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Le istanze di composizione negoziata. Dati UnionCamere aggiornati al 15 aprile 2024


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Articolo

Concordato di gruppo e supersocieta’ di fatto (alla luce del Codice della crisi)*


Carlo Bruno Vanetti

Data pubblicazione
14 dicembre 2022

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Sommario: 1. Premessa; 2. Il gruppo nel codice della crisi; 3. Il concordato di gruppo; 4. Contenuti innovativi del piano concordatario di gruppo; 5. Valutazione complessiva e carenze; 6. Trasferimenti di risorse e vantaggi compensativi; 7. Vantaggi o “non svantaggi” compensativi?; 8. Piano di gruppo senza gruppo; 9. Crisi fisiologica e patologia del gruppo; 10. La supersocietà di fatto; 11. Le pregiudiziali per la legittimità di una società di fatto tra società di capitali; 12. Prove della supersocietà; 13.  Critiche alla tesi della supersocietà tacita e del gruppo non-accountable qualificabile come supersocietà; 14 Possibile responsabilità della holding come amministratore di fatto; 15. Sintesi conclusiva.


1.        Premessa

La mia relazione affronta due fenomeni apparentemente ben distinti, i quali tuttavia nella recente giurisprudenza presentano alcuni punti di contatto: connessioni che, complice anche il nuovo Codice e l’attuale crisi economica, potrebbero divenire ancor più frequenti.

Il quadro di riferimento è dato dalla situazione di crisi di un insieme di società di capitali legate da rapporti di partecipazione, che si dichiarano organizzate come gruppo (e sono iscritte al Registro delle Imprese come soggette a direzione e coordinamento di una holding).

Se il gruppo, malgrado la situazione di pesante indebitamento e (ipotizziamo) connessa perdita del capitale, ha i conti in ordine e non ha commesso atti di frode, potrà pensare di utilizzare una delle novità del Codice della Crisi: in particolare, la procedura del concordato di gruppo.

Se invece la situazione gestionale e contabile presenta gravi e insanabili irregolarità, si aprirà la prospettiva della liquidazione giudiziale ed eventualmente, secondo la giurisprudenza, di una estensione delle responsabilità tramite la figura della supersocietà di fatto (sorta per fatti concludenti e al contempo occulta, in quanto ignota come tale ai terzi).

Vediamo anzitutto l’approccio del Codice della Crisi verso il fenomeno del gruppo di società.

 

2.      Il gruppo nel codice della crisi

Il gruppo di società[1] è spesso visto dai giuristi e dall’opinione comune con sospetto: lo si identifica con le società multinazionali, che travalicano le regole del diritto interno ed hanno sede in paradisi fiscali; lo si vede come sede di facili abusi, realizzati utilizzando spregiudicate operazioni intercompany e violando le norme in tema di conflitto d’interessi e di libera concorrenza; lo si considera un mezzo per sfuggire, in caso di insolvenza, alle regole sulla responsabilità patrimoniale, di cui all’art.2740 del codice civile (“il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri”).

Di conseguenza, gli interventi del legislatore e della giurisprudenza sono stati tendenzialmente repressivi e sanzionatori.

Solo nelle procedure amministrative per le banche e le grandi imprese in crisi, essenzialmente per motivi di ordine pubblico, si palesava l’utilità della conservazione e della continuità operativa del gruppo (penso in particolare alla amministrazione straordinaria Marzano-Parmalat, introdotta con decreto legge 347 del 2003, inizialmente per i gruppi con più di mille dipendenti).

Per i normali gruppi, il diritto mirava solo alla trasparenza (dal 1991, tramite il bilancio consolidato, in attuazione di una direttiva comunitaria) ed a prevenire e sanzionare abusi nell’esercizio dei poteri della holding (dal 2003, con le disposizioni del codice civile su “direzione e coordinamento”, che significativamente si aprono con un articolo [il 2497] sulla “responsabilità patrimoniale”).

In caso di crisi o insolvenza, valeva la regola atomistica, per la quale ogni società va sottoposta ad una distinta procedura, e deve avere masse attive e passive rigidamente separate.

Con il Codice della Crisi l’approccio muta, anche per la pressione delle politiche comunitarie tese rafforzare l’efficienza e le dimensioni delle imprese[2].

Ovvero non si mettono più a fuoco solo i rischi creati dal gruppo per i creditori ed i soci minoritari, le possibili violazioni ed elusioni delle regole di mercato, ossia i gruppi “viziosi” o “viziati”, bensì la categoria dei gruppi “virtuosi”, “accountable”, cioè sostanzialmente ben gestiti e affidabili, ma incorsi occasionalmente e senza gravi colpe in crisi risanabili.

Così, si affianca al tradizionale tema degli abusi di certi gruppi e relativi ristori (sui quali si concentra anche il Konzernrecht tedesco del 1965), mai definitivamente risolto, il principio della salvaguardia delle sinergie esistenti nella gran parte dei gruppi, e dell’impulso a mantenerne e possibilmente incrementarne le dimensioni.

Le regole del CCII sul concordato e le altre procedure di gruppo si pongono in quest’ultima prospettiva, in linea con le raccomandazioni e regolamentazioni comunitarie.

La soluzione della supersocietà, richiamata nel titolo del mio intervento, si colloca invece, con caratteri innovativi e qualche forzatura, nel solco della prima prospettiva.

E’ estranea alle regole di organizzazione del gruppo, ma si pone come limite esterno e censura, di matrice giurisprudenziale, per i gruppi insolventi “viziosi” (“non-accountable”), in cui irregolarità ed abusi impediscono il ricorso al concordato e unica prospettiva è la liquidazione giudiziale (già fallimento) con le connesse azioni recuperatorie.

 

3.        Il concordato di gruppo

Il nostro diritto, dal 15 luglio 2022, consente a tutti i gruppi di accedere come unica entità alle procedure concorsuali o negoziali tutelate (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, liquidazione giudiziale, ed anche composizione negoziata e piani attestati).

Quel che a livello pratico più interessa è il concordato preventivo di gruppo.

E’ bene ricordare che vengono esclusi dai benefici del concordato, secondo le regole generali, i gruppi che non siano correttamente strutturati e gestiti (per poter accedere al concordato si deve presentare, secondo gli articoli 39 e 44 CCII, veridicità dei dati, assenza di atti di frode, regolarità nei bilanci e nella tenuta della contabilità - artt.39 e 44 CCII-).

Il Codice della Crisi (DLgs 14 del 12/1/2019) presentava come sue principali novità le procedure di allerta e composizione assistita e la disciplina delle crisi di gruppo.

Abolita - o comunque accantonata - l’allerta (col D.Lgs.83/2022) e subentrata la semplice composizione negoziata (attuali articoli da 12 a 25-decies), passa al primo posto, tra le novità, la disciplina concorsuale del gruppo.

Ricordo ancora e preciso che col termine “gruppo” si intende una pluralità di imprese, coordinate da una gestione unitaria, di solito resa possibile dalla presenza di rapporti di controllo (di diritto o di fatto),: ossia di un soggetto, detto capogruppo o holding, che, tramite diritti di voto, è in grado di nominarne gli amministratori e condizionarne le scelte gestionali.

Di solito, alla presenza del gruppo si accompagna la dichiarazione di “direzione e coordinamento” al registro delle Imprese delle società controllate (art.2497-bis cod. civ.), la redazione di un bilancio consolidato da parte della capogruppo, e nei gruppi più articolati anche la presenza di un “regolamento di gruppo”, interno, che individua le diverse funzioni organizzative.

Ma il minimo comun denominatore di tutte le forme di gruppo è sempre e solo la “gestione” o “direzione unitaria” (vi sono anche gruppi paritetici o orizzontali, senza controllo!).

E non è escluso che - secondo recenti prospettive - a far parte del gruppo (od anche al suo vertice) possa essere una persona fisica (come previsto dal Codice della Crisi e ancor prima per la amministrazione straordinaria delle grandi imprese - ma non dagli art.2497ss.cod. civ.).

Ma veniamo al concordato[3].

Già nell’articolo 1 del Codice troviamo la dichiarazione di voler disciplinare, oltre alle normali insolvenze commerciali ed a quelle civili, anche “le situazioni di crisi o insolvenza” dell’“imprenditore che eserciti” un’attività “operando quale (…) gruppo di imprese”.

Non quindi, semplicemente, crisi “delle imprese del gruppo”, né del soggetto che lo controlla, ma del gruppo come impresa unica, diffusa (stesso approccio si ritrova nella Direttiva UE n. 1023 del 20 giugno 2019 sulle ristrutturazioni preventive dell’insolvenza).

Alla “regolazione della crisi o insolvenza del gruppo” il nuovo Codice dedica gli articoli da 284 a 292, che hanno come principale obbiettivo il “concordato di gruppo”.

Tramite il concordato preventivo di gruppo si dà la possibilità, al soggetto economico che controlla e dirige il gruppo, di predisporre e sottoporre ai creditori ed al tribunale un piano di risanamento unico, che valorizzi le residue potenzialità del gruppo nel suo insieme.

L’attenzione, quindi, si rivolge essenzialmente al concordato in continuità, da realizzare tramite un piano unico per tutte, o le principali, società del gruppo.

Trattandosi di continuità del gruppo, per alcuni dei suoi membri possono essere previsti il concordato liquidatorio o la liquidazione giudiziale, e in caso di inadempimento o vizi del piano, i presupposti per la risoluzione o l’annullamento non operano se non “ne risulti significativamente compromessa l’attuazione del piano anche da parte delle altre imprese” (art.286, c.8, CCII).

In sostanza, importa che non venga meno il nucleo qualificante del gruppo, quello che giustifica la gestione unitaria di più imprese.

Il Regolamento UE del 20 maggio 2015 sulle insolvenze transfrontaliere, per facilitare la gestione unitaria delle crisi di gruppo indica una soluzione minimale: concedere la possibilità di un coordinamento volontario tra i tribunali e gli organi delle diverse procedure, senza formalmente unificarle, ma solo creando un “super-commissario” che le coordini e mitighi le possibili incoerenze, favorendo la adozione di soluzioni comuni, ossia possibilmente di un piano di risanamento unitario.

La prudenza del legislatore comunitario si giustifica per il diverso perimetro del gruppo cui si rivolge, inclusivo di società sottoposte a diversi ordinamenti e quindi, per ora almeno, a differenti sistemi giuridici (avendo tra l’altro accantonato per ora il tema del “COMI di gruppo”, ossia omesso di indicare come sede unica per tutte le società del gruppo transfrontaliero il “centro dei principali interessi” del gruppo stesso).

Il Codice della Crisi va oltre, stabilendo anzitutto la possibilità di concentrazione delle procedure avanti un unico tribunale [art.286,c.1, CCII, quello del/della capogruppo o in mancanza dell’impresa più indebitata], per poi consentire espressamente la presentazione di un piano di risanamento complessivo, con un unico ricorso per tutte le società del gruppo (art.284 CCII): ne seguono la nomina di un unico commissario e la omologazione con un’unica sentenza (soluzione analoga è dettata per la liquidazione giudiziale di gruppo).

In alternativa, resta ferma la facoltà di presentare con unico ricorso piani separati ma interdipendenti o di instaurare con distinti ricorsi separate procedure avanti i tribunali normalmente competenti: i legami di gruppo comporteranno la collaborazione tra gli organi delle procedure (art.288 CCII), come previsto per i gruppi transfrontalieri dal Regolamento UE (ma senza la nomina di un “super-commissario”).

In sostanza, una società di Pavia ed una di Piacenza controllate da una società (od anche un’impresa individuale) con sede effettiva a Genova potranno sia, come avviene ora, iniziare ciascuna una distinta procedura concorsuale presso il proprio tribunale, sia presentare un unico ricorso e un unico piano di risanamento o di liquidazione (o piani coordinati) al tribunale di Genova.

 

4. Contenuti innovativi del piano concordatario di gruppo

 Per quanto riguarda i contenuti del piano (o dei piani correlati), il Codice della Crisi dispone (articoli 285 e 286), che il piano possa comportare operazioni contrattuali e riorganizzative con trasferimenti di attivo (“risorse”) infragruppo per favorire la continuità aziendale di talune delle imprese del gruppo, purchè non ne derivi un pregiudizio ai soci e creditori della società disponente, tenuto conto dei vantaggi compensativi ricavabili per loro dal piano di gruppo.

Il Codice della Crisi stabilisce, però, che vanno tenute separate le masse attive e passive di ciascuna impresa (quindi nessun debito in comune e nessun bene in comune), così come le votazioni dei creditori e, in caso di concordato con cessio bonorum, i comitati dei creditori (mentre, in quest’ultimo caso, andrà nominato un unico liquidatore giudiziale o collegio di liquidatori).

Sempre nella disciplina del concordato di gruppo, il nuovo Codice detta infine criteri forfettari per il riparto delle spese inerenti alla procedura, stabilendo che “I costi della procedura sono ripartiti fra le imprese del gruppo in proporzione delle rispettive masse attive” (art.286, c.3; e per la liquidazione giudiziale art.287, c.3).

Come si è accennato, lo scopo ultimo della nuova disciplina sui gruppi in crisi è evidenziato dall’art.1 del CCII: disciplinare “le situazioni di crisi o insolvenza del[l’] (…) imprenditore che eserciti (…) un’attività (…) operando quale (…) gruppo di imprese”.

Quindi (dati i fini conservativi cui è improntata la disciplina del Codice) , consentire al soggetto economico imprenditore, sottostante alla pluralità di soggetti ed imprese in senso giuridico in cui si articola il gruppo, di superare la crisi senza dover sciogliere il gruppo, visto come utile forma organizzativa dell’attività di impresa.

Lo scopo-mezzo, ossia la modalità per ottenere tal fine, è consentire e favorire il “consolidamento procedimentale” (che, vigente la Legge Fallimentare, la Cassazione nel 2015 [Cass., sez. I,13 ottobre 2015,n.20559, caso Baglietto, così come poi nel caso Veolia] aveva dichiarato illegittimo): ossia la possibilità di presentare una proposta di concordato unica, che dia luogo ad un’unica procedura, gestita dagli stessi organi (tribunale, giudice delegato e commissario – ovvero curatore nel caso di liquidazione giudiziale -).

Col che, come già accennato, il Codice della Crisi non esclude che le procedure non si fondano od unifichino, ma solo si affianchino, come procedure contestuali e interdipendenti, sempre avanti lo stesso giudice (oppure che, malgrado i legami di gruppo, il ricorrente le tenga del tutto separate).

 

5.Valutazione complessiva e criticità

La dottrina ha valutato nel complesso con favore la emanazione di una disciplina per le crisi di gruppo.

Ha tuttavia evidenziato numerose imprecisioni nella redazione delle norme e talune omissioni, non rimediate nella più recente versione del Codice.

Viene evidenziata (dal Nigro) la omissione di ogni richiamo al “concordato nella liquidazione giudiziale” (regolato per le normali procedure dagli artt. 240-253 e, per le società, 265-267 CCII), presumibilmente ritenuto inutile dai redattori del Codice in rapporto al fine ultimo di continuità del gruppo, di cui supra (ma di fatto possibile tra le modalità di chiusura una volta ammessa la liquidazione giudiziale di gruppo)

Viene anche segnalata (dal D’Attorre) la difficoltà di applicazione del criterio (art. 285,c.1, CCII) dettato per determinare la tipologia del concordato di gruppo e suggerita addirittura da altri (Guerrera), la abolizione della dicotomia concordato in continuità/concordato liquidatorio; si evidenzia infine, ma come un male necessario, che non viene regolata, e deve ritenersi esclusa, la possibilità di proposte concorrenti.

Resta infine il dubbio che la regola della divisione delle masse e quindi dei futuri riparti (aleatori) di attivo, possa frenare le ristrutturazioni societarie in esecuzione del concordato (fusioni, scissioni, conferimenti, cessioni di aziende o rami), in quanto imporranno la tenuta di problematiche contabilità separate.

Ma le disposizioni che hanno suscitato i maggiori dubbi, e varietà di interpretazioni, sono quelle sulle condizioni per i trasferimenti infragruppo (artt.285, cc.2 e 5, e 290, c.1, i.f. CCII), seguite a distanza da quelle sulla autonomia delle masse attive e passive (artt.284,c.3 e 287,c.1) e sulla ripartizione dei costi della procedura (artt.286,c.3 e 287,c.3).

Su quest’ultimo punto (costi della procedura), ricordo che l’articolo 286, comma 3, dispone che nel concordato preventivo di gruppo i “costi della procedura” sono addebitati pro quota “in proporzione delle rispettive masse attive”; analoga previsione (riferita alle “spese generali” della procedura) è presente nel comma 3 dell’art.287, sulla liquidazione giudiziale (così come nell’art. 85, 2°comma, del D.Lgs. 270/1999 sulla amministrazione straordinaria).

Da parte mia, mi limito a segnalare che, come in altri casi (ricordo la scissione di società e la cessione d’azienda), vi potrebbe essere una difformità tra responsabilità verso i terzi e ripartizione interna tra le parti, e il criterio citato potrebbe valere solo per la ripartizione interna tra le società del gruppo, lasciando aperta la possibilità di una solidarietà passiva dal lato esterno.

 

6. Trasferimenti di risorse e vantaggi compensativi

Le maggiori perplessità e critiche nei confronti delle procedure di gruppo previste dal Codice della Crisi, sono quelle relative al tema dei trasferimenti di risorse infragruppo.

Trasferimenti che la Cassazione nel 2015 (sempre il caso Baglietto) condannava in termini generali (pur tenendo conto della vigente e alquanto permissiva disciplina in tema di direzione e coordinamento) e che nemmeno le procedure sui grandi gruppi in amministrazione straordinaria consentono espressamente.

Il tema è quello dei contenuti del piano concordatario nel caso di concordato di gruppo.

Sappiamo che il diritto societario (dopo le riforme del 2003) negli articoli 2497 e seguenti del codice civile detta alcune regole sul gruppo di società, indicato come attività di “direzione e coordinamento”.

Prima tra queste regole, a proposito della eventuale responsabilità della holding per sue direttive dannose alla società controllata, la disposizione (art.2497,1°comma, cod. civ.) secondo cui l’ amministratore della società dipendente può eseguire istruzioni che ledano temporaneamente gli interessi dei suoi soci e creditori a vantaggio della holding o di altre società del gruppo, se al contempo vengano assicurati o accertati dei “vantaggi compensativi” tali da ritenere inesistente o eliminare per compensazione il danno causato (teoria dei “vantaggi compensativi” già caldeggiata dal Montalenti, assimilabile a quanto previsto dal Konzernrecht tedesco del 1965 in tema di gruppi di fatto).

Al contempo, i vantaggi compensativi sono presi in considerazione dal legislatore per escludere la punibilità (a querela) del reato di “infedeltà patrimoniale”[4] di cui all’art.2634 cod. civ.: gli atti intenzionali e dannosi di “disposizione dei beni sociali” a favore di altre società del gruppo non sono punibili penalmente se ne derivano dei vantaggi: vantaggi che in questo caso basta che siano “fondatamente prevedibili” e non necessariamente certi o probabili (si dubita peraltro che i vantaggi compensativi possano salvare dai casi in cui si ricada anche nelle fattispecie di appropriazione indebita o bancarotta fallimentare).

A fronte di queste regole (e specificamente dell’art.2497) si pone il dato di fatto secondo cui, nel predisporre il piano concordatario globale, teso a consentire nei termini più ampi possibile la sopravvivenza delle varie entità che compongono il gruppo, è normalmente necessario, tra le varie entità del gruppo, prestare garanzie, accollarsi passività, accorpare rami aziendali, scorporare settori, trasferire know-how o complessi di beni; in genere, intervenire riallocando risorse a favore delle unità più deboli economicamente, nell’intento di salvare la continuità aziendale del gruppo nel suo insieme.

Il legislatore della Riforma avrebbe potuto limitarsi a legittimare tali pratiche e rinviare genericamente alla normativa civilistica, come ha fatto nell’art.290, 1°comma, in tema di revocatoria aggravata “fra imprese del gruppo” (per atti precedenti la liquidazione giudiziale).

Ha invece preferito espressamente formulare delle clausole liberatorie, che apparentemente ribadiscono la necessità di ricevere la restituzione dei favori resi alle altre società del gruppo.

Ha così introdotto le disposizioni già tratteggiate, che espressamente consentono “trasferimenti di risorse infragruppo”, ossia un aiuto delle imprese più forti a favore di quelle più deboli, purchè ciò sia fatto nell’interesse dei creditori e dei soci, valutando anche i vantaggi compensativi ricevuti (o da ricevere).

Mi limito, nel dettaglio, a ricordare che, secondo l’articolo 284, comma 4, qualora siano previsti nel piano trasferimenti infragruppo di risorse, il piano stesso e la attestazione del professionista devono quantificare, rispetto ad un ipotetico concordato autonomo, quali siano i benefici derivanti ai creditori di ciascuna impresa del gruppo, stimando anche i “vantaggi compensativi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti (…) dall’appartenenza al gruppo” (art.284, c.4).

Clausole simili sono poi contenute nell’art.285, c.2, che richiama la finalità dei trasferimenti di consentire la continuità aziendale delle imprese destinatarie; nell’art.285, c.4, in tema di opposizione dei creditori all’omologa, che rinvia ad un confronto con l’eventuale liquidazione giudiziale della società trasferente (raffronto tra l’altro improprio, in quanto a condizioni oggettive - solo l’insolvenza per la liquidazione giudiziale; essenzialmente la crisi in senso stretto, per il concordato -); nell’art.285, c.5, che ipotizza una opposizione dei soci di minoranza e torna a richiamare i vantaggi compensativi.

Ed analoghe condizioni sono indicate dall’art.284, comma 5, a proposito dei piani attestati di gruppo (per i quali, pur se focalizzati sul solo risanamento degli equilibri finanziari e rimessi all’autonomia privata - forse con un eccesso di zelo - , viene di nuovo richiesta ”la quantificazione del beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo” , rinviando poi al precedente comma 4). .

E’ bene rammentare, tra l’altro, che nel concordato non vi è spossessamento, e pertanto, salvo casi eccezionali, procedere ai trasferimenti di risorse in mancanza di tali vantaggi comporterebbe la responsabilità degli amministratori.

Tali clausole, con la ricorrenza della endiadi “vantaggi compensativi”, richiamano quelle prima ricordate dell’articolo 2497, sulla attività di direzione e coordinamento.

Quindi ci si deve domandare se, come per l’art.2497, affinchè il trasferimento sia lecito, si debbano specificare i futuri nuovi vantaggi, equivalenti, che ricevera’ in restituzione chi effettua il trasferimento (individuati nell’ an, e determinati nel quantum).

In tal senso pare la lettera della norma, la cui ratio può individuarsi nel rifiuto di qualunque “substantial consolidation”, ossia nel principio della responsabilità patrimoniale (art.2740 cod. civ.), e quindi della separazione delle masse attive e passive (riaffermato dall’art. 284, 3°comma, CCII), che acquista ancora maggior rilievo quando l’attivo non è capiente.

La mia risposta tuttavia non è in questo senso: per me, non può interpretarsi alla lettera la prescrizione dell’art.284, comma 4, secondo la quale per proporre dei piani di concordato unitari o collegati si deve poter quantificare “il beneficio stimato per i creditori di ciascuna impresa del gruppo, anche per effetto della sussistenza di vantaggi compensativi”.

Credo infatti che alle previsioni del Codice della Crisi sui trasferimenti di risorse e sui vantaggi compensativi si debba attribuire una portata diversa e più ampia e “permissiva” rispetto a quelle in tema di direzione e coordinamento e della stessa norma sull’infedeltà patrimoniale.

Il “vantaggio compensativo”, a mio vedere, può essere anche semplicemente quello direstare nel gruppo e non perdere per il futuro le economie di scala e le sinergie di gruppo delle quali ha sinora (malgrado tutto) profittato.

Le disposizioni del codice della Crisi, è vero, richiamano quelle dell’art.2497 e dell’art.2634 del codice civile, ma assumono un diverso significato perché inserite in fattispecie concrete nettamente differenti:

- nel caso dell’art. 2497 siamo in presenza di un gruppo in bonis e della normale attività gerarchica di direzione del gruppo da parte della holding: si discute della compatibilità tra l’adesione alle direttive dannose della holding e la corretta attività di gestione dell’amministratore della società controllata;

- nel caso del piano concordatario, il pregiudizio subìto riguarda un attivo e una liquidità della società figlia già totalmente assorbiti dai debiti, e deriva non da una direttiva unilaterale della holding, bensì da un programma (elaborato essenzialmente dalla holding, ma) sottoposto allo scrutinio del giudice, del tribunale, del commissario e dei creditori, e teso (non al lucro diretto o indiretto della holding ma) alla sistemazione transattiva del passivo (anche proprio) ed alla stessa sopravvivenza unitaria del gruppo.

E quindi al mantenimento del complesso di rapporti dei quali usufruisce la stessa società “trasferente”: situazione di equilibrio che si tende anche ad astrarre identificandola come “interesse di gruppo”.

Il caso considerato dal nuovo Codice, quindi, non corrisponde tecnicamente ad un comportamento oppressivo della holding.

E’ solo una specie di erogazione diretta e spontanea della società figlia alle singole società del gruppo, lecita se nell’interesse lucrativo indiretto del disponente, ossia della società figlia, e dei suoi stessi creditori ed eventuali soci di minoranza.

Alla diversità di fattispecie rispetto all’art.2497 (che già rende problematica la trasposizione delle medesime soluzioni), ed a talune sfumature nella lettera del CCII (ad esempio, si riproducono le parole dell’art. 2634, meno severo rispetto all’art.2497), si aggiunge un argomento di buon senso, sul quale mi potrebbero dare supporto i colleghi aziendalisti: la normale irrealizzabilità di vantaggi compensativi, se allineati all’art. 2497 cod. civ., ossia se si dovesse richiedere che fossero realisticamente e puntualmente prevedibili.

Sono convinto che le strutture aziendali più efficienti, meno compromesse, ovvero il nucleo economico da tracciare qualora vengano fatte oggetto di operazioni societarie, presumibilmente continueranno ad essere più produttive - nel corso del concordato e quando il gruppo sarà tornato in bonis - mentre quelle beneficiate dai trasferimenti di attivo delle prime non avranno molte chance di rinunciare a futuri ricavi per ricambiare le gratificazioni ricevute.

In altre parole, mi pare che, come ho già accennato, nella normalità dei casi, nessun serio “professionista indipendente” potrebbe attestare che il piano di gruppo, pur prevedendo l’accennato “trasferimento di risorse infragruppo”, consentirà di calcolare e accreditare alla società disponente equipollenti “vantaggi compensativi (…) fondatamente prevedibili” (v.art.284, c.4, CCII).

 

7. Vantaggi o “non svantaggi” compensativi?

Secondo me, nelle ipotesi dei trasferimenti infragruppo di cui al Codice della Crisi, la cessione di risorse non richiede necessariamente un corrispettivo, un indennizzo, un risarcimento a carico delle altre società del gruppo.

Basta si possa stimare che il trasferimento sia necessario per il buon fine della procedura, e le perdite che potrebbero derivare dal dissesto del gruppo, o almeno dal venir meno del legame della società disponente con le altre società del gruppo, ancorchè non determinabili in modo certo, sarebbero superiori al valore economico dei beni trasferiti.

La valutazione sulla prevalenza degli svantaggi dell’abbandono della gestione unitaria rispetto al costo dei trasferimenti, in questa prospettiva, realisticamente, potrà essere effettuata in modo non analitico, bensì con modalità analoghe alla stima effettuata per valutare la fattibilità economica del piano.

Se, malgrado i trasferimenti, il gruppo è ugualmente destinato a venir meno, o se si salverebbe il gruppo, ma la società disponente potrebbe continuare più proficuamente da sola, significa che il trasferimento di risorse è inutile per la società che le effettua, un puro svantaggio, e quindi il “vantaggio compensativo” non sussiste.

In sostanza, quello che importa è verificare che la società trasferente abbia interesse alla sopravvivenza del legame di gruppo anche a costo di dover rinunciare a parte del proprio attivo.

Il vantaggio compensativo potrebbe anche sussistere senza essere chiaramente monetizzabile: ciò che motiva e giustifica il trasferimento non è il futuro vantaggio rispetto alla situazione attuale, ma l’eliminazione del rischio e dello svantaggio che la società disponente avrebbe in caso di abbandono o disgregazione del gruppo.

E il discorso, così impostato, potrebbe estendersi alla partecipazione al concordato da parte di una società sana del gruppo, che intervenisse ad adiuvandum nella realizzazione del piano per evitare lo svantaggio della disgregazione del gruppo.

 

 

8. Piano di gruppo senza gruppo

Mi sono chiesto se il concordato di gruppo possa essere utilizzato da imprese indipendenti in crisi che si aggreghino ad hoc, valutata e apprezzata l’opportunità di adottare un piano complessivo di risanamento.

Sappiamo che si ammette, come misura preventiva di risanamento, di effettuare tra società indipendenti una fusione di società in bonis, ancorchè con patrimonio netto negativo: operazione dalla quale deriverà per sua natura, a livello sostanziale (si veda la normativa IAS/Ifrs) una forma di “trasferimento di risorse”.

Non si vede perché allo stesso modo (“nel più ci sta il meno”) non si debba ammettere un accordo di portata meno invasiva, quale la costituzione di un gruppo tramite un accordo contrattuale (come consentito ora dalla normativa civilistica: art.2359,1°comma, lettera c,cod. civ. e art. 26, c.2, lettere a e b D. Lgs.127/1991, interpretati alla luce degli artt.2497 ss. cod. civ. e 2, lett. h, CCII).

Quindi, la “costituzione del gruppo” tramite l’acquisto del controllo contrattuale o anche la semplice sottoscrizione di un contratto preliminare di piano di risanamento unitario (creandoa tal fine un gruppo orizzontale), potrebbero avvenire in limine del concordato.

Concluderei che la disciplina del concordato (così come quella delle altre procedure di risanamento) di gruppo consente a più imprese autonome di aggregarsi pattuendo un piano unitario di risanamento e presentandolo al medesimo tribunale, individuato secondo i criteri di cui all’art.286 CCII.

Tesi, questa, da me già esposta, che qualche voce in dottrina (Miola) ha condiviso.

Aggiungerei anche che similmente si può argomentare in favore della possibilità di instaurare una procedura unitaria di liquidazione giudiziale (art.287CCII), per la quale, tra l’altro, basta un interlocking directorate (comunanza di amministratori) per individuare un legame di gruppo, fermo restando che gli accordi pre-concorsuali per realizzare un piano unitario (in questo caso, di liquidazione) non siano finalizzati solo a tecniche abusive di forum shopping.

Il coordinamento tra le imprese in crisi al fine di realizzare un piano unitario deve solo voler sfruttare la accertata utilità, per ciascuna (e per i suoi creditori) di una gestione unitaria, ossia della creazione e futura esistenza del gruppo.

 

9.         Crisi fisiologica e patologia del gruppo

Tra le ricorrenti riserve o critiche nei confronti della nuova disciplina sulle procedure concorsuali di gruppo troviamo anche quella secondo cui vengono considerati solo dei gruppi ideali, virtuosi, affidabili e verificabili, certificati e gestiti a condizioni di mercato (arm’s lenght, fair value…).

Ne resta così fuori la frequentissima casistica, specie (ma non solo: v. caso Caltagirone) nei gruppi familiari, di piccole dimensioni, di gestione talmente accentrata da oscurare gli interessi dell’una o dell’altra società, i casi di confusione di attivi, di mancanza di corretta contabilizzazione e verbalizzazione, i casi in cui i libri scompaiono e si crea una sorta indivisibilità tecnica delle masse…: situazioni, tutte, che non hanno come elemento tipico la crisi, ma poi causano pesanti danni a creditori e soci di minoranza in caso di crisi e insolvenza.

Quei casi in cui la giurisprudenza americana, utilizzando i suoi poteri equitativi, procede alla cosiddetta substantive consolidation.

Tuttavia, le critiche sono giustificate, ma al contempo inappropriate e ingiuste.

La disciplina riservata ai gruppi di società dal Codice della Crisi ha come riferimento la fisiologia del gruppo, non la sua patologia.

Nel senso che si riferisce alle ipotesi in cui la crisi deriva da ragioni economiche, di mercato, non da una mala gestio, irragionevole o truffaldina.

Le norme, come abbiamo premesso, valgono se il gruppo ha i conti in ordine (artt.39 e 44 CCII) ed è stato gestito seguendo le regole civilistiche sul rispetto della “corretta gestione societaria e imprenditoriale” dei suoi membri, allargata alla compensazione con altri vantaggi, di ogni temporanea subordinazione all’interesse della società holding (art.2497 cod. civ.).

Quando invece si rientri nell’area dell’illecito o del disordine gestionale, nell’abuso, della frode, la reazione dell’ordinamento italiano è affidata solo in minima parte alle norme sui gruppi, e non a quelle concorsuali, bensì solo a quelle civilistiche e societarie (la responsabilità da abuso di direzione coordinamento di cui all’art.2497 c.civ.; la responsabilità per nuove operazioni di rischio dopo la perdita del capitale ex art.2486 - peraltro reso più severo dal Codice della Crisi -, la impugnativa delle delibere dell’organo di gestione relative al bilancio consolidato e, per vizio di un allegato, delle delibere assembleari).

Ogni tutela per l’interesse sociale, i soci, i creditori, la continuità aziendale va ricercata a livello della società singola, monade, e la patologia è quella dei casi di imprenditore occulto, di socio tiranno, di confusione di patrimoni, della supersocietà di fatto occulta o apparente, di abuso della personalità giuridica e della limitazione di responsabilità patrimoniale.

Tra questi strumenti (di intervento sui gruppi patologici, che abbiamo anche indicato come “viziosi” e non-accountable), viene spesso indicata e utilizzata dai tribunali la figura della supersocietà di fatto.

 

10. La supersocietà di fatto

Abbiamo già tracciato, all’inizio della nostra relazione, i caratteri della supersocietà[5], precisando che, come tutte le società di persone, è uno strumentodei soci per esercitare in comune, in modo “democratico” e partecipativo, un’attività economica per poi dividerne gli utili, e li abbiamo confrontati con quelli del gruppo, che tipicamente è lo strumento della holding per far esercitare ad altre società un’attività da lei coordinata, nel precipuo interesse della holding stessa e solo residualmente del gruppo.

La supersocietà da qualche tempo è stata individuata dai curatori fallimentari come potente arma per sanzionare i gruppi “viziosi”, ancor prima delle azioni di responsabilità verso la holding e i suoi amministratori: la giurisprudenza ha ammesso sempre più di frequente la riqualificazione di un gruppo come “supersocietà di fatto”, con la conseguente responsabilità patrimoniale estesa ai suoi soci.

Si tratta in sostanza, come abbiamo già ricordato, di una società in nome collettivo, nel caso che ci interessa tra società apparentemente connesse solo tramite legami di controllo e coordinamento.

Il mio dubbio è: ma veramente tra società di capitali può sorgere per fatti concludenti una società in nome collettivo?

Prima di discorrerne, vorrei chiarire meglio il senso dell’accosto, che trovate nel titolo del mio intervento, tra “gruppo” e “supersocietà”.

La prima, e più ovvia, ragione, può essere il fatto che i due fenomeni sono contemplati, con caratteri di novità, dal Codice della Crisi

Il secondo, è che, almeno apparentemente, hanno alcuni elementi in comune, e tendono talora a confondersi (basta scorrere le massime della sentenza dell’Appello di Salerno del 16 luglio 2021, reperibile on-line, e da ultimo di Cass.20552/2022).

Per chiarire il quadro di riferimento, ricordo che il gruppo è un insieme di società od altre entità che sono sottoposte ad una gestione unitaria, ma che al contempo mantengono la propria autonomia gestionale e patrimoniale; può essere verticale, basato sul controllo, o (raramente) orizzontale, derivante dal mero coordinamento; può nascere da una partecipazione al capitale, oppure (raramente) da un contratto costitutivo del gruppo od infine, di fatto, da legami commerciali che creino una dipendenza economica di una società all’altra.

La supersocietà non è una società ”eccezionale” o “strabiliante”, ma semplicemente una società in nome collettivo, non registrata e perlopiù occulta, sorta di fatto, ossia per fatti concludenti, che sta “sopra”, alla quale partecipano come soci due o più società di capitali, e spesso anche persone fisiche (cfr.ad es. Trib. Siracusa, 21/7/2021, Trib. Torino, 23/11/2021, Trib. Bergamo, 5/12/2018).

Come il gruppo, la supersocietà è un insieme di imprese riunite sotto una gestione unitaria, la quale tuttavia è divenuta così intensa e confusa da dar luogo ad un fondo comune ed un nuovo soggetto giuridico (la società di fatto, appunto).

Le disposizioni rilevanti nel Codice Civile sono sparse e frammentarie, e non è il caso di elencarle tutte: basti ricordare l’art.2297 (“mancata registrazione”) sulla società in nome collettivo irregolare e l’art.2361, comma 2, sulla assunzione di partecipazioni, da parte di una società per azioni, “in altre imprese comportante una responsabilità illimitata”.

Per quanto riguarda il Codice della Crisi, il principale riferimento è contenuto nell’art.256 (“società con soci a responsabilità illimitata”), ai commi 1 e 5: quest’ultimo prevede che la liquidazione giudiziale di una società (come per un imprenditore individuale), si estenda alla società (sino ad allora occulta) della quale la prima sia “socio illimitatamente responsabile”: quindi presuppone che una società di qualsiasi tipo, senza manifestarlo, possa divenire socia di un’altra società con soci a responsabilità illimitata.

Viene così recepita una interpretazione estensiva dell’abrogato art.147 L.F., già avallata dalla Cassazione.

Quindi, dall’esercizio “in comune” di un’impresa unica si fa derivare (anche tra società di capitali ed anche per meri fatti concludenti) la nascita di un’entità distinta, con una limitata autonomia, tipica della società di persone, e al contempo consegue la responsabilità illimitata di tutti i soci per l’attività comune.

La supersocietà sarebbe democratica (fa gli interessi dei soci: dalla periferia si controlla il centro e si diventa tutti imprenditori, diretti o indiretti); il gruppo autoritario (prevale l’interesse della holding: dal vertice si gestisce la periferia, costituita da imprenditori che perdono un po' della loro autonomia).

La differenza tuttavia sfuma quando si raffronta la supersocietà con un gruppo orizzontale, di coordinamento (artt.2545-septies e 2497-septies cod. civ.) e, in ogni caso, quando i soci della supersocietà siano già imprenditori in proprio.

Il punto di discrimine, secondo la Cassazione (es. sentenza 15620/2019), è che, per aversi la supersocietà, si richiede la prova di un “comune intento sociale conforme all’interesse dei soci” (espressione della cosiddetta affectio societatis ed equivalente a “esercizio in comune” di un’impresa, di cui all’art.2247 cod. civ.), ossia la compartecipazione alla gestione su un piano paritario.

Altre sentenze, di merito, affermano che la “holding di fatto”, pur presentando apparentemente lo stesso tipo di gestione della supersocietà, perseguirebbe un interesse contrario a quello delle altre società (chiaro invece che questa è la patologia del gruppo, e non può servire per definirlo, e che il termine “holding di fatto” in realtà coprirebbe qualunque tipo di gruppo).

Molte sentenze di merito, ancora – e parrebbe la soluzione prevalente - utilizzano come prova del “comune intento” e quindi di una società di fatto anzitutto l’elemento della esistenza di un fondo comune (inteso anche come un insieme condiviso o reciproco di impegni, garanzie, contratti, attività, ma spesso anche uso comune di conti correnti e addirittura tenuta di una contabilità unica, consolidata e spesso confusa).

Altre volte maggior peso vien dato all’aspetto soggettivo (intuitus personae), dato dalla comunanza di struttura gestionale (amministratori e dirigenti) e di soci o dall’utilizzo della stessa sede, degli stessi dipendenti.

In realtà, nelle fattispecie concrete, vi sono molti elementi in comune: in entrambe (gruppo di società e società di fatto tra società) si perseguono fini oggettivamente lucrativi; in entrambe non è escluso che, tramite patti leonini o sfruttamento abusivo di una posizione dominante, in realtà l’utile soggettivo sia realmente conseguito solo da uno o una parte dei soggetti che vi partecipano.

Ancora, sia nella supersocietà di fatto che nel gruppo di regola le parti rivestono anche individualmente la qualità di imprenditori (e non è escluso che vi partecipino anche persone fisiche); infine, tanto l’una quanto l’altro non hanno bisogno, per nascere nel mondo del diritto, di formalità o adempimenti particolari

Evidenti quindi la tentazione e l’utilità, per il curatore di una società decotta collegata ad altre ancora solvibili - formalmente autonome o strutturate come gruppo - di sostenere che l’impresa è in realtà riferibile ad una società di fatto, e le altre società e possibilmente i relativi amministratori o soci ne sono soci illimitatamente responsabili.

 

 

 

11. Le pregiudiziali per la legittimità di una società di fatto tra società di capitali

La società di fatto (normalmente occulta ai terzi) tra società di capitali, o tra società e persone fisiche, è ora espressamente ammessa dall’art.256, 5°comma,del Codice della Crisi,già citato, ed ha un campo di possibile applicazione ben più ampio che quello di rappresentare una eventuale degenerazione di un normale gruppo.

Tale fattispecie, nella sua apparente semplicità, implica l’avvenuta soluzione di tre ardue pregiudiziali frapposte dal diritto tradizionale:

-        1°) superare il principio della spendita del nome, ossia imputare l’indebitamento, e quindi l’attività svolta. ad un soggetto (la società occulta) per conto del quale si sia agito senza spenderne il nome (come un mandante in un mandato senza rappresentanza);

-        2°) ammettere che una società di capitali possa divenire socia di una società di persone; e

-        3°) ritenere che i comportamenti di fatto dell’amministratore di una società di capitali, anche svolti in aree estranee ai suoi poteri (“ultra vires”), possano esprimere una volontà tacita della società(al punto di dar luogo alla sua partecipazione ad una società di fatto personale).

In realtà, come sappiamo, il superamento di queste tre condizioni è l’esito di una evoluzione iniziata nel secondo dopoguerra e segnata da una serie di adeguamenti del legislatore a pressioni della giurisprudenza, influenzata da una parte della dottrina.

La Legge Fallimentare del 1942, nel suo articolo 147 (“società con soci a responsabilità illimitata”) dopo aver disposto la automatica estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili, chiariva (al suo 2°comma) che in caso di successiva scoperta di soci occulti, il tribunale ne avrebbe dichiarato il fallimento con una sentenza integrativa.

Il Bigiavi, sin dalla fine degli anni 40 del secolo scorso, affermava che non aveva senso trattare diversamente l’ipotesi del fallimento di due soci palesi ed uno occulto (socio occulto di società palese), da quella in cui uno solo fosse palese, e due occulti (e quindi non fosse manifesta la stessa esistenza della società: socio occulto di società occulta).

Ed aveva così sostenuto la fallibilità della società occulta e dei soci occulti, contestando l’opposta posizione della giurisprudenza e della dottrina allora prevalente (tra cui l’Ascarelli e G. Ferri), secondo cui era essenziale la spendita del nome dell’impresa, per poterle imputare la responsabilità per i debiti assunti nel suo interesse e su suo incarico[6].

Per il Bigiavi, se un soggetto agiva come imprenditore verso i clienti e fornitori in nome proprio, ma in realtà divideva con altri un fondo comune, le scelte di gestione, gli utili e le perdite, si era creata una società in nome collettivo occulta, cui doveva imputarsi il rischio d’impresa.

Similmente doveva concludersi, a suo vedere, per l’ipotesi in cui chi agiva non fosse socio, ma mero prestanome di un imprenditore, occulto ai terzi, e per il socio “tiranno” di una società di capitali.

La sua posizione sulla società occulta (ma non l’intera teoria dell’imprenditore occulto e del socio tiranno) finì col tempo per affermarsi, e così l’art. 147 L.F. venne prima interpretato estensivamente e poi formalmente modificato (nel 2005), ammettendo espressamente la fallibilità della società personale occulta.

Nel frattempo la giurisprudenza aveva elaborato una ampia casistica di elementi utilizzabili come prova o indizio della creazione di una società occulta (coincidenti di regola con le prove di una società di fatto, ove non venga anche reperito un accordo scritto tra i soci): utilizzo degli stessi conti bancari (con deleghe o cointestazioni) per depositi e prelievi (cassa comune); attività svolta congiuntamente, senza subordinazione; ripartizione di costi e ricavi; uso promiscuo degli stessi mezzi di produzione; confondibilità o identità della denominazione sociale; stessi locali, con le medesime utenze; utilizzo promiscuo dei collaboratori; garanzie reciproche; una serie di atteggiamenti e comportamenti tesi alla continuazione e preservazione dell’attività (affectio societatis); rapporti fiduciari, prestiti, garanzie personali (intuitus personae); medesima attività o attività complementari.

Per quanto riguarda, poi, la partecipazione di una società di capitali ad una società personale, mentre se ne era sempre negata la ammissibilità (salva qualche isolata opinione, tra cui in primis quella del Colombo), con le riforme del 2003-2006 si introdussero svariate disposizioni (artt. 2361,c.2,cod. civ., 111-duodecies disp. att. c.c., 147, c.1, l.f.) integrate ora dall’art.256 CCII , che indirettamente sancivano la legittimità di tale partecipazione .

Dalla ormai indiscussa possibilità che una società di capitali partecipi ad una società personale, si dedusse che la società di capitali, così come ogni socio di società di persone, può rivestirne la qualità di amministratore e dal fatto che la società di persone può esistere anche a prescindere dalla forma scritta e dalla sua iscrizione nel registro delle imprese, si trasse che una società di capitali può anche essere socia di una società irregolare, la quale può sorgere o acquisire nuovi soci anche con accordi verbali o a causa di fatti concludenti, cioè comportamenti incompatibili con la volontà di non costituire una società di persone o non esserne soci.

Si affermò al contempo che anche le manifestazioni tacite di volontà degli amministratori, i loro comportamenti, durante l’esercizio delle loro funzioni si possono imputare alla società, a prescindere da ogni consenso assembleare (ancorchè richiesto per le SpA dall’art.2361,c.2, cod. civ.): ciò a causa della capacità generale della società e degli amministratori, rafforzata quest’ultima dalla riforma societaria del 2003 e dallo stesso CCII (art.377, che modifica la governance della Srl).

E la conclusione è che ormai numerose sentenze (tra le perplessità della dottrina) affermano la esistenza di società di fatto sorte tacitamente tra società di capitali, così come tra società di capitali e società di persone o persone fisiche.

 

12. Prove della supersocietà

Abbiamo già ricordato che per aversi una supersocietà la Cassazione richiede un comune intento sociale conforme all’interesse dei soci, mentre i tribunali utilizzano come prova del comune intento e quindi di una società di fatto anzitutto la presenza di un fondo comune, inteso in senso lato, ma anche l’utilizzo della stessa sede, dei medesimi dipendenti, la comunanza degli amministratori o dirigenti (di diritto o di fatto), tale da determinare un intuitus personae e una sorta di affectio societatis..

La esistenza della supersocietà può essere accertata prima della apertura di una procedura concorsuale di uno dei suoi membri, oppure successivamente (supersocietà occulta). Può essere anche dichiaratamente un gruppo, che viene riqualificato come società di fatto.

In ogni caso, se decotta, si arriverà alla sua liquidazione giudiziale e, per estensione, a quella delle altre società collegate e delle persone fisiche in posizioni di rilievo.

In sostanza, tradizionalmente (sin dal codice di commercio) si ritiene che determinati fatti e taluni comportamenti tenuti da normali persone fisiche provino la esistenza di una società di fatto e la loro appartenenza alla stessa come soci: ora, analoghi fatti e comportamenti, se riferiti agli amministratori di una società, secondo questa giurisprudenza possono indicare che socia di una società di fatto, tacitamente, è divenuta la società stessa (oltre, eventualmente, le stesse persone fisiche).

Alla critica di una parte della giurisprudenza, secondo cui tra le società raggruppate mancherebbe di regola un elemento soggettivo, la comunanza di intenti, la cosiddetta affectio societatis, si oppone un approccio oggettivistico, secondo cui essenziale è solo che le diverse attività siano strettamente integrate, così che ne risulti un’impresa unica, un'unica attività lucrativa (“centro di profitto”, secondo la terminologia del Tombari): in sostanza, potrebbero bastare il fondo comune e la confusione gestionale.

Approccio oggettivistico e materiale, che, tra l’altro, consente più facilmente ai curatori ed ai tribunali di applicare anche ai gruppi verticali la nozione della supersocietà di fatto, e di trovare così una scorciatoia, in presenza di sospetti atti di frode, per evitare più complesse indagini ai fini di applicare le normali azioni di responsabilità (in primis, quella ex art.2497 cod. civ.)

 

13. Critiche alla tesi della supersocietà tacita e del gruppo non-accountable qualificabile come supersocietà

Molta parte della dottrina (Fauceglia, Fimmanò, Blandini, ed altri) critica la soluzione della supersocietà di fatto, e la ritiene una inammissibile scorciatoia per estendere la responsabilità “per debiti” ai patrimoni di soggetti correlati (senza neppure dover provare l’insolvenza dei soci), risparmiando gli oneri di provare gli elementi di una responsabilità “per danni” derivanti dalla scorretta gestione dell’impresa decotta.

E le critiche mi paiono da condividere, seppur con qualche riserva.

La costituzione di supersocietà per fatti concludenti in certe fattispecie non è da escludere, ma richiede comunque, per definizione, comportamenti delle singole società (in persona degli amministratori) incompatibili con la volontà contraria, ossia con la volontà di gestire autonomamente la propria azienda ed i relativi risultati.

Ed a me pare che anche la previsione del CCII (art.256) - che contempla l’ipotesi di società partecipata da società di capitali scoperta in corso di liquidazione giudiziale -, si potrebbe riferire non tanto a situazioni di società di fatto segrete e ignote ai terzi (concluse, quindi, del tutto tacitamente, senza alcuna volontà espressa), bensì a società dotate di atto costitutivo ma non iscritte né palesate come tali, ed a tutte quellesituazioni palesi di collaborazione sotto forma di franchising, subappalto, consorzio, associazione in partecipazione e cointeressenza, associazione temporanea, joint venture, in cui le società hanno palesemente espresso una volontà latamente “cooperativa”, ma poi emerga la sostanza societaria dello schema pattuito, cosicchè gli accordi stipulati debbano essere riqualificati come contratti di società, avuto riguardo alla volontà sostanziale delle parti (art.1362 cod. civ.).

In sostanza, delle società di fatto dissimulate dietro una veste non societaria, ma partendo da una collettività di soggetti che palesemente già operano in sintonia.

Questa interpretazione già porterebbe ad escludere dall’applicazione dell’art.256 CCII una serie di ipotesi, in cui manchi qualunque espressa volontà di creare dei collegamenti tra le varie entità.

Ma determinante mi pare un altro fattore, che acquista ancor più rilievo se teniamo presente l’ipotesi – l’alternativa cui abbiamo fatto inizialmente riferimento - di un gruppo di società “vizioso e non-accountable”, che presenti una stretta aggregazione e confusione tra le varie entità, gestite sostanzialmente dalle stesse persone fisiche, che abbiano effettivamente creato di fatto un fondo comune.

Ebbene, il comportamento di queste persone fisiche, a mio vedere non può equivalere a espressione concludente di una autonoma volontà delle società stesse; in tali casi, infatti, la necessaria autonomia e quindi significatività dei comportamenti di ciascuna società, è a priori del tutto carente.

Basti pensare a due ipotetiche società SPA e SRL, con oggetto identico o complementare, delle quali Tizio sia amministratore e socio unico: la eventuale gestione confusa e unitaria da parte di Tizio, la creazione di un fondo comune, per la tesi summenzionata, dovrebbe implicare la volontà tacita di SPA, di SRL e di Tizio di esercitare in comune un’attività economica, perfezionare un contratto (per fatti concludenti) di società e dar luogo così ad una supersocietà con tre soci , SPA,SRL e Tizio.

Tizio, insomma, unica persona fisica del gruppo, avrebbe tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di non stipulare un contratto sostanzialmente con se stesso.

A me pare francamente surreale.

Io penso quindi che le sentenze che ravvisano società di fatto occulte travestite da gruppi di società siano perlopiù una forzatura, e che i rimedi contro la mala gestio dei gruppi si debbano, almeno per ora, collocare sul piano risarcitorio, e non su quello del diretto e onnicomprensivo coinvolgimento patrimoniale.

Anche in questa prospettiva, in ogni caso, il Codice della Crisi ci fornisce delle possibili tracce.

 

14 Possibile responsabilità della holding come amministratore di fatto

Per inquadrare il tema, devo ricordare che – come abbiamo visto – la società di capitali, potendo divenir socia di una società di persone, ne può anche essere amministratore (indicherà poi la persona fisica incaricata di rappresentarla).

Ebbene, riconosciuta alla società di capitali tale capacità, con un ulteriore passaggio logico, si è ammesso che possa rivestire la qualità di amministratore non solo di una società di persone, ma anche di un’altra società di capitali (v.principio n.100 del notariato milanese)

Va poi rammentato che è ormai pacificamente riconosciuta la figura dell’amministratore di fatto, senza necessità che abbia una nomina, nemmeno implicita, dall’assemblea dei soci.

Facile a questo punto argomentare che la holding che si intrometta al di là del lecito nella gestione della controllata (ad esempio trattandone gli amministratori di diritto come propri dipendenti e rappresentanti), ne possa divenire amministratore di fatto, e subire le conseguenze di tale ruolo (non decisiva ci pare, al riguardo, tenuto anche conto della fattispecie, la contraria opinione di Trib. Milano, 27 febbraio 2012).

Ciò premesso, si consideri che di regola lo stato di crisi si accompagna alla perdita (spesso occultata e non recente) del capitale sociale, ed alla violazione del dovere degli amministratori di far sciogliere e mettere in liquidazione la società, attuando nel frattempo una gestione meramente conservativa, pena la loro responsabilità personale per i danni (art.2486, commi 1 e 2 cod. civ.)

Ed eccoci al punto finale: al riguardo, il Codice della crisi, col suo articolo 378, modificando il 2486, comma 3, del codice civile, dispone che all’amministratore possa addebitarsi, salva prova contraria, tutto il deficit maturato dopo la perdita del capitale o addirittura, in assenza di credibili scritture contabili, la differenza tra attivo e passivo, in caso di procedura concorsuale.

La mia tesi è che la società holding che gestisca la controllata nel proprio interesse, potrà esserne considerata amministratore di fatto, con la applicazione a suo carico – forsanche a titolo di concorso nell’illecito altrui - del nuovo art. 2486, comma 3, codice civile.

In tal senso si è mosso da tempo il diritto francese, che vede nella holding oppressiva e invasiva il dirigeant de fait della società controllata.

Varranno in ogni caso, verso la holding, le normali azioni di responsabilità previste dalla normativa societaria.

 

15.  Sintesi conclusiva

Ed ora, per ciascuno dei due temi oggetto di osservazione, vorrei riordinare le mie conclusioni.

Per quanto riguarda il concordato di gruppo, il piano di risanamento unitario e il consolidamento procedimentale, con unicità degli organi della procedura, sono soluzioni apprezzabili, che semplificano e facilitano le ristrutturazioni di società sotto il controllo di una holding o comunque raggruppate.

Opportuno sarebbe accedere ad una interpretazione estensiva delle nuove norme, in linea con le indicazioni comunitarie che invitano ad adottare un ampio raggio di misure per favorire la continuità aziendale e intervenire tempestivamente ai primi sintomi di crisi , e comunque prima che la crisi si trasformi in insolvenza e dissesto.

Interpretazione estensiva che dovrebbe portare, da un lato, ad una facilitazione dei trasferimenti di risorse infragruppo, consentendoli anche solo per evitare gli svantaggi di un possibile smembramento del gruppo; dall’altro ad ammettere la costituzione di un gruppo in funzione della presentazione di un ricorso unitario, davanti allo stesso tribunale, da parte di più società in crisi: una “concentrazione nella pluralità” finalizzata al risanamento.

In una prospettiva di più ampio respiro, e sempre in un’ottica di prevenzione delle crisi, si dovrà pensare a prevenire le crisi di gruppo anche disponendo delle regole di comportamento per le holding, che mirino al mantenimento dell’equilibrio all’interno del gruppo e, simmetricamente, al riconoscimento di una forma di “interesse di gruppo” per le società che ne fanno parte (anche qui, seguendo le indicazioni forniteci in sede comunitaria).

Va anche evidenziata la necessità che si elaborino dei criteri più razionali e uniformi per separare le crisi “buone” da quelle “cattive”, andando così a sconfinare nel secondo tema che mi sono dato: quello delle supersocietà di fatto.

Per quanto riguarda quest’ultimo argomento (la supersocietà, come forma parzialmente sovrapponibile al gruppo “vizioso e non-accountable”) si è vistochelasocietàdipersonetrasocietàdicapitali, ormai pacificamente ammessa, non deveesserenecessariamenteunasocietàregolare.

Ho tuttavia espresso gravi dubbicircalapossibilitàdiinterpretarequale volontà tacita della società di capitali,ancheinseritainungruppo,ossia qualecomportamentoincompatibile conla volontàcontraria alla aggregazione sotto forma di società personale, il semplicemancatorispettodapartedei suoiamministratoridellenormeintemadi separatezzadeipatrimoni, di operazioniinconflittod’interessi, di correttatenuta dellacontabilità.

Laindividuazionedi una societàdifatto, mentrepare giustificata, a tutela della buona fede dei terzi, qualora si tratti di società apparente, nel caso di società non manifesta pareunespedienteper reprimere situazionidiabusononfacilmentedimostrabili,macomunquesemmaicensurabilianchecon altre azioni: in particolare, facendo valere laresponsabilità(contrattuale)della capogruppoqualeamministratore difatto delle società controllate, e applicandole nuove presunzioni di cui all’art.2486 del Codice Civile per il calcolo dei danni arrecati alle società controllate ed ai loro creditori.

 

* Il presente contributo riproduce la relazione predisposta per il Seminario tenuto a Varese presso l’Università dell’Insubria il 24 novembre 2022.

[1] Sul tema sono apparsi di recente, su questa Rivista, G. Scognamiglio, La gestione dei gruppi di imprese nella prospettiva del risanamento. Spunti dalla recente disciplina della “composizione negoziata della crisi”, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 6 maggio 2022; M. Callegari, Frammenti di disciplina dei gruppi nel Codice della crisi alla luce del decreto correttivo e dello schema di decreto Insolvency, ivi, 5 maggio 2022 e B. Maffei Alberti, La nuova disciplina dei gruppi di imprese, ivi, 6 aprile 2022.

[2] Per un riepilogo sulla nuova disciplina cfr. S. Ambrosini, Disposizioni relative ai gruppi di imprese, in S. Pacchi – S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2022, 314 ss..

[3] In argomento si veda L. Panzani, Il concordato di gruppo, in Fall., 2020, 1342 ss.

[4] In materia cfr. da ultimo, anche per riferimenti, M. Spiotta, La solidarietà dei “vantaggi compensativi” alla luce della normativa emergenziale e della l. n. 147/2021, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 29 novembre 2021.

[5] Sul tema si veda il volume di G.B. Fauceglia, Il fallimento di società di capitali socie di una società di fatto, Milano, 2021, ove ampi riferimenti.

[6] Per i riferimenti al dibattito dottrinale GF Campobasso, Diritto commerciale, 2. Diritto delle società, Torino, 2012, 60 ss..