Giurisprudenza

L’art. 47, c. 4, CCII, secondo la Corte d’Appello di Milano


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Articolo

Crisi e insolvenza dopo il codice della crisi*


Paolo Bastia

Data pubblicazione
22 agosto 2022

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Sommario: 1. Premessa; 2. Rischio, incertezza, asimmetrie e limiti cognitivi nella conduzione dell’impresa; 3. Crisi e insolvenza nel diritto della crisi; 4. La probabilità di insolvenza; 5. L’accertamento prognostico dell’insolvenza; 6. L’insolvenza definibile anticipatamente; 7. L’orizzonte temporale della predizione dell’insolvenza; 8. La perdita di continuità aziendale; 9. Crisi e insolvenza nella composizione negoziata; 10. Crisi e insolvenza nella più recenti modifiche al CCI; 11. L’insolvenza reversibile; 12. Osservazioni conclusive.


1.        Premessa

Questo scritto si occupa della descrizione e comprensione dei distinti fenomeni di crisi e di insolvenza dell’impresa, assolutamente differenziati per natura, per conoscibilità e per idonei rimedi, ancorché strettamente connessi, per lo più secondo una sequenza, per nulla deterministica, posto che la situazione auspicata, esplicitamente anche da parte del legislatore, è che alla crisi non segua l’insolvenza, restando semmai solo ad un livello probabilistico e non effettivo, se l’imprenditore vigile e prontamente reattivo, si attiva tempestivamente.

Va subito precisato il fatto che il legislatore (art. 3 CCI e art. 2086, secondo comma, c.c.), che giustamente insiste sulla tempestività di rilevazione della crisi e della perdita di continuità aziendale e sulla prontezza di adozione di idonei rimedi, concede ampia fiducia sulle capacità imprenditoriali e manageriali di fronteggiare e superare la crisi, posto che la tempestività è solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, per questo obiettivo: una fiducia però riposta nell’imprenditore, individuale e collettivo, virtuoso in termini di adeguatezza delle misure e degli assetti necessari.

Il presente contributo non entra nell’ambito dei rimedi, ma è circoscritto ai fenomeni patologici anzidetti: tuttavia, poiché un’indagine, secondo logica metodologica, non può prescindere dalle finalità ultime, ancorché ci si occupi della descrizione e soprattutto della comprensione dei fenomeni di crisi e di insolvenza, occorre tenere presente i fini di salvataggio dell’impresa, per meglio qualificare i profili definitori delle disfunzioni analizzate.

Innanzi tutto, va detto che il legislatore non è interessato ad una mera diagnostica per una storicizzazione della crisi e dell’insolvenza d’impresa o per individuare profili di responsabilità, almeno come prima istanza, ma esprime un orientamento precettivo, cogente e pragmatico, ponendo al centro la continuità aziendale e il riequilibrio dell’azienda, come beni da tutelare, affidandone il compito all’imprenditore stesso, purché solerte e dotato di adeguati strumenti.

Ma l’imprenditore rispettoso dei precetti normativi deve “pre-disporre” i supporti necessari (misure o adeguati assetti), deve assicurarne l’esistenza, l’aggiornamento, l’efficace funzionamento, l’effettività di utilizzazione da parte dei soggetti apicali e del management, senza il cui intervento proattivo rimarrebbero inerti attrezzi e sterili rituali.

Si deve pertanto, a mio avviso, distinguere la crisi e l’insolvenza secondo due circostanze affatto differenti:

a)        quella dell’imprenditore consapevole e corretto, che non solo per rispetto della disciplina, ma per dignità e responsabilità del proprio ruolo, cerca di prevenire le patologie, anche deboli, della gestione aziendale, che possono comunque sempre verificarsi, specie a motivo di cause esterne impreviste, attrezzando l’impresa e le risorse umane di meccanismi formali di controlli interni, che evidenzino la tracciabilità dei controlli e l’interiorizzazione di una cultura dei controlli e dell’impiego di accreditate metodologie, all’interno della struttura aziendale;

b)        quella dell’imprenditore disattento ai controlli e alla pianificazione, spesso autoreferenziale, rimasto affezionato alla prevalenza, se non all’unicità, di uno stile informale di gestione, legato quindi ad uno stile di conduzione obsoleto e non manageriale, basato sul mero “controllo a vista” e sul rifiuto di procedure formalizzate, di metodologie e di metriche, che egli considera ancora, pervicacemente, come corpi estranei e non come supporti “salvavita” dell’azienda, con l’esito di una dilatazione incontrollata dei perimetri di esposizione ai rischi, esterni ed endoaziendali.

La seconda condizione, realisticamente, va considerata ancora prevalente nel nostro paese ed è opportuno tenerne conto, per comprendere lo “stato dell’arte” circa l’applicabilità delle lodevoli proposte normative, auspicando in un’accelerazione della cultura dei controlli nel sistema delle nostre imprese, le cui carenze ancora esprimono un fattore di svantaggio competitivo rispetto a quelli di altri paesi. Questa messa a fuoco della realtà imprenditoriale serve anche a calibrare i tempi, prevedibilmente non brevi, di adeguamento organizzativo e di diffusione delle misure e degli assetti oggi obbligatori, aspetto che accentua ulteriormente l’urgenza dell’effettività della riforma.

Uno scarto importante tra i desiderata del legislatore e l’efficacia delle soluzioni imprenditoriali in questa materia è quello del radicamento e della diffusione dell’utilizzazione degli strumenti proposti, in particolare di quelli indicati all’art. 3 del CCI, che comportano diverse soluzioni integrate, di tipo organizzativo (ruoli e meccanismi relazionali tra i diversi attori decisionali), tecnologico (software dedicati di business intelligence, fino ai “sistemi ERP”) e informativo (contenuti, metodologie e rappresentazioni delle informazioni rilevanti, contabili e gestionali).

A ben vedere, il moderno legislatore si rivolge direttamente al primo tipo di imprenditore identificato e la modernità non è solo del legislatore stesso, ma dell’imprenditore virtuoso, perché, rispetto alle stagioni delle crisi della fine del secolo scorso, non solo sono stati introdotti e sviluppati dalla scienza aziendale[1] innumerevoli strumenti predittivi, di cui si parlerà, ma la riforma del diritto della crisi è pervenuta ad un’ampiezza e ad una varietà di opzioni solutive della crisi e dell’insolvenza che risultano fruttuosamente accessibili e applicabili quanto più anticipata risulti la conoscibilità della crisi e aumentata la capacità di vigilanza preventiva del management.

Ma l’imprenditore che rischia la crisi, oggi, è diverso da quello del passato (quindi la crisi e l’insolvenza attuali sono fenomeni diversi da quelli di inizio secolo), anche perché sono mutati o incrementati i fattori di rischio: i) la maggiore complessità interna dell’azienda; ii) il più largo impiego di tecnologie; iii) il maggiore rischio competitivo per la globalizzazione e per la pressione competitiva aumentata; iv) l’accorciamento dei cicli di vita dei prodotti e dei processi produttivi; v) l’importanza della compliance e del rispetto delle sempre più numerose e dettagliate normative, anche di quelle specifiche di settore; vi) la turbolenza ambientale, con ritmi e frequenze sempre più ricorrenti e imprevedibili, ivi compresi i fenomeni imprevedibili della pandemia, sì da rendere quasi obsoleto il vecchio concetto di “ciclo economico”; vii) la velocità e l’intensità della transizione tecnologica (rivoluzione digitale), con esigenze di investimenti per l’innovazione; viii) l’impatto della transizione ecologica, con la rapida obsolescenza di materiali plastici e inquinanti ed esigenze di rigenerazione dei prodotti e dei processi produttivi; ix) la finanziarizzazione dell’economia e lo sviluppo dell’ intermediazione finanziaria non bancaria; x) per l’Italia, la consapevolezza dei limiti della piccola dimensione, con l’esigenza tendenziale della crescita, anche attraverso strutture di gruppo e di reti e alleanze aziendali.

La finalità perseguita da questo contributo è quella di cercare di fornire un chiarimento sistematico, resosi particolarmente necessario per le rilevanti novità concettuali e termologiche introdotte al riguardo nel diritto della crisi e per le ricorrenti riformulazioni che si sono susseguire in un breve lasso di tempo.

Il taglio è quello aziendalistico, posto che i fenomeni trattati sono economico aziendali e le stesse norme, dalla legge delega n. 155 del 2017 al CCI rimandano espressamente alla scienza aziendalistica.

 

2.        Rischio, incertezza, asimmetrie e limiti cognitivi nella conduzione dell’impresa

La natura probabilistica dell’impresa, come sistema dinamico e aperto, quindi, come tale, costantemente esposto agli accadimenti esterni, ne comporta inevitabilmente delle sollecitazioni, tradizionalmente individuate nelle categorie del rischio (se ed in quanto statisticamente e probabilisticamente prevedibili) e dell’incertezza: fenomeno quest’ultimo legato all’imponderabilità, alla sorpresa, all’irregolarità degli imprevisti[2].

Poiché l’impresa non è solo un’unità economica interagente con l’ambiente esterno, ma anche un sistema dotato di una struttura interna complessa, specie oltre la soglia della microimpresa, rilevano, ai fini di potenziali turbative del suo stato di dinamico equilibrio, anche le alterazioni dei suoi assetti interni, organizzativi, gestionali e informativi.

Non ultima, ma sempre più riconosciuta in letteratura, vi sono le dimensioni cognitive e comportamentali del soggetto aziendale, che nelle imprese maggiori non può essere circoscritto all’imprenditore, ma deve almeno ricomprendere il management a diversi livelli della sua struttura. Tale profilo coinvolge le capacità di superare i limiti soggettivi di razionalità, tramite idonei sistemi di supporto per le decisioni, ma anche l’attitudine a mitigare i problemi di asimmetria informativa intersoggettiva esterna (con altri operatori economici) e interna (tra amministratori e soci, tra amministratori e management): profili da cui possono scaturire rischi di errori decisionali (strategici e operativi) e di condotte opportunistiche potenzialmente dannose per l’equilibrio aziendale, fino alla mala gestio.

Naturalmente, il problema si complica ulteriormente, in termini di scala di complessità, quando si passa alla struttura dei gruppi aziendali, quali entità economiche unitarie, ma pluralistiche per quanto concerne le soggettività giuridiche, emergendo, oltre ai rapporti plurimi con il mercato e con l’ambiente esterno, anche la rete delle interrelazioni infragruppo, nella non semplice dialettica tra l’equilibrio aziendale della singola società e l’equilibrio del gruppo nel suo complesso, che richiedono la soluzione di rilevanti trade off per il loro contemperamento e che l’evoluzione normativa e giuridico dottrinale ha sempre più ricondotto allo schema dei vantaggi compensativi[3].

Si intrecciano quindi fattori inintenzionali esterni e interni (volatilità dei mercati, peggioramenti delle situazioni politiche, calamità sanitarie, transizione tecnologica, complessità strutturale dell’impresa) e fattori intenzionali (errori strategici e manageriali, irrazionalità decisionale e opportunismo) nel percorso evolutivo dell’impresa.

La scienza aziendale italiana ha fissato da molto tempo[4] il suo modello interpretativo del fisiologico (e patologico) funzionamento dell’azienda e in particolare dell’impresa produttiva, incardinandolo sul concetto di generale equilibrio a valere nel tempo e delle sue particolari condizioni prospettiche di equilibrio patrimoniale, economico e finanziario.

Rileva in proposito la dimensione sempre prospettica delle condizioni di equilibrio, segnando i limiti delle valutazioni storiche e attuali, che comunque rilevano se e in quanto rivelatrici di tendenze di fondo presumibilmente, ancorché non deterministicamente, persistenti nel tempo.

Si pensi anche alla letteratura strategica e organizzativa internazionale, che ha dimostrato l’esistenza nelle imprese delle cosiddette “inerzie organizzative” e delle “resistenze al cambiamento”, che costituiscono potenziali cause di crisi, in presenza di esigenze di adeguamento frenate e distorte da condizionamenti di fattori interni strutturali e comportamentali[5] (tradizioni, rituali, cultura arretrata, procedure e prassi obsolete, tecnologie superate, vincoli contrattuali, articolazione rigida e burocratica delle responsabilità funzionali).

Si noti bene che il concetto di equilibrio generale non solo costituisce una sintesi delle suddette condizioni, misurabili e anche formalmente integrabili tramite il sistema dei valori contabili consuntivi e soprattutto preventivi, ma anche di un complesso di fattori qualitativi che, a seconda delle circostanze, possono presentarsi come fattori di successo o di insuccesso (inerzia strategica, portafoglio prodotti in declino, perdite di quote di mercato, perdita di clientela primaria, non qualità dei prodotti e dei processi, fuoriuscita di manager esperti, datazione dei brevetti, deterioramento reputazionale).

 

3.        Crisi e insolvenza nel diritto della crisi

L’avvicinamento della dimensione giuridica dei fenomeni di crisi e di insolvenza con la prospettiva aziendalistica si è prodotto recentemente, con la legge delega n. 155 del 2017, in particolare con l’introduzione della nozione di crisi e con una prospettazione, innovativa nell’ambito del diritto positivo, di insolvenza come “fenomeno probabilistico”.

L’art. 2 della legge delega prevede infatti, al punto 2, lettera c), di “introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l’attuale nozione di insolvenza di cui all’art. 5 del r.d. del 16 marzo 1942, n. 267.”.

Tale avvicinamento si fonda proprio sulla riconosciuta natura probabilistica dei fenomeni del sistema aziendale, dinanzi menzionata, esplicitando il richiamo proprio alla “scienza aziendalistica”.

Si tratta di una novazione fondamentale, perché il legislatore ha colto bene il fenomeno del reale, l’esatta natura del sistema “azienda” e dei suoi fenomeni, anche patologici, rovesciando la prospettiva da una concezione dell’insolvenza definibile come tale soltanto se e quando “manifesta”, quindi acclarata e dimostrata ex post, per accogliere anche l’ipotesi di “probabilità di futura insolvenza”.

È mancato però al legislatore lo scatto logico di intendere l’insolvenza, in quanto tale, come fenomeno preventivo (scostandosi in questo modo dal solco della scienza aziendalistica, ancorché richiamata), in quanto a chiare lettere viene ribadito il mantenimento dell’attuale nozione di insolvenza, di cui alla legge fallimentare.

La predittività della crisi è quindi sì riconosciuta, ma nella precisa e circoscritta dimensione della nozione di crisi: vi è crisi, quando è prefigurabile l’insolvenza, e ovviamente se ne deduce, ceteris paribus, in assenza di interventi correttivi.

A ben vedere, non si fornisce una nozione “diretta” di crisi, ma una nozione “indiretta”, come prefigurazione della probabilità di futura insolvenza.

Si rinuncia a caratterizzare la crisi, rimandando però ai contributi della scienza aziendalistica, ma se ne vuole evidenziare la relazione causale, probabilistica, con l’involuzione della situazione presente di crisi verso lo stato di insolvenza.

In concreto, la norma intende stabilire una relazione causale e diacronica tra crisi e insolvenza, con un’evidente valorizzazione del rischio di insolvenza - anziché della mera scientia decoctionis di un tempo, obiettiva, certa e documentabile, ma sostanzialmente quasi inutile a scopi di rimedio, proficua semmai per azioni di responsabilità ex post, la cui anticipazione conoscitiva può invece possedere un significato salvifico, quindi non meramente conoscitivo.

Va dunque precisato il fatto, da un lato, che la nozione di insolvenza rimane ancorata, secondo tradizione, ad una dimostrata incapacità di adempiere alle obbligazioni da parte dell’impresa[6]; mentre, dall’altro lato, si prefigura la sua predittività, su basi probabilistiche (quindi secondo idonee metodologie e non certo solo intuitivamente), entro gli stretti confini dello stato di crisi, la cui natura, i cui sintomi attuali, le cui cause non sono però precisati.

Tuttavia, si assegna alla fase della crisi una speciale importanza di diagnostica preventiva e la si carica non solo di significati, ma anche di precise responsabilità degli organi di amministrazione e di controllo di poter agire “per tempo”, introducendo, questo è evidente, un metodo di amministrazione e di controllo forward looking e più esattamente:
a) una conduzione da parte degli amministratori dell’impresa in crisi consapevole della probabile involuzione verso lo stato di insolvenza, con la responsabilità di avvalersi del tempo disponibile per evitare o almeno mitigare la deriva della crisi verso l’insolvenza, mediante opportune iniziative gestionali e organizzative, rette da idonei supporti informativi non più, ovviamente, meramente contabili-consuntivi, ma soprattutto orientati al futuro, quali budget e simulazioni, a preminente contenuto finanziario;

b) un’attività dell’organo di controllo riorientata verso la vigilanza proattiva, senza dimenticare le verifiche di conformità, ma consapevole della attenta e frequente analisi preventiva e probabilistica (avendo il collegio sindacale e i revisori le competenze professionali adatte), tramite indici, segnali, flussi informativi prospettici, di prevalente focalizzazione sulle dinamiche finanziarie e sulle implicazioni patrimoniali: si pensi alla cosiddetta “gestione del capitale circolante netto operativo”, che può assorbire liquidità anche solo per un’ inopportuna gestione del magazzino, con il fenomeno esiziale, proprio dal punto di vista finanziario, del bottle neck, provocato da rischiosi eccessi di rimanenze; unitamente al rischio di credito e alla politica di approvvigionamento e di dilazione dei pagamenti verso i fornitori.

E’ evidente il collegamento strumentale tra questa rafforzamento dell’impegno amministrativo e di controllo per prevenire l’insolvenza implicito nella nozione di crisi con la chiara indicazione, contenuta nell’art. 14 delle legge delega, di prevedere: “b) il dovere dell’imprenditore e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l’adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale;”.

Con la legge delega si è posto il fondamento di un deciso cambio di passo, precisando che occorrono nuovi strumenti (per il diritto), invero da molto tempo raccomandati dalla dottrina aziendalistica e soprattutto da quella manageriale internazionale[7], affinché la fase della crisi non si areni in uno stato di inerzia, ma produca una reazione proattiva, per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale, posto che questi interventi dovrebbero al contempo prevenire l’insolvenza, vista come fenomeno esiziale della vita dell’impresa.

La rete concettuale è invero complessa, al di là di una sequenza che il legislatore sembra rappresentare tra un prima - “lo stato di crisi” - e un dopo ancora remoto, in quanto “soltanto” probabile a quel tempo: vale a dire l’insolvenza. Si tratta di una visione diacronica e sequenziale invero tipica nel concreto e prevalente nell’analisi economico-aziendale. Ma non è l’unica possibile e quindi può tendere ad una certa semplificazione dei fenomeni reali.

Anche accogliendo questa impostazione logica di tipo sequenziale, non sempre la soluzione della crisi (non necessariamente finanziaria, ma organizzativa e gestionale, ad esempio per la fuoriuscita del direttore commerciale e per la perdita repentina di clientela) trova rimedio definitivo con una soluzione “tecnicamente” coerente (l’assunzione di un nuovo e capace manager commerciale e il recupero di ordini), perché nel mentre potrebbero essersi incrinati i rapporti con il sistema bancario, oppure perché l’azienda ha aggravato in maniera irreversibile la sua esposizione debitoria.

Si vuole dire che le relazioni causa-effetto possono essere non solo sequenziali e in correlazione semplice tra fenomeni in successione temporale tra loro, perché le dinamiche collaterali e parallele possono emergere, accompagnare, aggravare o addirittura sopravanzare l’originario fenomeno di crisi. In altri termini, le soluzioni, ancorché coerenti e rispondenti al fenomeno causativo della crisi, non sempre ne garantiscono il buon esito, in quanto la propagazione della crisi - quanto più è lungo il lasso di tempo tra conoscibilità della crisi e manifestazione effettiva, fattuale dell’insolvenza - può avere effetti di accelerazione e di pervasività nel sistema aziendale incontrollabili.

La considerazione, in definitiva, è che l’aver colto nella nozione di crisi, in un’accezione obiettivamente convenzionale, la probabilità di futura insolvenza, costituisce un deciso passo avanti e, per un’ampia casistica, coerente, unitamente al principio di tempestività ribadito due volte all’art. 14 della legge delega; ma la conservazione di una nozione di insolvenza, comunque ancora solo fattuale e quindi manifesta ex post, concede un lasso di tempo assai rischioso per intervenire opportunamente e per impedire la propagazione dei fattori evidenti e latenti di crisi e di insolvenza in atto.

La prospettiva aziendalistica, a tale proposito, tende ad essere più radicale, in quanto interpreta lo stato di insolvenza, o quantomeno il rischio di insolvenza, quando è già conoscibile lo squilibrio finanziario prospettico, restringendo (anticipando) notevolmente il divario temporale tra conoscibilità della crisi e riconoscimento del fenomeno di insolvenza. In pratica, se un budget di tesoreria mensilizzato, redatto in maniera rigorosa, mostra uno squilibrio evidente sul piano finanziario-patrimoniale, in una interpretazione logicamente coerente dello squilibrio monetario-finanziario (che è sempre una condizione prospettica e di breve periodo), si evidenzia con ragionevole certezza una diagnosi anticipata (e non solo ex post) dell’insolvenza,

Il carattere radicale della prospettiva economica riposa nel fatto che, se lo strumento affidabile di diagnosi preventiva rilascia l’evidenza di uno stato di insolvenza, questa risulta già accertata, senza l’attesa di una diagnosi a posteriori, fattuale e documentata da effettive inadempienze. Certo, con quest’ultima accezione si concede al debitore ulteriore tempo e verificabilità, ma si concede anche tempo di propagazione ai fattori causativi di insolvenza.

Questo iato tra nozione di insolvenza anticipatoria o tardiva, ancorché probabilisticamente prefigurata nella fase di crisi, viene acuito in parte nel CCI, anche se per altri aspetti vengono gettati importanti ponti tra norma e scienza aziendalistica, con le seguenti definizioni:

a) “crisi”: lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’in­solvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate;

b) “insolvenza”: lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

L’indeterminatezza circa “lo stato di difficoltà” è poi stata risolta in tempi brevi dal provvedimento correttivo con la seguente precisazione:

All'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n.14: a) alla lettera a), le parole “difficoltà economico-finanziaria” sono sostituite dalle seguenti: “squilibrio economico-finanziario”.

Per capire il senso e la ricaduta di queste successive e oscillanti precisazioni sulla definizione di crisi, che evidentemente scontano anche la portata novativa di questo concetto in ambito giuridico, va detto che lo “stato di difficoltà” implica certamente una maggiore indeterminatezza circa l’intensità e la durabilità della crisi. Non è precisato infatti, se fossero ricomprese anche difficoltà meramente temporanee, ovvero latenti e non manifeste, ovvero di modesta intensità e non tali da determinare implicazioni sulle condizioni di equilibrio. Non sarebbe esclusa nemmeno una situazione di pre-crisi o di evento esterno temporaneo (si pansi alla pandemia, nei casi di non avvenuta lesione degli equilibri aziendali).

È chiaro che, quanto più è vaga e indeterminata una definizione di crisi, tanto più essa può risultare flessibile e versatile e adattabile ad un più ampio raggio di fattispecie concrete, con la conseguenza pratica di poter anche anticipare notevolmente l’identificazione dello stato di crisi nel continuum di situazioni gestionali che si possono presentare. Se da un lato questa apertura può risultare funzionale ad una maggiore anticipazione della reattività dell’impresa a crisi anche solo potenziali, apparendo come una possibilità virtuosa; dall’altro lato questa disponibilità potrebbe tradursi in rischi di abuso nel ricorso a strumenti e a procedure previsti dall’ordinamento per la gestione della crisi, anche per accedere a misure protettive da parte del debitore.

La definizione emendata dell’originario testo del CCI, con l’esplicitazione dello squilibrio economico-finanziario, invece, ha il pregio, sul piano metodologico, di accogliere categorie robuste e sicure della tradizione scientifica dell’Economia Aziendale italiana: quelle delle condizioni di equilibrio, che, va precisato, sono in realtà un sistema di tre condizioni, ivi compresa quella patrimoniale (invero dimenticata). Quanto alle condizioni economica e finanziaria, esse sono peraltro distinte, pur interconnesse, per cui la locuzione “squilibrio economico-finanziario”, in una interpretazione puntuale, non deve livellare i diversi rilievi, ancorché collegati, dello squilibrio economico e dello squilibrio finanziario, che possono in concreto presentare solchi importanti. Si pensi al caso di un importante fatturato riveniente dal principale cliente, che soddisfa l’equilibrio economico, con un emergente rischio di credito, in caso di forti ritardi di incasso: aspetto che attiene strettamente l’equilibrio finanziario.

L’art. 13, comma primo, del CCII (testo previgente), forniva un’ulteriore indicazione:“Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario”, che appare più completa in termini di richiamo alla natura triplice (e non altrimenti) delle condizioni prospettiche di equilibrio.

E’ evidente, in questo caso, che il legislatore ha collocato gli squilibri in una relazione causa-effetto rispetto al fenomeno della crisi, con una contraddizione logica apparente: gli squilibri economico e finanziario (e forse anche quello patrimoniale, in un’interpretazione corretta e sistematica) risulterebbero al tempo stesso l’elemento significato e l’elemento significante, la causa e l’effetto stessi, in quanto gli indicatori del fenomeno (la crisi) coinciderebbero con il fenomeno stesso (la crisi, secondo la definizione fornita all’art. 2).

La spiegazione scientifica eocnomico-aziendale pone gli squilibri in parola non a livello pragmatico di meri indicatori, considerandoli in realtà come fenomeni (come significati), mentre gli indicatori (i significanti) sono invece fatti e misurazioni, eminentemente monetarie (o altre manifestazioni e misurazioni non monetarie, ma collocate in una gerarchia segnaletica succedanea). Gli indici, a loro volta, costituiscono un ulteriore sviluppo metodologico nel percorso diagnostico della crisi, con valenza strumentale, segnaletica e precisamente mediante un sistema ragionato di quozienti (ratios) tra grandezze rilevanti del bilancio d’esercizio o di altre risultanze consuntive e preventive della management accounting aziendale (bilanci intermedi, piani pluriennali, budget).

Pertanto, se il previgente testo del CCI, tramite il richiamo - sia in sede di definizione della crisi (art. 2) che in sede di selezione degli indicatori della crisi - agli squilibri economico, finanziario e patrimoniale, si è notevolmente approssimato all’impostazione scientifica dell’Economia Aziendale, pur con una non chiara sistematica delle relazioni mezzo a fine, altrettanto non si può dire per quanto concerne l’insolvenza.

Nel dettato normativo anche del testo definitivo l’insolvenza rimane infatti un fenomeno essenzialmente fattuale, attuale, consuntivo nella sua nozione, essendo la probabilità di futura insolvenza la condizione che integra lo stato di crisi. Sono quindi i dimostrati e comprovati eventi di mancato regolare adempimento delle obbligazioni che rilevano ai fini della definizione dell’insolvenza e gli strumenti aziendali (indici, indicatori, squilibri) altro non sono, pur nella loro maggiormente riconosciuta importanza, che informazioni di origine contabile e di misurazione preventiva idonei solo al riconoscimento della probabilità di insolvenza e quindi dello stato di crisi stesso.

L’impianto metodologico aziendalistico, quindi, non soccorre alla individuazione del fenomeno dell’insolvenza se non come tempestiva rilevazione dello stato di crisi, rimanendo l’accertamento dell’insolvenza connesso con evidenze empiriche fattuali (inadempimenti effettivi, morosità, scaduto dei fornitori, atti di precetto e decreti ingiuntivi) o con rilevazioni contabili consuntive e rivelatrici del raggiunto stato di decozione.

Il ricorso a budget finanziari e di tesoreria, pertanto, è utile come funziona segnaletica di una probabilità di insolvenza futura, e quindi dell’accertamento dello stato di crisi, ma non dell’accertamento dell’insolvenza in sé. Sono chiare le ricadute di una diversa interpretazione, perché potrebbero essere ricondotte alla procedura di liquidazione giudiziale aziende “prevedibilmente” insolventi o escluse dalla composizione negoziata della crisi aziende giudicate insolventi ex ante, fatto salvo il caso, non scontato nel suo esito, in quanto ricondotto alla valutazione dell’esperto, della cosiddetta insolvenza reversibile.

 

4.        La probabilità di insolvenza

Indubbiamente, gioca un ruolo importante il fattore tempo, e con esso il flusso gestionale che si sviluppa in quel determinato lasso temporale, in relazione alla probabilità di insolvenza. Va precisato il fatto che la probabilità di futura insolvenza non integra una condizione di incertezza, ma di rischio. L’incertezza esprime una condizione che prelude ad eventi imponderabili, imprevisti e non individuabili ex ante né qualitativamente, né quantitativamente.

Invece il rischio è connesso con la dimensione probabilistica, in quanto il fenomeno rischioso, quindi potenzialmente generatore di un danno, può essere configurato, anche solo per proxy, non di rado con accettabile grado di attendibilità, sia in termini qualitativi che quantitativi, sulla base di idonee metodologie, statistiche e contabili: statistiche degli insoluti, anzianità dei crediti, saldi contabili dei maggiori debitori e creditori, grado di concentrazione/polverizzazione dei crediti, concentrazione della clientela, fino a informazioni quantitative più sistematiche e complesse, quali i bilanci, le situazioni contabili intermedie, i flash report (rapporti gestionali contingenti), i budget di tesoreria e quelli finanziari, gli indici di liquidità, fino agli indicatori di rischio e di anomalia, specialmente di tipo monetario e finanziario.

La predittività dell’insolvenza è dunque una capacità di “catturare” anticipatamente, tramite accreditate metodologie, a loro volta, supportate da affidabili strumentazioni tecnico-aziendali, un fenomeno essenzialmente “rischioso” e non incerto, come potrebbe essere ad esempio quello degli effetti della pandemia sui livelli di liquidità aziendale, che ha reso immediatamente invalidi e superati i budget finanziari di molte imprese; analogamente al crunch finanziario del 2008.

L’insolvenza probabile e preventivamente stimabile come fenomeno legato all’incertezza, ai fini di adire a procedure concorsuali e a strumenti di composizione negoziata, appare un presupposto non facilmente praticabile e giustificabile. E non si tratta nemmeno di prospettiva temporale, perché se è vero che l’incertezza è tipicamente crescente in relazione all’estensione dell’orizzonte temporale, le turbolenze connesse con gli eventi pandemici e della volatilità dei mercati finanziari hanno dimostrato una immediatezza d’impatto sorprendente, tali da paventare immediatamente, senza il passaggio attraverso uno stato di crisi (o di pre-crisi), il rischio dell’illiquidità e dell’insolvenza.

L’insolvenza legata a fenomeni di incertezza, anche violenti e immediati, dunque, esiste e può senz’altro ripetersi (eventi bellici, attacchi terroristici, calamità naturali e sanitarie), ma rimane circoscritta a fenomeni difficilmente accostabili alla nozione di crisi in senso giuridico, per le implicazioni sul sistema delle imprese e sulle decisioni giudiziarie che altrimenti ne conseguirebbero, con specifico riferimento alla definizione di “probabilità di insolvenza” in situazioni di pre-crisi e di crisi sufficientemente prolungate per impostare idonee strategie preventive di fronteggiamento e di superamento.

Ciò non esime le imprese, proprio per le recenti esperienze diffuse a livello generale, di attrezzarsi strategicamente con soluzioni di flessibilità nei modelli di business (si pensi alla selezione dei fornitori nazionali rispetto a quelli esteri e più remoti), nelle configurazioni organizzative (meno rigide e facilmente ridimensionabili, quando necessario), nei supporti di risk management e di adozione di strumenti di simulazione (what if analysis), piuttosto che di mera programmazione convenzionale (piani e budget).

 

5.        L’accertamento prognostico dell’insolvenza

Appare quindi ragionevole ricomprendere, come norma di carattere generale, nel perimetro delle situazioni di probabile insolvenza, per quanto disposto all’art. 2 della legge delega e all’art. 2 del CCI, le prospettazioni di stati di insolvenza non meramente incerti e vaghi, per quanto possibili, ma quegli stati di insolvenza preventivamente configurabili solamente attraverso accreditate (dalla scienza e dalla best practice) metodologie statistiche e contabili, specie, oramai, di quelle appartenenti alla sfera della management accounting, essendo le risultanze di contabilità generale (bilanci d’esercizio, bilanci intermedi, consuntivazioni) sempre meno idonee allo scopo, se non per mere analisi di trend e di estrapolazione di proiezioni.

Più precisamente, appaiono realisticamente proponibili le seguenti considerazioni di massima:

a)        in un’impresa caratterizzata da un obsoleto stile di conduzione imprenditoriale e manageriale, ovvero nella microimpresa con poche risorse e uno stile totalmente informale di gestione, l’insolvenza, essendo carenti o assenti le idonee strumentazioni di analisi probabilistiche, non può che essere colta ex post, o al meglio in maniera concomitante al fenomeno, secondo la classica nozione aziendale di “manifestazione finanziaria” e conclusiva della crisi, avendo la crisi prevalente natura interna, industriale, gestionale, immanente al deterioramento del modello di business: non vi sono altre evidenze, se non gli inadempimenti, le irregolarità e tardività sistematiche nel far fronte alle obbligazioni (sovente nemmeno pianificate), le iniziative recuperatorie avviate dai creditori, le eventuali manifestazioni esterne dei lavoratori per salari non corrisposti: l’insolvenza è soprattutto manifestazione esterna della crisi e si oggettiva nel deterioramento dei meccanismi di mercato: inadempimenti contrattuali, mancata corresponsione dei prezzi dei fattori produttivi a vario titolo negoziati con gli stakeholders (dipendenti, fornitori, professionisti, erario, banche).

 La prevedibilità dell’insolvenza dai dati consuntivi di bilancio può essere limitata a evidenze estremamente forti e persistenti nel tempo (deficit patrimoniale, capitale circolante netto fortemente negativo, cash flow strutturalmente negativo), pertanto in presenza di fenomeni patologici particolarmente gravi e pervicaci, con assenza di tempestività di rilevazione e di rimedio, quindi con conseguenti aggravamenti del dissesto in difetto di reattività.

b)        Al contrario, l’impresa manageriale (a prescindere dalla dimensione), dotata di strumenti di pianificazione e controllo (management accounting) che integrino le consuntivazioni della contabilità generale - quindi con un orientamento al futuro del sistema informativo contabile e statistico - possiede capacità di preventivazione significative, eventualmente rafforzate da ricorrenti controlli budgetari (mensili), specie se accompagnate da soluzioni di information technology adeguate e da una cultura manageriale capace di tradurre in vigilanza e in comportamenti proattivi i flussi informativi disponibili, diffusi nei diversi punti della struttura aziendale. Tutto ciò è in grado di rappresentare ex ante un quadro diagnostico probabilistico di una possibile insolvenza futura di fonte interna, con un livello di anticipazione tale da consentire valutazioni e interventi che non debbano attendere le manifestazioni esteriori le iniziative dei terzi, chiare, evidenti e oggettive, ma tardive e pericolose per la non controllabilità dei comportamenti dei soggetti esterni informati dell’insolvenza dell’impresa.

c)        L’orizzonte temporale può essere dirimente, in quanto gli strumenti convenzionali di programmazione aziendale, per quanto siano sicuramente opportuni, sono costruiti fisiologicamente per stime relative a dinamiche non di forte e rapida discontinuità, consentendo di esprimere valutazioni ex ante con un grado di tempestività di breve periodo (6-12 mesi), per il perseguimento di un riequilibrio omeostatico, cioè di un riaggiustamento delle condizioni di crisi o anche di insolvenza reversibile in sostanziale continuità evolutiva rispetto al precedente livello di equilibrio colpito dalla crisi, con un’attenzione maggiore verso lo squilibrio finanziario, attinente cioè ai flussi di entrate e di uscite conoscibili con adeguato anticipo (presumibilmente i flussi in uscita predefinibili corrispondono alle “obbligazioni pianificate” indicate all’art. 2 del CCI).

d)        In presenza invece di effetti di turbolenze particolarmente forti e di immediato impatto (come si è visto per i provvedimenti governativi a seguito della pandemia covid 19), e comunque di deterioramento particolarmente rapido dello stato di crisi (ad esempio revoche degli affidamenti bancari, interruzione del ciclo degli approvvigionamenti da parte di fornitori strategici non pagati) o di effetti di ricadute di nuovi eventi, anche legati a fenomeni di incertezza (quindi non probabilistici), la capacità di cogliere in via predittiva i sintomi dell’insolvenza e di reagire adeguatamente dovrebbe basarsi sui requisiti di prontezza e di proattività dell’impresa (del suo management), che non coincidono con la mera tempestività (intesa come reattività a eventi prevedibili su base probabilistica stimabili con sufficiente anticipo, per quanto breve). In questo caso, i danni prodotti da ritardi anche contenuti tramite una reazione tempestiva possono essere fortemente pregiudizievoli per i creditori e per la continuità aziendale, impedendo una tenuta dell’equilibrio monetario e subendo in pieno il precipitare verso l’insolvenza, forse anche irreversibile. Si tratta di situazioni in cui il riequilibrio a tendere, salvifico, non rientra nei binari dell’equilibrio omeostatico, che consentono sì una reazione dinamica, ma lungo un tracciato sostanzialmente lineare con l’evoluzione storico-evolutiva dell’impresa.

e)        Quando ricorrono i limiti di percorribilità di un riequilibrio di tipo omeostatico, a fronte di precisi limiti di previsione dell’insolvenza su basi meramente probabilistiche (ripetiamo, in virtù di un set informativo e contabile aziendale, anche di tipo programmatorio, convenzionale), ovvero quando la reattività non può essere nemmeno accettabile nell’arco temporale di sei mesi, perché le esigenze di prevenzione dell’insolvenza, partendo da uno stato di crisi o di pre-crisi (da non escludere nemmeno il caso di una iniziale situazione di azienda in bonis), richiedono, come si è detto, prontezza diagnostica e proattività di intervento con opportuni rimedi (situazioni che in contesti turbolenti a tutta evidenza sempre più frequenti), necessita dunque riorientare immediatamente o ancor meglio anticipatamente l’impresa verso un riequilibrio eterostatico, vale a dire verso una situazione di equilibrio del tutto discontinua rispetto al passato, con operazioni straordinarie di turnaround preventivo, sulla base di informazioni esclusivamente predittive: analisi di sensitività (what if analysis), stress test, issue analysis, controllo tendenziale della direzione di marcia (steering control), benchmarking dei dati aziendali dei concorrenti, sorveglianza dei “segnali deboli” (week signals), in grado di esprimere a livello ancora embrionale, ma fortemente anticipatorio, potenziali minacce strategiche e gestionali (perdita di clienti chiave, ritardi di avanzamento di importanti commesse, segnali di crisi di importanti clienti, criticità nei mercati serviti)[8].

Riguardo a quest’ultima situazione, la disponibilità di un sistema informativo multidimensionale, orientato sia all’interno (la gestione aziendale) che all’esterno (mercati, concorrenti, tendenze della clientela); ma soprattutto fertile di sintomi predittivi (non programmati razionalmente come i budget, né ovviamente limitati ai convenzionali consuntivi di bilancio), introduce un atteggiamento manageriale non di mero controllo, ma di “sorveglianza” proattiva dei segnali premonitori, dei sintomi predittivi, su cui poter sviluppare con immediatezza, con prontezza dunque, proiezioni, anticipazioni virtuali di scenari in diverse ipotesi (worst and best) percorribili, prefigurando e non aspettando sintomi più evidenti (i segnali forti, chiari, ma purtroppo tardivi), per evitare l’insolvenza (o per mitigarne quanto prima gli effetti), non per assumere provvedimenti tempestivamente, vale a dire lodevolmente “senza indugio”, ma pur sempre dopo un certo lasso di tempo che può risultare pregiudizievole.

 Una possibile evoluzione della base informativa aziendale (per le imprese più strutturate e per i grandi gruppi societari) per la predizione di insolvenze, non basata su modelli comunque storicizzati e di mera proiezione di trend di indici selezionati (come i noti, ma datati modelli di Altman o di Alberici)[9], ma attivata utilizzando complessi patrimoni informativi (big data, banche dati, dati di scenari variati), tramite lo sviluppo di mirati algoritmi predittivi (invero già in uso nel sistema delle imprese bancarie, finanziarie e assicurative), è quella dell’impiego dell’intelligenza artificiale, a supporto del management, dei consigli di amministrazione, dei collegi sindacali[10]. In presenza di elevati rischi di default e di potenziali ingenti pregiudizi ai creditori, date le dimensioni dell’attivo amministrato e del passivo societario o di gruppo, queste soluzioni metodologiche e tecnologiche, oggi sempre più accessibili, appaiono realisticamente opportune, in un contesto ambientale che presenta non più solo delle dinamiche evolutive in cui è ragionevolmente possibile ritrovare in tempi brevi (tempestivamente) un equilibrio omeostatico temporaneamente indebolito; ma delle turbolenze irregolari e discontinue in cui dover ricercare con prontezza, precocemente, un riequilibrio eterostatico, che implichi modifiche significative del modello di business, operazioni straordinarie, cessioni di rami aziendali o dell’azienda con allestimenti rapidi di data room, riorganizzazioni del gruppo con pre-verifiche virtuali del loro impatto sul riequilibrio del gruppo: un nuovo e diverso equilibrio, rispetto a prima, per evitare l’insolvenza o per recuperare la solvibilità (in caso di insolvenza reversibile), attraverso non solo tracce e percorsi predefinibili, ma soprattutto sulle basi di sentieri di apprendimento predittivo e quindi di euristiche, in cui i rischi di errore siano oggetto di valutazione preventiva.

Un esempio attuale è quello di una piccola e media impresa del Centro Italia, fornitrice di una società appartenente ad un gruppo internazionale investito dalla chiusura del mercato russo, senza una prefigurabile data di riapertura dei flussi commerciali verso quel mercato. Tale cliente assicura da anni oltre due terzi dell’intero fatturato dell’impresa, che attualmente non ha alcun sintomo di crisi, né tantomeno di probabile insolvenza, sulla base dei presupposti oggettivi della legge delega n. 155/2017 e del CCI e sulle tracce dei bilanci e persino del budget aziendale.

Ma l’equilibrio omeostatico dell’azienda, così come la solvibilità verso la massa dei creditori, presenta ora nuovi profili, vaghi e indefiniti, di precarietà, per eventi esterni e non per inefficienze interne gestionali o per carenze organizzative.

Gli amministratori si stanno però interrogando sugli esiti di scenari variati, anticipatamente, rispetto a possibili involuzioni del mercato e delle scelte strategiche del cliente internazionale, le cui opzioni possono oscillare da un riorientamento verso nuovi mercati (essendo precluso per tempi indefiniti quello russo), fino alla cessione dell’azienda a competitor internazionali effettivamente interessati, fino ancora alla chiusura dello stabilimento in Italia e alla cessazione della produzione italiana, con accorpamento delle attività presso un’altra azienda europea del gruppo.

L’impresa fornitrice italiana sta quindi simulando diverse ipotesi strategiche e organizzative per predisporre soluzioni che potrebbero rendersi necessarie e opportune, con scelte future analizzate preventivamente mediante anche comparazioni economiche, finanziarie e patrimoniali, in ordine ad una profonda ridefinizione del modello di business, alla riconversione produttiva, alla ricerca di nuovi clienti e nuovi mercati, secondo un percorso di perseguimento di un equilibrio eterostatico e non più solo omeostatico, prendendo in considerazione più opzioni strategiche per prevenire (non per gestire) la crisi e l’insolvenza.

 

6.        L’insolvenza definibile anticipatamente

L’analisi sviluppata sulla conoscibilità preventiva dell’insolvenza, non solo su base probabilistica, ma anche attraverso euristiche, pone un interrogativo circa la natura stessa dell’insolvenza, vale a dire: i) se essa abbia solo natura fattuale, in quanto consuntivata e comprovata da inadempimenti e da fatti esteriori (insolvenza manifesta); ii) ovvero se sia tale anche quando può essere attendibilmente certificata sulla base di elementi conoscitivi preventivi, vuoi probabilistici, vuoi predittivo-simulativi.

La prima soluzione risponde all’impostazione giuridica tradizionale e sembra aderente alla nozione del CCI, che conferma quella già affermata nell’art. 5 della legge fallimentare.

La seconda soluzione, con specifico riferimento alla natura probabilistica della previsione dell’insolvenza, che però già ne coglie la natura, ipotizzando implicitamente che le condizioni di squilibrio siano tali ed evidenti da non poter ragionevolmente aver dubbi sulla insussistenza dello stato di insolvenza, ancorché non ancora manifesta per inadempimenti e altri eloquenti fatti esteriori, è stata presa in considerazione nell’ambito della dottrina giuridica e parzialmente in sede giurisprudenziale, accostandosi all’impostazione aziendale tradizionale, che tende a far coincidere lo stato di insolvenza non già con gli inadempimenti soltanto, ma ancor prima che questi si appalesino, allorquando la conoscibilità contabile (da squilibri finanziari evidenti nei bilanci e soprattutto da budget finanziari a tutta evidenza irraggiungibili sulla base delle risultanze in atto) ne decreta la ineluttabilità, senza dover attendere i chiari segnali delle iniziative recuperatorie dei creditori.

Bilanci con evidenze di profondo e irrecuperabile dissesto finanziario e patrimoniale, budget finanziari d’esercizio che già si presentano mancati e che appaiono superati e privi di credibilità di perseguimento nei primi mesi della loro implementazione, in mancanza di ulteriori possibilità di apporti di finanza da parte dei soci e di terzi, senza una concreta vendibilità dell’azienda o di suoi rami o di importanti asset, nell’ottica aziendalistica esprimono non solo delle mere rilevazioni (consuntive e /o preventive), ma configurano un preciso stato di insolvenza.

In queste circostanze, il significante è consustanziale rispetto al significato, vale a dire che la dimostrata esistenza di uno squilibrio patrimoniale e finanziario, su rigorose basi metodologiche contabili preventive, integra di per sé lo stato di insolvenza.

È evidente che la dimostrazione anticipata e quindi tempestiva dell’insolvenza è assai più pronunciata in caso di impiego di budget d’esercizio mensilizzati, che consentano controlli budgetari ricorrenti in corso d’anno, specie se completati da proiezioni a finire: a fine anno, ovvero, con la tecnica rolling budgeting, per un costante arco temporale di durata annuale successivo.

Il vantaggio dei budget d’esercizio, rispetto ai bilanci d’esercizio, consiste proprio nella tempestività di accertamento dello stato di insolvenza, ripetiamo, dal punto di vista aziendalistico.

Il punto in discussione verte quindi sull’accoglimento di una nozione di crisi già in via anticipata, perché acclarata da evidenze metodologiche attendibili, ovvero della conservazione di una nozione di crisi solo se e quando accertata da fatti esteriori incontrovertibili. È come se, per analogia, si diagnosticasse la morte cerebrale per un trapianto di organi, prima e senza attendere la certificazione effettiva del decesso.

L’utilità pratica di una nozione anticipata di crisi appare evidente in presenza di un’insolvenza reversibile, perché potrebbe favorire una precoce rappresentazione del fenomeno, senza qualificarlo convenzionalmente come crisi, a vantaggio di una maggiore prontezza di idonee iniziative tese ad evitarne la irreversibilità.

La definizione di probabile insolvenza del CCI appare tuttavia non del tutto allineata con questa impostazione, perché, pur richiamando il concetto di squilibrio economico-finanziario, ne attribuisce senza dubbio il ruolo di “condizione oggettiva” per l’accertamento dello stato di crisi, a cui si aggiunga l’ulteriore condizione oggettiva di gravità tale da rendere probabile l’insolvenza: una doppia condizione dunque, che però attiene alla crisi e non già all’insolvenza, per cui la conoscibilità dell’insolvenza probabile, anche particolarmente attendibile, non costituisce fattore tale per cui il significante diventi anche significato.

In altre parole, che esista un accertato squilibrio economico-finanziario (fatto già di per sé assai grave), naturalmente rilevato solo su basi contabili consuntive e/o preventive; e ancora che l’insolvenza appaia probabile (certamente solo su basi informative contabili preventive e su altri dati statistico-aziendali), costituendo questa conoscenza un’ ulteriore grave conferma di dissesto finanziario aziendale (e non più solo economico o meramente gestionale e organizzativo): tutto ciò implica che non si ha ancora uno stato di insolvenza, ma soltanto di crisi, nell’accezione giuridica.

Lo iato tra insolvenza nell’accezione aziendalistica (tale già in presenza di inequivocabili sintomi contabili finanziari) e insolvenza sul piano giuridico del CCI, che secondo le finalità vuole essere colta e affrontata con tempestività, è in concreto legato al fattore tempo: la probabilità di insolvenza costituisce una nuova figura, un nuovo stato dell’azienda, intermedio fra crisi in senso aziendalistico e insolvenza manifesta. Il legislatore ha dunque coniato un nuovo concetto di crisi, diverso forse da quello introdotto a suo tempo in sede di riforma della legge fallimentare (nell’ambito della procedura di concordato preventivo): una crisi particolarmente acuta, che prefigura un’involuzione verso o stato di insolvenza (che non sarebbe ancora raggiunto).

Poiché la ricerca del vero non può essere meramente una questione definitoria, c’è da chiedersi se l’impresa sia insolvente quando la scienza aziendalistica la configura sulla base delle sue metodiche, ovvero quando essa è manifesta, comprovata, secondo i tradizionali canoni giuridici degli inadempimenti e dei fatti esteriori, lasciando le metodiche aziendalistiche nel ruolo di mera “prefigurazione” di uno stato di crisi oramai pervenuto ad uno stadio di pericolo tale da rendere solo probabile e non già fattuale l’insolvenza? È evidente che l’approccio normativo, se appare corretta l’interpretazione comparativa così formulata rispetto alla posizione aziendalistica, ancorché persegua il fine della tempestività di intervento, in concreto concede maggior tempo al debitore, appare più indulgente, più aperta all’ingresso di possibili chances, forse anche extragestionali.

L’accezione di insolvenza quando è già manifesta, comprovata da fatti esteriori, nella varietà di casistiche variamente verificabili, appare pure condivisa, in parte, sia a livello normativo (CCI), sia sul piano aziendalistico: solo che quest’ultima prospettiva considera l’insolvenza già sussistente, oltre che in presenza di quei chiari ed evidenti segnali, anche prima della loro manifestazione, se e quando gli strumenti metodologici ragionieristici, evoluti s’intende, ne rappresentano con idonei dati concordanti l’esistenza: un cash flow strutturalmente negativo, in presenza di una posizione finanziaria netta molto elevata, accompagnati da un deficit patrimoniale, configurano un quadro tale da decretare di già lo stato di insolvenza e non solo di prefigurarne il rischio probabile, verificate le impossibilità di interventi di finanza esterna, che però sarebbero irragionevoli in presenza anche di uno squilibrio economico che non giustificherebbe ulteriori nuovi investimenti privi di redditività.

La nozione di insolvenza probabile è senz’altro nuova nel diritto della crisi, ma parrebbe più rivolta alla qualificazione dello stato di crisi, per enfatizzarne la relazione mezzo a fine con l’insolvenza, al fine di una tempestiva reattività. L’interpretazione della norma dal punto di vista aziendalistico, tuttavia, non può non rimarcare il fatto che lo squilibrio economico-finanziario rappresenta già una condizione di crisi grave, perché quantomeno, implica:

a) una strutturale produzione di perdite nette d’esercizio, gravi e persistenti, di natura non straordinaria e intimamente connesse con il deterioramento del modello di business (squilibrio economico);

b) un perdurante assorbimento di cassa del business (cash flow negativo), aggravato da vincoli di rimborsi di elevati finanziamenti pregressi e fabbisogni finanziari anomali, come il capitale circolante appesantito da eccedenze di magazzino e da crediti problematici, specie in assenza di riserve di liquidità (squilibrio finanziario).

La gravità delle condizioni suddette si coglie ancor di più se si considera il fatto che le condizioni di squilibrio vanno sempre intese in senso prospettico, quindi evolutivo, per cui gli squilibri economico e finanziario vanno intesi - almeno aziendalmente - non solo come situazioni del passato (anche se effettivamente avverate e accertate), ma come presumibili attese future: questo quadro colto nella sua corretta (scientifica) natura, ovviamente alza e non di poco la soglia di impegno che l’imprenditore in crisi deve esprimere per evitare l’insolvenza, oltre alla richiamata tempestività.

È chiaro che la cauta ponderazione del concetto di crisi è giustificata, giuridicamente, anche per evitare abusi da parte di debitori poco scrupolosi, nell’accedere agli strumenti previsti dall’ordinamento, nonché per consentire più nitide valutazioni da parte degli organi di giustizia in sede di ammissione. Tuttavia, la riflessione sulla coerenza circa la funzionalità della nozione di crisi nel CCI rispetto agli obiettivi di tempestiva emersione e pronto fronteggiamento dell’insolvenza, appare opportuna.

 

7.        L’orizzonte temporale della predizione dell’insolvenza

È particolarmente significativo considerare l’orizzonte temporale che il legislatore del CCI ha considerato per l’anticipazione dell’insolvenza.

L’art. 13, primo comma, nel previgente testo del CCI, precisava, che “Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. A questi fini, sono indici significativi quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi, anche sulla base di quanto previsto nell’articolo 24.”.

L’arco temporale indicato dalla norma era convenzionalmente preciso, esteso fino a sei mesi, per una valutazione anticipata dell’insolvenza attraverso idonei indici di crisi, tra cui quelli che esprimono la “sostenibilità dei debiti”. Si intende oramai, anche per il contributo del CNDCEC, che l’indice in parola è il DSCR, ovvero il Debt Service Coverage Ratio, quale rapporto tra previsto flusso di cassa reddituale netto semestrale ed entità del debito esigibile nel periodo.

Quanto alle prospettive di continuità aziendale, l’orizzonte temporale futuro di riferimento risultava variabile e comunque esteso fino alla fine dell’esercizio, ovvero, con la tecnica del rolling budgeting, fino a sei mesi data, se la durata residua dell’esercizio in corso risulta inferiore ai sei mesi.

Il grado di predittività della eventuale non sostenibilità del debito, quindi dell’insolvenza, era dunque particolarmente breve: il che significa che l’efficacia della strumentazione convenzionale (contabilità, bilanci e budgeting) risulta obiettivamente assai ridotta, con un tempo di reazione (tecnicamente, di feed-back), in termini di tempestività, realisticamente molto limitato, specie per le imprese a maggiore complessità organizzativa e gestionale, meno per le micro e piccole imprese, più agili e flessibili.

Uno strumento particolarmente utile che si è venuto a profilare è senz’altro il budget di tesoreria, che rappresenta una declinazione del budget finanziario articolata nelle infra-annualità, non solo mensili, ma per i primi tre mesi, tipicamente anche settimanali, con un dettaglio di tipologie di flussi di entrata e di uscita estremamente analitici, per le settimane più ravvicinate nel tempo: un dettaglio, di cronoprogramma di incassi e pagamenti e di causali, via via riproposto con la tecnica del rolling budgeting, di trimestre in trimestre, secondo un progressivo processo di apprendimento. Il budget di tesoreria esprime una sorte di rilevazione finanziaria-monetaria preventiva con messa a fuoco progressiva nel procedere del tempo, in grado di rappresentare persino gli utilizzi e i saldi bancari per singolo istituto per le settimane più ravvicinate, lasciando più approssimati e aggregati i dati dei mesi seguenti.

Il budget di tesoreria, in concreto, permette di cogliere un eventuale squilibrio monetario, anche solamente temporaneo (tensione monetaria) e un’insolvenza estremamente probabile e ravvicinata.

Va però precisato che per la disponibilità e l’impiego di un budget di tesoreria realmente efficace come strumento non solo conoscitivo, ma proprio di gestione monetaria, anche per prevenire e mitigare l’insolvenza, o per mantenerla reversibile, è necessario un assetto contabile completo e affidabile, integrando la necessità di un pieno rispetto dell’art. 2086, secondo comma, c.c., e in ogni caso dei doveri dell’imprenditore, anche individuale e non solo societario e collettivo, secondo quanto previsto oggi dall’art. 3 CCI.

Il salto logico e metodologico tra squilibrio finanziario e squilibrio monetario è particolarmente rilevante, in quanto il secondo è concentrato su un periodo futuro estremamente ravvicinato, di pochi mesi, mentre l’equilibrio finanziario è più esteso come durata di riferimento, tipicamente annuale e oltre. L’equilibrio monetario attiene quindi alla sostenibilità di flussi in uscita di cassa altamente probabili, calibrati in ragione delle dilazioni concesse ai clienti e ottenute dai fornitori, delle rateizzazioni delle imposte, degli utilizzi degli affidamenti bancari e degli sconfinamenti: profili che, per durate temporali estese oltre il trimestre o semestre, sono più difficilmente stimabili con la dovuta precisione e attendibilità. In particolare, il cash flow operativo identificato preventivamente nella prospettiva dell’equilibrio finanziario annuale, può essere completamente contraddetto e stravolto, sfavorevolmente, dal flusso di cassa monetario stimabile in considerazione delle variazioni dei crediti commerciali e dei debiti di regolamento, oltreché dell’allungamento dei processi produttivi con incremento delle rimanenze. E, infatti, i fenomeni dello “scaduto dei fornitori”, degli incagli degli incassi dei crediti, dell’aumento patologico delle giacenze, costituiscono concorsi allo squilibrio monetario di breve, prefigurando un’insolvenza estremamente probabile, che già potrebbe essere colta come evento, anche se ancora non si sono materializzati e manifestati dei conclamati inadempimenti.

E’ bene precisare che il solco della sequenza crisi (prima) e insolvenza (poi), con la prospettazione di una predizione dell’insolvenza su base probabilistica, è quello dell’equilibrio omeostatico e dell’impiego di strumenti di programmazione convenzionali, che suggellano, sul piano normativo, l’ingresso dei sistemi informativo-contabili orientati al futuro, con decisivo impiego dei budget finanziari e di tesoreria, i quali implicitamente, per ineludibili connessioni metodologiche, implicano l’impiego della programmazione gestionale e dei budget economici e patrimoniali, senza i quali i budget finanziari sarebbero impossibili da redigere.

Non sembrano contemplate le situazioni di impiego degli strumenti di tipo predittivo fortemente anticipatorio (segnali deboli, di sorveglianza e conseguenti ipotesi di simulazione), né quelli di esplorazione di euristiche di discontinuità a fronte di incertezze e sorprese, di cui si è precedentemente argomentato, anche se non sono incompatibili; anzi, a livello di interpretazione sistematica, consentono di assicurare maggiore tempestività e migliore prontezza, quindi capacità di maggiore lungimiranza di diagnosi preventiva e adattabilità e versatilità delle reazioni aziendali rispetto a crisi e insolvenze inattese e improvvise.

 

8.        La perdita di continuità aziendale

Relativamente al rischio di perdita della continuità aziendale, si tratta di una valutazione di estrema sintesi, in quanto questa rappresenta certamente il momento terminale della vita dell’impresa, come esito di una gamma potenzialmente molto estesa di cause, tra cui senz’altro l’insolvenza irreversibile e la crisi, intesa come squilibro economico, finanziario e patrimoniale, ma certamente non solo.

La perdita di continuità aziendale è il momento di dissoluzione del principio di unitarietà della gestione e dei vincoli di complementarità dei beni costituenti il patrimonio dell’impresa, cessando, l’impresa, di essere ancora identificabile come sistema atto a perdurare.

Oltre ai fenomeni citati, la causazione della perdita di continuità aziendale può essere fatta risalire a fenomeni ambientali e interni di tipo qualitativo, che nella catena delle relazioni causa-effetto sfociano poi inesorabilmente nei citati squilibri e nell’insolvenza.

La perdita irrimediabile di un mercato fondamentale, la cessazione di un brevetto, la perdita di una licenza o di un’autorizzazione amministrativa, la fuoriuscita di manager chiave, l’obsolescenza tecnologica in mancanza di innovazione, interventi normativi e regolamentari che vietano la produzione e la commercializzazione dei prodotti (transazione ecologica), la perdita di reputazione dell’impresa per condotte e atti in violazione alla legge: sono varie circostanze che concorrono alla perdita di continuità aziendale e che possono risultare esiziali, specie in costanza di inerzia da parte del soggetto aziendale.

Gli interventi normativi a tutela della continuità aziendale sono ricorrenti: all’art. 13 primo comma, del previgente testo del CCI, si segnalavano appositi indici che diano evidenza “delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi”. Un brevetto di imminente scadenza o la risoluzione contrattuale del principale cliente per un subfornitore vanno considerati indici estremamente rilevanti, che possono essere anche misurati economicamente e finanziariamente, simulandone gli effetti sulla struttura di un bilancio pro forma preventivo. È evidente che non occorre attendere gli infausti esiti certificati da un bilancio consuntivo in forte perdita e con un margine operativo lordo (MOL) negativo per cogliere la perdita della continuità aziendale, in assenza di interventi risolutivi, quali la diversificazione della clientela, la riconversione produttiva o al limite la cessione dell’azienda.

Ma anche l’art. 2086, secondo comma, c.c., introdotto in forza dell’art. 375 CCI, richiede all’impresa in forma societaria o collettiva l’adizione di adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili funzionali anche alla rilevazione della perdita di continuità aziendale, per “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.

Il rischio di perdita di continuità aziendale non coincide con i rischi di crisi e di insolvenza, pur essendo questi dei potenziali fattori di perdita della continuità, rilevando anche innumerevoli fattori di insuccesso riconducibili a minacce ambientali, perdita durevole e strutturale delle fonti di vantaggio competitivo, gravi e perduranti carenze organizzative (venir meno dell’imprenditore o fuoriuscita di manager essenziali), scelte sfavorevoli di capogruppo sulle sorti dell’impresa a favore di processi di delocalizzazione.

La rilevanza del rischio prevedibile della lesione della continuità aziendale riposa sul fatto che non solo il legislatore della crisi ha sempre più evidenziato un deciso favor verso questa condizione, ma essa costituisce il più importante principio dell’Economia Aziendale, che ispira l’intero orientamento strategico dell’impresa e del gruppo, il funzionamento e lo sviluppo dell’impresa, con tutta la conservazione di valore nel tempo nell’interesse dei creditori, ma non solo. Il perimetro di perforazione della tenuta della continuità aziendale è dunque assai più esteso rispetto alle condizioni di squilibrio summenzionate e ricomprende, come si è visto, svariati e mutevoli fattori di insuccesso, anche non misurabili e non tracciabili tramite i bilanci, tra i quali la letteratura economica ha annoverato: i) la perdita di competitività; ii) il peggioramento nel posizionamento strategico all’interno del settore; iii) l’obsolescenza imprenditoriale e manageriale; iv) l’arretramento rispetto all’evoluzione tecnologica; v) la perdita di quote di mercato; vi) una localizzazione divenuta insufficiente o inadeguata (si pensi alla crescente attenzione alla sostenibilità ambientale). Occorre, in definitiva, integrare l’informazione contabile (specialmente quella preveniva e non solo consuntiva) anche con l’informazione strategica, perché quest’ultima veicola potenziali fattori di insuccesso che, se non colti a livello sufficientemente precoce, possono condizionare la perdita di continuità aziendale anche assai più di uno stato di insolvenza reversibile o di una perdita economica circoscritta a specifiche inefficienze.

Il problema dell’accertamento precoce del rischio di perdita della continuità aziendale risiede nel fatto che il set informativo di supporto può essere destrutturato, multidimensionale, in gran parte qualitativo e solo parzialmente di fonte contabile, richiedendo all’impresa di predisporre nel continuo una sorveglianza fortemente orientata all’esterno, verso dati di settore, di competitor, di benchmarking di imprese comparabili. L’altra faccia della medaglia è che la mancanza sistematica di queste informazioni è già di per sé indizio di rischio strategico e di incompetenza del vertice aziendale (in un mondo sempre più globalizzato e interdipendente, con contesti turbolenti e mercati ricorrentemente volatili) e questi supporti conoscitivi sono necessari per gestire con la dovuta razionalità e responsabilità la continuità aziendale, rientrando nei doveri dell’imprenditore (individuale e collettivo), sia come “misure”, sia come “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili”, laddove è assodato che l’informazione di supporto non può essere solamente contabile, quando si parla di continuità aziendale.

 

9.        Crisi e insolvenza nella composizione negoziata

Il decreto-legge n. 118 del 24 agosto 2021, convertito nella legge n. 147 del 21 ottobre 2021 - le cui norme sono poi state incorporate nel CCI entrato in vigore il 15 luglio 2022 - è particolarmente innovativo nell’ambito del diritto della crisi e senz’altro pone numerose questioni interpretative, sia terminologiche che concettuali sotto il profilo aziendalistico, anche alla luce dell’articolato contenuto del decreto dirigenziale, con la disciplina del test on line, della check list e del protocollo.

Basti pensare che si utilizzano nuovi linguaggi, quali: la “sostenibilità economico-finanziaria” (art. 9) e le “potenzialità necessarie per restare sul mercato” (Relazione illustrativa).

Ancora si introducono nuovi paradigmi, quale quello dell’“insolvenza reversibile” (Relazione illustrativa e Protocollo, al punto 2.4), assai discussa nel recente dibattito giuridico e invero pressoché trascurata nella letteratura aziendalistica, riveniente da una classica nozione di insolvenza come “manifestazione finale della crisi” o come “fase terminale” della vita dell’impresa, in una visione pressoché totalitaria dell’insolvenza come stadio irreversibile.

Si tratta di questioni estremamente complesse, perché toccano nervature di vere e proprie “cattedrali concettuali”. Si pensi che la dominante e intoccata teoria dell’impresa in funzionamento considera l’equilibrio economico sussistente non solo quando vi sia un utile di bilancio di periodo (redatto secondo i criteri civilistici), ma quando questo utile sia talmente elevato da remunerare diversi fattori produttivi i cui valori esprimono “costi figurativi”, quali tra cui una soddisfacente remunerazione del capitale[11].

La sostenibilità economico-finanziaria emergerebbe, secondo il nuovo impianto normativo, sul “debole” sostegno del margine operativo lordo (MOL) positivo, ovvero di un MOL negativo, ma tale da assicurare la conservazione di valore di operazioni in corso o di asset strategici, specie di tipo intangibile e comunque la continuità aziendale (Protocollo, punto n. 7.5 in ordine al pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria e punto 10.1 in tema di finanziamenti prededucibili).

Ma è evidente che la spaccatura concettuale, quindi non solo terminologica, si apre con la dimensione temporale della continuità di riferimento, che, secondo la dottrina aziendalistica, è a valere nel tempo; mentre non vi è dubbio che la continuità riconducibile a un MOL positivo o negativo, ma funzionale alla (mera) conservazione di valore, equivale alla pura “sopravvivenza” dell’impresa. Probabilmente, nel dibattito, non si è riflettuto ancora abbastanza sul concetto di continuità aziendale e di gradazione della continuità, che può essere:

a)        mera sopravvivenza, come tentativo di mantenimento in vita di un sistema comunque precario, purché non assorba cassa, o comunque, anche se assorbe cassa, consenta di conseguire vantaggi ai creditori

b)        meramente a tempo definito (come nell’esercizio provvisorio), se funzionale ad una cessione dell’azienda già pianificata nei modi e nei tempi;

c)        a tempo definito, ma funzionalmente congegnata, perché inserita in un più ampio piano di ristrutturazione industriale e di ristrutturazione del debito, con un preciso cronoprogramma, come nel caso di erogazione di finanza ponte e di autorizzazione del Tribunale, ai sensi dell’art. 10 della legge n. 147/2021;

d)        intesa come sopravvivenza, ma come fase di avvio di un piano di risanamento coerente con i criteri della lista di controllo, in funzione delle trattative e di una prospettata sistemazione del debito;

e)        pienamente intesa come continuità a valere nel tempo, perché vista come dimensione stessa del piano di risanamento, che dovrà, nel caso, andare oltre alla gestione delle trattative con le parti e alla regolazione del debito, per arrivare ad assicurare durevoli prospettive di vita e di sviluppo dell’impresa, in un pieno recupero di tutte le condizioni prospettiche di equilibrio, certamente ivi compreso l’equilibrio patrimoniale, che di tutti è il più solido, il meno effimero, il più strutturale, in grado di fornire un assetto morfologico stabile e permanente, per la vitalità e lo sviluppo futuro dell’impresa.

Quest’ultima condizione della continuità aziendale - ma presumibilmente anche altre come accezioni elencate - non può certo essere perseguita tramite il solo MOL positivo, se si pensa al fatto che un MOL positivo è compatibile con l’assenza di utili netti d’esercizio, che costituiscono notoriamente la fonte di autofinanziamento dell’impresa, attraverso la ritenzione di utili e la costituzione di riserve ad accrescimento dell’entità assoluta e della proporzione relativa del patrimonio nella struttura delle fonti finanziarie dell’impresa.

È evidente nella sistematica del provvedimento il favor del legislatore per la continuità aziendale: questo anelito, che ispira norme di diritto positivo, è certamente, oggi, un valore anche di legittimità. Va però considerato, anche per il miglior ricorso a determinati strumenti, il rischio implicito in una continuità aziendale precaria.

L’accertamento di un MOL positivo, prospettico, è legittimamente indiziario, come dato, di una continuità funzionale agli obiettivi esplicitati dal legislatore; tuttavia, per la realtà del funzionamento delle imprese, che non può certo essere ignorata, è bene avere la precisa consapevolezza che questo elemento, specie se non inserito in un quadro sintomatico predittivo sistematico e più completo, non può promettere nulla oltre ad una continuità precaria, perché non possiede la “forza segnaletica” (non per difetto, ma per limite dello strumento), per andare oltre orizzonti gestionali e temporali assai ristretti e limitati.

Ne discende che i concetti di sostenibilità economico-finanziaria e di assenza di pregiudizio per la migliore soddisfazione dei creditori, fondati sull’accertamento del MOL, possono razionalmente essere sviluppati entro profili temporali brevi, difficilmente oltre 12 mesi e ancor meglio limitatamente ad un semestre.

Per completare un minimo di spiegazione, che si rende necessaria a commento di quanto sopra, il MOL, da solo, non è per niente idoneo ad esprimere un tendenziale equilibrio economico - non solo dell’impresa, per la quale occorrerebbe considerare il reddito netto adeguatamente soddisfacente (reddito “economico” o profitto), ma anche del business, per il quale necessita la quantificazione prospettica del risultato operativo, o ancor meglio del NOPAT (Net Operating Profit after Taxes) - trattandosi di un risultato estremamente parziale (cd. gross profit o risultato “lordo”) e quindi incompleto, anche tenuto conto delle cautele metodologiche del protocollo di escludere i componenti di reddito straordinari, la cui irrilevanza, forse, se un tempo poteva essere plausibile in ipotesi implicite di situazioni stazionarie, oggi appare sempre meno difendibile, alla luce della ricorrenza degli eventi straordinari.

Sempre meno, infatti, si possono escludere i componenti straordinari di reddito ai fini di una valutazione prospettica dell’insolvenza, anche con riferimento a lassi temporali brevi. Basti pensare, in proposito, che l’applicazione del principio contabile IFRS 9, nelle banche, per la quantificazione degli accantonamenti per la svalutazione dei crediti relativamente alle “perdite attese” (quindi in una prospettiva forward looking) si basa su modelli quantitativi e algoritmi che, ai fini della valutazione prudenziale prospettica, incorporano e non escludono, anche gli effetti reddituali di eventi straordinari sfavorevoli.

La possibilità di uno scollamento della prassi indotta dalla normativa non è solo nei confronti della tradizionale impostazione scientifica economico-aziendale, ma anche rispetto alla prassi del sistema bancario: quello che professionalmente monitora con maggiore intensità e assiduità le imprese affidate; posto che uno dei pilastri della valutazione del merito creditizio rimane proprio quello del giudizio sull’equilibrio economico-finanziario dell’impresa, inteso come integrazione tra reddito netto positivo e incremento del patrimonio netto, tramite il fisiologico meccanismo dell’autofinanziamento (da utili). In questa correlazione fisiologica, il MOL non può fornire alcun contributo significativo.

In definitiva, la maggiore ampiezza dei presupposti oggettivi prevista per l’accesso alla composizione negoziata della crisi (che spazia dallo stato di pre-crisi all’insolvenza reversibile), unitamente alla centralità del MOL come misurazione prospettica delle performance aziendali ai fini della sostenibilità economico-finanziaria e della tutela del pregiudizio ai creditori, implica necessariamente un’apertura verso una continuità aziendale anche precaria e non definitiva.

E’ molto importante precisare che la sostenibilità economico-finanziaria non coincide affatto con il concetto di equilibrio economico e finanziario, in quanto questo secondo paradigma possiede i precisi connotati della durabilità (“a valere nel tempo”, intendendosi un tempo indefinito, sine die), oltreché con l’ancoraggio, come fenomeno del reale e al tempo stesso di misurazione, non al MOL, ma al reddito netto, in termini peraltro di significatività entità: ciò ai fini della definizione di tendenziale equilibrio economico. Ai fini invece dell’equilibrio finanziario, il flusso netto globale atteso costituisce ben altra entità (fenomenica e di misurazione) rispetto al MOL, il quale ultimo esprime solamente il flusso netto generato dalla gestione reddituale, risultando quindi, per quanto rilevante, parziale, nel quadro di un ben più complesso e sistematico intreccio dei vari flussi di entrata e di uscita che alimentano i circuiti operativi aziendali, anche extra-reddituali (investimenti, finanziamenti, operazioni sul capitale, ecc.).

E’ giusto peraltro inquadrare il MOL, tenuti presente i limiti di significatività, negli obiettivi del legislatore del decreto-legge n. 118, per fornire strumenti pragmatici e semplificati ad una comunità la più ampia possibile: quindi per incrementare l’accessibilità al percorso di composizione negoziata e all’adozione semplificata di strumenti diagnostici polivalenti, quale è il MOL.

 

 

10.    Crisi e insolvenza nella più recenti modifiche al CCI

Il testo definitivo del CCI, alla luce del decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83 (in recepimento della direttiva Insolvency) modifica ancora una volta la definizione di crisi, da intendersi come “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, che si manifesta con diversi gradi di intensità, attraverso l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi;”.

Si ritorna così all’indeterminatezza, alla vaghezza definitoria, abbandonando, almeno apparentemente, i più sicuri (scientificamente parlando) e collaudati riferimenti agli equilibri o squilibri economici e finanziari.

Per contro, si conferma la manifestazione della crisi, in quanto connessa, in relazione causale, con inadeguati flussi prospettici rispetto alle obbligazioni (non più definite “pianificate”, come nel precedente testo del CCI).

Rimane l’orientamento al futuro (forward looking) nel giudizio sulla crisi, unitamente a questa caratterizzazione finanziaria esplicita (con richiamo ai flussi finanziari) che contrassegna la nozione giuridica di crisi. C’è tuttavia da chiedersi, al netto della lodevole volontà del legislatore di prevenire l’insolvenza, che accade quando la crisi, che per sua prevalente natura non ha obiettivamente carattere finanziario, ma industriale, gestionale e organizzativo, non esprime segni premonitori dell’insolvenza? Il fenomeno della crisi non è classificabile come tale se o fino a quando non preannuncia un successivo stadio di insolvenza?

Da una lettura meramente formale e restrittiva potrebbero discendere delle circostanze paradossali. Ad esempio, una gravissima crisi (economica e gestionale) che non prelude all’insolvenza, perché la proprietà (personale, oppure una holding) copre sistematicamente i fabbisogni finanziari, ovvero perché si erodono le liquidità precostituite in precedenti gestioni virtuose. Il caso, per quanto anomalo, non è astratto, ma chi scrive lo ha sperimentato in concreto, in presenza di una seconda generazione “coperta” nelle proprie temerarie iniziative imprenditoriali, sempre e comunque, dalla holding paterna, peraltro attiva anche a sostenere tale azienda presso il sistema bancario.

La crisi economica, anche grave, può peraltro non sfociare nell’insolvenza a breve, ovvero, ora che i termini sono spostati a dodici mesi, può non essere prefigurabile, in termini di probabilità di insolvenza, entro tale termine. La volontà di anticipare maggiormente la previsione dell’insolvenza fino a dodici mesi data, in certi casi potrebbe non qualificare come crisi, ai sensi del riformato CCI, una grave crisi che possiede connotati non immediatamente rilevanti dal punto di vista finanziario, ma che possono invece essere anche più importanti davanti al rischio di perdita della continuità aziendale: si pensi allo scadenza di un brevetto nell’arco di un biennio, quando la holding (una società estera del settore farmaceutico) ha già deciso di non investire in innovazione, sapendo che il ciclo dalla ricerca al brevetto è pluriennale. L’azienda de qua è certamente già in situazione di crisi strategica e in assenza di un piano di riconversione o di cessione il suo destino è segnato, ancorché i flussi di cassa a dodici mesi risultino in grado di sostenere il debito esigibile di periodo.

L’allungamento dell’arco temporale dai sei mesi di cui al previgente art. 13, primo comma CCI, ai dodici mesi previsti dal testo definitivo del CCI, richiede un adeguato commento. L’intento della nuova norma è verosimilmente quello di anticipare ancora di più l’intercettazione della crisi, per prevenire (prima e quindi con migliori possibilità di rimedio) l’insolvenza, ancorché come rilevato, esistono fenomeni di crisi, anche molto gravi, che non hanno rapide ricadute in termini di insolvenza, perché gli andamenti economici non coincidono con i circuiti finanziari. Si conferma dunque il rischio che l’enfasi totalizzante sull’insolvenza, che diventa essenziale per la nozione stessa di crisi, lasci in ombra o addirittura escluda le tante situazioni di crisi non legate probabilisticamente all’insolvenza, né per un periodo brevissimo di sei mesi, né per un periodo breve, ma più lungo, di dodici mesi.

L’approccio del legislatore può apparire, dunque, deterministico e astratto, considerando come uno schema esclusivo quello della relazione causale e diacronica tra crisi (prima) e insolvenza (poi), con una sequenza convenzionalmente definita all’interno di una dimensione cronologica prefissata.

L’orizzonte temporale dei dodici mesi può nascondere un ulteriore, sottile rischio: quello di lasciare sospeso il riconoscimento della crisi, quando l’insolvenza si preannuncia, sequenzialmente, entro tempi brevissimi, di poche settimane o di pochi mesi (entro il semestre), ma in un quadro di flussi finanziari irregolare e altalenante, in cui si alternano recuperi di liquidità, fino a prefigurare un possibile riequilibrio nei dodici mesi a venire. Il paradosso che ne consegue è che la crisi come prevedibile insolvenza futura, se ricadente nel semestre successivo, risultava conclamata secondo il testo precedente del CCI; mentre se la si rivede, convenzionalmente, in un arto temporale di dodici mesi, tale crisi potrebbe non essere più definibile come tale: semplicemente, si è spostato il paletto più in là, ope legis.

Si tratta delle situazioni, invero non del tutto rare, perché le imprese, specie quelle minori. possono essere assoggettate non solo a fenomeni di stagionalità, ma anche a eventi straordinari esterni, a cui le piccole e le microimprese sono esposte con maggiore rischio.

Né si dimentichi l’assenza di programmazione finanziaria (a dodici mesi) e di tesoreria (nei sei mesi successivi) nelle imprese minori, con un grado di attendibilità forse assai precario, laddove si imposti per la prima volta una pianificazione finanziaria e comunque dovendo considerare che i flussi finanziari più credibili sono certamente quelli a sei mesi data e non quelli proiettati a dodici mesi.

Insomma, l’allungamento del tempo consentito all’imprenditore per valutare la probabilità di insolvenza, che parrebbe finalizzato a risolvere determinati problemi - quale quello della maggiore anticipazione della conoscibilità della crisi - potrebbe rivelarsi come una soluzione non del tutto ottimale in assoluto, perché apre il fianco al altri problemi e a rischi monetari legati a tensioni monetarie di brevissimo andare, che, in certi settori, fortemente esposti alle regolari consegne dei fornitori (si pensi alla moda e all’alimentare) e alla rigida sequenzialità dei cicli operativi (produttivi e distributivi) a valle di quello degli approvvigionamenti, rischiano fortemente di essere sottostimati.

Lo spostamento dell’orologio dai sei mesi ai dodici mesi, in sostanza crea una mutazione del tipo di squilibrio di riferimento, passando da una probabilità di squilibrio monetario di brevissimo andare (sei mesi), ad una idea di squilibrio finanziario di breve periodo (dodici mesi), laddove l’insolvenza probabile riferita allo squilibrio monetario è configurabile con assai maggiore grado di ragionevole certezza, rispetto ad un’insolvenza collegata ad uno squilibrio meramente finanziario a dodici mesi, che è condizionato da identificazioni e misurazioni di flussi più incerti per la maggiore distanza temporale e più vaghi, a motivo delle dilazioni di incasso e di pagamento, dei flussi logistici delle rimanenze, delle rateizzazioni delle imposte, ecc.

Inoltre, l’insolvenza, quando si produce, può essere immediatamente esiziale e lo spostamento di attenzione ad un periodo in fondo non tanto breve (dodici mesi), rischia di trascurare i pericoli puntuali in corso d’anno (impedimento al pagamento degli stipendi, al pagamento dei fornitori strategici, all’assolvimento di un importante obbligo tributario, come il versamento delle ritenute erariali). Che poi dal secondo semestre in avanti si prefigurino opportunità di incasso favorevoli al riequilibrio, ma tardivi, in mancanza di opportuni accorgimenti contrattuali e monetari (ad esempio ottenimento di anticipi e differimenti di pagamenti in scadenza), non è circostanza sufficiente per salvaguardare l’impresa dal rischio incipiente di insolvenza.

In definitiva, la perplessità è che, così facendo, si differisca il problema, anziché anticiparlo, concedendo all’imprenditore una dimensione temporale più ampia, in cui gestire la sua equazione finanziaria, dando termine fino a dodici mesi, ma con oggettivo pericolo sulla tenuta dell’azienda, a fronte di fenomeni di insolvenza intermedi, infra-annuali.

Il legislatore forse non ha tenuto conto della diversa natura dell’equilibrio monetario e dell’equilibrio finanziario e della diversa significatività e affidabilità dei dati preventivi a sei mesi rispetto a quello a dodici mesi, i quali ultimi scontano un volume di ipotesi- finzione e quindi di fattori soggettivi (a volte arbitrati) notevolmente superiore: stime di scenario a dodici mesi, ipotesi sugli andamenti dei fatturati e dei costi a dodici mesi, ipotesi di dilazioni dei diversi fornitori a dodici mesi, ipotesi delle dilazioni e delle morosità dei clienti fino a dodici mesi, ipotesi dei livelli e delle movimentazioni delle rimanenze di materie prime, di semilavorati, di prodotti finiti o di merci, fino a dodici mesi, ecc.: una dimensione di programmazione rilevante, ma complessa e meno idonea per monitorare la probabilità di insolvenza in corso di gestione.

Meglio sarebbe stato, invero, incorniciare una previsione di possibile insolvenza a sei mesi, nel quadro di una programmazione dei flussi finanziari annuale, con la tecnica del rolling budgeting - peraltro già prevista dal previgente testo del CCI, all’art. 13, per gli indici relativi alla perdita della continuità aziendale - estendendo di volta in volta, in progress, l’orizzonte temporale per la durata del periodo breve di avanzamento (trimestre o semestre), in modo da catturare sia gli eventuali rischi di insolvenza imminenti (su base informativa altamente affidabile e predittiva), sia i rischi di insolvenza prefigurabili su basi conoscitive assai più ipotetiche.

L’esito sarebbe quello di ottenere un “controllo incrociato” (per nulla ridondante), dei dati monetari-finanziari, mettendo a fuoco progressivamente il fenomeno indagato, quello dell’insolvenza, che è di per sé sintesi non di pochi, ma di molteplici fattori esterni ed endo-aziendali. Nulla si perderebbe in termini di anticipazione della auspicata tracciabilità preventiva del fenomeno (almeno dodici mesi prima), perché un rischio di insolvenza appalesato, per l’appunto a 12 mesi, verrebbe ulteriormente qualificato e quantificato per la sua gravità e probabilità di manifestazione con l’incrocio, assai più attendibile, di una predizione a quattro o sei mesi. Si capirebbe così meglio anche il grado di maturità dello stadio di crisi e l’urgenza di risposta, oltre alle modalità gestionali più opportune, in quanto meglio attualizzate, di rimedio.

Soccorre, a favore di una idonea salvaguardia del rischio di insolvenza e quindi di un coerente riconoscimento della crisi, l’eventuale interpretazione della norma di nuovo conio, per cui l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi si debba intendere “all’interno dei dodici mesi”: considerando in questo modo non unicamente dei flussi annuali e non anche infra-annuali e mensili, di modo che il periodo annuale ricomprenda e non escluda anche le disamine infra-annuali, almeno in presenza di elevata volatilità dei fattori che incidono sui flussi di cassa.

L’aggiornamento normativo proposto, precisa peraltro, con riferimento alla finalità di rilevazione tempestiva della crisi d’impresa, di “verificare la non sostenibilità dei debiti e l’assenza di prospettive di continuità aziendale per i dodici mesi successivi.” (art. 3, comma 3, lettera b).

Il passaggio logico è quello di spostare l’attenzione dal fenomeno della crisi alla sua conoscibilità tramite le “idonee misure” dell’imprenditore individuale e l’“assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato” dell’imprenditore collettivo e segnatamente mediante le rilevazioni ottenibili attraverso questi dispositivi. Alla luce di questa norma, le precisazioni metodologiche sopra riportate appaiono quantomai opportune, perché il fenomeno della crisi, secondo il legislatore, consiste nella predittività di una futura (quindi sempre successiva) insolvenza, la cui individuazione è esplicitamente collegata a flussi finanziari prospettici, che non possono essere intuitivi, né sono visibili come altri fenomeni di crisi (guasti macchina, difetti di prodotto, resi di vendita, rallentamento della produzione, mancate consegne delle forniture), ma che sono per loro natura configurabili solo attraverso strumenti di misurazione ex ante.

In altre parole, la previsione dell’insolvenza futura necessita di misurazioni, perché la non sostenibilità del debito non è un profilo descrivibile fisicamente, ma necessita di procedimenti di misurazione monetaria di tipo contabile preventivo, ipotetico precisamente, perché fondati su ipotesi di flussi di cassa a venire, la cui attendibilità deve essere molto attentamente verificata.

La strumentazione richiesta, “ai fini delle rilevazioni ai fini della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa”, è peraltro inclusiva dell’’eventuale “assenza di prospettive di continuità aziendale per i dodici mesi successivi”. Questa precisazione è molto importante, perché permette di recuperare, a livello sistematico, una dimensione della crisi non solo di tipo finanziario, in quanto connessa con l’insolvenza, ma anche multidimensionale: strategica, competitiva, gestionale, organizzativa, economica, manageriale, riconducibile a problemi interpersonali (nelle imprese familiari).

Ne discende che la crisi, nella dimensione giuridica, non rimane confinata nel ristretto corridoio della sequenza crisi-insolvenza, ma trova spazi definitori ampi e generali, anche non finanziari e non solo misurabili monetariamente, con profili qualitativi comprovanti, in linea con la migliore dottrina economico-aziendale.

La definizione di crisi come probabilità di insolvenza futura diviene certamente l’ipotesi di lavoro privilegiata, ma non totalizzante, e la sua preminenza è in fondo giustificata dal pericolo dell’insolvenza per le sorti dell’impresa.

L’aggiornamento della nozione di crisi è ora quello che indica “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza”.

Quale sia questo stato non è precisato, essendo venuti meno i puntuali richiami ad un modello scientifico tradizionale e collaudato come quello delle condizioni di equilibrio aziendale, almeno a livello di definizione, ancorché all’art. 3, comma 3, si precisa che “al fine di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi d’impresa, le misure di cui al comma 1 e gli adeguati assetti di cui al comma 2 devono consentire di: a) rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore;”.

In proposito, il Consiglio di Stato[12] ha fornito un chiarimento interessante, perché spiega tale generica e vaga nozione con la volontà di ampliare il continuum di situazioni concrete che possono prefigurare l’insolvenza: non solo la crisi dunque (la crisi grave, come la si intende normalmente in Economia Aziendale), ma anche la pre-crisi o comunque qualsiasi circostanza che coinvolga l’impresa e la sua gestione sul pericoloso crinale dell’insolvenza, anche in presenza di fattori apparentemente rassicuranti, quali la salute del modello di business dell’impresa, la qualità dei prodotti e dei processi, l’eccellenza del management e delle maestranze, ecc.

La recente esperienza delle misure sanitarie che hanno colpito in maniera acuta alcuni particolari settori (alberghiero, termale, turistico, dei trasporti) ha interessato anche imprese in situazioni fino a quel momento eccellenti e la chiusura immediata e prolungata delle attività (non suffragate da corrispondenti e tempestivi ristori governativi) ha interrotto contestualmente la generazione del flusso di cassa reddituale, a prescindere dalla posizione finanziaria netta della singola realtà aziendale, con una diffusione della crisi di illiquidità e di rischio di rapida insolvenza inattesa, tale da giustificare la ben nota legislazione emergenziale.

Anche se l’esperienza della crisi di liquidità a livello di sistema ha condizionato le scelte del legislatore, in certi casi dichiaratamente, questa problematica è estensibile ad altre circostanze di incertezze e di imprevisti, che spaziano dalle calamità naturali (terremoto dell’Emilia) all’attuale crisi bellica in Ucraina, fino alle imprevedibili decisioni strategiche di global player circa processi riallocativi che possono interessare singole fattispecie aziendali, senza avvisaglie.

Per quanto questa spiegazione abbia una logica, considerata la varietà di casistiche, l’indeterminatezza della definizione giuridica di crisi ora proposta può rappresentare un parziale allontanamento dall’impostazione scientifica, pur con il richiamo a livello di rilevazione dello squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, che rappresenta sicuramente un riferimento esplicito ai paradigmi della scienza aziendalistica e che ora verrebbero rappresentato, in una gerarchia dei principi, non come natura della crisi, ma soltanto come oggetto di rilevazione.

Conseguentemente, il fatto che il testo finale del CCI richiami, comunque, gli squilibri aziendali tra le finalità delle rilevazioni, non risolve del tutto questo scollamento, in quanto gli squilibri vengono ammessi come finalità conoscitive e non come fenomeno della crisi in sé, lasciando così molto terreno interpretativo circa quanto emerge dall’informativa sugli squilibri e l’individuazione della crisi come fenomeno reale.

 

11.    L’insolvenza reversibile

Il decreto n. 118 del 2021, con il contenuto del protocollo allegato al decreto dirigenziale ha dato spazio all’insolvenza reversibile, che è entrata quindi come nuova categoria nel diritto della crisi, non senza problemi interpretativi.

Il protocollo, punto 2.4, reputa l’insolvenza reversibile - che non viene definita - come una condizione non preclusiva dell’avvio delle trattative da parte dell’esperto, se permangono credibili condizioni di perseguibilità del risanamento dell’impresa.

L’insolvenza reversibile è certamente una situazione considerata come temporanea e non esiziale per la continuità aziendale: il caso, ancora, della crisi di liquidità indotta nel sistema delle imprese dalle misure anti-covid, costituisce un esempio molto evidente, a dimostrazione che questa grave esperienza ha condizionato i lavori legislativi o comunque ha fatto maturare convincimenti e problematiche mai prima sollevati.

L’insolvenza irreversibile, nuova a livello normativo, è peraltro marginale nelle trattazioni scientifiche aziendalistiche, ancorché in concreto possano essere rappresentate non poche circostanze che la contemplano.

La dottrina economica considera l’insolvenza, tipicamente, anche se non in via esclusiva, come la manifestazione finale della crisi dell’impresa, quindi irreversibile e non meritevole di ulteriore assorbimento di risorse, essendo il business in stato di decozione ed essendo perdute le condizioni di continuità aziendale.

La continuazione dell’attività, in ambito giuridico, è peraltro considerata, in queste circostanze, pregiudizievole per gli interessi dei creditori, al di là dell’interruzione della continuità aziendale, perché assorbe risorse distrugge valore.

La spiegazione sequenziale che procede dall’indebolimento, allo squilibrio economico, fino alla crisi e quindi all’insolvenza, pur essendo certamente prevalente, non è comunque totalizzante. L’insolvenza reversibile si presenta, infatti, in circostanze rarefatte e interstiziali di imprese ancora sane e vitali dal punto di vista strategico e con modelli di business ancora coerenti, quindi competitive e forse in relativo equilibrio economico, che pur tuttavia presentano situazioni di insolvenza, ma non fatalmente definitiva.

Il fenomeno può trarre origine da criticità dovute alla mancata solvibilità, inattesa, della clientela, di clienti importanti, i cui ritardati o mancati pagamenti si ripercuotono con immediatezza sulla generazione di cassa dell’impresa fornitrice e sui suoi livelli di tesoreria. L’insolvenza, in questo caso, sorge pur in presenza di un equilibrio economico di fondo e di potenziali di competitività e di coerenza strategica del modello di business.

Particolare è poi il caso di insolvenza infragruppo, a danno di una consociata originariamente sana e in equilibrio economico, con business coerente e buoni fattori strategici di successo, che tuttavia subisce a catena l’insolvenza della capogruppo o di altra consociata, di cui è fornitrice prevalente o a cui ha destinato importanti finanziamenti.

Questi esempi fanno capire la reversibilità del dissesto di un’azienda insolvente e quindi la possibilità di un percorso di risanamento (con il supporto di un piano di risanamento ragionevolmente attuabile) è possibile tipicamente quando l’insolvenza è di provenienza esterna, derivante da rapporti commerciali e finanziari con altre imprese del mercato o del gruppo di appartenenza.

Ancora, come si è visto con la pandemia e i diffusi fenomeni recessivi, dovuti alla combinazione di provvedimenti di lockdown, crisi da domanda e crisi dell’offerta; quindi, con carenze di liquidità straordinarie e perduranti, hanno inciso anche su imprese sane o comunque con business vitali e coerenti, specialmente in determinati settori maggiormente colpiti dai provvedimenti di limitazione degli esercizi.

Si tratta dunque di situazioni di insolvenza di origine esterna, indotta da fenomeni imprevedibili e incontrollabili, che quindi non derivano dalla gestione aziendale, per cui appare plausibile il carattere della temporaneità.

La possibilità di reversibilità dello stato di insolvenza è condizionata, oltre che dalla origine esterna alla gestione, anche dal fatto che non siano stati intaccati in maniera irrimediabile gli assetti produttivi e organizzativi dell’impresa e soprattutto se la crisi di liquidità riveste con buona evidenza carattere di temporaneità e di possibilità superamento.

In definitiva, l’insolvenza reversibile dell’impresa dovrebbe essere ricondotta a cause esterne, incontrollabili e temporanee, quali: i) persistenza temporanea di condizioni recessive; ii) cause esterne parzialmente controllabili in presenza di rischi potenzialmente stimabili (eccezionali ritardi o insolvenze di importanti clienti); iii) cause esterne subite per vincoli e restrizioni organizzativi o societari da parte di società capogruppo insolventi o di imprese rete dominanti (affiliante nel sistema di franchising, grande cliente nella rete di subfornitura) insolventi.

L’ insolvenza originata da fenomeni di mercato, di relazioni commerciali e di subalternità societaria o organizzativa, può confermarsi come reversibile qualora non si presentino altri fattori sfavorevoli: k) l’incapacità o impossibilità dell’impresa, divenuta insolvente per contagio, di rigenerare rapidamente un sufficiente autofinanziamento (cash flow); kk) una struttura finanziaria originariamente troppo fragile (prevalente indebitamento a breve, di elevata proporzione); kkk) un livello di sottocapitalizzazione strutturale, accompagnata da assenza o carenza di possibilità di urgente ricapitalizzazione.

 

12.    Osservazioni conclusive

In chiusura, pare opportuno tentare di chiarire in maniera sistematica la complessa articolazione della dialettica crisi e insolvenza, nelle diverse modalità di verificazione e di manifestazione, tenuto conto che negli ultimi 5 anni, a partire dalla legge delega n. 155/2017 il legislatore è intervenuto ricorrentemente per modificare la definizione di crisi e per rimodulare quella di insolvenza, introducendo la nozione di insolvenza reversibile.

Gli unici elementi definitori rimasti immutati sono il concetto di crisi come probabilità di futura insolvenza e la conservazione della nozione di crisi di cui all’art. 5 della legge fallimentare.

Il legislatore ha cercato, nel tempo, di fornire una nozione di crisi in sé, “assoluta”, definendola nel CCI, prima versione, come uno “stato di difficoltà economico-finanziaria” (del debitore), per poi riqualificarla come “squilibrio economico-finanziario” (del debitore).

E’ stata inoltre soggiunta una nozione “relativa” di crisi, per relazione, in quanto essa esprime quello stato “che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”, conformemente alla legge delega, che tuttavia si limitava ad enunciare la sola caratteristica relativa della crisi, intesa come “probabilità di futura insolvenza”.

Insomma, il CCI nelle sue prime versioni ha fornito entrambe le nozioni di crisi, sia come fenomeno caratterizzato da determinate anomalie e patologie, sia come stato di probabile insolvenza.

Con il decreto legislativo n. 83/2022 si rinuncia invece in toto ad una nozione della crisi in sé, per enunciare solo una nozione di crisi “relativa”, se ed in quanto di “stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, che si manifesta con diversi gradi di intensità, attraverso l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.

Che cosa sia la crisi in sé non è detto e non è nemmeno un ritorno alla legge delega, perché questa, comunque, evidenziava il limite di una nozione esclusivamente giuridica, inserendo una precisazione (“tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica”): una norma di rimando dunque, che, invece, nello schema di decreto legislativo manca.

Si perviene in definitiva ad una nozione di crisi solo per rinvio ad un altro stato (probabile), che è quello dell’insolvenza, la cui definizione resta cristallizzata nella norma già esistente nella legge fallimentare.

Appare chiaro che, correttamente, il legislatore distingue crisi e insolvenza come fenomeni che possiedono connotazioni diverse e che la crisi non comprende l’insolvenza, semmai la sua conoscibilità preventiva la vuole evitare.

È innegabile, in proposito, che la scienza aziendalistica veda la crisi e l’insolvenza come fenomeni di diversa natura, non coincidenti e non ricompresi l’una nell’altro, non solo per la diversità dei caratteri distintivi e per l’evidente differenza delle loro misurazioni ed evidenze empiriche, ma anche come stadi differenti del ciclo di vita dell’impresa, laddove l’unitarietà della vita aziendale collega, ma non confonde, questi fenomeni che restano comunque profondamente diversi.

E’ vero che sia le prime versioni che l’ultima del CCI qualificano la crisi anche come “inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici”, ma occorre fare bene attenzione al fatto che, giustamente, si considerano queste criticità come “manifestazione” della crisi, non come definizione della crisi in sé: altro è il fenomeno della crisi (tipicamente strategico, gestionale, organizzativo, economico) prevalentemente endo-aziendale nel suo insorgere e nel suo manifestarsi all’imprenditore e al management; altra è invece la sua manifestazione finanziaria, quindi esterna, perché le dinamiche finanziarie (inadeguatezza dei flussi al servizio del debito) sono prettamente operazioni o mancate operazioni di mercato, conoscibili ai terzi. Le norme, quindi, forniscono della crisi, su questo aspetto della manifestazione tramite l’inadeguatezza dei flussi di cassa, uno spaccato terminale della crisi, che attiene alla sola sua manifestazione e quindi alla conoscibilità tramite i flussi di cassa insufficienti, che presumibilmente rendono la crisi manifesta non solo con maggiore chiarezza all’interno dei confini aziendali, ma anche all’esterno.

Trattasi di una dimensione e di uno stadio di crisi, invero, molto pericoloso:

a)        sia perché quando una crisi sfocia nell’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici, è oggettivamente ad uno stadio assai avanzato (concetto di “segnali forti”, chiari, ma tardivi), in quanto la concatenazione che parte dai fatti e dagli eventi, dagli ordini e dalle fatturazioni, fino alle misurazioni economiche analitiche (controllo di gestione per prodotti e per mercati), alle misurazioni economiche generali (contabilità generale), quindi alle rilevazioni finanziarie prospettiche, assorbe tempo alla conoscibilità della crisi, dato che le manifestazioni finanziarie sono fisiologicamente quelle terminali di un processo degenerativo, spostando in avanti - con queste premesse - le possibilità di predittività dell’insolvenza. In concreto, se la predittività dell’insolvenza viene ricondotta ai soli flussi finanziari, anche declinati a budget, la tempestività prognostica e soprattutto quella di intervento con idonee iniziative possono risultare debolmente efficaci.

b)        Sia perché la manifestazione di una crisi mediante i flussi finanziari, anche prospettici, investe nell’imminenza le relazioni esterne di mercato con i vari stakeholders, potendo ingenerare conflitti, tensioni, reazioni ed accelerazioni della crisi e dell’insolvenza, specie da parte dei soggetti contrattualmente più forti (sistema bancario, fornitori primari), con comportamenti non del tutto controllabili da parte degli imprenditori minori. Con ciò non si vuole in alcun modo sottintendere che l’informazione, consuntiva e prospettica non debba essere prodotta: tutt’altro, dal momento che la trasparenza è oramai un valore affermato nelle corrette relazioni di mercato e intersoggettive, per il bene stesso dell’impresa. Si vuole invece evidenziare il fatto che una nozione di crisi dedotta solamente per relazione rispetto all’insolvenza probabile e agli insufficienti flussi di cassa previsti (anche fino a dodici mesi) intercetta fenomeni di crisi oggettivamente in modo tardivo, quando invece una focalizzazione, anche, su una natura della crisi in quanto fenomeno autonomamente configurabile, pur considerando le temute involuzioni verso l’insolvenza, permette di integrare il quadro sintomatologico e prognostico assai prima e con indizi gestionali ed economici più immediati con il fenomeno della crisi stessa e certamente con maggiore valenza segnaletica ai fini dell’accertamento delle cause e dell’adozione tempestiva delle idonee iniziative.

Ci pare, insomma, che la rinuncia a definire la crisi di per sé, come era emersa invece nel CCI con l’ottima precisazione dello” squilibrio economico-finanziario”, possa produrre effetti contraddittori, in quanto:

-            non identifica i caratteri distintivi della crisi e delle sue cause, che raramente sono di tipo finanziario, prevalendo invece quelli di natura economico-gestionale, che esprimono peraltro i sintomi primari e intermedi dello stato di crisi;

-            rappresenta la crisi unicamente come relazione causa-effetto con l’inadeguatezza dei flussi finanziari, ancorché nella prospettiva temporale di dodici mesi (e non più di sei mesi), interessando però lo stadio terminale della crisi, quando se ne produce la manifestazione finanziaria;

-            pone la crisi in funzione della predizione, della prevenzione e della soluzione tempestiva dell’insolvenza, ma non chiarisce se si debba intervenire anche alla radice e al cuore della crisi stessa, i cui effetti, posto che l’insolvenza possa anche essere evitata, comunque possono condurre alla perdita della continuità aziendale e a spostare solamente avanti nel tempo il rischio di insolvenza stesso.

Il CCI, secondo l’interpretazione del Consiglio di Stato, introdurrebbe un concetto di intensità[13] (diversi gradi) della crisi, il che solleva alcune problematiche interpretative.

L’intensità attiene all’inadeguatezza dei flussi o alla crisi in sé?

Perché se la risposta è la seconda, come pare logico e coerente con i chiarimenti del Consiglio di Stato - giacché attendere l’intensificarsi delle irregolarità dei flussi finanziari sarebbe contradditorio con l’esigenza di tempestività e di finalità prognostica dell’accertamento della crisi - sorgono obiettive perplessità che i diversi stati della crisi (dall’indebolimento, alla pre-crisi, alla crisi vera e propria, anche grave) possano produrre effetti rilevabili dai flussi finanziari inadeguati per i prossimi dodici mesi.

Si faccia il caso della pre-crisi, intesa normalmente come stadio in cui le inefficienze gestionali sono parziali, localizzate e non diffuse, certamente non irreversibili, con cause ancora controllabili e rimediabili da parte del management attraverso interventi non necessariamente straordinari e di certo senza dover fare ricorso a procedure concorsuali previste dall’ordinamento: in questa circostanza, appare assai difficile, se non inverosimile, pensare che si profilino già inadeguatezze dei flussi di cassa prospettici, per fronteggiare le obbligazioni nei dodici mesi a venire.

La concreta realtà operativa delle imprese e le indicazioni di dottrina fanno invece propendere per una connessione con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici, così grave da non poter fronteggiare le obbligazioni dell’anno successivo, solo in presenza di una crisi alquanto intensa nel suo vigore e quindi ad uno stadio assai avanzato di maturazione.

La scelta di intercettare i flussi di cassa come fil rouge per qualificare la crisi e, ora, anche per graduarne l’intensità, rischia di apparire astratta, caricando di troppa rilevanza segnaletica, in ordine alla intercettazione tempestiva o addirittura precoce della crisi, i flussi di cassa, che tipicamente presentano legami indiretti, sequenziali e tardivi con i fattori reali di crisi. Certo, la misurabilità dei flussi finanziari e la possibilità di trattarli in maniera formale e algoritmica può rappresentare una tentazione ad avvalersene come strumenti rivelatori privilegiati, ma la dottrina aziendalistica insegna da sempre che necessitano strumenti diversi per diverse finalità conoscitive e che non esistono strumenti di indagine totalizzanti e universali e ciò vale anche per i flussi di cassa.

Il decreto-legge n. 118/2021 ha introdotto nel diritto della crisi anche il concetto di probabilità di crisi. Non vi sono precedenti di questa nozione, diversamente da quella di crisi, collaudata ad esempio per il concordato preventivo.[14]

La probabilità di crisi sposta all’indietro lo stadio patologico o di malessere della gestione dell’impresa, estendendo quindi lo spettro di condizioni oggettive interessate dalla normativa, con un ventaglio che va dunque, dallo stadio di probabilità di crisi fino all’insolvenza, sia reversibile che irreversibile, quest’ultima caratterizzante le gestioni liquidatorie atomistiche.

Il modello economico di riferimento più rilevante, per descrivere i suddetti fenomeni è quello del ciclo di vita dell’impresa, o del business (per le impese multibusiness) o dei marchi (per le imprese con portafogli marchi), a seconda della complessità aziendale.

Il ciclo di vita è una rappresentazione idealizzata dello svolgimento reale della gestione dell’impresa, che, una volta raggiunta la fase di maturità (dopo l’avvio e lo sviluppo), si trova in una situazione ambivalente di crescita conseguita, ma al contempo di esposizione a diversi rischi potenziali: i) diminuzione della redditività aziendale; ii) pressione competitiva dei competitor; iii) riduzione della tensione innovativa e imprenditoriale; inizio graduale declino del prodotto o, peggio del business.

L’impresa monoprodotto e monobusiness presenta profili di rischio maggiori rispetto ad un’azienda in grado di distribuire i rischi su diversi prodotti e differenti business coerenti. Se la tarda fase di maturità non viene per tempo accompagnata da nuovi processi innovativi e di sviluppo, di crescita o qualitativo, si possono innescare percorsi di deterioramento del modello di business, che inerzialmente, procedono verso stadi di pre-crisi e di crisi.

Come ogni categorizzazione, l’individuazione di stadi involutivi e di sequenze, che in concreto possono anche risolversi in accelerazioni e sorprese, può presentare una certa semplificazione, ma è altresì opportuno ricercare una differenziazione nel continuum di situazioni effettive, per poter evitare un’eccessiva omogeneizzazione interpretativa.

La probabilità di crisi evocata dal legislatore del decreto-legge n. 118/2021 intende esprimere una precedente situazione di crisi non grave, caratterizzata da criticità non sistematiche, profonde e generalizzate o croniche: problemi quindi circoscritti e localizzati, in aree aziendali e geografiche, ovvero in talune fasi della catena del valore, all’interno di specifici cicli o processi (di approvvigionamento, distributivi, di particolari lavorazioni). Si tratta di erosioni dell’economicità aziendali che, se incontrollate e trascurate, possono mutare da “crisi parziale e temporanea” a “crisi d’impresa”.

La crisi, piena e preoccupante, è quindi la “crisi dell’impresa”, globalmente considerata, nel suo intero modello di business e quindi nell’insieme dei componenti del business: tecnologie, prodotti, clientela, mercati serviti, con evidenze quantitative rilevabili da cali di fatturato, di marginalità, di dinamiche anomale di costi.

La pre-crisi, se si vuole cogliere l’essenza di un distinguo, non è crisi dell’impresa nel suo complesso, ma di segmenti di essa osservabili e misurabili, anche economicamente soprattutto a livello analitico (redditività di prodotti, di mercati, di singoli punti vendita).

L’insolvenza, che è fenomeno certamente d’impresa nel suo complesso, è più direttamente riconducibile alla crisi, piuttosto che alla pre-crisi e ancor meno ad un primo indebolimento dell’azienda, fase, quest’ultima, più silente, meno facilmente misurabile con grandezze monetarie, ma doverosamente da sorvegliare attraverso primi segnali chiave tipici del settore (minore produttività, aumento dell’età media del personale, vetustà tecnologica degli impianti, assenza di formazione professionale, riduzione delle spese di marketing e di ricerca e sviluppo, erosione della quota di mercato, evidenze di non qualità e reclami della clientela, ritardi nell’erogazione dei servizi, accumulo di scorte, ecc.).

L’indebolimento e la precrisi sono stadi che l’impresa è in grado di fronteggiare e di superare nell’ambito di una gestione ordinaria, ovviamente reattiva, secondo capacità manageriali e risorse che l’impresa in funzionamento e matura dovrebbe avere precostituito (si pensi alle riserve di capitale). La vera (grave) crisi d’impresa necessita invece di interventi straordinari strutturati, formalizzati, dei mirati percorsi di ristrutturazione anche in via stragiudiziale (risanamenti interni) con il supporto di piani di risanamento necessari per indirizzare e monitorare l’implementazione del progetto; fino al ricorso a quelli che ora sono definiti “quadri di ristrutturazione” aziendali, nelle diverse fattispecie.

È evidente che talune soluzioni rispondono a esigenze di pragmatismo e di semplificazione metodologica. Le osservazioni qui sviluppate non vogliono esprimere censure aprioristiche, ma considerazioni critiche per l’approfondimento, il dibattito, il ricorso informato all’impiego degli strumenti proposti dall’ordinamento, la consapevolezza che la strumentazione e le soluzioni astrattamente prefigurabili possiedono specifici limiti di applicabilità nei casi concreti, stante la varietà e complessità dei contesti aziendali e di quelli interessati dalla crisi in particolare.

Emergono e vanno senz’altro salutati favorevolmente delle nuove tendenze evolutive in ambito giuridico, quali l’orientamento al futuro della conduzione dell’impresa e degli strumenti necessari per la conoscibilità sia della crisi che dell’insolvenza, con una estrema attenzione alla dimensione finanziaria, che esce dalla riforma come la dimensione della gestione aziendale considerata più rilevante, anche più, parrebbe, della tradizionale dimensione patrimoniale a cui il diritto societario e il diritto della crisi hanno in passato fatto prevalente riferimento. A tale proposito, non pare opportuno che la svolta comporti, con l’accensione di un grosso faro sulla gestione finanziaria, una messa in ombra della dimensione patrimoniale, perché questa, al di là dei flussi di periodo, peraltro breve, esprime i veri potenziali di lungo andare dell’impresa e le condizioni prospettiche più solide per una prospettazione durevole di equilibro aziendale.



[1] Cfr. Giorgio Brunetti, Vittorio Coda e Francesco Favotto, Analisi, previsioni e simulazioni economico- finanziarie d’impresa, Etas, Milano, 1990; Luigi Guatri, Crisi e risanamento delle imprese, Giuffré, Milano, 1986; Paolo Bastia, Sistemi di Pianificazione e Controllo, Il Mulino, Bologna, 2008; Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2022.

 

[2] I temi del rischio e dell’incertezza, inizialmente analizzati da Frank H. Knight(Risk, Uncertainty, and Profit, Boston, Houghton Mifflin Company, 1921) e Herbert Simon (Administrative Behavior: A Study of Decision-Making Process in Administrative Organization, Third Edition, The Free Press, Collier Macmillan Publishers, London, UK, 1976), sono stati fortemente sviluppati in epoca recente: si vedano in particolare Aswath Damodaran, Strategic Risk Taking. A Framework for Risk Management, Upper Saddle River (NJ), Wharton School Publishing, 2008; Dennis V. Lindlay, Understanding Uncertainty, New York, John Wiley & Sons, 2006.

[3] Per un’analisi dei vantaggi compensativi nei gruppi si veda Paolo Bastia, Gruppi aziendali e vantaggi compensativi, in Discrimen, novembre 2020.

[4] La teoria delle condizioni prospettiche di equilibrio è stata introdotta da Aldo Amaduzzi (allievo diretto del fondatore dell’Economia Aziendale, Gino Zappa), nel 1949 (Il sistema dell’ impresa nelle condizioni prospettiche del suo equilibrio, Signorelli, Roma, 1949) ed è stata non solo perfezionata nei trattati successivi del Maestro (cfr. L’Azienda, nel suo sistema e nell’ordine delle rilevazioni, Utet, Torino, varie edizioni), ma anche della pressoché unanime produzione dottrinale che né è seguita, fino ad oggi.

Rileva anche il fatto che la classe professionale italiana si è formata da generazioni su questo modello di analisi, da considerarsi oramai radicato anche nella prassi e solo oggi espressamente ripreso dal Codice della Crisi (art. 3, comma 3, lettera a).

[5] Cfr. Henry Mintzbeg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, Il Mulino, Bologna,1996; The Rise and Fall of Strategic Planning, Free Press, New York, 2013.

[6] Per un’esaustiva analisi dell’insolvenza negli studi giuridici e nella giurisprudenza si vedano Stefano Ambrosini, Diritto dell’impresa in crisi, Pacini Giuridica, Pisa, 2022; Fabrizio di Marzio, La riforma delle discipline della crisi e dell’insolvenza, Giuffré, Milano, 2017.

[7] Gli strumenti predittivi, certamente decisivi per la prevenzione della crisi e dell’insolvenza, sono da tempo raccomandati in generale per la gestione strategica dell’impresa, anche in ottica competitiva, in quanto la “prontezza”, quale capacità di immediatezza di reazione agli stimoli, è fondamentale anche per cogliere le opportunità, in mercati dove fenomeni come “bolle di domanda” (domande temporanee), anticipazione dei competitor nei mercati, anticipazione dei gusti dei consumatori, time to market (velocità del ciclo che procede dall’innovazione di prodotto fino alla commercializzazione), costituiscono fattori di successo: insomma la predittività e l’anticipazione degli eventi rappresentano oggi la dimensione caratterizzante delle gestioni strategiche, sia di successo, sia di turnaround. Si consideri bene che per “gestione strategica” si intende, rispetto alla pianificazione strategica, un approccio flessibile e aperto al cambiamento e all’imprevisto, con un utilizzo del piano di tipo esplorativo, simulativo, adattivo. Cfr. Roberto Cafferata, Management in adattamento, Il Mulino, Bologna, 2018; Alberto Bubbio, 2022: la nuova ascesa della pianificazione, paper on line https://dimelab.us/wp-content/uploads/2022/03/La-nuova-ascesa-della-pianificazione.pdf; Pietro Genco e Lara Penco, Gestione strategica dell’impresa, Giappichelli, Torino, 2017. Per le applicazioni predittive alle crisi d’impresa, si veda Paolo Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Giuffré Lefebvre, Milano, 2022.

[8] Il controllo della direzione di marcia (steering control) intende guidare le scelte e i comportamenti attuali del management non sulla base delle evidenze storiche o presenti, ancorché tempestive; bensì sulle tracce virtuali di tendenze probabilistiche, prefigurando precocemente carenze, criticità, inefficienze, ritardi nel percorso (di risanamento) in virtù di simulazioni a finire, per scartare soluzioni incoerenti e percorrere le opzioni tendenzialmente migliori secondo un quadro informativo prognostico via via riaggiornato, analogamente, come metafora, agli strumenti di guida satellitare. Lo steering control consente di intervenire con gli opportuni interventi correttivi prima che l’iniziativa sia messa in atto. Cfr. William Newman, Constructive Control. Design and Use of Control System, Prentice-Hall, Englewood, 1975; Harold Koontz – Robert W. Bradspies, Managing through Feed-forward Control. Future Directed View, in «Business Horizon», giugno 1972. Per l’impiego degli strumenti predittivi, secondo logiche di orientamento al futuro e di correzione anticipata (feed-forword) nei piani di risanamento in esecuzione, si rinvia a Paolo Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Giuffré Francis Lefebvre, Milano, 2022.

[9] Per una disamina critica dei modelli quantitativi per la previsione delle insolvenze, si veda Paolo Bastia, Crisi aziendali e piani di risanamento, Giappichelli, Torino, 2019.

[10] Sull’impiego dell’intelligenza artificiale a supporto dei processi decisionali nelle imprese, si veda Paolo Bastia, L’intelligenza artificiale nelle imprese, relazione al Convegno “Diritto societario, digitalizzazione e intelligenza artificiale”, Firenze, 12-13 maggio 2022, in fase di pubblicazione in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale.

[11] Cfr. Aldo Amaduzzi, L’azienda, Utet, Torino, 1975.

[12] Cfr. Consiglio di Stato (provvedimento numero 00832/2022 e data 13/05/2022 spedizione).

[13] Il Consiglio di Stato (provvedimento numero 00832/2022 e data 13/05/2022 spedizione) reputa opportuna un’ulteriore integrazione per mettere in risalto: che la definizione di “crisi” riferibile ai possibili diversi gradi di intensità, dallo stato di pre-crisi, alla crisi, alla insolvenza, arrivando a suggerire una nozione di crisi: La definizione potrebbe essere così riformulata: “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, che si manifesta con diversi gradi di intensità, attraverso l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi;”.

[14] Nella dottrina giuridica si è osservato che tale condizione, “che potrebbe definirsi di pre-crisi (…), è data da quello squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rende probabile la crisi”: Ambrosini, Il codice della crisi dopo il d. lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 17 luglio 2022, p. 10.