, 23 marzo 2023, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Premessa. – 2. La nozione “giuridica” di crisi. – 3. La moltiplicazione dei concordati. – 4. In particolare: il concordato con continuità aziendale.
1. Premessa
In principio (mi riferisco al primo decennio del secolo passato) era “il” concordato preventivo, introdotto dalla l. 24 maggio 1903, n. 197, in sostituzione della vecchia “moratoria” del c.comm. del 1882, e disciplinato nell’unica forma del concordato con garanzia, con l’obiettivo di “offrire al debitore onesto e sfortunato il mezzo per evitare la inesorabile distruzione della sua impresa, per sé stessa vitale, con danno della pubblica economia”[1].
Ma appunto perché in pratica spesso la garanzia era rappresentata dal solo patrimonio del debitore, ceduto ai creditori, la legge fall. del 1942 aveva previsto e disciplinato – sia pure in modo estremamente contenuto (artt. 160, 181, 182, 186) e “senza stabilire schemi rigidi di cessione” – la forma del concordato con cessione dei beni, considerandolo “sovente l’unico mezzo per conservare l’impresa, sia pure attraverso il mutamento del suo titolare”[2].
Nel contempo il legislatore di allora introduceva l’istituto dell’amministrazione controllata (poi abrogata a decorrere dal 16 luglio 2006), per “comprendere in una disciplina unitaria tutti gli aspetti della crisi economica dell’impresa”, con sorprendente attualità, anche rispetto alla Direttiva Insolvency (la n. 1023 del 2019) e al Codice della crisi e dell’insolvenza, ora in vigore.
Peraltro l’amministrazione controllata (il cui presupposto oggettivo consisteva ab origine nella “temporanea difficoltà” di adempimento delle obbligazioni, poi arricchito, a partire dalla legge n. 391 del 1978, dall’ulteriore condizione dell’esistenza di “comprovate possibilità di risanare l’impresa”[3]), pur richiamando numerose norme del concordato preventivo e pur evolvendo sovente in questa procedura, non poteva essere considerata una sottospecie di concordato, il cui obiettivo principale era un soddisfacimento dei creditori più conveniente che in caso di fallimento, piuttosto che il risanamento dell’impresa.
Tutto cambia con le riforme dell’ultimo ventennio (dal 2005 in poi), a partire dall’abrogazione dell’amministrazione controllata, in qualche misura surrogata da una nuova disciplina del concordato preventivo, applicabile anche alle imprese semplicemente “in crisi” (e non più solo a quelle irreversibilmente insolventi), con la più ampia libertà di progettazione della proposta, con la riduzione dei poteri del tribunale, ad esempio quanto all’eliminazione (peraltro, in verità, più apparente che effettiva) dei giudizi di meritevolezza e di convenienza in sede di omologazione, con l’introduzione di una fase pre-concordataria, già caratterizzata da effetti sostanziali (per il debitore, per i creditori e sui rapporti giuridici pendenti) e soprattutto con una maggiore diversificazione di disciplina fra due sottospecie di concordati: quello liquidatorio e quello con continuità aziendale (in questo comprendendo tuttavia ipotesi liquidatorie particolari, come la cessione dell’azienda o di rami di azienda).
Ma una riflessione particolare merita innanzitutto la nozione stessa di crisi, per la sua centralità (ma anche per la sua indeterminatezza) nella più recente produzione normativa.
2. La nozione “giuridica” di crisi
Fino alla legge delega n. 155 del 2017 non esisteva alcuna definizione “giuridica” dello stato di “crisi” (parola presente in vari testi normativi: ad esempio nella c.d. “legislazione di salvataggio” degli anni ’70 e nella stessa legge fall. dopo la riforma del 2005-2006), a differenza dalla definizione di “insolvenza”, contenuta nell’art. 5 legge fall. e rimasta intatta nel corso dei decenni (fino ai giorni nostri).
D’altra parte – come è stato osservato[4] – il binomio crisi/insolvenza evoca una dialettica concettuale fra nozioni economico-aziendali e nozioni giuridiche, tra analisi prospettiche e analisi statiche, non semplice da dipanare[5].
Una prima definizione (giuridica) di crisi è quella contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. c) della legge delega n. 155 del 2017, quale “probabilità di futura insolvenza”, in linea peraltro con quanto poi indirettamente emergente anche dalla successiva Direttiva Insolvency, laddove (nell’art. 1) si fa esplicito riferimento all’esistenza di difficoltà finanziarie foriere di una probabilità di insolvenza, ad impedire la quale dovrebbero appunto essere rivolti i c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva”, in modo da garantire la sostenibilità economica del debitore.
Da qui ha origine un percorso piuttosto travagliato e tutt’altro che esaurito, comunque approdato ad un esito insoddisfacente per la difficoltà di riassumere in una formula giuridica profili meramente economico-aziendali senza però appiattirli sulla nozione di insolvenza.
Il primo passaggio di tale percorso non poteva non avvenire che in occasione della iniziale versione del nuovo Codice (d.lgs. n. 14/2019), laddove, nell’art. 2, lett. a), per stato di crisi doveva intendersi quella “difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza”, così imponendo prioritariamente un confronto fra detto stato e quello di insolvenza (definito nella successiva lett. b in modo identico a quanto scritto nell’art. 5 legge fall.).
Dal confronto emergevano due elementi comuni e due distintivi: in particolare, quanto ai primi, innanzitutto la presenza comunque di una manifestazione esteriore sia dell’uno che dell’altro stato (tale potendo ritenersi anche quella desumibile, sia pure tardivamente, dai bilanci), oltre la necessità di una verifica della capacità o dell’incapacità del debitore di soddisfare “regolarmente” le proprie obbligazioni: avverbio che tuttavia presuppone la preventiva indicazione di un criterio sicuro in relazione al quale verificare la regolarità degli adempimenti: problema teorico assai complesso, sul quale erano state proposte in passato numerose soluzioni[6], anche in prospettiva evolutiva, o ricorrendo a criteri extra-giuridici di natura deontologica: e cioè, in definitiva, al complesso delle regole osservate dagli operatori economici nello specifico settore di attività del fallendo; o ricorrendo a criteri extra-giuridici di natura economico-aziendalistica, legando la solvibilità dell'imprenditore alla capacità del medesimo, valutata in relazione ad un periodo più o meno lungo di tempo, di trarre i mezzi finanziari necessari per soddisfare le sue obbligazioni dall'ordinario esercizio della sua impresa; o ricorrendo ai principi del codice civile in tema di adempimento delle obbligazioni (artt. 1176 ss.)[7]; o infine ricercando i criteri giuridici di riferimento all'interno della stessa legge fall., in particolare nella disciplina delle azioni revocatorie.
Quanto poi agli elementi distintivi, mentre, sotto un primo profilo, l’insolvenza era (e tuttora è) declinata come incapacità del debitore di soddisfare le sue obbligazioni, a sua volta manifestata, come detto, da inadempimenti o altri fatti esteriori, la crisi era definita come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici, quindi come crisi sostanzialmente di natura finanziaria; sotto un secondo (non meno rilevante) profilo l’insolvenza era caratterizzata dalla definitività di quella incapacità (emergente dall’uso dell’avverbio “più”), mentre la crisi era caratterizzata dalla possibile temporaneità delle “difficoltà” (in generale dipendente dalla fattibilità di un piano di risanamento o di ristrutturazione), quasi a richiamare il presupposto oggettivo della (abrogata) amministrazione controllata (di cui all’art. 187 legge fall.).
E qui però una indagine ulteriore avrebbe consentito per la verità (quanto meno) un riallineamento fra le definizioni dei due stati in esame, tenendo conto innanzitutto del fatto che – com’era stato osservato in dottrina[8] – una valutazione prognostica (connaturata alla definizione di crisi) non è affatto estranea neppure alla nozione di insolvenza, se è vero che, per verificare l’idoneità dell’impresa (in continuità) all’eliminazione delle disfunzioni manifestate dai sintomi di insolvenza, il tribunale è comunque tenuto a compiere anche un giudizio preliminare sulle future capacità dell’imprenditore al “regolare” adempimento delle sue obbligazioni; in secondo luogo nel definire giuridicamente lo stato di crisi il legislatore aveva avvertito la necessità di fornire al giudice una serie di “indicatori” o di “indici” della crisi, in particolare negli artt. 13, 15 e 24 della versione originaria del CCII (norme poi in parte modificate nelle versioni successive), ma elencando fra l’altro ipotesi di inadempimenti reiterati e significativi di debiti scaduti (anche per importi assai rilevanti), tipiche manifestazioni di vera e propria insolvenza (ad esempio a proposito della situazione che giustificava la segnalazione esterna affidata ai creditori istituzionali), finendo per identificare il “pericolo di insolvenza” con la “probabilità dell’insolvenza” e dunque con la nozione di crisi, come pure autorevolmente rilevato[9].
Una prima serie di modifiche veniva attuata dal d.lgs. n. 147 del 2020: nell’art. 2, lett. a) CCII la crisi era ridefinita come uno “stato di squilibrio economico-finanziario” (non dunque patrimoniale); ma nell’art. 13 CCII, individuati quali “indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario”, i relativi indici attestanti la presenza della crisi erano riformulati in negativo (“non sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi”, “assenza di prospettive di continuità aziendale”, “non sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa”); nell’art. 15 CCII (sugli obblighi di segnalazione dei creditori pubblici qualificati), l’entità dei debiti IVA scaduti e non versati era rimodulata in relazione al volume di affari.
Un ulteriore riferimento allo stato di crisi (o di pre-crisi) era contenuto anche nel d.l. n. 118 del 2021, ai fini dell’accesso alla composizione negoziata, in presenza di uno “squilibrio patrimoniale o economico-finanziario”, “ragionevolmente” risanabile, anche mediante il trasferimento dell’azienda.
Un terzo elemento di valutazione era poi offerto dalla l. n. 233 del 2021, che nel convertire il d.l. n. 152 del 2021 sull’attuazione del PNRR, vi aveva inserito un art. 30-sexies, successivamente trasfuso con modifiche nell’art. 25-novies CCII (già art. 15 CCII sugli obblighi di segnalazione dei creditori pubblici qualificati).
E arriviamo finalmente ai giorni nostri, dopo le ultime modifiche al Codice contenute nei due schemi governativi di d.lgs. di riforma del medesimo (marzo e giugno 2022)[10] e nel d.lgs. n. 83 del 2022, in cui la nozione di crisi (art. 2, lett a CCII) è stata nuovamente ridefinita, sia eliminando in modo definitivo dal testo l’avverbio “regolarmente” (rimasto invece nella definizione di insolvenza) quale criterio di valutazione degli inadempimenti del debitore, sia sostituendo il riferimento alle “obbligazioni pianificate” con quello alle “obbligazioni nei successivi dodici mesi”, opzione giustificata nella Relazione ministeriale al secondo schema di d.lgs. del giugno 2022 con la necessità di tener conto della modifica dell’art. 3 CCII sugli assetti organizzativi: in effetti il contenuto dell’originario art. 24 CCII (sulla rilevazione tempestiva della crisi) è stato appunto trasferito nell’art. 3, così come l’art. 15 CCII sugli obblighi di segnalazione dei creditori pubblici qualificati è stato trasferito nell’art. 25-novies, comma 1 CCII.
E’ precisamente con il quarto comma dell’art. 3 e con il primo comma dell’art. 25-novies CCII (a sua volta richiamato nella lett. d della precedente norma) che il legislatore della riforma ha introdotto (non si sa quanto saggiamente) una serie cospicua di criteri quantitativi per integrare la generica nozione di “crisi” di cui all’art. 2, lett. a) CCII, o imponendo al debitore (individuale o collettivo) di assumere idonee iniziative per far fronte ai suoi inadempimenti o per obbligare taluni enti pubblici qualificati a formalizzarli nei confronti dell’imprenditore medesimo o, se esistente, del suo organo di controllo, sempre al fine di indurli ad assumere idonee iniziative per far fronte agli inadempimenti segnalati ed evitare conseguenze più gravi (quale l’apertura di una procedura di liquidazione giudiziale).
Ora, a ben vedere, quelle indicazioni quantitative, unitamente all’inadeguatezza dei flussi di cassa “prospettici” a far fronte alle obbligazioni “nei successivi dodici mesi”, lungi dal far emergere uno stato di crisi o di insolvenza futura, ancorché semplicemente “probabile”, rivelano l’indubbia esistenza di una situazione compromessa, perfettamente rientrante nel paradigma della nozione giuridica di insolvenza, di cui alla lett. b) dell’art. 2 CCII: infatti, se l’imprenditore, pescando fra i tanti indici (o “segnali”), non paga retribuzioni scadute da almeno trenta giorni pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; o non paga debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; o non paga debiti nei confronti del sistema bancario o finanziario scaduti da più di sessanta giorni; o dopo oltre novanta giorni non versa all’Istituto nazionale per la previdenza sociale o all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro contributi previdenziali o premi assicurativi neppure per importi anche modesti; o non paga all’Agenzia delle entrate debiti fiscali autodichiarati o definitivamente accertati di importi di varia entità, non si può certo affermare che quell’imprenditore stia adempiendo “regolarmente” alle sue obbligazioni, così come pretenderebbe la nozione di insolvenza di cui alla lett. b) dell’art. 2 CCII, dalla quale detto avverbio non è stato affatto espunto, a differenza dall’ultima versione della nozione di crisi[11].
In qualunque contesto le parole hanno un peso specifico, ma in un compendio normativo complesso (qual è un Codice) quel peso è ancora maggiore (e spesso lo ha anche la punteggiatura), tanto che l’aggiunta o l’eliminazione di un semplice avverbio può far crollare interi castelli sistematici e biblioteche di dotti materiali dottrinari, se è vero – com’è stato autorevolmente notato[12] – che “in un paese di civil law, d’altronde, il diritto è anzitutto un costrutto di parole ed è quindi sempre importante soffermarsi sulle espressioni verbali che il legislatore sceglie di adoperare”.
Ciò che, alla fine, distingue le due nozioni è semmai l’avverbio “più” contenuto nella definizione di insolvenza di cui alla lett. b) dell’art. 2 CCII, copiata senza varianti dall’art. 5 legge fall. e dal quale può desumersi che la crisi, lungi dall’essere un’insolvenza “probabile” (ciò che comunque imporrebbe di ricavarne la nozione, per difetto, da quella di insolvenza), è semplicemente un’insolvenza presuntivamente “reversibile” (ferme restando le relative manifestazioni esteriori: inadempimenti o altro), dove però la reversibilità deve essere chiaramente valutabile (con prognosi di elevata attendibilità) dalla presenza di un programma “fattibile”, concreto e dimostrabile, dal momento che – com’è stato opportunamente osservato – qualsiasi crisi d’impresa, salvo poche eccezioni, è in astratto “reversibile”, tutto dipendendo dalla qualità e quantità degli interventi necessari per il suo superamento e dai relativi costi, ovviamente sempre più elevati quanto più grave è l’insolvenza[13].
Nonostante gli sforzi del legislatore la nozione di crisi resta dunque appiattita su quella di insolvenza, ma (rispetto al passato) con una inversione sorprendente: mentre prima la crisi era il genus e l’insolvenza la species (v. ad es. l’art. 160 legge fall.), ora è il contrario[14]: si parte dalla nozione di insolvenza per giungere a quella di crisi, quasi in via residuale: essa stessa insolvenza, ma caratterizzata (solo) da una possibile (e variabile) temporaneità, derivante da un piano di risanamento o di ristrutturazione extra o endo-concorsuale, che sia in grado di assicurare la continuità aziendale (è significativo il fatto che nella versione originaria del Codice si parlasse di “difficoltà economico-finanziaria”, più o meno modellata sulla temporanea difficoltà di adempimento quale presupposto oggettivo dell’amministrazione controllata).
3. La moltiplicazione dei concordati
Come detto sopra a proposito degli strumenti di soluzione delle crisi di impresa alternativi al fallimento (concordato preventivo e amministrazione controllata), tutto cambia a partire dal 2005; ma la vera rivoluzione, anche a proposito degli istituti che la Direttiva Insolvency chiama “quadri di ristrutturazione preventiva”, è quella che consegue innanzitutto alle modifiche apportate al CCII (dopo il d.l. n. 118 del 2021), per ampliare ulteriormente gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle imprese sopra o sotto soglia, commerciali o agricole, oltre i piani di risanamento attestati e oltre gli accordi di ristrutturazione o le convenzioni di moratoria.
Ed ecco allora la composizione negoziata e, per quanto qui più interessa, la moltiplicazione dei nuovi concordati, aggiunti a quello “preventivo” (peraltro ampiamente rimaneggiato e ulteriormente divaricato nelle due sottospecie); mi riferisco, in particolare:
(i) al concordato “semplificato”, introdotto dal d.l. n. 118 del 2021 e recepito dagli artt. 25-sexies e 25-septies CCII, in caso di esito negativo del tentativo di composizione negoziata della crisi, accessibile a tutte le imprese iscritte nel Registro delle imprese, sopra o sotto soglia, commerciali o agricole;
(ii) al concordato “minore” (artt. 74 ss. CCII), accessibile alle imprese sotto soglia o a quelle agricole (anche sopra soglia) e anche ai professionisti (che imprenditori non sono);
(iii) al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (artt. 64-bis ss. CCII), accessibile agli imprenditori commerciali sopra soglia e convertibile nello stesso concordato preventivo (art. 64-quater CCII).
Al di là degli aggettivi, tutti veri e propri concordati preventivi, naturalmente ciascuno con le sue varianti: alcuni (il concordato semplificato e il piano di ristrutturazione) caratterizzati dal richiamo esplicito di numerose norme del progenitore; l’altro caratterizzato da un richiamo generico (nell’art. 74, comma 4 CCII) alle disposizioni relative al concordato preventivo, salvo il (complesso) vaglio di “compatibilità” graziosamente lasciato dal legislatore all’interprete (e quindi al giudice).
Ma, come detto, ciò che più qui interessa è il fatto che il CCII ha sensibilmente divaricato la disciplina del concordato liquidatorio da quella del concordato con continuità aziendale.
Vi sono però elementi comuni ad entrambe le fattispecie:
Innanzitutto l’obiettivo della tutela degli interessi dei creditori, non più al loro “miglior soddisfacimento” (il best interest of creditors, anche se in alcune norme si fa ancora riferimento al menzionato principio), quanto piuttosto ad un soddisfacimento non inferiore a ciò che sarebbe realizzabile in caso di liquidazione giudiziale (artt. 84, comma 1 e 87, comma 3 CCII), cioè a quello che è stato definito come il principio di “equivalenza o non deteriorità del trattamento”; e infatti, coerentemente, è stabilito che nella domanda il debitore deve comunque indicare sia le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale (art. 87, comma 2 CCII), sia, fra l’altro, il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato (art. 87, comma 1 CCII); certamente la linea di confine fra i due principi (soddisfacimento migliore o soddisfacimento equivalente) in concreto è talmente evanescente da rendere possibile qualunque valutazione discrezionale già in sede di ammissione, anche per l’estrema difficoltà di confrontare valori attuali e valori futuri da realizzare in un’ipotetica liquidazione giudiziale.
In secondo luogo va notata l’eliminazione dell’adunanza dei creditori (anche se la rubrica dell’art. 104 CCII impropriamente parla di “convocazione dei creditori”): lo si desume agevolmente dalla considerazione che per l’art. 47, comma 2 CCII il tribunale, in caso di ammissione, stabilisce la data iniziale e finale per l'espressione del voto dei creditori e fissa il termine per la comunicazione del provvedimento agli stessi; un’eliminazione discutibile, perché, se per un verso è vero che dette adunanze non erano particolarmente partecipate, per un altro verso è altrettanto vero che, a norma dell’art. 175 legge fall., in esse si poteva aprire un franco confronto fra debitore e creditori o fra questi e il commissario giudiziale o fra gli stessi creditori, con contestazioni (verbali) o chiarimenti, un dibattito che ora non è surrogato da nulla, nonostante le attuali tecniche telematiche alle quali si sarebbe potuto fare ricorso.
In terzo luogo sparisce dal requisito della “fattibilità” del piano l’aggettivo “economica” (pur presente nella legge delega); ma qui iniziano le differenze fra i due tipi di concordati anche quanto alla definizione del menzionato requisito: infatti in quello liquidatorio la “fattibilità” consiste nella non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati (artt. 7, comma 2, lett. b, 47, comma 1, lett. a e 112, comma 1, lett. g CCII), laddove in caso di continuità aziendale la “fattibilità” consiste nella manifesta inidoneità alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali (art. 47, comma 1, lett. b CCII) in assenza di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza (artt. 87, comma 3 e 112, comma 1, lett. f CCII); conseguentemente la proposta deve indicare espressamente le ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori (art. 7, comma 2, lett. c CCII).
Solo nel concordato liquidatorio la proposta deve prevedere un apporto di risorse esterne (fra cui anche quelle provenienti a qualunque titolo dai soci senza obbligo di restituzione o con vincolo di postergazione) che incrementi di almeno il dieci per cento l'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda – percentuale non più riferita, come nella legge fall., al soddisfacimento dei creditori – ma tale da assicurare ai chirografari e ai privilegiati degradati una misura non inferiore al venti per cento del loro ammontare complessivo; inoltre dette risorse esterne possono essere distribuite anche in deroga agli articoli 2740 e 2741 c.c. (quindi anche senza il rispetto del principio della par condicio), purché sia salvo il requisito del venti per cento.
Ed ancora solo nel concordato liquidatorio la suddivisione dei creditori in classi, con trattamenti differenziati (sempre con riferimento all’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici: art. 2, lett. r CCII)[15], è facoltativa, ancorché in alcuni casi il classamento sia obbligatorio: più precisamente: per i creditori titolari di crediti tributari o previdenziali dei quali non sia previsto l'integrale pagamento; per i creditori titolari di garanzie prestate da terzi; per i creditori che vengono soddisfatti anche in parte con utilità diverse dal denaro; e per i creditori che presentano proposte concorrenti o per le parti ad essi correlate (art. 85, comma 2 CCII).
4. In particolare: il concordato con continuità aziendale
Qui le novità sono numerose, a cominciare dalla espressa inclusione nella continuità indiretta sia della “ripresa” di un’attività in precedenza evidentemente cessata, sia dell’affitto dell’azienda, anche stipulato anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso (la cui ammissibilità in passato è stata a lungo dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, ma poi recentemente riconosciuta dalla Suprema Corte[16]) (art. 84, comma 2 CCII).
Gli interessi tutelati non sono più solo quelli dei creditori, ma sono anche quelli dei lavoratori (come emerge innanzitutto dal secondo comma dell’art. 84 CCII, secondo cui la proposta deve tutelare “nella misura possibile” i posti di lavoro) e da ultimo, eventualmente, persino quelli dei soci (o dei portatori di strumenti finanziari partecipativi) di una società, che possono essere classati (art. 120-ter CCII) e ricevere a determinate condizioni qualche attribuzione (art. 120-quater CCII); peraltro un riferimento chiaro anche ai primi (creditori e lavoratori) è quello contenuto in particolare nell’art. 53, comma 5-bis CCII, secondo cui in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d'appello, su richiesta delle parti, anziché revocare detta sentenza, può confermarla, se l'interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante, riconoscendo a quest'ultimo il risarcimento del danno; ai lavoratori poi spettano anche altri benefici, ad esempio quanto alla tenuta del loro privilegio generale anche sul valore eccedente quello di liquidazione (art. 84, comma 7 CCII); o quanto al pagamento dei loro crediti pregressi (art. 100, comma 1 CCII); o quanto alla riduzione a trenta giorni dall’omologazione per il pagamento dei loro crediti (art. 109, comma 5 CCII), a differenza da ciò che è previsto in generale per i creditori con diritti di prelazione non interessati dalla ristrutturazione, per i quali il termine massimo del soddisfacimento (in danaro) è di centottanta giorni.
Nel concordato in esame la suddivisione dei creditori in classi è in ogni caso obbligatoria; i creditori con diritti di prelazione devono essere divisi in classi se interessati dalla ristrutturazione; e così pure devono essere inserite in classi separate le imprese minori, titolari di crediti chirografari derivanti da rapporti di fornitura di beni e servizi (art. 85, comma 3 CCII).
Corrispondentemente, in sede di votazione, il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore; e in via di principio in ciascuna classe la proposta è approvata se è raggiunta la maggioranza dei crediti ammessi al voto; però, in mancanza di questa in una classe, si considera raggiunta la maggioranza anche se hanno votato a favore due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe (art. 109, comma 5 CCII), con la possibile conseguenza che dall’esito della votazione la proposta del debitore risulti approvata, in realtà, da una minoranza calcolata sul totale dei crediti ammessi al voto nelle varie classi (infatti i due terzi dei crediti dei creditori “votanti” potrebbero rappresentare solo una minoranza dei crediti “ammessi al voto”)[17]; ma anche nell’ipotesi che qualche classe abbia dato voto negativo, il concordato può essere ugualmente omologato dal tribunale, se ricorrono alcune condizioni enunciate nell'art. 112, comma 2 CCII e richiamate anche nell’art. 120-quater CCII per l’ipotesi che il concordato riservi qualche attribuzione anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda sul valore risultante dalla ristrutturazione[18], ma intendendo per valore riservato ai soci quello effettivo delle partecipazioni o degli strumenti conseguente all’omologazione della proposta, “dedotto il valore da essi effettivamente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto”[19]; si tratta della c.d. cross-class cram down (previstanei considerando n. 53[20] e n. 54[21], nonché nell’art. 11 della Direttiva Insolvency) o della c.d. “ristrutturazione trasversale” (espressione utilizzata nel medesimo quarto comma dell’art. 112 CCII per indicare la disciplina del secondo comma di detta norma, su cui infra)[22].
Quanto ad altre varianti rispetto al passato occorre osservare: a) che i creditori possono essere soddisfatti dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale in misura anche non prevalente; ed inoltre l’utilità economicamente valutabile per ciascuno di essi prevista può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa (art. 84 comma 3 CCII); b) che l’obbligo di inserire nel piano l'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura è limitato alla prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta (art. 87, comma 1, lett. f CCII); c) che solo quando il debitore nel pre-concordato intende predisporre un piano in continuità, è prevista la innovativa possibilità che il commissario giudiziale, se richiesto o in caso di concessione delle misure protettive, affianchi il debitore e i creditori nella negoziazione del piano, formulando suggerimenti per la sua redazione.
Ma una delle novità più interessanti nella riforma dell’istituto (soprattutto da parte del d.lgs. n. 83 del 2022, in adempimento della Direttiva Insolvency) – ai fini della progettazione della proposta, ma anche dell’omologazione di questa da parte del tribunale – è appunto quella enunciata nell’art. 84, comma 6 e ripresa nell’art. 112, comma 2 CCII, secondo cui nel concordato in continuità aziendale (senza precisare se diretta o indiretta) nel quale la proposta venga articolata in modo da distinguere fra valore di liquidazione e valore eccedente quello di liquidazione, mentre il primo deve essere distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione secondo la regola della c.d. “priorità assoluta” (absolut priority rule), per il secondo è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore secondo la regola della c.d. “priorità relativa” (relative priority rule), con l’eccezione già vista dei crediti dei lavoratori dipendenti[23].
Tale distinzione ha effetti indiretti anche sulla votazione dei creditori nel senso che il tribunale, su richiesta del debitore (o con il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti), può omologare il concordato anche se una o più classi sono dissenzienti, ove ricorrano alcune condizioni, fra cui in particolare quella che “la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, che la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione” (art. 112, comma 2, lett. d CCII): formulazione quanto meno ambigua, non essendo affatto chiaro a che cosa si riferisca in realtà la locuzione “in mancanza”: se cioè all’intera proposizione che la precede – quindi come alternativa alla mancata approvazione da parte della maggioranza delle classi – o solo alla seconda parte della stessa – quindi come alternativa alla mancanza di (almeno) una classe formata da creditori titolari di diritti di prelazione – essendo ben evidente che nel primo caso non sarebbe così errato dedurne che il tribunale possa omologare una proposta concordataria in continuità aziendale anche se non approvata dalla maggioranza delle classi, purché sia approvata “da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”: ciò che finirebbe per costituire un ulteriore vulnus non indifferente ai (residui) profili negoziali dell’istituto concordatario, in conseguenza della disapplicazione del principio maggioritario (quasi una prevaricazione della minoranza sulla maggioranza), magari con la benedizione della medesima Direttiva Insolvency[24], ma che potrebbe comportare il rischio di una artificiosa formazione delle classi, precostituita (se non pre-concordata con la collaborazione di una classe di creditori) precisamente in funzione di un eventuale esito negativo della votazione, da ribaltare con la “richiesta” del debitore di cui all’art. 112, comma 2 CCII, richiamato infatti, per un piano in continuità aziendale, dal quinto comma dell’art. 109 CCII (“in caso di mancata approvazione si applica l’art. 112, comma 2”, in contraddizione con quanto stabilito in generale nell’art. 111 CCII per la mancata approvazione del concordato).
Come detto, le norme sopra esaminate non distinguono fra continuità diretta e indiretta; è però legittimo quanto meno il dubbio che il principio della “priorità relativa”, con la possibilità di distribuire una parte delle risorse provenienti dalla continuità in violazione della par condicio, possa valere anche per le ipotesi di continuità indiretta (statisticamente le più frequenti) che hanno in sostanza natura meramente liquidatoria (come nel caso della cessione di azienda), qui mancando innanzitutto di razionalità.
Insomma, il legislatore della riforma ha finito davvero per costruire un sistema molto complicato[25], che – come è stato giustamente osservato[26] – costituirà per i professionisti della “crisi” una palestra d’ardimento estremamente stimolante, in un quadro complessivo certamente bisognoso quanto prima di una qualche semplificazione.
Ma sul punto mi pare che ci sia ancora spazio per nuovi (auspicabili) interventi, tenuto conto del fatto che comunque la Direttiva Insolvency su molti aspetti della disciplina delle crisi ha lasciato agli ordinamenti nazionali ampi margini di discrezionalità.
[1] Così si legge, con riferimento al passato, nella Relazione al Re alla successiva legge fallimentare del 1942.
[2] Così ancora la menzionata Relazione al Re.
[3] Sul tema mi limito qui a rinviare, anche per i richiami, ad A. AMATUCCI, Temporanea difficoltà e insolvenza, Napoli, 1979, 64 ss. e a P. F. CENSONI, Gestione commissariale e funzione dell’amministrazione controllata, Milano, 1994, 71 ss.
[4] S. FORTUNATO, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in Dir. fall., 2021, I, 3 ss.
[5] Nel senso che la nozione di crisi è in assoluto fra le più travagliate nell’ordinamento concorsuale quale è venuto evolvendo negli ultimi anni cfr. S. AMBROSINI, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in Dir. fall., 2022, I, 837 ss., ivi 844; dello stesso Autore cfr. anche Diritto dell’impresa in crisi, Pisa, 2022, 1 ss.; per la dottrina aziendalistica e quindi sulla nozione economico-aziendale della crisi cfr. P. BASTIA, Crisi e insolvenza dopo il codice della crisi, in Ristrutturazioni aziendali. Ilcaso.it del 22 agosto 2022, 1 ss.
[6] Sul tema mi si consenta di rinviare a quanto da me osservato in Il presupposto oggettivo del fallimento. Lo stato d’insolvenza, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali (diretto da L. Panzani), I, Torino, UTET, ed. 2012, p. 90 ss.
[7] Questa è tuttora la tesi della Suprema Corte, ad esempio nell’ord. 22/02/2022, n. 5856 (solo mass.), in Fall., 2022, 849 (ove ulteriori richiami), secondo cui lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività, mentre resta in proposito irrilevante ogni indagine sull'imputabilità o meno all'imprenditore medesimo delle cause del dissesto, ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all'impresa, così come sull'effettiva esistenza ed entità dei crediti fatti valere nei suoi confronti, i quali sono oggetto di valutazione incidentale.
[8] Cfr. A. AMATUCCI, Temporanea difficoltà e insolvenza cit., 77 s.; nel medesimo senso P.F. CENSONI, Gestione commissariale e funzione dell’amministrazione controllata, Milano, 1994, 84 s.; e ora recentemente anche S. AMBROSINI, Diritto dell’impresa in crisi cit., 13 ss., secondo cui “l’angolazione dell’indagine del tribunale è destinata a rivelarsi ben più estesa rispetto a quella sottesa alla semplice ricerca dell’emersione di uno o più insoluti, dovendo l’attività del giudice tradursi nella valutazione della complessiva capacità solutoria del debitore; il che postula, necessariamente, un significativo ampliamento dell’orizzonte temporale dell’accertamento”.
[9] Cfr. A. JORIO, Sulle nozioni di crisi e di insolvenza prospettica, in Giur. comm., 2020, II, 1468 ss.; nel senso che qui si apre il vero problema, che porta alcuni a distinguere fra insolvenza attuale e insolvenza prospettica, e quest’ultima fra insolvenza certa, insolvenza probabile e insolvenza possibile, cfr. S. FORTUNATO, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali cit.,23, il quale giustamente osserva che la crisi, pur nata nell’ottica del paradigma di un’attività economica, “si declina in termini giuridici con le categorie dell’insolvenza, legata più all’ottica patrimonialistica delle sfere patrimoniali inidonee a sopportare il peso delle obbligazioni”.
[10] Fra l’uno e l’altro meritevole di menzione è il parere del Consiglio di Stato del 1° aprile 2022, in cui si proponeva una riformulazione della definizione di crisi quale “stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, che si manifesta con diversi gradi di intensità, attraverso l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”; corrispondentemente si proponeva anche una riformulazione della definizione di insolvenza quale “stato di crisi del debitore che si manifesta con gravi inadempimenti o altri fatti esteriori i quali dimostrino come altamente probabile che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
[11] Data la soppressione dell’avverbio “regolarmente” dalla definizione di “crisi”, giustamente S. AMBROSINI, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. n. 83/2022 cit., 846, ne deduce che ora “si potrà far fronte alle obbligazioni a) non integralmente; b) non puntualmente; c) anche con mezzi non normali di pagamento”; certamente non condivisibile sul punto è invece il giudizio positivo che si legge nella Relazione n. 87 del 15 settembre 2022 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione, la quale, dopo aver ritenuto “quanto mai opportuna” la scelta di confermare la definizione di insolvenza già contenuta nell’art. 5 legge fall., afferma che la soppressione dell’aggettivo (rectius avverbio) “regolarmente” non parrebbe “di particolare momento, dovendosi ritenere che forme di adempimento irregolari, o caratterizzate da modalità pregiudizievoli (si pensi a casi di datio o cessio in solutum fortemente squilibrate) continuino ad essere apprezzabili ai fini di dimostrare il presupposto oggettivo della crisi, come pure dell’insolvenza”.
[12] Da R. RORDORF, Crisi, continuità aziendale, adeguati assetti organizzativi, composizione negoziata: le parole chiave del nuovo Codice (una Prefazione), in Ristrutturazioni aziendali.Il caso.it del 30 novembre 2022, 3.
[13] Fra i tanti mi limito a ricordare G. BRUGGER, I piani di risanamento nel quadro delle prospettive e dei vincoli dell’amministrazione controllata, in Crisi di impresa e amministrazione controllata, a cura di M Cattaneo, F. Cesarini, A. Provasoli e B. Quatraro, Milano, 1986, p.195.
[14] Nel medesimo senso cfr. anche S. FORTUNATO, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali cit.,24, che però in Crisi d’impresa e assetti adeguati nella riforma Cartabia (partendo dal percorso culturale di Alberto Jorio, in Ristrutturazioni aziendali.Ilcaso.it del 23 maggio 2022, 7, considera “migliorativa” la definizione indicata nello schema di decreto legislativo attuativo della Direttiva Insolvency; ugualmente nel senso che la nozione di crisi è ricavata attraverso l’aggancio all’insolvenza cfr. S. AMBROSINI, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. n. 83/2022 cit., 846.
[15] Sul tema cfr. S. AMBROSINI, Classificazione del ceto creditorio, moratoria dei privilegiati e contenuti del piano e dell’attestazione nel concordato preventivo riformato, in Ristrutturazioni aziendali. Ilcaso.it del 6 febbraio 2023, 5 e in Dir. fall., 2023, I, 233 ss., ivi 237, il quale tuttavia ritiene che il persistente utilizzo dell’espressione “trattamenti differenziati” senza ulteriori specificazioni “sembrerebbe consentire che, nell’eventualità di soddisfacimento in denaro, vi siano più classi i cui creditori siano destinati a ricevere la medesima percentuale di pagamento”, “a meno di ritenere che il legislatore abbia invece voluto prescrivere la diversità di trattamento precisamente come invariabile requisito della distinzione in classi e ciò al fine di prevenire il rischio di artificiosa moltiplicazione delle stesse”, osservazione – quest’ultima – che certamente condivido.
[16] Cfr. Cass., 1° marzo 2022, n. 6772 e Cass., 5 aprile 2022, n. 10988, entrambe in Fall., 2022, 1049 ss., con nota di P.F. CENSONI, Il contratto di affitto di azienda nel nuovo concordato preventivo.
[17] D’altra parte un risultato analogo potrebbe riprodursi anche in relazione alla disposizione dell’art. 88, comma 2-bis CCII, secondo cui il tribunale, a determinate condizioni, potrebbe omologare un concordato liquidatorio “anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’articolo 109, comma 1”; sulla trasformazione fittizia della minoranza dei votanti in maggioranza per effetto del cram down fiscale e contributivo cfr. G. D’ATTORRE, La ristrutturazione “coattiva” dei debiti fiscali e contributivi negli adr e nel concordato preventivo, in Fall., 2021, 153 ss., ivi 165 s.
[18] Su cui cfr. M. PERRINO, “Relative priority rule” e diritti dei soci nel concordato preventivo in continuità”, in Dirittodellacrisi.it del 12 dicembre 2022; A. NIGRO, La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società, in Ristrutturazioni aziendali.Il caso.it dell’11 ottobre 2022, 9 s., che giustamente considera non impeccabile la formulazione delle norme; nonché A. ROSSI, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Ristrutturazioni aziendali.Il caso.it del 22 settembre 2022, 8 ss., il quale ritiene l’art. 120-quater CCII applicabile anche al concordato minore (per il quale però non mancherebbero alcuni problemi applicativi), ma non al concordato semplificato o agli accordi di ristrutturazione dei debiti o al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione.
[19] Sul tema, in passato, cfr. D. VATTERMOLI, Concordato in continuità aziendale, Absolute Priority rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm., 2014, I, 331 ss.; e recentemente A. ROSSI, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice cit., 11, secondo i quali i soci, per conservare le loro partecipazioni sociali, dovranno sostanzialmente ricomprarsele ad un prezzo congruo.
[20] “Il piano di ristrutturazione dovrebbe sempre essere adottato se la maggioranza richiesta in ciascuna classe interessata lo sostiene; nondimeno dovrebbe rimanere possibile per un piano di ristrutturazione non adottato dalla maggioranza richiesta in ciascuna classe di poter essere omologato dall'autorità giudiziaria o amministrativa su proposta di un debitore o con l'accordo del debitore. Nel caso di una persona giuridica, gli Stati membri dovrebbero poter decidere se allo scopo di adottare od omologare un piano di ristrutturazione il debitore debba intendersi come il consiglio di direzione della persona giuridica o una determinata maggioranza di azionisti o detentori di strumenti di capitale. In caso di ristrutturazione trasversale dei debiti, il piano per essere omologato dovrebbe essere sostenuto dalla maggioranza delle classi di voto di parti interessate. Almeno una di tali classi dovrebbe essere una classe di creditori garantiti o avere rango superiore alla classe dei creditori non garantiti”.
[21] “Qualora una maggioranza delle classi non sostenga il piano di ristrutturazione, dovrebbe essere possibile che il piano possa comunque essere omologato da almeno una classe di creditori interessati o che subiscono un pregiudizio che, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, riceveranno pagamenti o manterranno interessi o, se previsto dal diritto nazionale, si possa ragionevolmente presumere che ricevano pagamenti o mantengano interessi se fosse applicato l'ordine delle cause legittime di prelazione previsto dal diritto nazionale in caso di liquidazione. In tal caso, gli Stati membri dovrebbero poter aumentare il numero delle classi necessarie per l'approvazione del piano, senza necessariamente imporre che tutte queste classi, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, debbano ricevere un pagamento o mantenere un interesse a norma del diritto nazionale. Tuttavia, gli Stati membri non dovrebbero esigere il consenso di tutte le classi. Conseguentemente, qualora vi siano solo due classi di creditori, il consenso di almeno una classe dovrebbe essere ritenuto sufficiente, se sono soddisfatte le altre condizioni per l'applicazione del meccanismo di ristrutturazione trasversale dei debiti. Per pregiudizio del creditore si intende la riduzione del valore dei suoi crediti”.
[22] Non è chiaro se il tribunale debba valutare (d’ufficio) la sussistenza delle condizioni elencate nel secondo comma dell’art. 112 CCII semplicemente se c’è la “richiesta del debitore” o “il consenso del debitore in caso di proposte concorrenti” o se possa occuparsene solo “in caso di opposizione proposta da un creditore dissenziente”, come parrebbe dal quarto comma di detta norma (secondo cui in tal caso il tribunale dispone la stima del complesso aziendale del debitore “solo se con l’opposizione è eccepita la violazione della convenienza di cui al comma 3 o il mancato rispetto delle condizioni di ristrutturazione trasversale di cui al comma 2”), ovvero in entrambe le ipotesi.
[23] Nella menzionata Relazione n. 87 del 15 settembre 2022 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione si legge (a p. 31) che detto modello “consente di passare al grado inferiore senza aver tacitato completamente i creditori con prelazione superiore, purché questi ultimi comunque ricevano ‘qualcosa in più’ di quelli meno preferiti” e viene fatto il seguente esempio: “fatto 100 il valore dell’attivo in un’ottica liquidatoria, se l’attivo della proposta in continuità è di 150, sino a 100 lo stesso dovrà essere distribuito ai creditori seguendo strettamente l’ordine delle cause legittime di prelazione, mentre il surplus, cioè la quota da 101 a 150 potrà essere attribuito seguendo un ordine preferenziale meno rigido, con parziale deroga all’ordine dei privilegi, a condizione che la classe maggiormente preferita riceva comunque un trattamento più favorevole di quella inferiore, anche se non integralmente soddisfatta”.
[24] Fra le condizioni poste dall’art. 11 della Direttiva, alla lett. b) c’è appunto quella che il piano sia stato approvato “(i) dalla maggioranza delle classi di voto di parti interessate, purché almeno una di esse sia una classe di creditori garantiti o abbia rango superiore alla classe dei creditori non garantiti; oppure, in mancanza, (ii) da almeno una delle classi di voto di parti interessate o, se previsto dal diritto nazionale, di parti che subiscono un pregiudizio, diversa da una classe di detentori di strumenti di capitale o altra classe che, in base a una valutazione del debitore in regime di continuità aziendale, non riceverebbe alcun pagamento né manterrebbe alcun interesse o, se previsto dal diritto nazionale, si possa ragionevolmente presumere che non riceva alcun pagamento né mantenga alcun interesse se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale”; a parte la diversa formulazione della norma rispetto a quella dell’art. 112, comma 2, lett. d) CCII, può non essere irrilevante notare come nella Direttiva le due alternative siano state allocate in modo distinto, ciò che potrebbe offrire un argomento a favore della tesi secondo cui il tribunale possa omologare una proposta concordataria in continuità aziendale anche se approvata da una sola delle classi.
[25] Così anche A. JORIO, Codice della crisi: le categorie del disagio e la responsabilizzazione dell’imprenditore (un’introduzione), in Ristrutturazioni aziendali. Ilcaso.it del 21 settembre 2022, 9, secondo cui “verrà probabilmente un momento nel quale si sentirà l’esigenza di semplificazione”; ebbene, quel momento è già arrivato.
[26] Così A. ROSSI, I soci nella regolazione della crisi cit., 15, in nota 37.