggio dell’impresa, è stata considerata “sbilanciata” dal legislatore in quanto effettivamente contrastante con il perseguimento del maggior “benessere collettivo” possibile.
Non si è tuttavia inserito un temperamento in tal senso nella disciplina del giudizio di omologazione in primo grado (come sarebbe stato forse preferibile, anche per ragioni di economia processuale), bensì nella sua fase di appello: l’art. 53, c. 5-bis, infatti, prevede che, in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante.
È appena il caso di rimarcare come l’enucleazione, quale oggetto di specifica tutela, dell’interesse “generale dei creditori e dei lavoratori” costituisca un fatto inedito per il nostro ordinamento concorsuale e gravido di implicazioni sul piano sistematico. Ed invero, l’anzidetta previsione, insieme a quella in base alla quale la continuità aziendale “preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro” (art. 84, c. 2), sono idonee a incidere sui tratti fisionomici dell’istituto concordatario, finalizzando quello in continuità (anche) alla tutela dell’occupazione[10] e accostandolo così, in un certo senso, a un possibile strumento di “politica industriale” latamente intesa (e non di matrice pubblica, com’è invece l’amministrazione straordinaria): pur sempre – beninteso – nel rispetto della tutela prioritaria dei creditori e quindi nei rigorosi limiti di compatibilità con essa.
4. Il criterio del trattamento non deteriore dei creditori rispetto alla liquidazione giudiziale
L’art. 186-bis della legge fallimentare – com’è ben noto – postula, ai fini della proponibilità di un concordato preventivo in continuità, che il relativo piano realizzi il miglior soddisfacimento dei creditori[11].
Anche il codice della crisi del 2019, all’art. 87, c. 1, lett. f), onera l’attestatore del compito di verificare la funzionalità del piano al miglior soddisfacimento dei creditori.
Le recentissime modifiche apportate a questa disposizione e ad altre analoghe denotano chiaramente che si è optato per una soluzione diversa.
In quest’ultima disposizione infatti, come già ricordato, si richiede che il piano in continuità riconosca a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe nell’ipotesi di liquidazione giudiziale. Analogamente, in tema di trattamento dei crediti tributari e contributivi, l’art. 88, c. 2, stabilisce che l’attestazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti tributari e contributivi, ha ad oggetto anche la convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale e, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore.
Più a monte, la norma generale di cui al primo comma dell’art. 84 richiede che il piano di concordato realizzi il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quello ricavabile in caso di liquidazione giudiziale. E la – parimenti già ricordata – previsione dell’art. 7, c. 2, lett. c), parla, per il concordato in continuità, di assenza di pregiudizio per i creditori.
Si è in tal modo introdotto nella disciplina concordataria un nuovo principio, che può essere definito in termini di equivalenza o non deteriorità del trattamento, ciò che coincide per l’appunto con la mancanza di effetti pregiudizievoli per i creditori.
Il principio è simmetricamente replicato nella norma sull’omologazione: ai sensi dell’art. 112, c. 3, infatti, nel concordato in continuità aziendale, se con l’opposizione un creditore dissenziente eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
L’opzione accolta risulta improntata a un favor per il concordato e, come tale, va accolta positivamente.
Occorre nondimeno ricordare che la Direttiva Insolvency, all’art. 10, c. 2, lett. d), postula che, “nel caso vi siano creditori dissenzienti, il piano di ristrutturazione superi la verifica del miglior soddisfacimento dei creditori” (corsivo aggiunto).
Sotto questo profilo, pertanto, ci si potrebbe domandare se la disposizione approntata dal nostro legislatore sia davvero caratterizzata da piena adeguatezza al precetto unionale, che sembra prescrivere un trattamento migliore – e non semplicemente uguale – rispetto allo scenario della liquidazione giudiziale.
L’apparente aporia può probabilmente risolversi sulla scorta del rilievo che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, n. 6 della Direttiva, è sufficiente che nessun creditore dissenziente risulti, in base al piano di ristrutturazione, “svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione”.
5. Il (non indispensabile) requisito della convenienza/preferibilità del concordato
Oltre al profilo, testé segnalato, di possibile non integrale osservanza, da parte della legislazione nazionale, dei precetti della Direttiva Insolvency, va rilevato che non tutte le soluzioni adottate nel porre mano alla nuova “sintassi” del concordato preventivo appaiono in armonia fra loro.
Si è ripetutamente osservato come un concetto-cardine sia rappresentato dalla equivalenza/non deteriorità del trattamento rispetto a quello realizzabile nella liquidazione giudiziale, essendosi voluto con ciò superare, per il concordato in continuità, il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori.
Ora, non risultano, a ben vedere, del tutto sintoniche con questa impostazione le previsioni che postulano, in via generale e quindi anche con riguardo al concordato in continuità, la preferibilità del concordato rispetto ad altre soluzioni.
Il riferimento è, in particolare, al secondo comma dell’art. 87, ai sensi del quale nella domanda di concordato il debitore deve indicare le ragioni per le quali l’opzione concordataria “è preferibile alla liquidazione giudiziale”.
Quanto poi all’art. 7, c. 2, lett. c), essa prescrive che nella proposta siano espressamente indicate le ragioni di convenienza per i creditori: disposizione, questa, che pare riferibile ai concordati diversi da quello in continuità, come conferma l’utilizzo della disgiuntiva “o” prima dell’espressione seguente (“in caso di concordato in continuità aziendale”).
A tale stregua un dubbio sorge spontaneo: che necessità c’è di richiedere che il concordato sia preferibile – e, nel caso non sia in continuità, più conveniente – rispetto alla liquidazione giudiziale, quando il resto della disciplina – come si è venuto chiarendo – è invece imperniata sul principio della non deteriorità del trattamento, talora declinata dalla legge come assenza di pregiudizio?
Se non si va errati, ciò rischia di costituire un’aporia del sistema, peraltro facilmente emendabile con l’espunzione dei concetti di preferibilità e convenienza, relegando dunque quest’ultimo all’ambito dell’omologazione.
6. Conclusioni
La nuova formulazione delle norme sul concordato preventivo fin qui illustrate si caratterizza – come si è detto – per aver adottato una più circoscritta nozione di fattibilità, ricondotta al concetto di non manifesta inadeguatezza al conseguimento degli obiettivi prefissati, nonché per aver optato per il criterio del trattamento non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale in luogo del miglior soddisfacimento dei creditori.
Entrambe le soluzioni – come si è osservato – vanno salutate con favore, in quanto contribuiscono a evitare problemi interpretativi e a incentivare il ricorso allo strumento concordatario.
E questa valutazione non pare inficiata dalla presenza delle criticità che nel presente contributo si è ritenuto di individuare, le quali attengono, da un lato, a previsioni forse non perfettamente coerenti tra loro, dall’altro, al ricorso, per vero non indispensabile, ai requisiti di preferibilità e di convenienza del concordato, che risultano distonici rispetto al quadro d’insieme come da ultimo delineato dal legislatore.
Non si tratta peraltro delle criticità più rilevanti dell’ultimo intervento legislativo, sol che si consideri che altre parti – quali la nuova disciplina del voto – sembrano non del tutto ossequiose di quella esigenza di semplificazione che emerge con nitore dalla Direttiva, oltre che quasi “feticisticamente” ancorate al discutibile criterio del silenzio-diniego[12]. E ciò per tacere del segmento di disciplina inerente al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, che si pone fra l’altro in controtendenza con l’obiettivo di scongiurare l’eccessiva proliferazione di istituti, come del resto puntualmente rilevato nel parere di recente reso dal Consiglio di Stato[13].
L’impressione, in definitiva, è che il “legislatore” del 2022 abbia preso un po’ troppo alla lettera la frase pronunciata oltre un secolo fa da Giovanni Giolitti: “Le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un Paese. Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all’abito”.
[1] In materia v. da ultimo, anche per riferimenti, A. Moscariello, Il controllo del tribunale sulla 'fattibilità economica' del piano di concordato preventivo con continuità aziendale, in Dir. fall., 2019, II, pp. 213 ss., e C. Costa, Il controllo di fattibilità del concordato preventivo tra vecchia disciplina e nuovo codice della crisi e dell’insolvenza, ivi, 2020, I, pp. 331 ss. In precedenza, fra i molti lavori in argomento, R. Amatore, Il giudizio di fattibilità del piano nel concordato preventivo, in Dir. fall., 2012, I, pp. 109 ss.; A. Jorio, Fattibilità del piano di concordato, autonomia delle parti e poteri del giudice, in Giur. comm., 2012, II, 1107 ss.
[2] Sulla disciplina del concordato preventivo a tutt’oggi contenuta nel codice della crisi v., fra i primi contributi, G. Fichera, Il concordato preventivo con continuità aziendale, in AA.VV., Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, nella collana “i quaderni di in executivis”, a cura di C. D’Arrigo – L. De Simone – F. Di Marzio – S. Leuzzi, 2019, pp. 209 ss., e S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo: "finalità", "presupposti" e controllo sulla fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale), in Ilcaso.it, 25 febbraio 2019.
[3] Fra le altre Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2019, n. 3863, in Ilcaso.it.
[4] Criterio di prevalenza, fattibilità economica, ipertutela dei privilegiati, silenzio-diniego: quattro “tabù” da sfatare nel concordato preventivo che verrà, in Ristrutturazioni aziendali, 7 marzo 2022.
[5] Per una prima, ma puntuale, ricognizione delle novità v. S. Leuzzi, Appunti sul concordato preventivo ridisegnato, in www.dirittodellacrisi.it, 5 maggio 2022.
[6] La disposizione in parola rientra nei principi generali del codice della crisi, su cui si vedano, in luogo di altri, R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021. Liber amicorum per Alberto Jorio, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2021, pp. 45 ss., e G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, pp. 247 ss. (ai quali può aggiungersi S. Ambrosini, I “princìpi generali” nel codice della crisi d’impresa, in Ilcaso.it, 26 gennaio 2021).
[7] Sul tema la letteratura – com’è noto – è vasta. Nella trattatistica più recente cfr., anche per riferimenti, S. Ambrosini, L’amministrazione straordinaria, in AA.VV., Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, III, Torino, 2016, pp. 4016 ss.e F. Di Marzio – F. Macario, Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza, in AA.VV., Trattato delle procedure concorsuali, diretto da A. Jorio e B. Sassani, V, Milano, 2017, pp. 601 ss.
[8] Su questo concetto cfr., fra gli scritti più recenti e puntuali, E. Ricciardiello, Sustainability and going concern,in Ristrutturazioni aziendali, 13 ottobre 2021; V. Minervini, La “composizione negoziata” nella prospettiva del recepimento della direttiva “insolvency”. Prime riflessioni, ivi, 17 ottobre 2021.
[9] Sulla disciplina dell’omologazione nel codice della crisi del 2019 cfr., fra gli altri, G. Nuzzo, Profili problematici del giudizio di omologazione del concordato preventivo nella disciplina del codice della crisi, in Dir. fall., 2020, I, pp. 84 ss. e M. Fabiani, L’omologazione del nuovo concordato preventivo, in Fallimento, 2020, pp. 1314 ss.
[10] Sul tema cfr., da ultimo, S. Ambrosini, Concordato preventivo e soggetti protetti nel codice della crisi dopo la Direttiva Insolvency: i creditori e i lavoratori, in Ristrutturazioni aziendali, 1° giugno 2022.
[11] E v., in proposito, A. Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, in Fallimento, 2013, pp. 1100 ss., e A. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), ivi, 2017, pp. 637 ss.
[12] Sul punto cfr., da ultimo, A. Jorio, Ragionando sul concordato preventivo. Alcuni consigli (non richiesti) ai conditores, in Ristrutturazioni aziendali, 2 marzo 2022, pp. 12-13; G. Bozza, Il sistema delle votazioni nei concordati tra presente e futuro, in www.dirittodellacrisi.it, 4 marzo 2022, pp. 30-31, cui può aggiungersi S. Ambrosini, Criterio di prevalenza, fattibilità economica, ipertutela dei privilegiati, silenzio-diniego: quattro “tabù” da sfatare nel concordato preventivo che verrà, cit., pp. 8-9.
[13] Pubblicato, il giorno stesso della sua emanazione, in Ristrutturazioni aziendali.