, 28 febbraio 2023, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. La metamorfosi del concordato preventivo durante la vigenza della legge fallimentare; 2. Quale “continuità aziendale” nella disciplina dell’art. 186-bis; 3. Il c.d. concordato misto; 4. Il ruolo del concordato nel contesto degli strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice della crisi; 5. Le tipologie di concordato nel Codice della crisi; 6. Il nuovo perimetro del concordato in continuità.
1. La metamorfosi del concordato preventivo durante la vigenza della legge fallimentare
La legge fallimentare è rimasta in vigore per oltre ottanta anni, nel corso dei quali si è assistito a una significativa evoluzione dell'approccio dell'ordinamento alla crisi d'impresa, in parallelo con un fisiologico (ma anche particolarmente rapido) mutamento del sostrato economico-sociale e con gli spunti (se non addirittura le direttive) di natura sovranazionale. Il concordato preventivo costituisce senza ombra di dubbio l'esempio più paradigmatico di tale percorso evolutivo, trattandosi di uno strumento conosciuto fin dalle origini ma con dei tratti caratteristici assai diversi da quelli oggi conosciuti e in gran parte ereditati dal Codice della crisi[1].
Nella disciplina congegnata dal legislatore del 1942, il concordato preventivo rappresentava un'alternativa all'esito fallimentare (e allo stigma sociale che un tempo accompagnava il fallito) destinata per lo più all'imprenditore "sfortunato ma onesto" (per rievocare una felice espressione dottrinaria). Secondo quanto disposto dall'art. 160 l.f., infatti, poteva accedere allo strumento soltanto l'imprenditore che non fosse già stato dichiarato fallito o non fosse già stato ammesso a un concordato preventivo nei 5 anni precedenti e che non fosse stato mai condannato per reati di bancarotta o delitti contro il patrimonio, la fede pubblica, l'economia pubblica, l'industria o il commercio; inoltre - ed è quanto più interessa in questa sede - il proponente avrebbe dovuto assicurare il pagamento di almeno il 40% dell'ammontare dei crediti chirografari entro appena sei mesi dall'omologa, o offrendo "serie garanzie" o cedendo al ceto creditorio tutto il proprio patrimonio. Evidente, quindi, era la trazione liquidatoria del concordato preventivo, così come palese era l’intento di limitarne l’utilizzo attraverso la fissazione di un’asticella (quella del presumibile pagamento del 40% dei chirografari) decisamente elevata.
Questo assetto ha resistito per un tempo considerevolmente lungo, per poi essere a più riprese rimodulato con l’avvento del nuovo millennio.
Già la riforma del 2005 comportava un superamento della trazione puramente liquidatoria. Il nuovo art. 160, infatti, consentiva all'imprenditore di congegnare un piano prevedente la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori "attraverso qualsiasi forma", e quindi non solo attraverso le cessio bonorum a beneficio dei creditori. Spariva, inoltre, il tetto di soddisfacimento del 40%, determinandosi così le premesse per una vera e propria esplosione nell'utilizzo di tale strumento.
La connotazione sostanzialmente atipica del concordato preventivo ridisegnato nel 2005 già consentiva, dunque, di prevedere un soddisfacimento dei creditori sulla base dei flussi di cassa della continuità aziendale, e quindi l'utilizzo del concordato come veicolo di una ristrutturazione debitoria non accompagnata dalla dismissione del valore aziendale, bensì, viceversa, dalla sua conservazione. La spinta verso l'utilizzo del concordato preventivo per le finalità suddette, tuttavia, subiva indubbiamente una forte accelerazione con l'introduzione dell'art. 186-bis ad opera della riforma del 2012. Tale spinta si deve non soltanto all'estrinsecazione tipologica dell'istituto, resa evidente dalla sua tipizzazione all'interno di una norma ad hoc, ma anche da alcune peculiarità di disciplina, quali ad esempio la possibilità di prevedere la moratoria fino a un anno dall'omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio e l'utilizzabilità di finanziamenti in prededuzione alle condizioni previste dagli artt. 182-quater, 182-quinquies e 182-sexies che, benché genericamente rivolti a tutti i concordati preventivi, risultavano sostanzialmente coerenti soltanto con una prospettiva concordataria contemplante la continuità aziendale.
La successiva riforma del 2015 portava a termine una sorta di sorpasso del concordato in continuità rispetto al (originario) concordato con connotazioni puramente liquidatorie. Ciò avveniva non tanto in virtù di modifiche apportate alla disciplina del concordato preventivo in continuità (l’art. 186-bis, infatti, rimaneva sostanzialmente invariato), quanto con l’introduzione di un ultimo comma nell’art. 160, che così recitava: “in ogni caso la proposta di concordato deve assicurare il pagamento di almeno il venti per cento dell'ammontare dei crediti chirografari. La disposizione di cui al presente comma non si applica al concordato con continuità aziendale di cui all'articolo 186-bis”. Veniva quindi reintrodotta per il solo concordato liquidatorio un’asticella minima di soddisfacimento per i creditori chirografari; modifica normativa chiaramente ispirata alla volontà di favorire il ricorso al concordato in continuità aziendale e, con esso, la conservazione del valore “azienda”.
2. Quale “continuità aziendale” nella disciplina dell’art. 186-bis
Prima di esaminare la disciplina contenuta nel Codice della crisi, sembra opportuno soffermarsi sul perimetro della “continuità aziendale” prevista dall’art. 186-bis. Il tema non aveva (e non ha) carattere puramente scolastico tenuto conto delle agevolazioni regolamentative previste dall’ordinamento per questo tipo di concordato rispetto a quello con cessione dei beni, specie dopo la reintroduzione dell’asticella del soddisfacimento minimo dei chirografari alla quale si è appena fatto cenno.
Ovviamente non vi era nessun dubbio circa il fatto che la previsione della prosecuzione dell’attività da parte della stessa impresa proponente rientrasse nel perimetro dell’art. 186-bis: si parlava, in tal caso, di continuità “diretta”. La disposizione in parola, tuttavia, prevedeva anche la possibilità che il debitore contemplasse nel piano «la cessione dell'azienda in esercizio ovvero il conferimento dell'azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione». L’attività di pura e semplice cessione, se avente ad oggetto non già beni atomisticamente individuati ma l’azienda intesa come universalità, con conseguente conservazione del suo valore, veniva fatta rientrare nel perimetro della continuità, definita però “indiretta”.
Il termine “cessione”, ad ogni modo, veniva interpretato in maniera letterale, cosicché nel concetto di continuità indiretta veniva fatta rientrare solo l’operazione negoziale che implicava un definitivo mutamento di titolarità dell’azienda, con esclusione, quindi, del mero affitto. Ciò a meno che l’affitto non fosse contemplato dal piano come un mero “ponte” strumentale alla cessione, con un vero e proprio impegno contrattuale da parte dell’affittuario ad acquistare l’azienda dopo un certo lasso di tempo; e ciò a prescindere dal fatto che il contratto di affitto fosse stato stipulato prima o dopo il deposito del ricorso. Tale conclusione, improntata a una concezione della continuità in senso prettamente oggettivo, già chiaramente affermata dalla dottrina[2], risultava avvalorata dal contenuto del comma primo dell’art. 163-bis, che così recitava: “quando il piano di concordato di cui all'articolo 161, secondo comma, lettera e), comprende una offerta da parte di un soggetto già individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore, anche prima dell'omologazione, verso un corrispettivo in denaro o comunque a titolo oneroso dell'azienda o di uno o più rami d'azienda o di specifici beni, il tribunale dispone la ricerca di interessati all'acquisto disponendo l'apertura di un procedimento competitivo a norma delle disposizioni previste dal secondo comma del presente articolo. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando il debitore ha stipulato un contratto che comunque abbia la finalità del trasferimento non immediato dell'azienda, del ramo d'azienda o di specifici beni”. Una simile previsione, in tutta evidenza, rendeva perfettamente compatibile con l’ordinamento la possibilità che l’imprenditore proponente avesse già stipulato al momento del deposito del ricorso un contratto di affitto di azienda prevedente però l’obbligo di acquisto dopo un certo lasso di tempo.
Posta dunque la percorribilità di un simile approccio alla soluzione della crisi aziendale in un contesto di concordato “in continuità aziendale”, si ponevano in concreto dei problemi di carattere strettamente applicativo proprio con riferimento al procedimento stabilito dall’art. 163-bis. Invero, se l’organizzazione di una gara competitiva avente ad oggetto il trasferimento diretto ed immediato dell’azienda (o di un ramo di essa) non presentava particolari difficoltà, maggiormente delicata era invece l’apertura di un procedimento competitivo riguardante un assetto contrattuale contemplante l’affitto a certe condizioni e per un certo lasso di tempo e il successivo acquisto dell’azienda. Detto altrimenti, non era possibile limitarsi puramente e semplicemente a bandire una gara prima dell’adunanza avente ad oggetto il trasferimento differito di un’azienda in quel momento affittata, per la banale ragione che, al momento dell’effettiva cessione, i valori intrinseci dell’azienda (medio tempore gestita da altri) avrebbero potuto essere drasticamente mutati. Un simile tentativo di vendita, in tutta evidenza, non avrebbe consentito la concreta partecipazione di soggetti diversi dall’affittuario, con ciò vanificando a priori la competitività della gara. Oggetto di gara doveva quindi essere il contratto nel suo complesso, in modo tale da consentire a potenziali competitors l’immediato ingresso nella gestione aziendale (sia pure solo in affitto) con successivo acquisto. Sennonché una simile gara rendeva complessa l’individuazione del miglior offerente atteso che l’offerta avrebbe dovuto necessariamente contemplare tanto una componente economica legata all’affitto quanto una componente legata all’acquisto, con la possibilità, dunque, che il terzo proponesse (ad esempio) un ammontare mensile di canone di affitto più basso rispetto al contratto vigente ma allo stesso tempo un prezzo di acquisto futuro molto più alto e competitivo. Ecco, in una simile eventualità sarebbe stato difficile per il commissario giudiziale (e per il giudice delegato) stabilire se un’offerta simile potesse reputarsi migliore dell’assetto obbligatorio contemplato dal contratto in essere ed assumere, dunque, le determinazioni conseguenti.
3. Il c.d. concordato misto
Un altro tema oggetto di dibattito sotto il vigore della legge fallimentare era quello relativo alla disciplina applicabile in caso di concordato con continuità aziendale che, tuttavia, contemplasse anche la dismissione di assets non funzionali alla prosecuzione dell’attività, come espressamente consentito dall’art. 186-bis. Il dubbio interpretativo si poneva principalmente nel caso in cui la componente liquidatoria risultasse preponderante in termini relativi, e cioè l’afflusso di attivo previsto dal piano concordatario derivasse prevalentemente dalla dismissione dei beni piuttosto che dai ricavi generati dalla continuità.
Tre erano le teorie che si erano fatte strada.
Una prima impostazione, riecheggiante gli studi dottrinari in materia di causa del contratto, propendeva per l’applicazione della teoria dell’assorbimento o della prevalenza, nel senso che la disciplina attuabile veniva individuata in funzione di quale delle due componenti (liquidatoria e di continuità) risultasse in concreto prevalente.
Una seconda impostazione si era resa fautrice di un’applicazione mista delle due discipline in base all’espresso riconoscimento della categoria del c.d. concordato misto.
Infine, un terzo indirizzo riteneva che in tali casi sempre e comunque fosse applicabile la disciplina del concordato in continuità aziendale. Quest’ultimo approccio aveva ottenuto il suggello della Suprema Corte nell’ordinanza n. 734 del 2020 che, in motivazione, si soffermava particolarmente sugli “anticorpi” contemplati dall’ordinamento per scongiurare che, sotto le mentite spoglie di un concordato in continuità aziendale, potesse celarsi in realtà un concordato liquidatorio. Invero, secondo la Corte: - nell'ambito di un concordato in continuità che preveda la dismissione di una porzione di beni il rischio di impresa incontra il limite della manifesta dannosità per i creditori (ex art. 186-bis, ultimo comma), dei quali invece deve essere necessariamente assicurato il miglior soddisfacimento; - nell'ambito del particolare tipo di concordato con continuità in parola la funzionalità dei beni non destinati alla liquidazione deve essere intesa tanto in termini di effettiva rilevanza imprenditoriale, nel senso che gli stessi debbono essere organizzati in modo da assicurare la effettiva continuazione, in tutto o in parte, dell'attività di impresa pregressa, quanto in termini di rischio imprenditoriale, nel senso che la loro destinazione al persistente utilizzo nell'ambito dell'attività aziendale incontra il limite del miglior soddisfacimento dei creditori.
4. Il ruolo del concordato nel contesto degli strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice della crisi
Come tra poco si vedrà, il percorso normativo e giurisprudenziale, così come il dibattito dottrinale, avutosi sotto il vigore della legge fallimentare risulta ben visibile nella disciplina del concordato preventivo disegnata dal Codice della crisi[3]. Prima di esaminarla con maggior cura, tuttavia, appare ineludibile inquadrare l’istituto del concordato preventivo nel più ampio contesto degli strumenti di regolazione della crisi contemplati dal Codice.
Invero, se nel contesto della legge fallimentare il concordato preventivo rappresentava il protagonista indiscusso tra i percorsi alternativi alla deriva fallimentare (gli unici competitors, infatti, erano l’accordo di ristrutturazione e il piano attestato di risanamento), il Codice della crisi ha invece decisamente ampliato il ventaglio di strumenti di soluzione della crisi, soprattutto nell’ottica di anticipare quanto più possibile l’emersione dello stato di sofferenza dell’impresa e scongiurare, quindi, l’esito liquidatorio e la correlata perdita del valore “azienda”[4]. L’ampliamento assume carattere non tanto (e non solo) quantitativo, quanto qualitativo, nel senso che anche strumenti già conosciuti dalla legge fallimentare hanno subito una rivitalizzazione che potrebbe favorirne oltremodo l’utilizzo[5].
Senza alcuna pretesa di completezza, si allude all’introduzione del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (artt. 64-bis e seguenti), all’ampiamento applicativo dell’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61, la cui fortuna potrebbe essere peraltro favorita dall’accesso a tale approdo passando per la composizione negoziata giacché, ai sensi dell’art. 23, comma 2, lettera b), la percentuale di creditori aderenti di una stessa categoria può passare dal 75% al 60%) e all’introduzione del concordato semplificato liquidatorio (art. 25-sexies), vale a dire un concordato omologabile senza che i creditori siano chiamati al voto e senza che vada assicurato il pagamento di una percentuale minima ai chirografari. È bene puntualizzare che quest’ultimo strumento risulta una degna alternativa non solo al concordato preventivo liquidatorio, ma anche a quello in continuità aziendale c.d. indiretta. Ed infatti l’art. 25-septies, comma 2, sancisce che “quando il piano di liquidazione di cui all’articolo 25-sexies comprende un’offerta da parte di un soggetto individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore dell’azienda o di uno o più rami d’azienda o di specifici beni, il liquidatore giudiziale, verificata l’assenza di soluzioni migliori sul mercato, dà esecuzione all’offerta e alla vendita si applicano gli articoli da 2919 a 2929 del codice civile», con ciò implicitamente ammettendo che la liquidazione possa anche consistere nella cessione dell’azienda o di un ramo aziendale.
Non v’è alcun dubbio che il successo degli strumenti appena menzionati passerà dal grado di assorbimento degli stessi sia da parte del mondo dell’impresa sia da parte dei professionisti del settore. Il vantaggio che assicurano è invero notevole, anche in termini di costi (ostacolo nel quale sovente finiscono per sbattere moltissime imprese), ma è necessario che da parte degli imprenditori vi sia un cambio di mentalità, che conduca al riconoscimento dei segnali di crisi in via anticipata e l’accettazione di intraprendere un percorso di soluzione della crisi prima che essa si avviti e diventi fatalmente ingovernabile. Inoltre, il loro successo è anche collegato al maggior o minor rigore che la giurisprudenza dimostrerà nell’interpretazione dei presupposti di accesso alla composizione negoziata che, come anche accennato, garantisce alcune misure premiali (art. 25-bis), rappresenta il viatico verso il concordato semplificato e rende più agevole la conclusione di accordi di ristrutturazione, anche ad efficacia estesa. Rinviando sul punto all’altra relazione del presente convegno specificamente dedicata al tema, basti qui rilevare che allo stato pare prevalere un approccio piuttosto stringente il quale, se a priori non esclude che anche un’impresa già in stato di insolvenza possa accedere alla composizione negoziata, esige però che sussistano degli effettivi presupposti di risanamento aziendale[6].
5. Le tipologie di concordato nel Codice della crisi
L’art. 84, da un lato, conserva la vocazione atipica del contenuto del concordato preventivo già prevista dall’art. 160 l.f. fin dalla riforma del 2005 (il soddisfacimento dei creditori, infatti, può avvenire “in qualsiasi forma”)[7] e, dall’altro lato, pone fine alla specialità della disciplina del concordato in continuità, un tempo “relegata” nell’art. 186-bis. Anzi: tra i tipi di concordato preventivo “tipizzati” quello in continuità aziendale viene collocato al primo posto (prima cioè della liquidazione del patrimonio e dell’attribuzione delle attività a un assuntore), a riprova del fatto che questo tipo di concordato porta con sé l’indubbio favor già cristallinamente presente nella legge fallimentare.
Il trattamento di favore viene anzi viepiù accentuato, come reso evidente da una pluralità di disposizioni[8]. Anzitutto, rimane intatto il “vantaggio competitivo” rispetto alla variante liquidatoria, la quale non solo deve assicurare il pagamento del 20% dei chirografari, ma deve altresì contemplare
un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10% l’attivo disponibile al momento della presentazione della domanda (art. 84, comma 4). Il concordato preventivo liquidatorio, quindi, viene reso in linea di massima ancora più costoso e pare seriamente destinato a soccombere, stretto nella morsa tra concordato semplificato post composizione negoziata e liquidazione giudiziale vera e propria. Inoltre, il concordato con continuità aziendale pare assicurare maggiori margini di manovra nella distribuzione delle risorse tra le classi (obbligatoriamente da costituire: art. 85, comma 3): in base al sesto comma dell’art. 84, infatti, “nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quello di liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”[9]; ciò con l’eccezione della classe dei lavoratori (si veda il comma 7). E ancora, solo nel concordato in continuità è possibile prevedere una moratoria per il pagamento dei creditori privilegiati, peraltro senza limiti di tempo (eccezion fatta per i lavoratori: si veda l’art. 86)[10]. Solo nel concordato in continuità, inoltre, può ottenersi l’autorizzazione al pagamento di crediti pregressi, quali quelli vantati da fornitori strategici o le rate a scadere del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all'esercizio dell'impresa a determinate condizioni (art. 100). Un piano prevedente la continuità consente di conservare gli effetti dei contratti in corso, finanche quelli conclusi con le pubbliche amministrazioni; ed infatti la controparte in bonis non può rifiutare il proprio adempimento a cagione del sol fatto che l’impresa si trovi in concordato, né il contratto può essere oggetto di modifiche in danno dell'impresa (artt. 94-bis e 95). Ai fini dell’accesso al concordato in continuità aziendale non è più preteso che quest’ultimo assicuri il “miglior soddisfacimento” dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria, essendo sufficiente piuttosto che venga garantito un soddisfacimento “in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale”[11]. Infine, così come già visto esaminando la legge fallimentare, le varie ipotesi di finanziamenti prededucibili autorizzabili dal Tribunale sono sostanzialmente compatibili solo con lo scenario della continuità.
Non pare da ultimo inopportuno segnalare che, con l’ultimissimo correttivo del giugno 2022, il legislatore ha eliminato quello che avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’utilizzo del concordato in continuità, vale a dire l’obbligo di conservazione (se del caso tramite la riassunzione) di un certo livello occupazionale (art. 84, comma 2)[12].
6. Il nuovo perimetro del concordato in continuità
Senza margine di dubbio nell’art. 84, comma 2, del Codice si ode l’eco dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria avutasi sotto il vigore della legge fallimentare.
Anzitutto, viene data dignità normativa alla distinzione tra continuità “diretta” e “indiretta”. La prima, ovviamente, consiste nella “prosecuzione dell’attività d’impresa da parte dell'imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta”; quella indiretta, invece, sussiste “se è prevista dal piano la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, ovvero in forza di affitto, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, o a qualunque altro titolo”.
Le novità introdotte dal Codice in ordine alla continuità indiretta paiono evidenti. Invero, si allarga il suo perimetro, che finisce per abbracciare anche le ipotesi di usufrutto ed affitto. Nel caso dell’affitto, poi, al fine di sgomberare ogni dubbio, viene espressamente sancito che il contratto di affitto può essere stipulato anche prima del deposito del ricorso, perché sussista un chiaro nesso di funzionalità (che con tutta probabilità dovrà essere esplicitato nel contratto stesso)[13].
In buona sostanza, dunque, la continuità aziendale (e con essa il relativo favor di disciplina) può oggi consistere anche nella pura e semplice acquisizione di canoni di affitto, magari associata alla liquidazione di qualche asset ritenuto non funzionale. Nel caso in cui venga congegnata una proposta di questo genere, peraltro, l’imprenditore si sottrarrebbe all’obbligo di passare per la procedura competitiva oggi prevista dall’art. 91. Tale disposizione, infatti, conferma che il Tribunale deve disporre l’acquisizione di offerte concorrenti, oltre che nel caso di offerta vincolante di acquisto da parte di un terzo, solo se “il debitore ha stipulato un contratto che comunque abbia la finalità del trasferimento non immediato dell’azienda, del ramo d’azienda o di specifici beni aziendali”. Ciò significa che va organizzata una gara in presenza di un contratto di affitto prevedente una clausola di acquisto differito dell’azienda da parte dell’affittuario e non, invece, in presenza di un puro e semplice contratto di affitto.
Per quanto concerne le modalità con le quali deve essere indetta la gara in presenza di un affitto con successivo impegno di acquisto, permangono tutti i dubbi e le difficoltà presenti sotto il vigore della legge fallimentare e alle quali si è fatto sopra cenno, non avendo puntualizzato nulla al riguardo l’art. 91.
Passando, infine, alla tematica del c.d. concordato misto, la novella del giugno 2022 ha finito per dare continuità all’ordinanza n. 734 del 2020 della Corte di cassazione: l’attuale art. 84, comma 3, infatti, dispone che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”.
[1] I tratti distintivi di tale evoluzione, in questo contributo solamente accennati, sono meglio analizzati in L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, in Ristrutturazioni Aziendali, 10 ottobre 2022.
[2] Cfr. S. Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in https://blog.ilcaso.it/libreriaFile/371.pdf, 4 agosto 2013.
[3] Per un affresco generale dei tratti caratteristici del nuovo concordato preventivo si rinvia a E. Ricciardiello, Il nuovo concordato preventivo "in pillole", in Ristrutturazioni Aziendali, 25 agosto 2022, nonché a E. Ricciardiello, I lineamenti del nuovo concordato preventivo, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna, Zanichelli, 2022, pagine 733 e seguenti.
[4] Sulla centralità della salvaguardia di tale valore e degli interessi che vi ruotano attorno (tutela dei posti di lavoro e dei c.d. intangibles, soprattutto), si sofferma particolarmente S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in Diritto della crisi, 12 settembre 2022.
[5] Si sofferma particolarmente su tali aspetti, sia pure prima del correttivo del giugno 2022 che ha ridimensionato alcuni potenziali effetti “distorsivi della concorrenza” tra i vari strumenti contemplati dal Codice, N. Abriani, Concordato preventivo e ristrutturazione dell'impresa dopo il D.L. n. 118/2021: Que rest-t-il?, in Diritto della Crisi, 16 febbraio 2022.
[6] Per alcuni rilievi critici rispetto a tale orientamento (tuttavia non condivisi dallo scrivente), si rinvia a E. Bissocoli, La presunta incompatibilità tra lo stato di liquidazione (recte il piano di liquidazione) e la composizione negoziata della crisi d'impresa: un equivoco da evitare, in Diritto della Crisi, 31 agosto 2022.
[7] Come osservato da L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, op. cit., l’intera disciplina del concordato preventivo, e in particolare quella relativa al voto dei creditori, è imperniata sul binomio concordato liquidatorio-concordato in continuità, di talché si pone il problema di incasellare un diverso concordato nell’una o nell’altra regolamentazione.
[8] Sulle quali si veda più diffusamente S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, op. cit.
[9] Si coglie qui l’emersione della relative priority rule, già da tempo per il vero insinuatasi nelle maglie del diritto fallimentare: sul punto si veda S. Pacchi, Par condicio e relative priority rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d'impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 6 gennaio 2022.
[10] Il tema viene particolarmente sviluppato da S. Ambrosini, Classificazione del ceto creditorio, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano e dell'attestazione nel concordato preventivo riformato, in Ristrutturazioni Aziendali, 6 febbraio 2023.
[11] Si soffermano molto su tale mutamento di prospettiva S. Ambrosini, Fattibilità del piano e trattamento non deteriore dei creditori nel concordato preventivo, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, op. cit., pagine 768 e seguenti, e S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, cit.
[12] È stato in questo modo recepito un grido d’allarme levatosi sin da subito in dottrina: si veda ad esempio S. Ambrosini, Concordato preventivo fra vecchio e nuovo: continuità normativa, interessi protetti e soddisfacimento dei creditori, in Ristrutturazioni Aziendali, 5 agosto 2021.
[13] Rimarca tale profilo S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, op. cit., il quale conclude nel senso che “un affitto stipulato molto in anticipo rispetto al concordato, quindi strumentalmente e cronologicamente slegato da esso, sembrerebbe suscettibile di ricadere nell’ambito applicativo del regime del concordato liquidatorio, non potendosi giovare dei benefici propri della disciplina della continuità”.