, 05 ottobre 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Premessa - 2. L’entità del debito dopo la revoca del concordato preventivo - 3. Il momento della ripresa della maturazione degli interessi a seguito della revoca del concordato preventivo - 4. Conclusioni
1. Premessa
La fattispecie che viene resa oggetto di breve esame riguarda un concordato preventivo che, inizialmente omologato dal tribunale, è stato revocato dalla corte d’appello in accoglimento del ricorso proposto da un creditore dissenziente; decisione, quest’ultima, poi confermata dalla Cassazione.
Cominciamo con l’osservare che, in situazioni (per vero non frequentissime) come quella testè sintetizzata, il concordato mantiene i propri effetti in virtù della proposizione del ricorso in cassazione, che, sino al deposito della sentenza dei giudici di legittimità, consente la sterilizzazione della pronuncia di revoca emessa dal giudice di seconde cure; effetti, questi, ontologicamente provvisori durante quel lasso di tempo.
Qui il problema - come si dirà – nasce tuttavia dal successivo venir meno, per l’appunto, di tali effetti.
2. L’entità del debito dopo la revoca del concordato preventivo
La definitività della revoca solleva, anzitutto, l’interrogativo se la falcidia insita nella proposta di concordato, successivamente travolta dalla pronuncia della Cassazione, mantenga i propri effetti nonostante tale ultima decisione.
Dalla soluzione di detto quesito dipende (e discende) l’effetto della revoca del concordato sul passivo della società debitrice: vale a dire se si tratti di quello decurtato per via dell’esdebitazione di cui all’art. 184, l. fall. (previsione costituente, come affermato dalla Cassazione[1], “proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all'articolo 1372 codice civile”), oppure del passivo originario per il sopravvenuto venir meno di tale effetto.
Orbene, se è vero che non si rinvengono casi editi esattamente in termini, non sembra possa disconoscersi portata caducatoria a una pronuncia di revoca come quella in questione, che appare idonea a eliminare in radice gli elementi fondanti del patto concordatario e, quindi, anche i suoi effetti esdebitatori.
La revoca, del resto, comporta il venir meno della causa genetica del concordato stesso, non essendo la conseguenza di un fatto sopravvenuto nell’esecuzione del programma negoziale proposto dal debitore e condiviso dalla maggioranza dei creditori, come può essere l’inadempimento (di non scarsa importanza), che legittima la risoluzione ex art. 186, l. fall.
La revoca è dunque qualcosa di maggiormente incisivo, rispetto alla risoluzione, nella regolamentazione dei rapporti concordatari fra debitore e creditori e la sua pronuncia cristallizzata in un provvedimento definitivo, intaccando i presupposti stessi dell’accordo, nonché gli elementi che in base all’ordinamento lo dovrebbero connotare come istituto diretto al superamento dello stato di crisi, implica il travolgimento totale della falcidia sancita dall’intesa concordataria e la conseguente riviviscenza dell’intero debito verso il ceto creditorio.
Non a caso, tale principio trova puntuale conferma nell’orientamento della Corte costituzionale, richiamato dalla giurisprudenza di legittimità: con riferimento ad un caso di concordato omologato in via definitiva e, dunque, a fortiori assimilabile alla fattispecie in esame (visto che essa presentava già un consolidamento definitivo del passivo falcidiato), si è infatti chiarito che «l’obbligatorietà del concordato omologato può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento, con dichiarazione “che retroagisce al momento del decreto di apertura della procedura di concordato, e che determina, ovviamente, l'ammissione al passivo dei crediti anteriori per l'intero loro ammontare e non già nella misura ‘falcidiata’ dal concordato”»[2].
Se dunque la risoluzione comporta il venir meno della falcidia prevista nel concordato, a maggior ragione deve ritenersi che tale effetto si produca al cospetto di una revoca di quest’ultimo.
In quest’ottica, il mantenimento della falcidia appare prospettabile solo nell’ipotesi in cui il concordato non venga risolto. Ed invero, con la citata pronuncia la Consulta ha precisato che le norme censurate potevano essere interpretate nel senso che il concordato, anche se non risolto o annullato, non impedisce di attribuire successiva rilevanza, ai fini di cui all’art. 5, l. fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura (cd. debiti anteriori), fermi gli effetti della falcidia concordataria.
Ciò è stato ripreso dalla Suprema Corte, che ha avuto modo di statuire che l’istante deve “proporre la domanda di risoluzione, anche contestualmente a quella di fallimento, solo quando faccia valere il suo credito originario e non nella misura già falcidiata”[3]; diversamente, vale il principio della perdurante applicabilità della falcidia concordataria, che trova realizzazione quando «sia “scaduto il termine per la [ ... ] risoluzione” del concordato di cui all'art. 186, comma 3, legge fall. (Cass. n. 29632/2017, p. 4) e il piano concordatario si sia dunque consolidato, senza che i creditori (pur potendo) si siano attivati per chiedere la risoluzione, ove il debitore continua ad essere obbligato al suo adempimento e creditori (anche nuovi) e il P.M. possono promuovere le iniziative dirette a fare accertare l'insolvenza del debitore “nella citata misura falcidiata” (Cass. ult. cit.)»[4].
3. Il momento della ripresa della maturazione degli interessi a seguito della revoca del concordato preventivo
Ciò chiarito, occorre a questo punto chiedersi, di fronte alla necessaria ripresa – per effetto della definitività della revoca del concordato e del venir meno della procedura di concordato – della maturazione (sull’originaria esposizione debitoria e su quella generatasi nel corso della procedura) degli interessi chirografari, legali, moratori e convenzionali, e/o degli interessi privilegiati moratori e convenzionali (ove il singolo rapporto negoziale non sia stato medio tempore sciolto ex art. 169-bis, l. fall.), quale sia il momento dal quale detto effetto si verifica.
Non v’è dubbio che la procedura cessi con la definitività del provvedimento di revoca, come desumibile dal disposto di cui all’art. 168, l. fall., secondo cui “fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo i creditori per titolo o causa anteriore non possono, sotto pena di nullità, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore” (previsione, questa, che presuppone la cristallizzazione del passivo ex artt. 169 e 55, l. fall. e, dunque, la sospensione degli interessi sui debiti chirografari e la rimodulazione degli interessi privilegiati ai sensi degli artt. 53 e 54, l. fall.). Non è tuttavia altrettanto immediato stabilire quale sia il dies a quo della ripresa degli interessi.
Ad una prima lettura delle norme si potrebbe essere tentati di sostenere che il principio dell’intangibilità degli effetti (pur provvisori dal decreto di omologazione alla pronuncia della Cassazione di conferma della revoca) e quello della tutela dell’affidamento, che trovano evidenza nell’affermazione della legittimità degli atti legalmente compiuti nel corso della procedura (arg. ex art. 161, comma 7, l. fall.), conducano ad individuare detto termine, ex nunc, nella data di deposito del provvedimento della Cassazione.
Una simile ricostruzione interpretativa non sembra però tener adeguatamente conto del fatto che la sospensione degli interessi è limitata ai soli fini concorsuali, laddove il debito continua a generare interessi ex lege, cioè in base alle ordinarie regole codicistiche, pur nella pendenza di una procedura e dunque ex tunc, ancorchè quest’ultima, medio tempore, venga meno.
Il che trova conferma nel consolidato orientamento della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di affermare che «la norma dell'art. 55 … è chiara e univoca nell'esprimere una volontà legislativa precisa e compiuta. La proposizione normativa utilizzata («la dichiarazione di fallimento sospende il corso degli interessi ... agli effetti del concorso») implica positivamente una distinzione disciplinare tra gli effetti endofallmentari e gli effetti esofallimentari. Se il regime degli interessi fosse identico tanto all'interno della procedura, quanto fuori dalla medesima, … una simile distinzione non avrebbe senso alcuno. Per gli effetti esofallimentari non v'è, per vero, alcun rinvio «in bianco» ad altra e ipotetica norma (o anche a un preteso principio del sistema). La disposizione dell'art. 55 regola l'intera fattispecie. Nel contesto di una disciplina già specificamente intesa a regolare gli «effetti del fallimento» - cioè, del concorso - «per i creditori», quale è quella di cui alla sezione II (art. 51 ss. legge fall.), l'ulteriore, puntuale indicazione che la «sospensione degli interessi» vale solo agli «effetti del concorso», di cui all'art. 55, mostra propriamente, e anzi sottolinea, che fuori dal concorso una simile sospensione non c'è»[5].
In particolare, si è precisato che la sospensione degli interessi vale solo all’interno del concorso e non si estende anche ai rapporti singolari tra ciascun creditore ed il debitore. Nei rapporti tra costoro, la maturazione degli interessi avviene “secondo le consuete regole di cui agli artt. 1282 cod. civ. ovvero le convenzioni stabilite tra le parti” e, dunque, anche quelle che legittimano l’insorgenza di interessi moratori[6].
La ratio sottesa alla regola della sospensione dell’esigibilità degli interessi decretata dall’art. 55 l. fall., deve essere rintracciata nell'esigenza di cristallizzazione del passivo, al fine di garantire, nel migliore dei modi, la par condicio creditorum, in modo tale, cioè, da rendere accertabile l'entità complessiva dei debiti concorsuali, svincolati dall’insorgenza di ulteriori crediti accessori.
Ciò non determina in alcun modo, secondo la lettera della norma dettata dall’art. 55, l. fall., effetti estintivi di sorta dei diritti di credito accessori derivanti da interessi connessi ai crediti chirografari ammessi al passivo, ma solo un effetto di temporanea inesigibilità degli stessi sino alla chiusura della procedura; inesigibilità che, tuttavia, non reca con sé un effetto preclusivo alla maturazione degli interessi nel corso della procedura stessa.
In altri termini, se la sospensione degli interessi equivale ad una sorta di “inesigibilità temporalmente limitata al concorso”, ciò “non significa, in realtà, ammettere che i crediti pecuniari idonei a produrre interessi cessino, con l'apertura della procedura, di generare interessi; e ciò in ragione del fatto che il sopravvenire della procedura non rende infruttiferi i crediti pecuniari, bensì rende solo la pretesa agli interessi post-fallimentari inopponibile al patrimonio liquidato ed agli organi della procedura concorsuale”[7].
In questa prospettiva, «una volta chiuso il fallimento, i creditori possono chiedere al fallito in sede post-fallimentare il pagamento della residua somma non ricevuta nella ripartizione dell'attivo, calcolati gli interessi come normalmente e ordinariamente prodottisi anche in rapporto al tempo della pendenza del processo di fallimento»[8].
Il diritto in parola è riconosciuto dall’art. 120, l. fall., che “non propone … profili di contraddizione con quanto appena osservato …, là dove dispone che con la chiusura della procedura, i «creditori riacquistano il libero esercizio ... per la parte non soddisfatta del loro crediti per capitale e interessi»”[9], indipendentemente dal fatto che in sede concorsuale vi sia stato integrale o solo parziale soddisfacimento dei creditori.
Ed invero, l’art. 120, l. fall., detta un principio generale che prevede la riviviscenza del diritto ad agire verso il debitore per la parte non soddisfatta dei crediti, sia per capitale che per interessi. Con il che tale disposizione, essendo il pendant dell’art. 55, pare applicabile – attraverso l’art. 169, che richiama appunto l’art. 55 stesso, anche al concordato preventivo.
Il credito ben potrà essere azionato nei confronti del debitore, non appena tornato in bonis e sempre che il credito stesso non sia oggetto di esdebitazione, e ciò anche per la parte maturata in corso di procedura.
Un’ulteriore dimostrazione dell’assunto che precede si rinviene nella circostanza che, in caso di riapertura del fallimento, i crediti dei creditori già insinuati possono essere maggiorati della richiesta degli interessi, che sono maturati dalla prima sentenza di fallimento sino alla riapertura.
Donde la constatazione che la revoca del concordato implica la necessità di calcolare le passività a titolo di interessi fin dalla scadenza, ab origine, della relativa obbligazione, a prescindere dalla sospensione degli interessi ai fini del concorso.
Il debitore può quindi adempiere al suo obbligo di pagamento solo dopo la chiusura ovvero la revoca della procedura concorsuale, e dunque proprio nel momento in cui, tornando in bonis, avrà di nuovo la disponibilità dei suoi beni la cui liquidazione potrà garantire l’adempimento del pagamento degli interessi continuati a maturare, ex tunc, nel corso della procedura e divenuti esigibili solo nel momento della chiusura della procedura concorsuale.
Una simile impostazione rappresenta, d’altronde, l’espressione del più generale principio della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740, c.c., risultando contrario a questo principio ammettere che il debitore fallito tornato in bonis non risponda del pagamento degli interessi e che sia esentato per sempre dalla relativa obbligazione pecuniaria, a fronte di un regime normativo in materia fallimentare che, da un lato, prevede, all’art. 55, comma 1, l. fall., solo l’effetto di sospendere “agli effetti del concorso” l’esigibilità degli interessi (ai fini della cristallizzazione della debitoria concorsuale) e, dall’altro, stabilisce espressamente, all’art. 120, comma 3, l. fall., la possibilità di richiedere al debitore tornato in bonis il pagamento di capitale ed interessi non soddisfatti.
Il che subisce una declinazione particolare nella fattispecie in esame, poiché la garanzia per debiti futuri, nell’ambito della procedura concorsuale e con riferimento agli interessi sui debiti pregressi, va intesa retrospettivamente rispetto all’accesso alla stessa, posto che il debito è futuro se si considera il momento in cui, in base alle regole ordinarie ed al di fuori del concorso, il debito per interessi – anche in costanza di provvedimenti necessariamente interinali in quanto impugnati – matura, mentre diventa pregresso e, nel contempo, certo nella sua entità solo a posteriori, cioè una volta chiusa la procedura stessa (per effetto, in ipotesi, di provvedimenti giudiziali definitivi).
4. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni che precedono, sembra doversi ritenere che:
- la revoca del concordato, divenuta definitiva con la pronuncia della Cassazione, implichi la riviviscenza dell’intera esposizione della debitrice verso i creditori (verosimilmente anche in relazione all’eventuale esecuzione del concordato medesimo avvenuta per qualche creditore), venendo meno gli effetti della falcidia, che si consolidano solo con il passaggio in giudicato del decreto di omologazione;
- tale effetto caducatorio dell’esdebitazione si produca ex tunc, con conseguente riviviscenza del passivo concordatario ante omologazione, essendovi altresì la necessità di includere nel passivo gli interessi legali, moratori e convenzionali, maturati sin dalla scadenza delle singole obbligazioni non soddisfatte (e, dunque, non ex nunc, cioè a partire dal momento della definitività della revoca), indipendentemente dalla circostanza che il debitore sia stato medio tempore ammesso ad una procedura concorsuale, poi revocata o comunque cessata.
Ed è superfluo precisare, infine, che gli anzidetti corollari paiono destinati a trovare applicazione non soltanto sul piano del diritto concorsuale, ma anche su quello del diritto societario (segnatamente, con riguardo ai criteri cui devono attenersi gli amministratori della società debitrice in sede di redazione del progetto di bilancio).
[1] Cass., 22 maggio 2019, n. 13850, in www.cassazione.it.
[2] Così Cass., 14 febbraio 2022, n. 4696, ibidem, che cita Corte cost., 2 aprile 2004, n. 106 (in De Jure). Nell’occasione, la Corte costituzionale ha altresì precisato che le norme censurate potevano essere interpretate nel senso che il concordato, anche se non risolto o annullato, non impedisce di attribuire successiva rilevanza, ai fini di cui all’art. 5, l. fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura (cd. debiti anteriori), fermi gli effetti della falcidia concordataria. E si veda Cass., 16 maggio 2017, n. 17703, ibidem, secondo cui l’istante deve «proporre la domanda di risoluzione, anche contestualmente a quella di fallimento, solo quando faccia valere il suo credito originario e non nella misura già falcidiata».
[3] Cass., 16 maggio 2017, n. 17703, ibidem.
[4] Cass., 17 ottobre 2018, n. 26002, ibidem; cui adde, ex multis, Trib. Catania, 11 febbraio 2021, in www.ilcaso.it, secondo cui, “ai fini della determinazione dell'ammontare complessivo dei debiti deve aversi riguardo all'importo così come risultante dalla falcidia concordataria, essendosi ormai cristallizzato l'accordo fra imprenditore e suoi creditori”.
[5] Cass., 9 luglio 2020, n. 14527, in www.cassazione.it.
[6] Cass., 19 giugno 2020, n. 11983, ibidem.
[7] Cass., 19 giugno 2020, n. 11983, ibidem.
[8] Cass., 27 gennaio 1975, n. 315, in Archivio C.E.D. della Corte di Cassazione, Rv. 373552; v. anche Cass., 3 dicembre 1997, n. 12262, ibidem, Rv 510673; Cass., 30 marzo 2005, n. 6672, ibidem, Rv 580254; Cass., 14 marzo 2008, n. 6953, ibidem, Rv 602577; Cass., 5 febbraio 2014, n. 2608, ibidem, Rv 629853.
[9] Cass., 9 luglio 2020, n. 14527, in www.cassazione.it.