, 17 luglio 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario:1. Premessa: perimetro dell’ultimo intervento, entrata in vigore e disciplina transitoria. – 2. Segue. Piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione e profili societari degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza. – 3. Nozioni di “crisi” e di “strumenti di regolazione”. – 4. Cenni a composizione negoziata, gestione dell’impresa e business judgement rule. – 5. I tratti salienti della nuova disciplina del concordato preventivo. – 6. I nodi di fondo irrisolti: l’amministrazione straordinaria, la “selva non sfoltita” dei privilegi e la (mancata) specializzazione del giudice.
(*) Il presente contributo è destinato alla pubblicazione su Diritto fallimentare (ed è apparso in anteprima sull‘online di tale rivista).
1. Premessa: perimetro dell’ultimo intervento, entrata in vigore e disciplina transitoria
Con il decreto legislativo n. 83 del 17 giugno 2022, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 152 del 1° luglio 2022, è stato varato il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a quasi cinque anni dalla legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017 e a circa sette anni dall’istituzione della commissione ministeriale preposta alla redazione dei princìpi di delega. Va detto tuttavia che, nel mezzo, si è verificato un evento al tempo stesso imprevedibile e devastante come la pandemia da Covid-19.
Rispetto al d. lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019 e ai successivi provvedimenti modificativi, le aree di intervento del decreto n. 83/2022 sono le seguenti[1]:
i) definizioni di “crisi”, “gruppo di imprese”, “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” (che sostituisce l’ipotesi di locuzione “quadri di ristrutturazione preventiva” di matrice unionale), “esperto”, “misure protettive” [art. 2, lettere a), h), m-bis), p)];
ii) doveri dei soggetti interessati alla ristrutturazione (artt. 3, 4 e 5-bis);
iii) composizione negoziata (comprese le misure protettive in corso di composizione negoziata, i possibili esiti, la disciplina delle imprese sotto soglia: artt. 12 – 25-quinquies);
iv) concordato semplificato liquidatorio (artt. 25-sexies – 25-septies);
v) segnalazioni (artt. 25-octies – 25-undecies);
vi) procedimento unitario (artt. 40, 43, 47 e 53);
vii) misure protettive (artt. 54, 55 e 63);
viii) piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (artt. 64-bis – 64-quater);
ix) concordato minore (artt. 74 – 83);
x) concordato preventivo (con modifiche anche in tema di omologazione, trattamento dei soci ed esecuzione del concordato: artt. 84, 92, 94-bis, 100, 109, 112);
xi) accesso agli strumenti di regolazione della crisi (artt. 120-bis – 120-quinquies);
xii) liquidazione giudiziale (artt. 135, 213, 216, 235, 255);
xiii) liquidazione controllata (art. 268);
xiv) entrata in vigore (art. 389;
xv) disciplina transitoria (art. 390).
Non è possibile, in questa sede, dar conto di tutte le innovazioni da ultimo apportate alle precedenti versioni del codice, ritenendosi preferibile concentrarsi su alcune delle aree tematiche che escono sensibilmente riconfigurate dal complessivo (e progressivo) intervento riformatore in rapporto alla previgente disciplina della legge fallimentare.
Merita comunque segnalare che il d.lgs. n. 83/2022 ha sancito il definitivo superamento delle misure di allerta e della composizione assistita[2] a beneficio dell’istituto, introdotto nel 2021 e improntato a minor “invasività” nella vita delle imprese, della composizione negoziata[3], pur sempre inserito nel novero degli strumenti diretti all’emersione tempestiva della crisi, che si conferma essere uno dei princìpi fondanti il nuovo assetto ordinamentale. Con la riaffermazione poi, ad opera della novella, del possibile sbocco della composizione negoziata nel concordato semplificato[4], attraverso il quale trova conferma la “rivitalizzazione” della liquidazione concordataria attuata con il d.l. n. 118/2021[5].
Come pure merita porre in evidenza un accresciuto favor normativo per la continuità aziendale e, in generale, per le soluzioni alternative alla liquidazione giudiziale, il cui spettro viene ulteriormente ampliato (basti pensare al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, di cui all’art. 64-bis), a dispetto delle critiche all’indirizzo di un’eccessiva proliferazione degli istituti e di un possibile vizio della norma per eccesso di delega[6].
Quanto all’entrata in vigore delle nuove norme, l’art. 389 stabilisce: “Il presente decreto entra in vigore il 15 luglio 2022, salvo quanto previsto al comma 2”.
In base alla disciplina transitoria di cui all’art. 390, lo spartiacque applicativo è declinato come segue. I ricorsi per la dichiarazione di fallimento e le proposte di concordato fallimentare, i ricorsi per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione, per l’apertura del concordato preventivo, per l’accertamento dello stato di insolvenza delle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa e le domande di accesso alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento depositati prima dell’entrata in vigore del codice sono definiti secondo le disposizioni della legge fallimentare, nonché della legge n. 3/2012.
Le procedure di fallimento e le altre procedure pendenti alla data di entrata in vigore del codice, nonché le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di cui al comma 1 dell’art. 390 sono definite secondo le disposizioni della legge fallimentare e della legge n. 3/2012.
Per quanto concerne, infine, i profili penali, il terzo e ultimo comma dell’art. 390 prevede che, quando, in relazione alle procedure pendenti alla data di entrata in vigore del codice, sono commessi i fatti puniti dalle disposizioni penali del titolo sesto della legge fallimentare, nonché della sezione terza del capo II della legge 27 gennaio 2012, n. 3, ai medesimi fatti si applicano le predette disposizioni.
Con l’introduzione del già citato piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione ad opera dell’art. 64-bis il legislatore ha inteso dare attuazione alla c.d. ristrutturazione trasversale prevista dalla Direttiva Insolvency.
I pilastri su cui poggia l’istituto[7] sono (i) la distribuzione del valore generato dal piano anche in deroga agli artt. 2740 e 2741, c.c., e alle disposizioni che regolano la graduazione delle cause legittime di prelazione[8]; (ii) l’approvazione della proposta da parte dell’unanimità delle classi. Ed è chiaro che si tratti di due elementi (peraltro non i soli) marcatamente distintivi rispetto al concordato preventivo.
Il nuovo istituto sembra pensato essenzialmente per i casi di continuità aziendale, anche se la genericità dell’espressione “valore generato dal piano” potrebbe indurre a ricomprendervi (di là dalle disposizioni richiamate) le ipotesi liquidatorie, anche di natura atomistica[9].
Veridicità dei dati aziendali e fattibilità del piano vanno attestati da un professionista indipendente.
Per parte sua il tribunale, esaminato il ricorso, pronuncia decreto con il quale:
a) valutata la mera ritualità della proposta e verificata la correttezza dei criteri di formazione delle classi, nomina un giudice delegato al procedimento e nomina oppure conferma il commissario giudiziale;
b) adotta i provvedimenti di cui all’art. 47, comma 2, lettere c) e d).
Quanto alla deliberazione dei creditori, in ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto oppure, in mancanza, se hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe. Ne consegue che la legge introduce, accanto alle prescritte maggioranze dei voti, un quorum costitutivo, sulla falsariga delle assemblee nelle società di capitali.
Il tribunale omologa con sentenza il piano di ristrutturazione nel caso di approvazione da parte di tutte le classi. Se con l’opposizione un creditore dissenziente eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il piano di ristrutturazione quando dalla proposta il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
Come si evince dalla suddette disposizioni relative ai poteri del tribunale, risulta escluso dal novero dei medesimi lo scrutinio diretto circa la fattibilità del piano sia nella fase iniziale (conclusione, questa, avvalorata dall’aggettivo “mera” di cui al comma 4), sia in quella di omologazione.
La legge prende poi specificamente in considerazione l’ipotesi della mancata approvazione di tutte le classi. Ai sensi dell’art. 64-ter, se il piano di ristrutturazione non è approvato da tutte le classi, secondo quanto risulta dalla relazione depositata dal commissario giudiziale, il debitore, se ritiene ciò nondimeno di avere ottenuto l’approvazione di tutte le classi, può chiedere che il tribunale, andando di contrario avviso rispetto al commissario, accerti l’esito favorevole della votazione e omologhi il piano di ristrutturazione.
In luogo di detta richiesta il debitore può modificare la domanda, ai sensi dell’art. 64-quater, formulando una proposta di concordato e chiedendo che il tribunale pronunci il decreto previsto dall’art. 47; egli può procedere allo stesso modo se un creditore ha contestato il difetto di convenienza nelle osservazioni formulate ai sensi dell’art. 107, comma 4.
Simmetricamente, si prevede infine che il debitore che ha presentato la domanda di concordato preventivo possa modificarla chiedendo l’omologazione del piano di ristrutturazione sino a che non siano iniziate le operazioni di voto.
Il d. lgs. n. 83/2022 ha inoltre aggiunto al Capo III la Sezione VI-bis, rubricata “Degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società”.
In essa si stabilisce, fra l’altro, che l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano. La decisione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata e iscritta nel registro delle imprese. Dall’iscrizione della decisione nel registro delle imprese e fino alla omologazione la revoca degli amministratori è inefficace, a meno che ricorra una giusta causa. Non costituisce giusta causa la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge. La deliberazione di revoca deve essere approvata con decreto dalla sezione specializzata del tribunale delle imprese competente, sentiti gli interessati. In tal modo la disciplina di questa peculiare ipotesi di revoca degli amministratori viene ad essere sostanzialmente assimilata a quella dei sindaci[10], all’insegna di una rafforzata stabilità della carica nell’ottica di rendere i gestori della società per quanto possibile indipendenti, rispetto alla decisione di cui trattasi, dal gruppo di comando che li ha nominati. Ciò che appare coerente con l’esigenza di evitare che i soci, opportunisticamente, “estraggano valore” dalla ristrutturazione a scapito dei creditori.
In base a questo nuovo assetto, non risulta configurabile una clausola statutaria attributiva della decisione in parola ai soci: ciò che invece continua ad essere possibile, ad onta dell’armonia del sistema, in materia di concordato nella liquidazione giudiziale (art. 265).
Altra previsione innovativa è quella di cui al comma 5, in base al quale i soci che rappresentano almeno il 10% del capitale sono legittimati alla presentazione di proposte concorrenti ai sensi dell’art. 90. La domanda è sottoscritta da ciascun socio proponente. Al riguardo, in relazione all’accesso alle informazioni parrebbe applicabile, ancorché non espressamente richiamato, l’art. 92.
Ai sensi dell’art. 120-ter (“Classamento dei soci e dei titolari di strumenti finanziari”), poi, lo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza può prevedere la formazione di una classe di soci o di più classi se esistono soci ai quali lo statuto, anche a seguito delle modifiche previste dal piano, riconosce diritti diversi.
La formazione delle classi di cui al comma 1 è obbligatoria se il piano contempla modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci e, in ogni caso, per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.
I soci, inseriti in una o più classi, esprimono il proprio voto nelle forme e nei termini previsti per l'espressione del voto da parte dei creditori. All’interno della classe il socio ha diritto di voto in misura proporzionale alla quota di capitale posseduta anteriormente alla presentazione della domanda. Il socio che non ha espresso il proprio dissenso entro il suddetto termine si ritiene consenziente (nel che risiede un’ipotesi tipica di silenzio-assenso).
Le disposizioni di questo articolo si applicano, in quanto compatibili, ai titolari di strumenti finanziari, a eccezione di quelli che attribuiscono il diritto incondizionato al rimborso, anche solo parziale, dell’apporto.
Merita ancora segnalare l’art. 120-quater, che disciplina l’omologazione del concordato con attribuzioni ai soci (anche se sarebbe stato opportuno rendere applicabile la norma anche agli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa).
Fermo quanto previsto dall’articolo 112, se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda, il concordato, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.
Il comma 2 precisa opportunamente che per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguente all’omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma.
I soci possono opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria.
L’art. 120-quinquies, infine, stabilisce che è il provvedimento di omologazione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza a determinare la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano, a demandare agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione e ad autorizzarli a porre in essere, nei successivi trenta giorni o nel diverso termine previsto dal piano, le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano (nel che è dato ravvisare una spiccata “concorsualizzazione” dei fenomeni societari menzionati dalla norma)[11]. In mancanza il tribunale, su richiesta di qualsiasi interessato e sentiti gli amministratori, può nominare un amministratore giudiziario, attribuendogli i poteri necessari a provvedere in luogo di costoro agli adempimenti di cui al presente articolo, e disporre la revoca per giusta causa degli amministratori.
3. Nozioni di “crisi” e di “strumenti di regolazione”
La nozione di crisi è in assoluto fra le più travagliate dell’ordinamento concorsuale quale è venuto evolvendo negli ultimi anni[12].
È a tutti noto che il vecchio art. 160, l. fall., astenendosi da definizioni di sorta, si limitava a precisare che per stato di crisi doveva intendersi anche quello di insolvenza, instaurando così fra i due concetti un rapporto di genere a specie.
Il legislatore del codice ha optato, fin dalla versione del 2019, per una nozione autonoma di crisi, definita in allora come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
Il Decreto correttivo del 2020 aveva poi sostituito il termine “difficoltà” (in effetti un po’ troppo assonante con il presupposto oggettivo della vecchia amministrazione controllata) con “squilibrio”[13], maggiormente sintonico ad analoghe espressioni della legislazione in materia, quali “riequilibrio” della situazione finanziaria proprio degli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, o “recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali” di cui alla disciplina dell’amministrazione straordinaria (art. 27, d. lgs. n. 270/1999).
La predetta formulazione ha dato vita, nelle fila degli aziendalisti non meno che in quelle dei giuristi, a un serrato dibattito, anche con riferimento al persistente ricorso all’avverbio “regolarmente” e, soprattutto, all’ambiguo aggettivo “pianificate”, con la conseguente assenza di un orizzonte temporale certo.
La definizione che si è poi preferita in via definitiva – “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi” – mantiene una componente “ontologica”, coincidente con la probabilità di insolvenza (likelihood of insolvency) e una “fenomenologica” (o “epifanica”), relativa al suo modo di manifestarsi. È invece venuto meno l’avverbio “regolarmente”, con il che si potrà far fronte alle obbligazioni a) non integralmente; b) non puntualmente; c) anche con mezzi non normali di pagamento; e si è stabilito l’orizzonte annuale (in luogo della precedente ipotesi semestrale) di tale adempimento, simmetricamente, fra l’altro, a quanto disposto dall’art. 3 a proposito di emersione tempestiva della crisi (“la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi”).
Orbene, la discontinuità rispetto al regime previgente, in cui l’insolvenza era un sottoinsieme di una crisi non altrimenti definita, è eclatante. Senza arrivare ad affermare, come pure è stato sostenuto, che oggi il rapporto di genere a specie si è sostanzialmente capovolto, non par dubbio che la nozione di crisi sia ricavata attraverso l’aggancio all’insolvenza, di tal che un’impresa versa in semplice stato di crisi e non è ancora insolvente quando la sua condizione (economico-finanziaria) rende probabile il verificarsi di un vero e proprio stato di insolvenza; in ciò distinguendosi dalla c.d. insolvenza prospettica (sebbene il diaframma fra le due risulti spesso, in concreto, alquanto sottile), che è sostanzialmente certa nel suo imminente inverarsi (e non, appunto, meramente probabile).
Sul versante della gestione dell’impresa (di cui si dirà nel paragrafo successivo) e dei suoi assetti adeguati, si è giustamente osservato, nella dottrina aziendalistica, che “si introduce così un concetto probabilistico di insolvenza, che implica una vigilanza preventiva su questo rischio, sollevando l’esigenza da parte dell’organo amministrativo di contrastare un rischio di insolvenza, che può essere previsto sulla base di opportuni parametri e indizi rivelatori. Si vuole quindi internalizzare, con l’istituzionalizzazione di un nuovo profilo di rischio (il “rischio” di insolvenza futura), un’attività di presidio rafforzata, condotta dall’imprenditore o dall’organo amministrativo, con la vigilanza, ai fini di eventuali segnalazioni, degli organi di controllo”[14].
Come si diceva, la definizione dei presupposti oggettivi degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza si esaurisce, nell’ambito dell’art. 2, nei concetti di crisi e insolvenza.
Ciò non toglie che nel codice sia riscontrabile, al di fuori dell’art. 2, un’altra nozione, che potrebbe definirsi di pre-crisi e che viene in evidenza con riguardo alla composizione negoziata. Ed infatti, dal tenore dell’art. 12 si evince che tale condizione è data da quello squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rende probabile la crisi. Il caso tipico sembra rappresentato dall’imprenditore sano che si trovi nondimeno in temporanea e non grave difficoltà finanziaria, come tale non integrante gli estremi dello stato di crisi vero e proprio.
Accanto alle nozioni di crisi e insolvenza, dunque, può collocarsi quella di pre-crisi, definibile precisamente come condizione di squilibrio che rende probabile la crisi; pur essendo evidente – manco a dirlo – che nella realtà sono ravvisabili numerose “zone grigie” rispetto alle quali le suddette distinzioni, nitide sul piano concettuale, finiscono in concreto per scolorire sensibilmente.
Quanto infine agli “strumenti di regolazione della crisi”, il legislatore ha optato per questa denominazione del Titolo IV del codice in luogo di quella proposta dalla Commissione di riforma (“quadri di ristrutturazione preventiva”), la quale presentava in effetti il limite di non ricomprendere al proprio interno le ipotesi liquidatorie.
Esaminando quindi il contenuto del Titolo IV si evince che nei suddetti “strumenti” rientrano: (i) gli accordi, vale a dire il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione, la convenzione di moratoria e gli accordi su crediti tributari e contributivi; (ii) il piano di risanamento soggetto ad omologazione; (iii) le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento; (iv) il concordato preventivo.
Ne resta correttamente esclusa la composizione negoziata, non a caso disciplinata in via autonoma dal Titolo II, che in base alla nozione di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” può costituire l’antecedente di questi ultimi, definiti infatti come le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività che, a richiesta del debitore, possono essere preceduti dalla composizione negoziata della crisi (art. 2, lett. m-bis).
4. Gestione dell’impresa nella composizione negoziata e “durante i procedimenti”
Fra le questioni di maggior interesse sistematico, anche dal punto di vista del diritto societario della crisi, vi è quella della gestione dell’impresa in difficoltà economico-finanziaria.
In proposito l’art. 4 del codice (“Doveri delle parti”) stabilisce, al secondo comma, che il debitore ha fra l’altro il dovere di (i) assumere tempestivamente le iniziative idonee alla individuazione delle soluzioni per il superamento delle condizioni di cui all’art. 12, comma 1, durante la composizione negoziata, e alla rapida definizione dello strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza prescelto, anche al fine di non pregiudicare i diritti dei creditori; (ii) gestire il patrimonio o l’impresa durante i procedimenti nell’interesse prioritario dei creditori.
Con specifico riferimento alla composizione negoziata, l’art. 21 (“Gestione dell’impresa in pendenza delle trattative”) sancisce il seguente principio in tema di gestione dell’impresa, diversamente declinato a seconda delle condizioni in cui versa il debitore.
L’imprenditore in stato di crisi gestisce l'impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell'attività. Quando invece risulta, nel corso della composizione, che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori. Restano ferme le responsabilità dell'imprenditore.
Si noti intanto che la situazione cui fa riferimento in via generale l’art. 4 è espressamente mutuata dalla norma (l’art. 12) in tema di composizione negoziata: sono quindi le “condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario” che rendono probabile la crisi o l’insolvenza dell’imprenditore a far scattare l’obbligo di assumere a tempo debito le iniziative idonee a superare dette condizioni, nella prospettiva e con la finalità – pur non esclusive – di non recare danno ai creditori. Ciò vale anche, alla luce del disposto dell’art. 12, per l’imprenditore che versi in una condizione di c.d. pre-crisi, laddove in base all’art. 21 sembra essere solo l’imprenditore in stato di crisi che deve scongiurare pregiudizi alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività.
Per come la predetta disposizione è formulata e “strutturata”, essa sembra integrare non già un fine quanto piuttosto un vincolo.
L’aspetto di maggiore rilevanza risiede, a ben vedere, nella “curvatura” da imprimere alla gestione nell’interesse dei creditori e nel quando ciò debba aver luogo.
In base all’art. 4, la gestione del patrimonio o dell’impresa nell’interesse prioritario dei creditori è espressamente riferita, come si diceva, alla pendenza dei “procedimenti” (composizione negoziata e strumenti di regolazione della crisi), con il che risulta arduo, a rigore, predicarne la necessità in un momento anteriore.
Analogamente, l’art. 21 richiede che l’impresa venga gestita nel prevalente interesse dei creditori solo nel caso in cui risulti che l’imprenditore è insolvente.
Dal combinato disposto delle due norme sembra potersi trarre un corollario gravido di implicazioni sul piano sistematico: l’impresa in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, o di vera e propria crisi (già in atto), va gestita in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità dell’attività e quindi alle ragioni dei creditori, ma non anche nell’interesse prioritario o prevalente[15] di costoro; quest’ultimo obbligo scatta infatti esclusivamente al cospetto di uno stato di insolvenza.
È dunque chiaro che la predetta distinzione non può non avere ricadute sulla c.d. business judgement rule, dal momento che non potrà censurarsi il comportamento di quegli amministratori – e di quei sindaci sotto il profilo dell’ipotetica culpa in vigilando – che, pur nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 4 e 21 (quest’ultimo nel caso di composizione negoziata), non abbiano gestito la società nell’interesse prioritario o prevalente dei creditori. Con la precisazione, pur forse superflua, che all’atto pratico spesso non è agevole distinguere fra le due situazioni di crisi e insolvenza, venendo per lo più in evidenza, secondo l’id quod plerumque accidit in termini di patologia delle situazioni, l’obbligo di evitare l’aggravamento del dissesto.
5. I tratti salienti della nuova disciplina del concordato preventivo.
Fra le disposizioni più significative del CCI come da ultimo novellato vi è sicuramente l’art. 84[16], il quale racchiude il nucleo dell’istituto concordatario, individuandone le finalità e le tipologie di piano.
L’imprenditore assoggettabile a liquidazione giudiziale che si trovi in stato di crisi o di insolvenza può proporre un concordato che, sulla base di un piano (il cui contenuto è tipizzato dall’art. 87), realizzi il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale (c.d. criterio di equivalenza o non deteriorità del trattamento).
La finalità del concordato risiede quindi nel necessario perseguimento della soddisfazione dei creditori e solo al cospetto di ciò l’imprenditore può ricorrere a tale strumento per evitare l’insolvenza oppure, quando questa è già in atto, per scongiurare la liquidazione giudiziale. A questi precipui fini risponde l’istituto concordatario; anche se, come vedremo subito in appresso, possono esservi interessi ulteriori rispetto a quelli dei creditori che la legge mira dichiaratamente a tutelare.
L’anzidetto obiettivo del soddisfacimento dei creditori può essere realizzato mediante:
a) la continuità aziendale;
b) la liquidazione del patrimonio;
c) l’attribuzione delle attività ad un assuntore;
d) qualsiasi altra forma.
Nel concordato con continuità aziendale ciò che preme al legislatore è, giustamente, preservare la prosecuzione dell’attività, puntandosi al recupero della capacità dell’impresa, una volta risanata, di rientrare nel mercato.
Il secondo comma dell’art. 84 esordisce con il seguente precetto: “La continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro”. La norma enuclea in tal modo gli interessi tutelati dalla continuità[17], ove trova posto, accanto alla prioritaria tutela del ceto creditorio, la conservazione (per quanto possibile) dei livelli occupazionali, con una previsione foriera di evidenti implicazioni sul piano sistematico[18].
La disposizione di cui trattasi contiene poi la rilevante distinzione fra continuità diretta e continuità indiretta, basata sul diverso soggetto che, a seconda dell’impostazione del piano concordatario, si fa carico della conduzione dell’attività d’impresa. Ed infatti, la continuità è diretta nel caso di prosecuzione dell’attività d’impresa da parte dell’imprenditore che ha presentato la domanda di concordato; indiretta, se nel piano è prevista la gestione dell’azienda in esercizio, o la ripresa dell’attività, da parte di soggetto diverso dal debitore: il che può avvenire in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, o a qualunque altro titolo.
Nel concordato in continuità aziendale – prosegue l’art. 84 – i creditori possono essere soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta. Si tratta di una precisazione importante, perché consente di prescindere da un criterio puramente quantitativo (prevalenza della componente in continuità su quella liquidatoria) che avrebbe creato forti difficoltà tutte le volte in cui i flussi derivanti dalla continuità fossero risultati inferiori a quanto ricavabile dalla dismissione di determinati beni (tipicamente: la porzione di compendio immobiliare non strumentale all’attività).
Si è già ricordato che l’art. 84, comma 1, sancisce il principio di equivalenza o non deteriorità del trattamento dei creditori nel concordato rispetto a quello che avrebbero nella liquidazione giudiziale. Di qui la necessità, prescritta dall’art. 87, lett. c), che il piano concordatario indichi, attraverso apposita stima, il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale.
Orbene, per quanto attiene all’allocazione di tale valore a beneficio dei creditori, l’art. 84, ai commi 6 e 7, stabilisce, relativamente al concordato in continuità (per il quale – come vedremo – è obbligatoria la suddivisione in classi), quanto segue:
(i) il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quello di liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore;
(ii) i crediti dei lavoratori subordinati sono soddisfatti nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione sul valore di liquidazione e sul valore eccedente il valore di liquidazione.
La norma consente in tal modo di superare le non lievi incertezze che erano in passato venute a crearsi in materia.
Lo spartiacque prescelto è imperniato sulla natura delle risorse allocabili: la distribuzione del valore di liquidazione deve seguire la regola della c.d. priorità assoluta, mentre il “plusvalore da continuità” può essere distribuito sulla base del criterio della c.d. priorità relativa, secondo il quale – come si è detto – è sufficiente che i crediti di una classe siano pagati in misura uguale alle classi di pari grado e in misura maggiore di quelle di rango inferiore[19].
Il descritto trattamento dei lavoratori, infine, è improntato alla c.d. clausola di non regresso (di matrice unionale), diretta a impedire la riduzione dei diritti riconosciuti a questa categoria di crediti dagli ordinamenti nazionali, com’è appunto nel caso di quello italiano.
Con riferimento al concordato liquidatorio, va in particolare ricordato che il comma quarto dell’art. 84 prende in considerazione l’ipotesi in cui un soggetto diverso dal debitore apporti al concordato utilità economiche ulteriori rispetto al patrimonio dell’imprenditore. Si tratta delle cc.dd. risorse esterne, fra cui la legge menziona – data la loro importanza nella pratica – quelle immesse in società dai soci senza obbligo di restituzione o con vincolo di postergazione, di cui il piano prevede la diretta destinazione a vantaggio dei creditori concorsuali.
Ebbene, con riferimento alle predette risorse esterne la legge – codificando un precedente orientamento giurisprudenziale – chiarisce che possono essere distribuite in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c., purché sia rispettato il requisito del 20%. Ciò significa, in particolare, che nel destinarle ai creditori non si è tenuti ad osservare la precedenza a beneficio dei privilegiati, potendo anzi tali risorse essere attribuite interamente ai chirografari.
Con una previsione – l’art. 87, comma 2 – riferita in realtà alla domanda di concordato e non al piano, si prescrive che il debitore, per l’appunto nella domanda, indichi le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale.
In proposito si deve ribadire che un concetto-cardine della disciplina del concordato è rappresentato dalla equivalenza/non deteriorità del trattamento rispetto a quello realizzabile nella liquidazione giudiziale, essendosi voluto con ciò superare, per il concordato in continuità, il criterio del miglior soddisfacimento dei creditori. Ciò rende non del tutto sintoniche, a ben vedere, le previsioni che postulano la preferibilità del concordato rispetto ad altre soluzioni. Non vi era in effetti alcuna necessità da parte del legislatore, come già altrove osservato[20], di richiedere che il concordato fosse preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale, quando il resto della disciplina – come si è venuto chiarendo – è invece imperniata sul principio della non deteriorità del trattamento, sicché tale ulteriore – e per l’appunto non indispensabile – requisito rischia di costituire un’aporia rispetto al resto del sistema.
Analogamente a quanto previsto dal codice riguardo al piano di risanamento, al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione e ai vari “tipi” di accordi di ristrutturazione dei debiti, anche nel concordato preventivo il piano dev’essere, inderogabilmente, attestato da un professionista indipendente (secondo la definizione di cui all’art. 2, lett. o).
Nello stabilire ciò, l’art. 87, comma 3, enuclea l’oggetto di tale attestazione, il quale viene declinato in svariati profili che vanno scrutinati dall’attestatore con la debita diligenza, pena la propria responsabilità civile e penale.
I primi due aspetti riguardano tutte le tipologie di concordato e consistono, classicamente, nella veridicità dei dati aziendali e nella fattibilità del piano, intesa, alla luce dell’art. 7, come non manifesta inadeguatezza al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Con esclusivo riferimento al concordato in continuità, poi, la norma sancisce che il relativo piano dev’essere atto a (i) impedire o superare l’insolvenza del debitore; (ii) garantire la sostenibilità economica dell’impresa; (iii) riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.
Il disposto dell’art. 87, comma 3, riveste – com’è chiaro – un’importanza centrale, dal momento che in esso si rinviene la declinazione dei precetti-chiave in tema di continuità aziendale, che vanno oltre quello di fattibilità del piano (autonomamente prescritta dalla disposizione in esame, unitamente alla veridicità dei dati aziendali, senza distinzioni – si ripete – fra tipologie di concordati) e che costituiscono il nucleo stesso dell’attestazione in rapporto alla risanabilità[21] dell’impresa e alla tutela minima del ceto creditorio.
Il piano di concordato – recita l’art. 85 – può prevedere la suddivisione dei creditori in classi, con trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse.
La legge stabilisce inoltre che tale suddivisione in classi è obbligatoria (i) per i creditori titolari di crediti tributari e previdenziali dei quali non sia previsto l'integrale pagamento; (ii) per i creditori titolari di garanzie prestate da terzi; (iii) per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro; (iv) per i creditori proponenti il concordato e per le parti ad essi correlate.
Altra novità estremamente rilevante consiste nell’obbligatorietà delle classi nel caso di concordato in continuità. E in proposito la norma precisa che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, interessati dalla ristrutturazione perché non ricorrono le condizioni di cui all’art. 109, comma 5, sono suddivisi in classi e le imprese minori, titolari di crediti chirografari derivanti da rapporti di fornitura di beni e servizi, sono inserite in classi separate.
Per quanto riguarda poi la votazione, ai sensi dell’art. 109, salvo quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dal comma 5, il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Nel caso in cui un unico creditore sia titolare di crediti in misura superiore alla maggioranza dei crediti ammessi al voto, il concordato è approvato se, oltre alla maggioranza di cui al primo periodo, abbia riportato la maggioranza per teste dei voti espressi dai creditori ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se la maggioranza dei crediti ammessi al voto è raggiunta inoltre nel maggior numero di classi.
Quando sono poste al voto più proposte di concordato, si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Quando nessuna delle proposte concorrenti poste al voto sia stata approvata con le prescritte maggioranze il giudice delegato rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto per posta elettronica certificata.
Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore. In ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto oppure, in mancanza, se hanno votato favorevolmente i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe. In caso di mancata approvazione si applica l’articolo 112, comma 2. I creditori muniti di diritto di prelazione non votano se soddisfatti in denaro, integralmente, entro centottanta giorni dall’omologazione, e purché la garanzia reale che assiste il credito ipotecario o pignoratizio resti ferma fino alla liquidazione, funzionale al loro pagamento, dei beni e diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. Nel caso di crediti assistiti dal privilegio di cui all’articolo 2751-bis, n. 1, del codice civile, il termine di cui al quarto periodo è di trenta giorni. Se non ricorrono le suddette condizioni i creditori muniti di diritto di prelazione votano e, per la parte incapiente, sono inseriti in una classe distinta.
Quanto infine al giudizio di omologazione[22], l’art. 112 definisce l’oggetto del controllo che il tribunale è chiamato a effettuare in vista dell’emissione del provvedimento di omologazione, stabilendo che occorre verificare:
a) la regolarità della procedura;
b) l’esito della votazione;
c) l’ammissibilità della proposta;
d) la corretta formazione delle classi;
e) la parità di trattamento dei creditori all’interno di ciascuna classe; nonché, nei concordati diversi da quello in continuità, la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Nel caso si tratti di concordato in continuità il tribunale verifica che tutte le classi abbiano votato favorevolmente, che il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori.
Sempre nel concordato in continuità aziendale, se una o più classi sono dissenzienti, il tribunale, su richiesta del debitore o con il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti, il tribunale omologa se ricorrono congiuntamente altresì le seguenti condizioni:
a) il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione;
b) il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore, fermo restando quanto previsto dall’art. 84, comma 7;
c) nessun creditore riceve più dell’importo del proprio credito;
d) la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione.
L’art. 112 passa poi a considerare l’ipotesi in cui uno o più creditori che abbiano espresso voto contrario al concordato propongano opposizione.
Nel concordato in continuità aziendale, se con l’opposizione un creditore dissenziente eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
In caso di opposizione proposta da un creditore dissenziente, la stima del complesso aziendale del debitore è disposta dal tribunale solo se con l’opposizione è eccepita la violazione della convenienza di cui al comma 3 o il mancato rispetto delle condizioni di ristrutturazione trasversale di cui al comma 2.
Nel concordato che prevede la liquidazione del patrimonio oppure l’attribuzione delle attività a un assuntore o in qualsiasi altra forma, se un creditore dissenziente appartenente a una classe dissenziente ovvero, nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, i creditori dissenzienti che rappresentano almeno il 20% dei crediti ammessi al voto, contestano la convenienza della proposta, il tribunale può omologare il concordato qualora ritenga che il loro credito possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
Per quanto concerne infine il caso di falcidia, nel piano, dei crediti tributari e previdenziali, ai sensi dell’art. 88, comma 2-bis, il tribunale omologa il concordato anche in mancanza di adesione da parte dell'amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie (c.d. cram down) quando l'adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all'articolo 109, comma 1, e, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente o non deteriore rispetto all'alternativa liquidatoria.
Tornando al caso in cui uno o più creditori, al fine di scongiurare l’omologazione del concordato contro cui si siano espressi, eccepiscano il difetto di convenienza della proposta si è detto che la domanda di concordato approvata dai creditori, quindi, non deve superare, ai fini dell’omologazione, il test di convenienza, ma (almeno) quello di “neutralità” degli effetti per i creditori opponenti in rapporto allo scenario alternativo indicato dalla legge.
Il problema tuttavia, come si è sovente constatato nella pratica, è di veder preclusa l’omologazione per il fatto che anche uno solo dei creditori dissenzienti dimostri che il proprio trattamento in ambito concordatario risulta deteriore a quello prospettabile in caso di liquidazione giudiziale. Ebbene questa conseguenza, improntata all’ipertutela del singolo creditore a scapito della maggioranza del ceto creditorio, nonché degli stakeholders coinvolti dal tentativo di salvataggio dell’impresa, è stata considerata “sbilanciata” dal legislatore in quanto effettivamente contrastante con il perseguimento del maggior “benessere collettivo” possibile.
Non si è tuttavia inserito un temperamento in tal senso nella disciplina del giudizio di omologazione in primo grado (come sarebbe stato forse preferibile, anche per ragioni di economia processuale), bensì nella sua fase di appello: l’art. 53, comma 5-bis, infatti, prevede che, in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante.
L’enucleazione, quale oggetto di specifica tutela, dell’interesse “generale dei creditori e dei lavoratori” costituisce – lo si diceva già in precedenza – un fatto inedito per il nostro ordinamento concorsuale e gravido di implicazioni sul piano sistematico. Ed invero, l’anzidetta previsione, insieme a quella in base alla quale la continuità aziendale “preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro” (art. 84, comma 2), sono idonee a incidere sui tratti fisionomici dell’istituto concordatario, finalizzando quello in continuità (anche) alla tutela dell’occupazione: pur sempre – beninteso – nel rispetto della tutela prioritaria dei creditori e quindi nei rigorosi limiti di compatibilità con essa.
Con riguardo, infine, alla nuova declinazione del principio di competitività nel concordato preventivo[23] (ma molti altri sarebbero gli aspetti da prendere in esame), può essere utile segnalare che la versione definitiva del codice ha opportunamente mantenuto la formulazione dell’art. 91, comma 1, che recita: “esclusivamente quando il piano di concordato comprenda un’offerta irrevocabile da parte di un soggetto già individuato”.
Ebbene, con l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” (assente nel vecchio art. 163 della legge fallimentare) il legislatore mira a superare l’annosa querelle circa l’ampiezza del perimetro applicativo della norma. Da quest’ultimo, pertanto, risultano oggi escluse ipotesi diverse da quella contemplate dalla norma, come è a dirsi dell’aumento di capitale sociale riservato a un terzo o del trasferimento della maggioranza delle partecipazioni sociali a soggetti diversi dai soci: casi nei quali è adesso chiaro che non debba trovare applicazione l’obbligo di procedura competitiva.
6. I nodi di fondo irrisolti: l’amministrazione straordinaria, la “selva non sfoltita” dei privilegi e la (mancata) specializzazione del giudice.
Un giudizio complessivo sul codice della crisi non può che attendere, evidentemente, la prova dei fatti, vale a dire un congruo lasso di tempo in cui le nuove disposizioni trovino applicazione e prendano in tal modo corpo i primi orientamenti giurisprudenziali e le prime prassi.
Volendo quindi limitarsi a un’impressione “preventiva” di larga massima, bisogna riconoscere che il codice si fa carico, per un verso, dell’annoso problema della tardiva emersione della crisi, affrontandolo in modo meno invasivo e macchinoso (anche se non propriamente lineare...) rispetto al decreto legislativo del 2019; per altro verso, dei dubbi interpretativi e delle criticità emerse in materia di soluzioni negoziate della crisi (e di concordato preventivo in particolare[24]). E anche qui con dei non trascurabili miglioramenti in confronto a previsioni – basti pensare a quella sulla fattibilità economica, sulla continuità indiretta e su quella non prevalente – all’indirizzo delle quali erano state formulate in dottrina (a partire dai contributi di chi scrive[25]) valutazioni schiettamente critiche e rispetto alle quali occorreva tener conto dei vincoli scaturiti dalla Direttiva[26].
Persistono, nondimeno, soluzioni non pienamente soddisfacenti, quali, nell’ambito del concordato preventivo, un soverchio sfavore per il piano liquidatorio e un’incongrua significatività del silenzio ai fini del voto, insieme a qualche dubbio, anche in termini di reale efficacia e appetibilità dello strumento, sulla figura dell’esperto nella composizione negoziata. Per non dire dell’impressione di eccessiva proliferazione di istituti, posta in evidenza pure dal parere reso da ultimo dal Consiglio di Stato. Anche se non sono da escludere interventi ulteriormente correttivi (non necessariamente su questi ultimi aspetti) cammin facendo.
Una considerazione di fondo, ad ogni modo, non può essere sottaciuta e attiene alle occasioni che questa riforma non è riuscita a cogliere (ma il vizio di origine muove, com’è noto, da più lontano).
In primo luogo, il carattere non pienamente organico della riforma, essendo rimasta esclusa dal suo perimetro, per via di resistenze di stampo politico opposte ai tempi della legge delega, la crisi delle grandi imprese, tuttora disciplinata dalle leggi sull’amministrazione straordinaria.
In secondo luogo, non è stata attuata quell’opera di razionalizzazione e sfoltimento dei privilegi, che costituiscono a tutt’oggi una selva eccessivamente fitta e intricata, continuando a rappresentare il principale vulnus alla parità di trattamento fra creditori, assai più della depotenziata revocatoria e del moltiplicarsi delle classi.
In terzo luogo, non ha purtroppo trovato attuazione il principio di specializzazione dei giudici, proprio quando l’asticella della preparazione richiesta ai professionisti viene collocata sempre più in alto.
E neppure si è riusciti a contestualizzare con il varo del codice l’intervento sulla normativa penale, essendo peraltro auspicabile un rapido e puntuale coordinamento fra le disposizioni penali e quelle civili, queste ultime costituendo l’imprescindibile sostrato delle prime.
Può dunque concludersi che accanto a qualche innegabile luce, frutto soprattutto degli interventi più recenti, non mancano nell’insieme, anche nel caso di questa novella, diverse ombre che si allungano sull’impianto riformatore, il quale nasce purtroppo all’insegna di ambizioni fortemente ridimensionate rispetto a quelle che animavano il mondo delle crisi d’impresa alla vigilia della legge delega e rispetto alle quali la riforma rappresenta, a ben vedere, un’occasione mancata, che oltre tutto potrebbe non ripresentarsi a breve.
[1] Per un’efficace sintesi v. V. Zanichelli, Commento a prima lettura del decreto legislativo 17 giugno 2022 n. 83 pubblicato in G.U. il 1 luglio 2022, in dirittodellacrisi.it, 1° luglio 2022.
[2] In coincidenza con il passaggio tra i due istituti cfr., in luogo di altri, S. Pacchi, L’allerta tra la reticenza dell’imprenditore e l’opportunismo del creditore. Dal Codice della crisi alla composizione negoziata, in Dir. fall., 2022, I, pp. 501 ss. (contributo anticipato su ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it), cui adde N. Rocco di Torrepadula, La composizione stragiudiziale (assistita o negoziata) della crisi, in AA.VV., Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021. Liber amicorum per Alberto Jorio, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2021, pp. 108 ss.; E. Desana, Le procedure di allerta (e cenni al loro probabile tramonto), ivi, pp. 87 ss.
[3] In argomento cfr. S. Ambrosini, La “miniriforma” del 2021: rinvio (parziale) del cci, composizione negoziata e concordato semplificato, in Dir. fall., 2021, I, pp. 901 ss.; R. Guidotti, La crisi d’impresa nell’era Draghi: la composizione negoziata e il concordato semplificato, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 8 settembre 2021; V. Minervini, La nuova “composizione negoziata” alla luce della direttiva “insolvency”. Linee evolutive (extracodicistiche) dell'ordinamento concorsuale italiano,in Dir. fall., 2022, I, pp. 251 ss.; nonché, su aspetti più specifici, G. Fauceglia, Le conclusioni delle trattative: riflessioni sull’art 11, 1° comma, lett. a), L. n. 147/2021, ivi, I, pp. 553 ss.; C. Cincotti, Gli assetti organizzativi, amministrativi e contabili nella composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, ivi, pp. 567 ss.; F. Angiolini, Sopravvenienze contrattuali e composizione negoziata: quali rimedi?, ivi, pp. 585 ss., ai quali si aggiungano, ex aliis, L. Panzani, I limiti all’autonomia negoziale nella disciplina della crisi, in AA.VV., Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021. Liber amicorum per Alberto Jorio, cit., pp. 201 ss.; I. Pagni – M. Fabiani, Introduzione alla composizione negoziata, in Fallimento, 2021, pp. 1477 ss.
[4] In argomento, fra gli altri, P. F. Censoni, Il concordato «semplificato»: un istituto enigmatico, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 22 febbraio 2022; G. Bozza, Il 'concordato semplificato' introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche, dalla L. n. 147 del 2021, in fallimentiesocietà.it, 2 marzo 2022.
[5] Sul punto si era manifestata, all’indomani della “miniriforma” del 2021, “la sensazione che la tipologia liquidatoria sia stata un po’ troppo frettolosamente ‘archiviata’ dal codice della crisi trova conferma nella decisione, di segno opposto, adottata dal decreto qui in commento, il quale mira anzi a valorizzarla attraverso il disposto degli artt. 18 e 19” (S. Ambrosini, Il concordato semplificato: primi appunti, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 23 settembre 2021, p. 2.
[6] Parere del Consiglio di Stato n. 832 del 13 maggio 2022, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 13 maggio 2022.
[7] Per una disamina puntuale, seppur riferita a un testo anteriore alla versione definitiva della disciplina, cfr. G. Bozza, Il Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, in dirittodellacrisi.it, 7 giugno 2022, nonché, per un’efficace sintesi, S. Pacchi, Piano attestato di risanamento e piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, in S. Pacchi – S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2022.
[8] La precedente versione della norma quale varata dalla Commissione di riforma consentiva al debitore di poter distribuire liberamente i valori patrimoniali tra i creditori, prevedendo la deroga ai soli art. 2740 e 2741 c.c.; e questo richiamo risultava “fuorviante perché la deroga sembrerebbe toccare soltanto il principio della par condicio e non quello della inalterabilità delle cause di prelazione, che esprimono concetti diversi” (G. Bozza, op. ult. cit., p. 3).
[9] Contra G. Bozza, op. ult. cit., pp. 6-7.
[10] In proposito cfr. S. Ambrosini, Collegio sindacale: nomina, composizione e funzionamento, in N. Abriani – S. Ambrosini – O. Cagnasso – P. Montalenti, Le società per azioni, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, IV, 1, Padova, 2010, pp. 742 ss.
[11] In dottrina si è parlato, con riguardo a diversi aspetti, di “insolvencification” del diritto societario: A. A. Awwad, Concorrenza fra ordinamenti e diritto della crisi d’impresa, in AA.VV., Contenuto e limiti dell’autonomia privata in Germania e in Italia, a cura di F. Bordiga e H. Wais, Torino, 2021, pp. 237-238.
[12] Fra i molti saggi giuridici sul tema cfr., anche per riferimenti, G. Terranova, Stato di crisi, stato d'insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall., 2006, I, pp. 569 ss.; Id., Insolvenza, stato di crisi, indebitamento, Torino, 2013; G. Presti, Stato di crisi e stato di insolvenza, in Crisi d'impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, I, Milano, 2016, pp. 400 ss.; S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in Focus e anteprime sulla riforma fallimentare, in Dir. fall. (online), 2020, pp. 1 ss. (pubblicato anche, con integrazioni e aggiornamenti, inDiritto dell’impresa in crisi, Pisa, 2022, pp. 1 ss.); S. Fortunato, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, ivi, 2021, I, pp. 3 ss.; B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in AA.VV., Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il d.l. 118/2021. Liber amicorum per Alberto Jorio, cit., pp. 72 ss.
[13] Con riferimento all’opposto concetto di equilibrio, si è da ultimo osservato, in via di estrema sintesi, nella letteratura aziendalistica: “possiamo definire l’equilibrio economico come quella situazione in cui l’azienda, dopo avere remunerato in modo congruo tutti i fattori produttivi impiegati nella produzione, riesce ad ottenere un margine residuale (utile) che sia funzionale al raggiungimento degli obiettivi del soggetto economico (alias imprenditore, per usare termini più familiari al linguaggio giuridico). Se poi alla dimensione economica si aggiunge la dimensione finanziaria, essenziale laddove si tratti della crisi e della insolvenza, a tale definizione deve aggiungersi la circostanza che questo margine si concretizzi nella generazione di un flusso di cassa operativo tale da permettere il costante rinnovo e, possibilmente, la crescita, della struttura produttiva ed il rimborso dei finanziamenti acquisiti” (così A. Quagli, Sulla necessaria rimodulazione nel Codice della Crisi degli indicatori e indici della crisi, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 28 agosto 2021, p. 3).
[14] P. Bastia, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 27 luglio 2021, p. 2.
[15] S. Ambrosini, Doveri degli amministratori e azioni di responsabilità alla luce del Codice della Crisi e della “miniriforma” del 2021, in dirittobancario.it, 11 novembre 2021, p. 23 ove si è rimarcato, sul piano terminologico, “l’utilizzo del termine ‘prevalente’ in luogo di ‘prioritario’, adoperato invece, come si diceva, dal codice della crisi. La distinzione potrebbe non rappresentare, in realtà, solo una sfumatura di tipo lessicale: quest’ultimo aggettivo viene infatti definito nei vocabolari come ciò che ‘deve avere la precedenza su tutto; che deve essere svolto o realizzato prima di ogni altra cosa’, laddove per ‘prevalente’ s’intende ciò ‘che ha maggiore diffusione, importanza o consistenza; predominante, preminente, dominante’. Sembra ne consegua, quindi, una lievemente minor pregnanza del concetto di prevalenza rispetto a quello di priorità, di tal che l’interesse dei creditori, anziché essere perseguito prima di ogni altro, deve semplicemente risultare preminente rispetto agli altri, pur perseguibili in contestualità. Va peraltro soggiunto che, all’atto pratico, la differenza non comporta, verosimilmente, particolare rilevanza”.
[16] Su questa previsione, appunto centrale nella nuova sistematica dell’istituto, i primi contributi sono quelli di S. Leuzzi, Appunti sul Concordato Preventivo ridisegnato, in dirittodellacrisi.it, 5 maggio 2022, e S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 9 maggio 2022.
[17] Sul punto S. Ambrosini, Concordato preventivo e soggetti protetti nel codice della crisi dopo la Direttiva Insolvency: i creditori e i lavoratori, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1° giugno 2022.
[18] Cfr. A. Maffei Alberti, Crisi dell’impresa e continuazione dell’attività, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 29 gennaio 2022, il quale, de jure condendo, aveva lucidamente osservato: “Se la visione prospettica della procedura di amministrazione straordinaria sembra troppo focalizzata sulla prosecuzione dell’attività, a scapito dei creditori anteriori, la disciplina del concordato in continuità sembra troppo focalizzata sulla tutela di questi ultimi. Non resta che augurarci che possa essere raggiunta una più efficace mediazione tra i contrapposti interessi, che oggi appaiono ancora troppo distanti” (p. 12).
[19] Sul tema, fra gli altri, D. Vattermoli, Concordato con continuità aziendale, Absolute Priority Rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm.,2014, II, pp. 331 ss.; G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Fallimento, 2020, pp. 1072 ss.
[20] Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, cit., p. 7.
[21] In argomento si vedano, fra i contributi più recenti, V. Minervini, Il (necessario) ripensamento delle procedure concorsuali dopo il “lockdown”: dal concetto di “insolvenza” a quello di “risanabilità”?, in Dir. fall., 2020, I, pp. 965 ss.; E. Ricciardiello, Sustainability and going concern, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it., 13 ottobre 2021.
[22] In argomento cfr. M. Fabiani, L’omologazione del nuovo concordato preventivo, in Fallimento, 2020, pp. 1314 ss.
[23] Sul quale si segnala, anche per riferimenti, il lavoro monografico di M. Aiello, La competitività nel concordato preventivo, Torino, 2019.
[24] In luogo di altri A. Jorio, Ragionando sul concordato preventivo. Alcuni consigli (non richiesti) ai conditores, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2 marzo 2022.
[25] Il nuovo concordato preventivo: "finalità", "presupposti" e controllo sulla fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale), in ilcaso.it, 25 febbraio 2019; Criterio di prevalenza, fattibilità economica, ipertutela dei privilegiati, silenzio-diniego: quattro “tabù” da sfatare nel concordato preventivo che verrà, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 7 marzo 2022.
[26] E si veda al riguardo l’interessante e accurato contributo di P. Vella, La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1° gennaio 2022.