Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

La risoluzione dei contrasti sulla gestione nella s.r.l. (dopo l’entrata in vigore del codice della crisi) **


Rolandino Guidotti e Giulia Raffaelli

Data pubblicazione
15 agosto 2022

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Sommario: 1. Premessa. – 2. La natura dell’istituto. – 3. I limiti di applicazione della norma e l’esclusione della società per azioni. – 4. I soggetti ai quali può essere devoluta la risoluzione della lite e il requisito di “imparzialità” degli stessi. – 5. Il procedimento di risoluzione del contrasto. – 6. La natura della decisione. – 7. Reclamo e impugnazione della decisione. – 8. La responsabilità degli amministratori. – 9. La responsabilità degli arbitratori. – 10. Le questioni collegate - 11. L’accesso agli strumenti di regolamentazione della crisi e dell’insolvenza


1. Premessa

L’art. 37 del d.lgs. n. 5 del 2003 disciplina la risoluzione dei contrasti sulla gestione prevedendo[1] che (a) gli atti costitutivi delle sole società a responsabilità limitata e delle società di persone possano anche contenere clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società[2].

La medesima norma dispone poi (b) che gli atti costitutivi possano prevedere che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio, nei termini e con le modalità stabilite dallo statuto stesso; che (c) gli atti costitutivi possano altresì prevedere che il soggetto o il collegio chiamato a dirimere i contrasti, di cui al primo e al secondo comma, possa dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli; che (d) la decisione resa ai sensi della norma sia impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2, c.c. che, a sua volta, dispone che la determinazione, rimessa al mero arbitrio del terzo, non si possa impugnare se non provando la sua mala fede.

L’istituto in esame è stato denominato in vario modo: la relazione governativa si esprimeva in termini di “arbitrato c.d. economico”[3]; la dottrina ha parlato di “arbitrato gestionale”[4]; di “arbitrato economico-gestionale”[5] o di “arbitraggio c.d. economico”[6].

Sicuramente la disciplina tracciata dal legislatore – anche in considerazione dell’assoluta novità dell’istituto per il nostro ordinamento societario nel momento in cui fu introdotta e, più in generale, per il diritto dell’impresa[7] - avrebbe potuto essere più articolata tanto che si è parlato – già allora - di disciplina «gravemente lacunosa»[8]; le lacune nel corso del tempo non sono mai state colmate e forse anche per questo l’istituto non risulta essere stato molto utilizzato nella pratica.

La relazione governativa - dopo aver ricordato che l’istituto in esame è «da annoverare tra quelli che non direttamente dirimono “controversie” ai sensi dell’art. 806 c.p.c.» e che il suo ambito di applicazione è limitato, come si è già ricordato, alle società a responsabilità limitata e alle società di persone[9] – testualmente dispone che l’arbitrato c.d. economico è stato introdotto «secondo quanto appare consentito dalle principali direttive della l. 366/2001, vale a dire l’art. 1, commi 1 e 2 (oltre che non vietato dall’art. 12)».

La giustificazione della relazione all’introduzione dell’istituto non convince[10] ancora oggi a distanza di tempo. I primi due commi della legge appena citata non considerano neppure indirettamente l’istituto in esame; inoltre le disposizioni di cui sopra non fanno riferimento alle società di persone, ma solo alle società di capitali ed alle cooperative; come indica la relazione stessa, l’art. 12 della l. 366/01 si limita poi, per quanto interessa in questa sede, a non contenere una norma che vieti l’istituto introdotto dall’art. 37.

La norma pare quindi viziata da un eccesso di delega per quanto riguarda le società personali sulla disciplina delle quali il legislatore in forza dei primi due commi dell’art. 1 della l. 366/01 non avrebbe potuto intervenire; l’assenza di arresti giurisprudenziali editi ha forse impedito l’emersione del problema.

La disposizione avrebbe forse potuto essere collocata o meglio “spostata” anche dalle recenti riforme, limitata nell’applicazione come appena indicato, all’interno della disciplina sostanziale dell’amministrazione della società a responsabilità limitata[11].

Si tratta all’evidenza di una norma rivolta a “cercare efficienza” nel funzionamento dell’organo amministrativo e, sotto questo profilo, quindi, compatibile – lo si dirà meglio nel seguito - con le disposizioni del codice della crisi che, con scelta di natura manageriale, avocano al solo organo gestorio la decisione degli strumenti di ristrutturazione da adottare.

 

2. La natura dell’istituto

La dottrina è praticamente concorde nell’escludere che la fattispecie di cui all’art. 37 sia un’ipotesi di arbitrato e nel ritenere di individuare nella norma in esame una ipotesi di arbitraggio[12]; si può ricordare come la distinzione tra arbitraggio e arbitrato sia ravvisata dalla nostra giurisprudenza nel fatto che con l’arbitrato le parti attribuiscono agli arbitri il compito di risolvere divergenze insorte in ordine ad un rapporto precostituito in tutti i suoi elementi in ciò esplicando una funzione essenzialmente giurisdizionale; mentre con l’arbitraggio le parti demandano ad altro soggetto la determinazione del contenuto di un contratto già concluso, ma non completo[13]. Il confine tra i due istituti non è in ogni caso di facile individuazione[14].

È più utile allora notare come la disciplina dettata dal legislatore non sia compatibile con quella dell’arbitrato, mentre sia tendenzialmente compatibile con quella dell’arbitraggio. Come già evidenziato dalla dottrina infatti, al di fuori della specifica ipotesi statutaria che preveda la possibilità che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio, (a) non è prevista in via di principio la possibilità di impugnare la decisione resa dagli arbitratori; (b) v’è un richiamo specifico all’art. 1349, comma 2°, c.c. ovvero indirettamente alla possibilità di rimettere la decisione al mero arbitrio del terzo[15]; (c) è prevista la possibilità per gli arbitratori di fornire indicazioni anche su questioni collegate[16].

A conforto della tesi secondo la quale l’istituto in esame è da inquadrarsi nella fattispecie dell’arbitraggio si è osservato anche[17] come il legislatore utilizzi il termine “contrasti” e non il termine “controversie”; la circostanza non appare peraltro determinante ove si consideri che lo stesso legislatore utilizza poi nella norma il termine “decisione” e non quello di “determinazione” (come accade invece nell’art. 1349 c.c.).

Sotto diverso profilo v’è inoltre da dire come la materia posta all’esame dell’arbitratore, inerente alle scelte da adottare sulla gestione della società, non potrebbe essere devoluta in linea di principio ad un giudizio ordinario (e quindi conseguentemente neppure ad un giudizio arbitrale); il mancato richiamo da parte dell’art. 37 all’art. 1349, comma 1°, c.c. permette di escludere che la determinazione sul contrasto possa essere presa dal giudice[18].

Si può quindi convenire con chi ha sottolineato come «l’istituto in esame non può nemmeno essere incluso de plano nella pur multiforme categoria dell’arbitraggio» dato che nella fattispecie in esame esiste già un contratto (di società) completo in tutte le sue parti[19].

 

3. I limiti di applicazione della norma e l’esclusione della società per azioni

La norma in esame riconosce espressamente la validità dei c.d. deadlock-breaking systems[20]quantomeno con riferimento agli organi amministrativi; è peraltro subito da chiedersi perché il legislatore abbia limitato l’applicazione dell’art. 37 alle sole società di persone e a responsabilità limitata (escludendo quindi le società per azioni e quelle in accomandita per azioni).

Se una parte della dottrina ritiene assolutamente ingiustificata la scelta del legislatore[21] altra dottrina la ritiene, per contro, del tutto coerente[22]; per quest’ultima la ragione della limitazione sarebbe da individuare nel fatto che nelle società per azioni (e nelle società in accomandita per azioni) la gestione è devoluta (o ad un amministratore unico o) ad un organo plurisoggettivo che delibera a maggioranza; organo che, per sua natura, in caso di divergenze evita la paralisi amministrativa[23].

L’osservazione, di per sé corretta, nella fattispecie in esame non è determinante ove si consideri che, anche a seguito della riforma del 2003, pure la s.r.l. è normalmente amministrata ex art. 2475 c.c. (da un amministratore unico o) da un consiglio di amministrazione; la disciplina della s.r.l. disciplina infatti solo la possibilità che l’atto costitutivo preveda che l’amministrazione sia affidata a più persone disgiuntamente oppure congiuntamente (applicandosi in tali casi, rispettivamente, gli artt. 2257 e 2258 c.c.). La norma in esame si applica invece alla s.r.l. indipendentemente dal regime di amministrazione prescelto alla sola condizione che sia prevista una pluralità di amministratori[24].

A ciò va aggiunto – e di tanto è consapevole anche la dottrina che si critica – che l’affermazione secondo la quale un organo amministrativo plurisoggettivo che delibera a maggioranza non scongiura del tutto le eventualità di stallo decisionale; si pensi, a titolo di esempio, ad un consiglio di amministrazione composto da un numero pari di soggetti.

Se è vero infatti che le situazioni di impasse gestionale sono più probabili nei sistemi di amministrazione congiuntiva[25] (e disgiuntiva in sede di opposizione) gli stessi sono ben possibili – anche se meno frequenti – anche nel caso di organi collegiali che decidono a maggioranza[26].

Da ultimo è da dire che la norma in esame sembra poter trovare applicazione anche con riferimento alle società cooperative che ai sensi del secondo comma dell’art. 2519 c.c. abbiano optato per la possibilità che alle stesse si applichino, in quanto compatibili, le norme sulla società a responsabilità limitata[27].

 

4. I soggetti ai quali può essere devoluta la risoluzione della lite e il requisito di “imparzialità” degli stessi

La risoluzione del contrasto sulla gestione, in prima istanza, può essere devoluta anche ad un soggetto singolo; in seconda istanza la decisione deve essere presa – per espressa volontà del legislatore – da un collegio[28].

Nel caso in cui la risoluzione sia rimessa al collegio è poi da chiedersi se i membri dello stesso debbano essere in numero dispari o meno[29]; è evidente però che, se si aderisce alla tesi secondo la quale il numero di arbitratori possano essere anche pari, si rischia di perpetuare la situazione di stallo decisionale; è quindi più che opportuno la clausola specifichi espressamente che gli arbitratori devono essere in numero dispari.

È da ritenere che, ai fini della designazione degli arbitratori, i soci possano optare sia per la diretta designazione di un terzo semel pro semper, sia per l’individuazione di criteri generali che permettano di nominare il terzo volta per volta[30].

Anche se la nomina può quindi essere fatta dagli stessi soggetti che si trovano in contrasto tra loro, il terzo o i terzi debbono peraltro trovarsi in una situazione di imparzialità[31], cosicché non potranno essere, ad esempio, nominati arbitratori gli amministratori stessi; non è invece da escludere che, in linea di principio, possa svolgere la funzione di arbitratore anche il socio di s.r.l. (che naturalmente non svolga anche funzioni amministrative) o il socio accomandante[32].

In assenza di una espressa disposizione contrattuale che lo consideri necessario, non pare che il contrasto tra gli amministratori debba essere in qualche modo formalizzato prima che si dia corso al procedimento[33]; naturalmente però detta condizione potrà però essere prevista dalla clausola che lo disciplina.

Diverso problema è quello di stabilire, sempre in assenza di espressa previsione contrattuale, quali siano i soggetti che possono instaurare il procedimento ovvero se legittimati siano solo gli amministratori o possano farlo, ad esempio e qualora l’atto costitutivo non disciplini espressamente quali siano i soggetti legittimati, anche i soci[34] o i sindaci (se ovviamente nominati); pare preferibile quest’ultima ipotesi – di legittimazione più ampia – in considerazione del fatto che il superamento della situazione di stallo è interesse dell’ente societario.

 

5. Il procedimento di risoluzione del contrasto

Gli arbitratori normalmente deliberano secondo il loro equo apprezzamento[35]; alternativamente l’atto costitutivo può prevedere particolari diversi criteri di decisione ovvero ammettere che la pronuncia sia resa secondo il mero arbitrio del terzo così come prevede l’art. 1349, comma 2, c.c.[36].

Gli arbitratori devono limitarsi a optare per l’una o per l’altra soluzione gestionale proposta dagli amministratori[37]; è invece da escludere che essi possano assumere una decisione diversa rispetto ad una delle proposte avanzate dai gestori della società[38].

Come è già stato osservato, una interpretazione tanto restrittiva della norma si giustifica in considerazione dell’eccezionalità dei poteri attribuiti agli arbitratori che si sostituiscono agli amministratori nel decidere di una attività relativa al governo della società[39].

 

6. La natura della decisione

Nonostante la norma non lo dica espressamente la decisione degli arbitratori deve considerarsi vincolante[40]; di tanto è infatti agevole convincersi ove si consideri che il terzo comma della disposizione in esame prevede espressamente che devono considerarsi vincolanti le indicazioni sulle questioni collegate cosicché, a maggior ragione, lo dovranno essere quelle fornite dagli arbitratori sulla questione principale loro devoluta[41].

Occorre, tuttavia, osservare che la decisione resa dal terzo, benché vincolante, non possa essere tout court assimilata a una decisione dell’organo amministrativo[42], con la conseguenza che gli amministratori dovranno riunirsi “a valle” della ricezione della determinazione del risolutore al fine di recepire quanto effettivamente deciso da quest’ultimo in ordine alla controversia. Di conseguenza, il carattere vincolante delle decisioni dell’arbitratore non sembrerebbe implicare né che la decisione sia irretrattabile o immodificabile.

A tal riguardo, qualora gli amministratori della società siano altrimenti riusciti a superare la situazione di stallo o, comunque, abbiano raggiunto un diverso accordo interno o una maggioranza che consenta loro di comporre il contrasto insorto, essi potranno sempre avocare a sé la decisione nuovamente.

Allo stesso modo, anche allorquando la decisione sia già stata assunta dal terzo, gli amministratori – qualora abbiano ritrovato la sintonia – potranno comunque modificarla o sostituirla. In tal caso, infatti, se tutti gli amministratori ovvero la maggioranza degli stessi abbiano optato per accantonare il contrasto o per discostarsi dalla decisione del terzo, la decisione, rispettivamente, di non compiere una determinata attività o di operare una diversa scelta gestionale dovrà intendersi come una nuova decisione dell’organo amministrativo e, come tale, sostitutiva della determinazione già resa[43].

Alla luce di quanto precede, si ritiene di poter affermare che le decisioni rese ai sensi dell’art. 37 debbano intendersi dotate di vincolatività endo-societaria ma siano da ritenersi vincolanti solo qualora durante l’intero procedimento di risoluzione permanga la situazione di stallo decisionale e il conflitto tra i singoli membri dell’organo amministrativo non sia stato altrimenti risolto. Solo in tali casi l’esecuzione del dictum del risolutore costituirà atto dovuto, cui anche gli amministratori dissenzienti saranno costretti ad adeguarsi.

 

7. Reclamo e impugnazione della decisione

Gli atti costitutivi possono anche prevedere che la decisione sia reclamabile davanti ad un collegio nei termini e con le modalità stabilite nella clausola che disciplina il procedimento; si è detto che in seconda istanza l’organo al quale è devoluta la risoluzione della lite non può essere un organo monocratico.

Salvo quanto disposto dal quarto comma della norma in esame (ovvero che la decisione è impugnabile ai sensi dell’art. 1349, comma 2°, c.c.), la decisione deve ritenersi intangibile sia nel caso in cui l’atto costitutivo non preveda la possibilità di reclamo, sia nel caso in cui detta possibilità sia prevista e la decisione non venga reclamata nei termini previsti dall’atto costitutivo.

Sembra infatti logico argomentare dal mancato richiamo della norma in esame all’art. 1349, comma 1°, c.c. che la decisione degli arbitratori non possa essere impugnata ai sensi della norma appena citata se la decisione è manifestamente iniqua o erronea, ma unicamente qualora viziata da mala fede[44].

Quanto precede, tuttavia, non implica necessariamente che l’atto costitutivo debba prevedere che la risoluzione del contrasto gestionale sia rimessa al mero arbitrio del terzo, soprattutto in considerazione del fatto che quest’ultimo è chiamato a dirimere una questione relativa a una scelta imprenditoriale[45].

Con riferimento al rapporto tra il terzo ed il quarto comma della norma, non si ritiene condivisibile che il reclamo costituisca, qualora previsto, un rimedio alternativo all'impugnazione ex art. 1349, comma 2°, c.c., dal momento che l’art. 37 non prevede alcuna necessità di coordinazione tra i due istituti[46]. Ragionando a contrario, infatti, optare per l’alternatività dei rimedi proposti porterebbe al paradosso – in assenza di qualsiasi indicazione formale da parte del legislatore – di ritenere l'impugnazione ex art. 1349 c.c. non esperibile, da un lato, qualora si fosse prima presentato reclamo, o dall’altro lato, qualora siano decorsi i termini stabiliti dall’atto costitutivo per la proposizione di quest’ultimo[47].

 

8. La responsabilità degli amministratori

Se è corretto quanto sopra ipotizzato e cioè che gli arbitratori devono limitarsi ad optare per l’una o l’altra soluzione gestionale proposta dagli amministratori ne discende che la scelta gestionale non faccia mai capo agli arbitratori (ma sempre all’amministratore, o agli amministratori, che la hanno proposta e caldeggiata).

Ne discende, quindi, ulteriormente che nella fattispecie in esame troveranno applicazione le normali regole sulla responsabilità degli amministratori[48]; ove la scelta gestionale, seppur avallata dagli arbitratori, possa essere fonte di responsabilità la stessa non potrà che far capo ai gestori (secondo le normali regole di cui rispettivamente agli artt. 2260 e 2476 c.c.).

Il successivo problema è quello di stabilire la sorte – sempre sotto il profilo della eventuale responsabilità – degli amministratori la cui scelta gestionale non è stata recepita dagli arbitratori.

Sembra coerente ritenere che gli stessi non possano essere considerati responsabili per un atto che non solo non hanno voluto, ma che hanno addirittura osteggiato sino al punto di rendere necessario lo svolgimento del procedimento di cui ci si occupa; e tale conclusione sembra trovare avallo anche nelle disposizioni legislative dettate in tema di responsabilità degli amministratori di società di persone e di società a responsabilità limitata[49].

Con riferimento alle prime l’art. 2260, comma 2°, c.c. dispone infatti che «la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa»; con riferimento alle seconde l’art. 2476, comma 1°, c.c. dispone che la responsabilità non si estende agli amministratori «che dimostrino di essere esenti da colpa e, essendo a cognizione che l’atto si stava per compiere, abbiano fatto constare il proprio dissenso»; in entrambi i casi si può ipotizzare che il fatto di aver osteggiato la decisione provocando il procedimento di arbitraggio e avversando nello stesso la decisione poi adottata sia comportamento idoneo ad esonerarli da responsabilità[50].

L’altra conseguenza dell’impostazione che si è data in merito al problema dei poteri degli arbitratori nel decidere (ed al connesso problema della responsabilità degli amministratori) è quella che la vincolatività del dictum degli arbitratori opererà solo ove gli stessi, nell’espletare il loro compito, si siano limitati a recepire una delle scelte gestionali proposte dagli amministratori stessi; nell’ipotesi patologica in cui il dictum degli arbitratori dovesse infatti discostarsi da una delle posizioni espresse dagli amministratori questi ultimi legittimamente potrebbero non eseguire la decisione in quanto proveniente da un soggetto sprovvisto della titolarità della funzione amministrativa[51].

Sul punto si potrebbe ulteriormente argomentare poi che nell’ipotesi in cui – pur non essendovi tenuti per il motivo appena esposto – gli amministratori provvedessero ad eseguire una decisione degli arbitratori (contenente una soluzione diversa dalle opzioni loro proposte) gli amministratori stessi sarebbero ancora una volta responsabili per un atto che si dovrebbe ritenere provenga direttamente da loro; e tanto in considerazione del fatto che non hanno nessun dovere di eseguirlo. Si può quindi convenire con chi ha ritenuto che gli arbitratori non assumono mai la funzione amministrativa e non possono determinare mai l’atto di gestione in via originaria[52].

 

9. La responsabilità degli arbitratori

Sulla scorta delle osservazioni che precedono, occorre, da ultimo, chiarire quale siano i profili di responsabilità eventualmente addebitabili agli arbitratori per la decisione resa, dal momento che agli stessi non è in nessun caso estendibile la disciplina, sostanziale e processuale, applicabile agli organi di governo della società.

A tali fini, si condivide la tesi di chi qualifica il rapporto intercorrente tra la società e l’arbitratore alla stregua di un contratto di mandato e, come tale, regolato dagli articoli 1703 ss. c.c.[53]. Quest’ultimo sarà, pertanto, tenuto a comporre il conflitto sorto in seno all’organo gestionale «con la diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1710, comma 1°, c.c.) e risponderà nei confronti della società, in qualità di mandatario, tenuto conto dell’entità del conflitto, della difficoltà dell’incarico, del grado di professionalità richiesto per l’espletamento dello stesso, nonché del grado e tipologia di esecuzione e di efficacia che abbia avuto la decisione resa[54].

Saranno, quindi, ipotesi tipiche di responsabilità dell’arbitratore sia il caso in cui si discosti dalle alternative di risoluzione del conflitto proposte dai diversi membri dell’organo amministrativo, sia il caso in cui si rifiuti di rendere la propria decisione senza alcuna giustificata ragione di carattere oggettivo.

Peraltro, in tale seconda ipotesi e in aggiunta ai profili di responsabilità del risolutore, resta da chiarire come debba essere risolto lo stallo decisionale, al fine di evitare l’impasse gestionale e sanare il conflitto ormai sorto all’interno dell’organo amministrativo. A tal riguardo, qualora l’atto costitutivo non preveda ex se un meccanismo di sostituzione dell’arbitratore che permetta di superare la situazione di stallo, non sembrerebbe possibile – come già menzionato - supplire a tale mancanza facendo ricorso alla determinazione del giudice di cui all’art. 1349, primo comma, c.c., dal momento che l’art. 37 non richiama esplicitamente detta disposizione. Di conseguenza, in aderenza al dettato del secondo comma dell’art. 1349 c.c., non può che concludersi che, qualora l’arbitratore non renda il proprio giudizio, l’intera clausola sulla risoluzione dei contrasti di gestione inserita all’interno dell’atto costitutivo dovrà ritenersi priva di efficacia[55], con la conseguenza che verrebbe a determinarsi nuovamente una situazione di stallo decisionale.

Volendo evitare di vanificare lo sforzo del legislatore, potrebbe ipotizzarsi di ricorrere all'autorità giudiziaria; tale ricorso, tuttavia, dovrebbe essere fondato su disposizioni diverse dall’art. 37 del d.lgs. n. 5/2003 e quindi a disposizioni contrattuali delle quali, di volta in volta, andrà verificata la validità. Qualora si ritenesse impraticabile anche tale via, dovrebbe farsi ricorso agli ordinari (e più diffusi) mezzi di risoluzione delle situazioni di c.d. deadlock, procedendo, qualora ogni altra situazione risultasse inidonea, alla liquidazione della società.

 

10. Le questioni collegate

Come si è già accennato, il terzo comma della norma prevede che gli atti costitutivi possano altresì prevedere che il soggetto (o il collegio) chiamato a dirimere i contrasti di cui ai precedenti commi possa dare «indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli».

La norma sembra poter essere interpretata nel senso che la «questione collegata rappresenta un “segmento” interno del contrasto, non si posiziona su un terreno esterno allo stesso»[56] e l’opportunità della norma può essere individuata nella circostanza che «la questione collegata non rappresenta oggetto del contrasto soltanto perché non si è ancora potuta formare la decisione gestionale che ne costituisce il presupposto»[57].

Riprendendo un esempio già fatto dalla dottrina si può ipotizzare che il contrasto gestionale riguardi l’opportunità di aprire o meno una filiale di vendita in Piemonte; se è corretto quanto sopra evidenziato gli arbitratori potrebbero decidere per l’apertura o meno della filiale in Piemonte, ma mai decidere di aprirla in una regione diversa; l’alternativa rimane tra il Piemonte e il non aprire la filiale.

Supponendo ora che in prima battuta gli arbitratori decidano per l’apertura della filiale in Piemonte; una questione collegata non può essere quella, come pure si è ipotizzato[58], di stabilire dove aprire la filiale in Piemonte. Di tanto è agevole convincersi ove si supponga ulteriormente che gli arbitratori decidano (sulla questione che si suppone collegata, ma che in realtà non lo è) nel senso di aprire la filiale in un paesino sperduto della montagna dove è difficilissimo reperire manodopera e quindi praticamente impossibile produrre se non a costi elevatissimi. La questione sulla quale si è deciso non può essere considerata collegata perché in grado di vanificarne gli effetti positivi della decisione principale.

Un esempio di questione collegata potrebbe essere forse quello in cui il contrasto gestionale abbia ad oggetto se assumere Tizio, esperto informatico che offre le proprie prestazioni lavorative per tot euro al mese, o Caio, giovane diplomato in informatica senza esperienza che sarebbe disposto a lavorare con uno stipendio di molto inferiore. Gli arbitratori dovranno decidere se vada assunto Tizio o Caio e non, ad esempio, decidere di non assumere nessuno dei due; potranno anche però decidere, senza che di ciò sia fatta loro espressa richiesta (e questa pare possa essere la decisione collegata), che la società assuma Tizio a condizione che il suo stipendio non sia superiore a tot meno x.

Se l’interpretazione proposta è quella corretta la disposizione sulle questioni collegate non pare creare ulteriori problemi interpretativi rispetto a quelli evidenziati con riferimento alla vincolatività delle indicazioni espresse ai sensi del secondo comma della norma ovvero a quelle espresse con riferimento alle questioni espressamente deferite agli arbitratori[59].

 

11. L’accesso agli strumenti di regolamentazione della crisi e dell’insolvenza

E’ ormai noto – lo si legge quasi testualmente nella relazione illustrativa[60] - che l’articolo 120 bis c.c.i.i. disciplina l’accesso ai quadri di ristrutturazione chiarendo che l’avvio della ristrutturazione, e la determinazione del contenuto del piano, costituiscono esecuzione degli obblighi di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale, previsti dall’art. 2086, comma 2°, c.c.[61].

In quest’ottica è stata soppressa la possibilità di deroghe statutarie alla competenza degli amministratori ai quali è devoluta in via esclusiva la scelta di accedere ad uno strumento di regolamentazione della crisi e dell’insolvenza. La forma del verbale notarile è necessaria per la sola decisione di accedere al quadro, mentre la determinazione del contenuto del piano risponderà ai requisiti di forma previsti per lo specifico tipo di società.

L’art. 120 bis c.c.i.i. chiarisce poi che, anche in assenza di una deliberazione dei soci, il piano di ristrutturazione può modificare la struttura finanziaria della società, e dunque prevedere la cancellazione di azioni e quote, l’emissione di azioni, quote e strumenti finanziari, anche con limitazione o esclusione del diritto d’opzione, operazioni di fusione, scissione e trasformazione.

Con riferimento alla s.r.l. è quindi da chiedersi se l’espressione di cui all’art. 120 bis, comma 1°, c.c., nella parte in cui prevede che l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza sia deciso in via esclusiva dagli amministratori, unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano, sia - o meno - compatibile con l’istituto oggetto di questo studio; in altre parole se la norma di nuovo conio sia destinata ad incidere, sotto il profilo sistematico, sulla risoluzione dei contrasti sulla gestione della s.r.l.; inutile nascondersi che la questione, seppur interessante sotto il profilo teorico, non avrà, con ogni probabilità, un reale impatto pratico nel diritto delle ristrutturazioni così come in già passato l’istituto non lo ha avuto in linea generale.

In via di prima approssimazione non si ravvisano motivi per i quali il contrasto, per esempio sul tipo di strumento per ristrutturare l’impresa, non possa essere deferito ad un terzo arbitratore; si pensi al caso in cui lo stesso abbia ad oggetto la scelta tra l’accesso alla composizione negoziata[62] o direttamente al concordato preventivo; o l’opportunità stessa di accesso immediato ad un qualsiasi strumento di accesso ad uno strumento di regolamentazione della crisi quale alternativa ad attendere un certo periodo di tempo in attesa dell’evoluzione dei costi delle materie prime indispensabili per l’esercizio dell’attività d’impresa e che ne determinano la situazione di difficoltà.

La ratio della norma di nuovo conio non sembra infatti poter essere messa in relazione con i contrasti sulla gestione trovando la sua ragione di essere in ben altre esigenze, tra le quali può essere sicuramente segnalata la necessità di affrontare tempestivamente la crisi[63], anche attraverso il superamento di clausole statutarie che rimettano all’assemblea, o alle decisioni dei soci, l’affrontare un problema – quello della crisi – della risoluzione del quale viene enfatizzata la natura gestoria; il tutto ovviamente nell’ottica di verificare la possibilità (e il perseguimento, ove possibile) della continuità aziendale.

 



(*) Si tratta di scritto destinato ad essere pubblicato – con eventuali modifiche – nel volume dedicato dedicato a La governance delle società a responsabilità limitata, per i tipi della Cedam a cura di Rolandino Guidotti ed Elisabetta Pederzini che nella seconda edizione del 2022, ampliata ed aggiornata, si arricchirà, oltre che del capitolo qui pubblicato, anche del capitolo del prof. Oreste Cagnasso dedicato a La governance delle società a responsabilità limitata aperte.

(**) Sebbene il lavoro sia frutto del confronto tra gli autori, i paragrafi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 10 e 11, sono da attribuirsi a Rolandino Guidotti e i paragrafi 6 e 9 a Giulia Raffaelli. In argomento si possono consultare in precedenza: Guidotti, La risoluzione dei contrasti sulla gestione, in Guidotti e Soldati, La società a responsabilità limitata, Rimini, 2008, p. 233 ss. (contributo pubblicato anche in Giur. it., 2005, p. 891 ss.): Id., L’arbitraggio gestionale nelle società di persone nella società a responsabilità limitata, in Notariato, 2005, p. 33 ss. dei quali il presente scritto costituisce una rielaborazione ampliata e aggiornata.

[1] La disposizione in esame si differenzia dell’art. 34 (del medesimo provvedimento legislativo) - che dispone che gli atti costitutivi delle società (in modo generico e senza specificazione del tipo) possano prevedere mediante l’introduzione di clausole compromissorie la devoluzione ad arbitri di alcune o tutte le controversie; l’art. 37 prevede unicamente la possibilità di deferire a terzi la risoluzione dei soli contrasti attinenti alla gestione delle società di persone e della società a responsabilità limitata.

[2] La norma prosegue statuendo – lo si ricorda anche nel testo - come gli atti costitutivi possano ulteriormente prevedere che la decisione (di uno o più terzi) sia reclamabile davanti ad un collegio nei termini e con le modalità stabilite nello statuto stesso. Il legislatore vorrebbe che siano gli atti costitutivi a contenere le clausole istitutive dell'organo di prima e seconda istanza, ma siano gli statuti a disciplinare i termini e le modalità del procedimento di secondo grado; la differenziazione lascia naturalmente perplessi e non solo per la ragione di carattere puramente letterale che l'espressione «statuti stessi» suscita nel far supporre che il legislatore avrebbe voluto scrivere «atti costitutivi stessi», ma anche perché non v’è motivo alcuno per cui le clausole in oggetto debbano essere scorporate in due parti; a ciò si aggiunga che normalmente nelle società di persone non esiste statuto e non v’è ragione di ipotizzare che il procedimento di seconda istanza sia riservato alla sola società a responsabilità limitata.

[3] V. anche Arieta e De Santis, Il nuovo processo societario, Padova, 2004, p. 687 ss. L’espressione arbitrato c.d. economico riporta il pensiero a quanto affermava Francesco Carnelutti quando fondava la distinzione tra arbitrato e arbitraggio facendo riferimento, per il primo istituto, alle controversie giuridiche e, per il secondo, alle controversie economiche (Carnelutti, Arbitri e arbitratori, in Riv. dir. proc. civ., 1924, I, p. 123 ss.; Id, Arbitrato estero, in Riv. dir. comm., 1916, I, p. 374 ss.); sul punto v. anche Festi, La clausola compromissoria, Milano, 2001, p. 69, testo e nota 35).

[4] Corsini, La risoluzione dei contrasti nell’amministrazione sociale mediante «arbitrato gestionale», in Società, 2003, p. 1203 ss.; Id., Risoluzione di contrasti sulla gestione di società, in Il nuovo processo societario, diretto da Chiarloni, Bologna, 2004, p. 1013 ss.; in argomento Ruotolo, La risoluzione dei contrasti sulla gestione delle società, Studio n. 5734/I del Consiglio Nazionale approvato dalla Commissione Studio d’Impresa il 15 luglio 2005, in notariato.it (sito consultato il 3 agosto 2022); Spada, L’amministrazione “arbitrata”, in Abbadessa e Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, I, Torino, 2007, p. 255 ss.

[5] Sassani e Tiscini, Il nuovo processo societario. Prima lettura del d.lgs. n. 5 del 2003, in Giust. civ., 2003, II, p. 72 ss.

[6] Soldati, Il processo societario, Amadei e Soldati (a cura di), Milano, 2003, p. 152.

[7] Così anche Morera, L’«arbitraggio» per la risoluzione dei contrasti gestionali nelle s.r.l., in An. giur. dell’econ., 2003, p. 313; v. Cabras, Arbitrato e conciliazione nella riforma del diritto societario, in dircomm.it, p. 5 (sito consultato il 3 agosto 2022).

[8] Minervini, Risoluzione dei contrasti sulla gestione sociale, in Giur. comm., 2004, I, p. 880; sotto diverso profilo la norma lascia amplia libertà ai soci nel redigere la clausola in oggetto; nulla viene ad esempio imposto con riferimento ai tempi entro i quali gli arbitratori devono rendere il proprio parere o sulle modalità con le quali deve svolgersi il procedimento.

[9] Ratio dell’istituto, infatti, secondo la condivisa opinione della dottrina, non è quella di prevenire l’insorgere di una lite, ma di evitare che, qualora la protratta incapacità dell’organo amministrativo di assumere una determinata decisione determini l’impasse gestionale, gli amministratori possano dirimere il contrasto devolvendo la risoluzione della situazione di stallo a un terzo e evitando, in tal modo, lo smembramento dell’impresa comune. Si v. in tal senso, Carraro, Abuso e frode nel diritto societario, Milano, 2021, p. 104; Carraro, L’“arbitrato economico” come gestione sostitutiva, in Riv. soc., 2020, p. 786; Pisani, Modelli di amministrazione delle società di persone ed arbitraggio gestionale, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società, in Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 307; Carpi, Profili dell’arbitrato in materia di società, in Riv. arb., 2003, p. 431; Cabras, sub art. 37, in Comm. romano al nuovo diritto delle società, Il processo commerciale e l’arbitrato societario, Padova, 2010, p. 348.

[10] Corsini, Risoluzione di contrasti sulla gestione di società,cit., p. 1022.

[11] Morera, op. cit., p. 315; contra Cerrato, nelle Osservazioni scritte indirizzate alla commissione di studio per l'elaborazione di ipotesi di organica disciplina e riforma degli strumenti di degiurisdizionalizzazione, con particolare riguardo alla mediazione, alla negoziazione assistita e all'arbitrato presieduta dal prof. Avv. Guido Alpa 
(23 maggio 2015), ipotizza che la norma possa essere inserita nella disciplina delle società di persone.

[12] Carpi, op. cit., p. 430; La China, op. cit., p. 252; Fazzalari, L’arbitrato nella riforma del diritto societario, in Riv. arb., 2002, p. 446; Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, p. 517; Luiso, Appunti sull’arbitrato societario, in Riv. dir. proc., 2003, p. 705; Mosco, “Arbitrato economico” e funzione amministrativa nella s.r.l., in associazionepreite.it, 2007, p. 1 (sito consultato il 3 agosto 2022); Sangiovanni, Risoluzione di contrasti sulla gestione di società, arbitraggio e modelli di amministrazione, in Riv. arb., 2008, p. 2; Auletta, La risoluzione di contrasti sulla gestione di S.r.l., in Riv. dir. comm., 2013, p. 373 ss.; seppur in senso parzialmente critico Corsini, op. loc. cit., p. 1023 ss.; Morera, op. cit., p. 314; Ruotolo, op. cit., p. 5; Carraro, L’“arbitrato economico” come gestione sostitutiva, cit., p. 785, il quale, tuttavia, esclude che si configuri un’ipotesi di arbitraggio in considerazione del fatto che nel caso dell’“arbitrato economico” non concerne la «determinazione dell'oggetto di un negozio all'interno di un regolamento negoziale “chiuso,” ossia di un programma negoziale precostituito, com'è per l'arbitraggio e com'è pure per la perizia contrattuale; bensì una scelta imprenditoriale o gestionale da assumere nel quadro di un programma negoziale che — nella società così come, più generalmente, in tutti gli enti a struttura associativa — è e resta necessariamente e fisiologicamente un programma negoziale “aperto”».

[13] V. Cass., 28 luglio 1995, n. 8289; nello stesso senso v. anche Cass., 19 aprile 2002, n. 5707, in Giust. civ., 2003, I, p. 2936; Cass., 19 aprile 2002, n. 5707; Cass., 25 ottobre 2013, n. 24153; cfr. anche Carpi e Zucconi Galli Fonseca, in Arbitrato, Carpi (a cura di), Bologna, 2016, p. 76 ss.

[14] Festi, op. cit., p. 63 rileva come in conclusione dell’analisi sulla differenza degli istituti come l’unico caso in cui l’arbitratore può fare qualcosa di diverso rispetto all’arbitro «si ha quando gli venga demandato di stabilire l’entità di una prestazione contrattuale, senza che dal contratto o aliunde emergano criteri per poter addivenire alla determinazione stessa. Se, infatti, – prosegue l’autore – nell’ambito di un analogo contratto privo di oggetto e in assenza di criteri per la sua determinazione, una delle parti dovesse ricorrere al giudice (o all’arbitro), questi non potrebbe che dichiarare la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto».

[15] Si noti come nella bozza (pubblicata su il Il Sole-24ore del 4 ottobre 2002) del testo del decreto legislativo mancasse nell’art. 37 il riferimento all’art. 1349 c.c.

[16] Morera, op. cit., p. 314.

[17] V. sempre Morera, op. loc. cit.

[18] Sangiovanni, op. cit., p. 19; La China, op. cit., p. 252; Luiso, sub art. 37, in Il nuovo processo societario, Torino, 2006, p. 596.

[19] Ruotolo, op. cit., p. 6; Corsini, op. loc. cit., p. 1029; secondo Ricci, Il nuovo arbitrato societario, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 2003, p. 517, l’art. 37 introdurrebbe «una particolare forma di amministrazione della società da parte di soggetti, ai quali la qualifica di amministratori non è stata attribuita secondo le regole relative alla formazione degli organi amministrativi societari».

[20] Come ricorda Bonvicini, Le “Joint ventures”: tecnica giuridica e prassi societaria, Milano, 1977, p. 401, «nella letteratura statunitense si usa distinguere, concettualmente e terminologicamente, due fattispecie nell’ambito del manifestarsi di una situazione di impasse degli organi sociali». Da una parte il c.d. deadlock «ossia la paralisi dell’assemblea dei soci con partecipazioni formalmente paritetiche o del consiglio di amministrazione composto da un numero pari di membri»; dall’altra il c.d. stalemate «vale a dire il mancato funzionamento degli organi della corporation nella quale, pur non essendo azionisti ed amministratori formalmente contrapposti in due gruppi di uguali diritti, una sostanziale parità di posizioni derivi dall’esistenza di patti (sociali e non) che attribuiscano poteri di veto impongano voting requirements o, comunque, altri control devices».

[21] Sangiovanni, op. cit., p. 5; Cabras, Arbitrato e conciliazione, cit., p. 5.

[22] Corsini, op. loc. cit., p. 1013 ss.; Zucconi Galli Fonseca, in Carpi (a cura di), Arbitrato societario, Bologna, 2004, p. 74 ritiene inopportuna la scelta «perché rischia di innescare l’argomento a contrario, a meno di non ritenere che la norma sia meramente ricognitiva».

[23] Corsini, op. loc. cit., p. 1014.

[24] Ruotolo, op. cit., p. 16. Si v. inoltre, in particolare, Mosco, op. cit., p. 5, il quale afferma che nel nell’escludere la società per azioni dal novero di tipi sociali cui rendere applicabile l’art. 37 «il legislatore abbia pensato che la nuova ed eccezionale autonomia che hanno i soci della s.r.l. nel modellare i profili organizzativi della funzione amministrativa, anche avvalendosi dei sistemi propri delle società di persone, abbia reso non solo possibile ma probabile il verificarsi di situazioni di stallo nella gestione (c.d. deadlock), consigliando l’applicazione anche a questo tipo societario dell’arbitrato economico».

[25] In argomento v. Lubrano, Insanabile dissidio tra i soci di società di persone, prevalenza dello scioglimento del vincolo particolare e modalità di liquidazione della quota, in Giur. comm., 2000, I, p. 868 ss.

[26] Morera, op. cit., p. 316; in argomento, ad esempio, v. Salvatore, Stallo decisionale nella s.r.l. a ristretta base sociale: riflessioni e spunti operativi diretti a favorire la continuazione dell’impresa, in Contr. e impr., 1999, p. 993 ss.

[27] Contra Corsini, op. loc. cit., p. 1013 ss.

[28] Secondo Minervini, op. cit., p. 881 il terzo deve essere necessariamente una persona fisica; contra Sangiovanni, op. cit., p. 13; Corsini, op. loc. cit., p. 1034 che non si possa escludere a priori che l’arbitratore sia una persona giuridica particolarmente qualificata, quale una società di consulenza o di revisione, che si occupi anche di strategia di impresa.

[29] Ritengono che il numero di arbitratori possa essere anche pari Corsini, op. loc. cit., p. 1033; Minervini, op. cit., p. 881.

[30] Carraro, op. loc. cit., p. 790; v. nello stesso senso: Cabras, sub art. 37, cit., p. 339; Sangiovanni, op. cit., p. 11, Corsini, op. cit., p. 1214.

[31] Sulla nozione di “terzietà”, Carraro, op. loc. cit., p. 793, per il quale «conviene perciò accedere a una nozione puramente sostanzialistica di terzietà ossia nel significato, genericamente inteso dal diritto privato, di mera condizione obbiettiva propria di chiunque non sia stato originariamente partecipe del rapporto o del contrasto, a prescindere dal fatto che sia interessato o meno alla risoluzione del contrasto medesimo e a prescindere dal grado del possibile interesse»; nello stesso senso, Corsini, op. loc. cit., p. 1214, il quale parimenti afferma che la terzietà dovrebbe essere valutata alla stregua della complessiva organizzazione societario (non soltanto con riferimento a coloro incaricati dell’amministrazione della società, ivi inclusa la compagine sociale; Minervini, op. cit., p. 881; Purpura, L’“arbitrato economico” nella S.r.l., in S.r.l. - Commentario dedicato a Portale, in Dolmetta e Presti (a cura di), Milano, 2011, p. 1027; Sangiovanni, op. cit., p. 15.

[32] Contra Ruotolo, op. cit., p. 20; Minervini, op. cit., p. 882; Corsini, op. loc. cit., p. 1034; Zucconi Galli Fonseca, in Arbitrato societario, cit., p. 77, i quali ritengono che il requisito della terzietà debba essere commisurato non solo rispetto all’organo amministrativo, ma rispetto all’intera compagine sociale.

[33] Cfr. Minervini, op. cit., p. 882.

[34] Cfr. Purpura, op. cit., p. 1023; in senso contrarioAuletta, op. cit., p. 388. In senso contrario: Sangiovanni, op. cit., p. 10; Colantuoni, sub art. 37, in I procedimenti, in Lo Cascio (a cura di), Milano, 2006, p. 700; Fabris, Arbitraggio endosocietario e termporary director, in Giur.it, 2006, p. 1095. Incidentalmente sia consentito osservare come sia dubbia la possibilità di utilizzare il procedimento di cui all’art. 37 nella particolare ipotesi di stallo gestionale conseguente all’incapacità dei soci di decidere in merito all’opposizione di uno o più amministratori (art. 2257 c.c.); in argomento v. Morera, op. cit., p. 316.

[35] In argomento v. Criscuolo, Arbitraggio e determinazione dell’oggetto del contratto, Napoli, 1995, p. 186 ss. il quale a p. 201 e ss. precisa come talvolta la fonte integrativa richiamata dal primo comma dell’art. 1349 c.c. possa talvolta essere individuata anche nel mercato; Zuddas, L’arbitraggio, Napoli, 1992, p. 113 ss.

[36] Corsini, op. loc. cit., p. 1035.

[37] Ruotolo, op. cit., p. 21; Corsini, op. loc. cit., p. 1035.

[38] V. in tal senso, Dalmotto, L’arbitrato nelle società, Bologna, 2013, p. 61; Mosco, op. cit., p. 13; Morera, op. cit., p. 320; Arieta e De Santis, op. cit., 701; Corsini, op. loc. cit., p. 1214. V., tuttavia, in senso contrario: Cabras, op. loc. cit., p. 344; Corapi, Note sull’arbitrato “economico” nelle società, in Rass. giur. en. el., 2003, p. 702; Minervini, op. cit., p. 884.

[39] Corsini, op. loc. cit., p. 1035.

[40] Corsini, op. loc. cit., p. 1035; Minervini, op. cit., p. 884.

[41] Cfr. Sangiovanni, op. cit., p. 16, il quale tuttavia osserva come le decisioni sulle questioni collegate siano vincolante solo ove vi sia inserita una previsione in tal senso nell’atto costitutivo.

[42] Auletta, op. cit., p. 390.

[43] Carraro, op. cit., p. 797.

[44] In merito, occorre osservare che l’impugnazione di cui all’art. 37, comma 4°, deve essere ricondotta al novero delle impugnative negoziali e conduce semplicemente all'annullamento della decisione gestionale originariamente resa dal terzo. Si v. sul punto, Carraro, op. loc. cit., p. 799 ss; Ruotolo, op. cit., p. 24.

[45] Cfr. Cabras, op. loc. cit., p. 345; Corsini, op. cit., p. 1215 ss. A fortiori, il regime dell'impugnabilità della decisione non può ulteriormente possa essere confuso con quello della responsabilità del terzo; v. Purpura, op. cit., p. 1031 ss; Schiuma, in Conciliazione, arbitrato e gestione d'impresa nel nuovo diritto societario, Mantucci (a cura di), Napoli, 2008, p. 167; Spada, op. cit., p. 265.

[46] Carraro, op. loc. cit., p. 798.

[47] Nel senso che la decisione diventa definitiva e non può essere impugnata ai sensi dell’ultimo comma si esprime Minervini, op. cit., p. 883; in senso contrario invece Corsini, op. loc. cit., p. 1041; Majorano, sub art. 37, in I procedimenti in materia commerciale, Costantino (a cura di), Padova, 2005, p. 814.

[48] Contra Carraro, op. loc. cit., p. 804; Minervini, op. cit., p. 884; nel senso del testo v. invece Morera, op. cit., p. 332.

[49] Cfr. Sangiovanni, op. cit., p. 18; Corsini, op. loc. cit., p. 1036.

[50] Ruotolo, op. cit., p. 23, il quale specifica ulteriormente che non l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori per comportamenti omissivi non sarà esperibile qualora la decisione di avvalersi dell’istituto in esame abbia comportato inerzia o ritardo degli stessi nell’adottare una determinate scelte gestionali; in tal senso v. anche Spada, Classi e tipi di società dopo la riforma organica (guardando alla «nuova» società a responsabilità limitata), in Riv. dir. civ., 2003, p. 500; in senso contrario: Auletta, op. cit., p. 388.

[51] Morera, op. cit., p. 322.

[52] Morera, op. cit., p. 322.

[53] Corsini, op. loc. cit., p. 1214; Fabris, op. cit., p. 1097; Sangiovanni, op. cit., p. 19.

[54] Cfr. Arieta e De Santis, op. cit., p. 702.

[55] L’art. 1349, comma 2°, c.c. prevede che se manca la determinazione del terzo e le parti non si accordano per sostituirlo, il contratto è nullo.

[56] V. Morera, op. cit., p. 320. Sul punto, v. in particolare Carraro, op. loc. cit., p. 798, il quale osserva come il significato da attribuire alla nozione di “questioni collegate” sia da ricercare nel medesimo nesso teleologico che unisce i negozi collegati, secondo l’interpretazione adottata dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo: Cass. 5 marzo 2019, n. 6323) e, pertanto, risulteranno collegati «gli atti gestionali legati da nesso teleologico alla questione deferita, in quanto siano funzionalmente subordinati alla regolamentazione di un assetto economico globale e coordinato, cui il soggetto o il collegio sono in definitiva chiamati a dare soluzione unitaria sul piano dell'opportunità della gestione».

[57] V. sempre Morera, op. cit., p. 320; fortemente critico nei confronti della norma è invece Corsini, op. cit., p. 1037 il quale peraltro sembra dare del disposto normativo una interpretazione troppo ampia sulla possibilità di intervento degli arbitratori; tale interpretazione ha poi – secondo l’autore citato – il fatto che la norma comporterebbe «la sostituzione agli amministratori degli arbitratori, senza però che siano state prese idonee contromisure affinché i primi possano essere spogliati della loro responsabilità, investendone nel contempo i secondi». Secondo Minervini, op. cit., p. 884 il terzo potrebbe dare indicazioni vincolanti su questioni collegate anche in assenza di una apposita richiesta al riguardo.

[58] Morera, op. cit., p. 320.

[59] Altro problema è quello di stabilire – in espressa di disposizione statutaria sul punto - quale sia il soggetto al quale fanno carico i costi del procedimento. L’assenza di qualsivoglia indicazione sembra dover essere colmata ritenendo che i costi facciano carico alla società e non ai soggetti che hanno il potere di amministrazione (cfr. Minervini, op. cit., p. 882) anche se la soluzione non convince del tutto in considerazione del fatto che non penalizza in alcun modo l’amministratore particolarmente litigioso che instaura continuamente i procedimenti di cui ci occupiamo. Le alternative peraltro sarebbero quelle di far gravare i costi in parti uguali tra gli amministratori in contrasto tra loro; di farle gravare su quello che ha provocato il procedimento ovvero di applicare alla fattispecie in esame il principio della soccombenza.

[60] Allo schema del decreto legislativo di recepimento della direttiva Insolvency.

[61] In argomento Arato, Il ruolo di soci e amministratori nei quadri di ristrutturazione preventiva, in Diritto della crisi, 10 maggio 2022;Fabiani, L’avvio del codice della crisi, ivi, 5 maggio 2022.

[62] Sull’istituto si consulti, se si vuole, Bonfatti e Guidotti (a cura di), Il ruolo dell’esperto nella composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, Torino, 2022.

[63] In argomento S. Pacchi, Le segnalazioni per la anticipata emersione della crisi. Così è se vi pare, in Ristr. aziendali, 9 agosto 2022.