, 19 aprile 2023, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. L’evoluzione normativa degli obblighi degli amministratori nella crisi di impresa. – 2. Gli obblighi funzionali alla rilevazione della crisi: l’istituzione di assetti adeguati. – 3. Gli obblighi funzionali alla gestione della “crisi” e della “insolvenza”: interessi rilevanti e margini di discrezionalità. – 4. Gli obblighi di gestione nella c.d. twilight zone. – 5. Gli obblighi di gestione nella “crisi” in senso stretto. – 6. Gli obblighi di gestione nell’insolvenza reversibile e nell’insolvenza irreversibile.
1. L’evoluzione normativa degli obblighi degli amministratori nella crisi di impresa.
Il tema del ruolo degli amministratori al sopravvenire della crisi di impresa è risalente e ha subito nel tempo una progressiva evoluzione, che vede, oggi, nel contesto del “codice della crisi e della insolvenza” (nel seguito: “Codice della Crisi” o “Codice”) da poco entrato in vigore[1], il suo (forse ancora provvisorio[2]) punto di approdo. In origine, infatti, il diritto societario trattava il problema della patologia della vita dell’impresa avendo esclusivo riguardo all’ipotesi di perdita del capitale sociale oltre il minimo legale, sancendo l’obbligo di rilevazione della causa di scioglimento (per il tramite del meccanismo “ricapitalizza o liquida”: art. 2447 c.c.) unitamente all’obbligo di interruzione dell’attività produttiva in ottica strettamente conservativa e di avvio della fase liquidatoria (art. 2449, commi 1 e 3, c.c. anteriore alla riforma del 2003), che spesso faceva da ponte rispetto all’apertura della procedura fallimentare. L’approccio, in altri termini, era quello di imporre agli organi della società l’interruzione dell’attività e l’avvio di una “gestione” giudiziale del concorso secondo uno schema (spossessamento-liquidazione dell’attivo-eterogestione giudiziaria, dove il dominus delle procedure era il Giudice) ancora influenzato da una impostazione per così dire “arcaica” (: l’art. 674 Codice di Commercio del 1882 imponeva espressamente all’imprenditore che si fosse trovato in stato di cessazione dei pagamenti di “farne dichiarazione” al tribunale per la dichiarazione di fallimento entro “tre giorni dalla cessazione dei pagamenti, compreso quello in cui cessarono”).
Questa struttura si è nel tempo evoluta in un’opposta concezione (poi confluita negli interventi normativi del 2006/2007[3]) declinata nella tensione verso una diversa articolazione: continuità dell’impresa in crisi-conservazione del suo valore-soluzione stragiudiziale della crisi. Siffatto mutamento culturale si accompagna ad una rivisitazione della concezione tradizionale della crisi, penalizzante e colpevolizzante per il debitore (figlia di una visione medioevale dell’istituto della “bancarotta”[4]), e al passaggio a una visione moderna e “neutra” della crisi, intesa come fase naturale della vita dell’impresa (e non come onta dell’imprenditore) che deve essere gestita nell’ottica, ove possibile, di porvi rimedio e conservare il valore dell’impresa. Tale nuovo approccio ha portato, in un primo momento, alla rimozione del divieto di nuove operazioni (sostituito – per utilizzare la lettera della legge – dalla “conservazione” del potere di gestire in capo agli amministratori ai fini “della conservazione e della integrità e del valore del patrimonio sociale”: art. 2486 c.c., così come riformato nel 2003) e all’innesto nella legge fallimentare di strumenti di composizione stragiudiziale della crisi (gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di risanamento) e alla profonda modifica del concordato preventivo, nell’ottica di evitare quanto più possibile la procedura fallimentare. Mancavano, però, nel contesto precedente al Codice della Crisi, norme di espresso “coordinamento” tra il diritto societario e il diritto fallimentare (che restavano percepiti come due sistemi separati e non comunicanti), restando affidato sostanzialmente all’interprete il compito di ricostruire in via sistematica un “diritto societario della crisi”[5] e, con questo, la precisa articolazione degli obblighi degli organi sociali al sopravvenire di segnali di dissesto.
In tale contesto, si inquadra il percorso di riorganizzazione della materia appena conclusosi; percorso che, anche sotto la spinta del legislatore europeo[6], ha forse realizzato una sorta di “sintesi” dei due “opposti” (tesi-antitesi) sopra richiamati (quasi in una “fenomenologia” della disciplina della crisi di impresa): “sintesi” catalizzata, tra il resto, nell’istituto della composizione “negoziata”[7] che, per l’appunto, realizza un ibrido a cavallo fra la pura autogestione della crisi e i presidi propri delle procedure concorsuali, con l’obiettivo del riequilibrio economico-finanziario e del recupero della continuità aziendale da parte degli organi sociali (anche in una situazione di vera e propria insolvenza), con una facilitazione esterna anche poggiata, ove necessario, sul tribunale, ma senza far ricorso ad una gestione processuale/concorsuale della crisi. Una Aufhebung, questa, che è il frutto di un percorso che si potrebbe definire tormentato: dapprima il Codice della Crisi era impostato sul sistema – per la verità un po’ rigido e forse ispirato ad una logica ancorata al “passato” (e comunque già in via di superamento) – della c.d. allerta (connessa a severi automatismi di rilevazione della crisi e a meccanismi di attivazione anche d’imperio degli strumenti di reazione) e della composizione assistita. Successivamente – abbandonato quel modello – il Codice è ritornato sui passi delle moderne evoluzioni, adottando un sistema impostato su una maggiore fiducia nell’autocomposizione della crisi e orientato ad agevolare il risanamento piuttosto che a stimolare una emersione “forzata” della crisi e questo, per l’appunto, principalmente, tramite la figura della composizione negoziata.
Tornando al tema oggetto di specifica osservazione, nel quadro dell’attuale riorganizzazione della materia viene ora espressamente operato il trait d’union normativo tra diritto della crisi e il diritto societario, venendo fissate per la prima volta alcune importanti coordinate normative per una più compiuta disciplina dei doveri dell’organo gestorio nel contesto della crisi di impresa, che si presenta fedele alla sopra descritta operazione di “sintesi” evolutiva.
L’architrave del nuovo sistema – si tratta di una constatazione diffusa – è rappresentato dall’introduzione del dovere di istituire assetti organizzativi ai sensi dell’art. 2086, secondo comma, c.c. che precisa il contenuto del dovere di gestione della crisi, distinguendo due distinte “fasi” in cui si articola detto dovere [i) una fase prodromica, di rilevazione dei segnali di dissesto; e ii) una fase successiva in cui viene operata la scelta delle modalità di reazione idonee al superamento delle tensioni riscontrate], fornendo pure alcune importanti indicazioni, che suggeriscono il rinvio a nozioni tecniche della scienza aziendalistica per il “riempimento” degli obblighi (“la rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e la perdita della continuità aziendale”; “il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”)[8]. Il quadro, poi, si arricchisce con alcune ulteriori coordinate, di importante rilievo sistematico, contenute, in ordine sparso, nel nuovo Codice, il quale (volendo limitare l’attenzione su alcuni aspetti di maggiore significato): fornisce indicazioni di dettaglio circa il contenuto degli assetti organizzativi volti alla rilevazione della crisi; amplia la gamma degli strumenti di soluzione; esplicita gli interessi da perseguire nelle fasi del dissesto (fasi, queste ultime, a loro volta, definite con maggiore rigore rispetto al passato anche per il tramite di una distinzione fra la nozione di “crisi” e quella di “insolvenza”); e, infine, articola una disciplina (che si può definire innovativa) in ordine alla posizione dei soci nella gestione della impresa in difficoltà.
Si tenterà, allora, nel seguito, nei margini (in sé limitati) consentiti da questo intervento e concentrando, per l’appunto, l’attenzione sulle previsioni contenute nel (ed introdotte con il) Codice della Crisi, di fornire una ricostruzione di massima del contenuto degli obblighi in esame, cercando di trarre dal nuovo sistema indicazioni: da un lato, in relazione all’adeguatezza degli assetti organizzativi istituiti dagli amministratori in relazione all’obiettivo di percezione tempestiva de(i segnali) della crisi; dall’altro lato, circa i criteri che devono orientare le decisioni degli amministratori nella selezione e nella conformazione dello strumento di risanamento.
2. Gli obblighi funzionali alla rilevazione della crisi: l’istituzione di assetti adeguati.
Al fine di delineare il contenuto dell’obbligo di istituire assetti organizzativi adeguati alla rilevazione tempestiva della crisi (obbligo gravante in via esclusiva sugli amministratori, in forza di un principio ora “transtipico”: artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies, 2475 c.c.)[9], aiuta ripercorrere l’evoluzione normativa che dimostra un forte legame intercorrente tra detto dovere e, per l’appunto, la riformata disciplina della crisi. Nella versione originaria del Codice, infatti: per un verso, l’art. 3, comma 2, Codice (all’epoca rubricato “doveri del debitore”) ribadiva che “l’imprenditore collettivo deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative”; per l’altro, l’art. 12 richiamava nuovamente gli “obblighi organizzativi posti a carico dell’imprenditore dal codice civile”, inserendoli tra gli strumenti dell’“allerta” (mai divenuta operativa). La lettura congiunta di queste disposizioni aveva indotto i primi commentatori a ricostruire il contenuto “minimo” dell’adeguatezza alla luce della disciplina dell’allerta, affermandosi che gli assetti avrebbero dovuto senz’altro concretizzarsi in procedure di monitoraggio dei c.d. “indicatori” di crisi descritti all’art. 13[10]: gli “squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario” (rilevabili mediante indici che avrebbero dovuto essere elaborati dal CNDCEC) nonché una serie di “ritardi nei pagamenti reiterati e significativi” specificamente individuati[11]. Al contempo, però, sulla scorta della constatazione secondo cui i parametri fissati normativamente per detti indicatori erano calibrati per evidenziare una crisi già in atto, si affermava che detti parametri non potevano considerarsi sufficienti a rilevare i primi segnali di “tensione” al fine di prendere “tempestivamente” le misure necessarie per il risanamento, con l’ulteriore conseguenza che, ai fini del rispetto dell’obbligo in esame, si prospettava pure la necessità di prevedere sistemi di allarme che si attivassero prima rispetto a quanto previsto dagli indicatori (così da rilevare la presenza anche di una situazione di probabile crisi: c.d. pre-crisi o twilight zone)[12].
Nonostante la disciplina entrata in vigore (nel luglio 2022) sia drasticamente diversa da quella appena ripercorsa, va osservato che, sotto il profilo oggetto di specifica osservazione, le modifiche via via apportate al Codice della Crisi hanno sostanzialmente confermato e recepito l’impostazione appena illustrata. Sebbene, infatti, per un verso, sia stata eliminata l’intera disciplina dell’allerta (sostituita dall’istituto – più conforme peraltro alle tendenze in atto – della composizione negoziata della crisi), per l’altro, l’art. 3 (oggi espressamente rubricato “adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi di impresa”) è stato arricchito di due commi che appunto declinano con maggiore dettaglio il contenuto degli assetti organizzativi adeguati alla percezione tempestiva della crisi. Nella disciplina oggi vigente viene, in primo luogo, espressamente stabilito che gli assetti devono essere capaci di “rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore” (art. 3, comma 3, lett. a): formula, questa, che riprende puntualmente il primo dei “vecchi” indicatori della crisi (depurato però della delega al CNDCEC). In secondo luogo, sempre in linea con la richiamata letteratura, si prevede che gli assetti debbano essere in grado di consentire di “verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi e rilevare i segnali di cui al comma 4” (art. 3, comma 3, lett. b): segnali, questi ultimi, che vengono identificati, a loro volta (anche per il tramite di un richiamo all’art. 25-novies, comma 1), nella sussistenza di specifici ritardi nei pagamenti[13]. Anche sotto questo aspetto, l’attuale Codice sembra riprendere il “secondo” indicatore di crisi contemplato nella versione originaria del codice, seppur con alcuni adattamenti volti: da un lato, ad allungare la lista dei debiti scaduti “critici” oggetto di necessaria rilevazione attraverso gli assetti (includendo, tra questi, esposizioni debitorie che, nel sistema dell’allerta, non avrebbero fatto innescare la segnalazione da parte del creditore)[14]; dall’altro, a fissare parametri di “criticità” maggiormente prudenti al fine di consentire l’emersione di una crisi anche solo potenziale e non necessariamente già in essere (assecondando, così, le critiche di “tardività” che erano state avanzate in dottrina)[15]. Nella versione finale del Codice è stato, infine, precisato che gli assetti devono pure consentire di “ricavare le informazioni necessarie a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento” [art. 3, comma 3, lett. c)][16]: strumenti, questi ultimi, di nuova istituzione e che vengono ora imposti ai gestori – in una sorta di procedimentalizzazione del percorso di rilevazione e analisi della crisi[17] – nell’attività di “diagnosi e prognosi” circa lo stato della criticità e le prospettive di recupero e, pertanto, nella ponderazione delle decisioni concernenti la gestione della patologia.
Volendo tirare le fila del discorso, sembra potersi affermare che l’attuale formulazione del Codice (art. 3, commi 3 e 4) segna con una certa chiarezza il contenuto “minimo” degli assetti organizzativi che gli amministratori devono implementare ai sensi dell’art. 2086, comma 2, c.c.: potendosi, a contrario e “in negativo”, concludere, alla luce del vigente sistema, che, qualora le procedure organizzative fissate dagli amministratori non includano forme di monitoraggio sugli indici/segnali appena richiamati, dovrà necessariamente formularsi un giudizio di inadeguatezza degli assetti, con conseguente responsabilità a carico degli amministratori nel caso di mancata e/o tardiva percezione del dissesto. Questa notazione consente pure di assumere con maggiore sicurezza posizione in ordine al problema della applicabilità della BJR all’obbligo di adeguatezza degli assetti[18]: sembra agevole sostenere, infatti, che ricavandosi dal sistema una declinazione analitica e di taglio tecnico della nozione di adeguatezza degli assetti, dovrebbe conseguentemente qualificarsi l’obbligo in esame in termini di dovere a contenuto specifico e soggetto ad una discrezionalità sindacabile, per l’appunto, sotto il profilo tecnico, con conseguente inapplicabilità della BJR. Ne deriva che la decisione degli amministratori circa il contenuto degli assetti potrà essere sindacata in sede di eventuali azioni di responsabilità ed essere oggetto di censura qualora non risulti conforme alle richiamate prescrizioni. Più problematica sembra, per contro, la percorribilità di una conclusione che, “in positivo”, affermi senz’altro l’adeguatezza degli assetti implementati nel rispetto delle indicazioni contenute nel Codice, con la conseguenza che in queste ipotesi agli amministratori non possa essere mosso alcun rimprovero per non aver rilevato tempestivamente la crisi. A questo riguardo, pare in effetti potersi affermare che, se, da un lato, si mostra percorribile una sorta di presunzione di “adeguatezza” degli assetti così implementati, dall’altro, non può escludersi che ricorrano, nella fattispecie concreta, specifici fattori di rischio per la continuità aziendale connessi ad una determinata realtà imprenditoriale (ad es.: perdita di autorizzazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività; perdita dell’unico cliente) che non possono essere (e non sono) tipizzati dalla legge e che senz’altro devono essere monitorati per il tramite di adeguati assetti organizzativi, dovendo configurarsi un profilo di responsabilità qualora gli amministratori abbiano omesso di tenerne conto nell’adempimento del loro dovere.
3. Gli obblighi funzionali alla gestione della “crisi” e della “insolvenza”: interessi rilevanti e margini di discrezionalità.
Una volta rilevata (anche per il tramite degli adeguati assetti organizzativi) la presenza di una crisi in atto o potenziale, viene in rilievo il secondo degli obblighi degli amministratori: quello cioè concernente l’“attivazione” degli strumenti e delle iniziative al fine di porvi rimedio [contenuto nell’art. 2086, comma 2, seconda parte, c.c. e “ripetuto” negli artt. 3, comma 2, e 4, comma 2, lett. b), Codice]. Questo obbligo di reazione – va precisato – non si innesca automaticamente in presenza di un segnale di allerta rilevante: come si è detto, gli assetti adeguati devono essere strutturati in modo da far emergere, non soltanto crisi certe e conclamate, ma pure crisi meramente potenziali (in relazione alle quali non è detto debba essere assunta ancora alcuna iniziativa specifica). Se, da un lato, gli amministratori non possono ignorare la sussistenza del segnale, dall’altro lato, prima ancora di agire, gli stessi sono anzitutto tenuti a fare oggetto il segnale di una specifica valutazione tecnica, al fine di comprendere, per l’appunto, in via preliminare se la criticità emersa sia meramente provvisoria (e sia pertanto destinata a risolversi tramite l’ordinaria prosecuzione dell’attività[19]), oppure se, al contrario, essa sia suscettibile di ulteriori sviluppi negativi. Soltanto in quest’ultimo caso, si attiva l’obbligo di reagire, individuando lo strumento più idoneo per evitare l’aggravarsi del dissesto.
A questo riguardo, si deve osservare che, sebbene anche le scelte di gestione relative alla crisi parevano prima facie assorbite nella generale investitura dell’organo gestorio (art. 2380-bis c.c.), l’impianto normativo delineato dal codice civile (a differenza di quanto si è visto per l’istituzione degli assetti organizzativi) lasciava tuttavia spazi, più o meno ampi, di ingerenza dei soci sull’adozione o sull’esecuzione di tali scelte, soprattutto quando la soluzione della crisi era destinata a passare dalle maglie di operazioni straordinarie o di interventi sul capitale[20].
Tali spazi sono stati drasticamente ridotti dalle nuove (e, si potrebbe definire, “rivoluzionarie”) previsioni del Codice della Crisi, il quale, all’art. 120-bis,esclude tout court i soci dalla competenza alla assunzione delle scelte concernenti la gestione della crisi, assegnandole in via esclusiva agli amministratori (: “l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano”), ai quali è assegnato il potere di “prevedere qualsiasi modificazione dello statuto della società debitrice, ivi inclusi aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni e trasformazioni” (comma 2). Con l’ulteriore previsione – volta ad evitare che i soci possano indirettamente interferire sull’adozione di tali strumenti – che impedisce la revoca degli amministratori in assenza di una giusta causa, precisandosi che “non costituisce giusta causa la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge”. Nel nuovo contesto normativo, in sostanza, l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi, sovverte, di fatto, il rapporto fiduciario che lega gli amministratori ai soci, con conseguenze che si possono ben definire “drastiche” sulla posizione di questi ultimi[21].
L’attuale quadro normativo impone, allora, con maggiore rigore l’interrogativo circa gli spazi di discrezionalità lasciati agli amministratori nella gestione della crisi e nella decisione sulle misure da intraprendere, ponendosi con particolare urgenza (anche attese le conseguenze per i soci che, nel riformato quadro normativo, sono posti nella posizione di “subire” le iniziative dell’organo gestorio) il problema di comprendere quale sia il parametro in base al quale tale discrezionalità vada misurata e, in particolare, di chiarire il rapporto fra i due nuclei di interessi rilevanti – quello dei soci e quello dei creditori – che, nella crisi, tipicamente, si pongono in termini di contrapposizione[22]. Problema questo che aiuta, poi, a risolvere quello, sullo sfondo, dell’ambito di discrezionalità delle decisioni assunte dagli amministratori e dell’applicabilità della BJR. È noto che, a questo riguardo, viene segnalata in letteratura (con diversità di accenti) la necessità che allo stato di crisi sia connesso uno spostamento (c.d. shifting) dell’interesse della società da quello lucrativo dei soci alla continuazione dell’attività nell’ottica di valorizzazione dell’investimento (a prescindere dal tema di come questo venga o meno arricchito dalla concorrenza di interessi “terzi”) a quello conservativo dei creditori (concepiti come i titolari sostanziali del patrimonio della società in crisi, in qualità di residual claimants), con la conseguenza di un mutamento degli obblighi degli amministratori e del loro spazio di discrezionalità nelle decisioni da assumere in situazioni critiche[23]. Il Codice della Crisi è intervenuto espressamente sul punto fornendo alcune importanti (ancorché non sempre univoche) indicazioni che, va subito detto (non potendo, peraltro, in questa sede che fornire alcuni primi e ancora provvisori spunti), sembrano consentire di conformare, con un certo dettaglio, l’interesse rispetto al quale è funzionale l’azione degli amministratori (e pertanto la sfera di discrezionalità agli stessi assegnata) in misura diversa a seconda dei vari “stadi” del dissesto. E questo – va precisato – anche per il tramite di una più rigorosa distinzione dei detti “stadi” e di una più compiuta definizione (sorretta da indicazioni “numeriche”) della nozione di crisi in senso stretto, non più concepita come “macro-insieme” dei fenomeni della patologia dell’impresa[24], ma dotata di una sua autonoma veste[25] e distinta: sia da quella dell’insolvenza[26], da intendersi ora come insolvenza necessariamente già attuale (con esclusione, pertanto, della configurabilità di una insolvenza “prospettica”, risultando assorbita questa nella nuova nozione di crisi[27]) e a sua volta declinabile in due varianti: insolvenza reversibile o irreversibile, a seconda della sussistenza o meno di prospettive di risanamento; sia, ancora, dalla nozione (inedita) della pre-crisi (: probabilità di crisi). In particolare, sembra potersi individuare nel nuovo sistema una sorta di curva decrescente nella quale il margine di discrezionalità si riduce al progredire delle fasi della crisi, in una sorta di climax che vede gradatamente spostarsi il baricentro dell’interesse rilevante da quello della valorizzazione (o del recupero del valore) dell’investimento dei soci a quello “conservativo” dei creditori. Il quadro delle norme rilevanti a questo riguardo può essere così ricostruito.
a) Anzitutto viene in rilievo l’art. 4, comma 2, lett. b) e c), che, fra i principi generali che ora governano la materia, prevede il dovere di “assumere tempestivamente le iniziative idonee alla individuazione delle soluzioni per il superamento delle condizioni di cui all’art. 12 comma 1” (e cioè: le condizioni di “squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza”) e, una volta attivato uno dei procedimenti previsti dal Codice, di gestire l’impresa “nell’interesse prioritario dei creditori”, facendo però espressamente salvo quanto previsto dagli artt. 16, comma 4, e 21 Codice. Queste ultime norme (collocate nell’ambito della disciplina della composizione negoziata della crisi) stabiliscono criteri diversi e più articolati rispetto a quello della secca priorità dell’interesse creditorio[28].
b) La prima disposizione richiamata (art. 16, comma 4) sancisce che “l’imprenditore ha il dovere […] di gestire il patrimonio e l’impresa senza pregiudicare ingiustamente gli interessi dei creditori”: norma, questa, che certamente non funzionalizza la gestione alla prioritaria soddisfazione dei creditori, ma, semplicemente, si limita a “ricordare” che questi non devono essere ingiustamente danneggiati dalle scelte imprenditoriali compiute. Sembra, quindi, dettare un criterio diverso (se non opposto) a quello prescritto nell’art. 4.
c) Di centrale rilievo è, poi, la seconda delle disposizioni richiamate (art. 21), che specifica la precedente. Dopo aver precisato, infatti, che “nel corso delle trattative l’imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa”, la disposizione in esame stabilisce, puntualmente, che: da un lato, “l’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività”; dall’altro lato, “quando, nel corso della composizione negoziata, risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori sociali”. La disposizione – sembra, in effetti, risultare dal chiaro tenore letterale – lascia pienamente intatto il potere di gestione nel contesto della composizione negoziata[29] senza prevedere alcuna limitazione nel caso in cui lo strumento sia avviato in una situazione di crisi potenziale e assegnando, poi, in caso di vera e propria crisi/insolvenza e a seconda della gravità del dissesto, un rilievo più o meno intenso agli interessi dei creditori: nei casi meno gravi di “crisi” le scelte gestorie devono essere volte a non arrecare “pregiudizio alla sostenibilità-economico finanziaria dell’attività”, mentre là dove si versi in uno stato di “insolvenza reversibile” l’interesse del ceto creditorio diviene, a questo punto, “prevalente”. È stato condivisibilmente affermato dai primi commentatori che la disposizione esprime un principio generale applicabile anche fuori dalla composizione negoziata (e, naturalmente fuori dai procedimenti previsti nel Codice, dove si applica il principio dell’art. 4): trattandosi di una prescrizione dettata avendo riguardo ad un contesto (quello, appunto, della composizione negoziata) in cui i poteri-doveri di gestione degli amministratori vengono ex lege “conservati”, non vi è ragione per ritenere applicabili fuori da quel contesto criteri diversi in relazione all’esercizio di quegli stessi poteri-doveri[30].
Cercando, allora, sulla scorta di quanto sopra precisato, di mettere a fuoco con maggiore nitore – ma con un certo grado di inevitabile approssimazione – il sistema che emerge delle norme appena richiamate, pare possibile distinguere quattro distinte fasi, nell’ambito delle quali le aspettative dei creditori assumono via via sempre maggiore rilevanza, conformando diversamente l’obbligo dei gestori e il relativo margine di discrezionalità nelle scelte gestorie: a) la c.d. twilight zone (o pre-crisi); b) lo stato di crisi; c) l’insolvenza rimediabile; d) l’insolvenza irrimediabile.
4. Gli obblighi di gestione nella c.d. twilight zone.
Come accennato, le norme sopra richiamate non sembrano porre alcuna positiva contrazione del potere gestorio in un contesto di crisi soltanto probabile (c.d. twilight zone) anche se viene avviata una “composizione negoziata”. Ed anzi si precisa che, in tale scenario, gli amministratori “conservano” il potere di ordinaria e straordinaria gestione. Sembra, allora, potersi affermare che in questo stadio nulla cambi rispetto all’ordinaria “graduatoria” degli interessi rilevanti per l’impresa (in bonis) esercitata in forma societaria ed operante in una situazione di fisiologia. Resta ferma naturalmente la prescrizione (art. 16), di respiro invero generale, che preclude agli amministratori di arrecare un “ingiusto pregiudizio” al ceto creditorio: prescrizione questa che potrebbe leggersi in coerenza con il rilievo formulato da una parte della dottrina che qualifica la “sostenibilità economico-finanziaria” quale limite esterno alla discrezionalità degli amministratori (operante pure nella fase fisiologica della vita dell’impresa), che impedisce l’adozione (e attuazione) di politiche gestorie che generano rischi (appunto) insostenibili, la cui realizzazione provocherebbe effetti negativi non interamente assorbibili dal patrimonio sociale e, conseguentemente, destinati a riverberarsi negativamente (con ingiusto pregiudizio) su coloro che hanno finanziato, a vario titolo, la società[31]. E questo anche se – deve precisarsi – si registrano importanti tendenze in letteratura orientate ad “interiorizzare” (secondo intensità e accenti diversi) in ogni caso (ed a prescindere dalla crisi) gli interessi degli stakeholder nell’interesse sociale: tema questo che esula dal perimetro di questo intervento.
Ciò posto, la sfera di azione dell’organo gestorio (e all’interno della stessa, la scelta delle misure di reazione alla pre-crisi) può dirsi pienamente coperta dalla BJR, risultando dunque insindacabili le scelte gestorie assunte in questa fase se non nei limiti della manifesta irrazionalità, con una duplice avvertenza. Per un verso, anche in una situazione di pre-crisi deve ritenersi comunque ricorrente una condizione di “delicatezza” e, pertanto – si tratta di considerazione di buon senso –, il livello di rischio delle decisioni gestorie che può considerarsi ragionevole è senz’altro più basso rispetto quello tollerabile nella fase fisiologica della vita dell’impresa. Si potrebbe, allora, pensare che in presenza di segnali di allarme, anche se nella forma più blanda, sia valutato con maggiore rigore il metro della razionalità (o della non manifesta irrazionalità) delle scelte gestorie, imponendosi agli amministratori una maggiore prudenza. Per l’altro, la scelta degli strumenti di reazione all’allarme (e soprattutto la decisione circa il contenuto specifico che viene dato allo strumento scelto), affinché non risulti irragionevole (se non abusiva), deve essere mantenuta in un rapporto di proporzionalità e continenza rispetto al sacrificio imposto ai soci. Sotto quest’ultimo profilo, se da un lato sembra potersi affermare che la decisione di accedere alla composizione negoziata della crisi (consentita, come si è visto, anche in presenza di una crisi meramente potenziale) possa dirsi sempre giustificata (o in ogni caso non manifestamente irrazionale: dunque rimessa alla insindacabile valutazione dei gestori), dall’altro, appare difficilmente conforme ai richiamati limiti della discrezionalità (e forse da considerarsi del tutto precluso agli amministratori) il ricorso ad uno degli strumenti di risoluzione della crisi previsti nel Codice. Non solo perché si tratta di istituti che hanno come presupposto oggettivo la presenza di un vero e proprio stato di crisi e che, come è stato fatto notare, la loro attivazione in una fase di mera pre-crisi potrebbe in concreto “rischiare di tradursi in un eccesso del mezzo rispetto al fine e, conseguentemente, in un potenziale pregiudizio per la società e, in ultima analisi, per lo stesso ceto creditorio”[32], ma soprattutto perché in questo “stadio” la gestione deve ancora essere svolta in bonis nel perseguimento dell’“ordinario scopo lucrativo” (comunque questo sia inteso), mentre, per contro, gli istituti in questione implicano – come si è visto – il perseguimento in via prioritaria dell’interesse dei creditori (art. 4). Ammettere l’attivazione di uno di tali strumenti in una fase di pre-crisi significherebbe assegnare agli amministratori la discrezionalità di “scegliere” (in via insindacabile) a quale interesse dare priorità e, nel vigore della nuova disciplina, di “sciogliersi” unilateralmente dal rapporto fiduciario che li lega ai soci sottraendo a questi ultimi i poteri di revoca (art. 120-bis, comma 4, Codice). Se quanto appena affermato è corretto, dovrebbe potersi affermare, simmetricamente, che l’accesso, in queste circostanze (: crisi meramente potenziale), a uno strumento di risoluzione della crisi deve considerarsi un abuso da parte degli amministratori[33].
5. Gli obblighi di gestione nella “crisi” in senso stretto.
Nelle ipotesi in cui i segnali di allerta facciano emergere una situazione di vera e propria “crisi” [come definita dall’art. 2, comma 1, lett. a)], il limite alla discrezionalità degli amministratori si rafforza, essendo gli stessi tenuti – come sopra osservato – ad orientare la gestione “in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività”. In questo contesto, il criterio della “sostenibilità economico-finanziaria”, richiamato espressamente come limite alla discrezionalità gestoria, sembra assumere maggiore pregnanza, qualificandosi come limite interno all’agire: il fine che deve guidare le scelte gestorie relative alla crisi. Si assiste, pertanto, a una variazione qualitativa degli obblighi degli amministratori, i quali, sebbene non debbano (né possano) ancora limitarsi a una gestione meramente conservativa del patrimonio sociale nell’esclusivo (o preordinato) interesse dei creditori (divenendo questo prioritario solo in ipotesi di insolvenza), sono chiamati (non più ad assumere rischi per generare ricchezza, bensì) ad orientare le scelte nella direzione del recupero della continuità aziendale e della capacità dell’impresa di produrre reddito, operando un bilanciamento tra i due interessi contrapposti: quello dei soci al valore del proprio investimento e quello dei creditori alla soddisfazione del proprio credito. In questa fase, in cui ancora è ancora forte la prospettiva della salvaguardia dei valori dell’impresa (anche in un’ottica di crescita), non si realizza quello “spostamento” del baricentro del rapporto fiduciario dai soci ai creditori[34], sì che gli amministratori continuano a dover soddisfare l’interesse dei soci al (recupero e alla massimizzazione di) valore del proprio investimento. Tuttavia, il pericolo a cui risultano esposti i creditori (di non rientrare della propria esposizione) in conseguenza della crisi vincola la prosecuzione dell’attività di impresa al rispetto di un criterio prudenziale, che protegga parallelamente pure la posizione di questi ultimi[35]. Ne dovrebbe, allora, conseguire che, in questo frangente, la discrezionalità imprenditoriale non possa più ritenersi pienamente protetta dalla BJR, che impedisce di sindacare le scelte imprenditoriali (quindi rischiose), se non là dove siano manifestamente irrazionali. Sembra per contro potersi sostenere, sulla scorta della disposizione in esame, che le decisioni gestorie assunte dagli amministratori potranno essere sindacate ex post, per l’appunto, secondo il metro (di taglio tecnico/aziendalistico) della compatibilità delle stesse scelte alla “sostenibilità economico/finanziaria”, dovendosi ritenere illegittime quelle decisioni che risultino oggettivamente non conformi a detto criterio. E lo stesso criterio deve anche prendersi in considerazione nella scelta circa l’attivazione o meno di uno strumento di soluzione della crisi, attivazione questa che: per un verso, deve ritenersi certamente ammissibile (: nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che la “crisi”, tecnicamente intesa, è presupposto sufficiente per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi) e pure doverosa se strettamente necessaria al fine di non pregiudicare (e, pertanto, di perseguire) la sostenibilità della gestione economico/finanziaria; per l’altro, in caso di attivazione, il contenuto dello strumento adottato (la manovra economico/finanziaria) dovrebbe essere congegnata avendo puntuale riguardo alla fine della sostenibilità, senza porre sacrifici per la compagine sociale che non siano a quest’ultimo funzionali e/o proporzionali; per l’altro ancora, per contro, deve essere tout court evitata, anche per preservare la posizione dei soci (che verrebbe pregiudicata dall’avvio dello strumento), qualora l’attivazione dovesse essere superflua sempre allo stesso fine.
A quest’ultimo proposito, deve ricordarsi che, ai sensi del sopra richiamato art. 4, lett. c), l’accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza impone ex lege di perseguire il prioritario interesse dei creditori. Ora, questa previsione si pone in termini problematici proprio quando questo accesso non avvenga in uno stato di insolvenza (dove – lo si è accennato e si tornerà subito in appresso – è prodotto lo shifting del rapporto fiduciario dai soci ai creditori) ma in uno stato di crisi (insolvenza solo probabile), stato, questo, nel quale l’art. 21 non impone, come si è appena rilevato, la prevalenza dei creditori rispetto ai soci (perché ancora è predominante la prospettiva di salvaguardia e di crescita dei valori dell’impresa e dell’investimento), ma solo la compatibilità alla sostenibilità economico/finanziaria. Per ridurre allora la probabile incoerenza sistematica (incoerenza che, forse, richiederebbe un intervento correttivo precisando che nel caso di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi in mancanza di uno stato di insolvenza, ma in presenza di una condizione di mera crisi, non è imposta una gestione nel prioritario interesse dei creditori), si potrebbe sostenere che quando lo strumento di soluzione viene attivato in una situazione di crisi (e non di insolvenza), sia imposto agli amministratori di scegliere un percorso di risanamento che, nel tentare di preservare/recuperare la continuità aziendale, tenga in debito conto l’interesse dei soci bilanciandolo con quello dei creditori. Ed in questo senso, allo stesso modo, si potrebbe ritenere illegittimo – in una situazione di crisi e non di insolvenza – che gli amministratori (qualora non sia strettamente necessario) diano allo strumento di ristrutturazione prescelto un contenuto particolarmente invasivo rispetto alla posizione dei i soci, dovendo pertanto contenere l’utilizzo delle prerogative ora riconosciute dall’art. 120-bis, comma 2 (che, come si è visto, consente di modificare la struttura finanziaria della società anche in assenza di una deliberazione dei soci) nella misura strettamente funzionale al fine della sostenibilità economico/finanziaria.
6. Gli obblighi di gestione nell’insolvenza reversibile e nell’insolvenza irreversibile.
Lo scenario cambia ulteriormente qualora venga rilevato, per il tramite degli adeguati assetti organizzativi, un segnale che implica uno stato di insolvenza [l’art. 2, comma 1, lett. b), Codice], ma comunque vi sia motivo di ritenere che sussistono concrete prospettive di risanamento[36]. Si è ricordato che l’art. 21 Codice della Crisi consente di affermare, in termini generali (nel contesto o meno di una composizione negoziata), che, in caso di crisi reversibile: da un lato, gli amministratori “conservano” il pieno potere gestorio, ma, dall’altro lato, lo stesso deve essere funzionalizzato al “prevalente interesse dei creditori sociali”. Sotto il primo profilo, è evidente la rottura con l’impostazione “tradizionale” (precedente alla riforma del 2006) che imponeva all’imprenditore insolvente di interrompere la gestione e “portare i libri in tribunale”: nell’attuale scenario normativo – in linea con le moderne tendenze – la possibilità di riportare l’impresa in bonis e garantire la prosecuzione dell’impresa giustifica una “fiducia” agli amministratori, legittimando (eventualmente anche per il tramite di un’istanza di accesso alla composizione negoziata e, per questa via, della sospensione dell’operatività delle cause di scioglimento eventualmente connesse alla perdita del capitale) a proseguire l’attività e a mantenere il controllo sulla gestione. A questa legittimazione fa da pendant una ulteriore e significativa restrizione dei margini di discrezionalità, posto che non basta più compiere scelte prudenti in un’ottica di bilanciamento degli interessi di soci e creditori (e cioè in conformità allo scopo della sostenibilità economico/finanziaria), ma diviene necessario che le decisioni gestorie siano conformi al prevalente interesse di questi ultimi. Lo scopo verso il quale orientare l’intera gestione non è più quello dei soci al recupero del valore dell’investimento, ma diviene il migliore soddisfacimento delle ragioni dei creditori esistenti al momento del conclamarsi della insolvenza (ancorché reversibile) seppure per il tramite della continuazione della impresa (e non della conservazione del suo residuo valore in un’ottica liquidatoria). È stato, tuttavia, correttamente osservato che, anche in questo contesto, l’interesse dei soci non può essere semplicemente “pretermesso” nella ponderazione delle scelte gestorie: l’interesse creditorio viene infatti qualificato come “prevalente” e non certo esclusivo, il che implica il potere/ dovere degli amministratori di ponderarlo con gli altri interessi coinvolti e costituzionalmente rilevanti (tra cui quelli dei soci e dei lavoratori) che – secondo quanto è stato condivisibilmente sostenuto – comunque non possono essere irragionevolmente pregiudicati[37].
Quest’ordine di considerazioni consente, quindi, di fissare alcuni punti circa la discrezionalità degli amministratori nella selezione della strada da percorrere per il risanamento. Sembra possibile affermare che, in presenza di una insolvenza reversibile, sia configurabile, di regola, un obbligo di avviare, quanto meno, un procedimento di composizione negoziata. La conclusione pare, per così dire, “forzata” in tutti casi in cui (come di consueto avviene) la società abbia perso integralmente il capitale: là dove, infatti, in queste ipotesi, la migliore soddisfazione delle ragioni creditorie implichi la prosecuzione dell’attività (in un’ottica di risanamento), diviene necessario, in primo luogo, bloccare gli effetti della causa di scioglimento e il doveroso innescarsi del procedimento di liquidazione del patrimonio sociale: risultato, questo, ottenibile (se non attraverso la presentazione di un’istanza di omologazione di un accordo di ristrutturazione o di concordato preventivo – artt. 64 e 89 – quanto meno, per l’appunto) tramite l’accesso alla composizione negoziata della crisi (art. 20, comma 1, Codice). Un secondo profilo problematico riguarda i limiti di discrezionalità degli amministratori nell’individuare i contenuti del piano di risanamento e, segnatamente, in quali circostanze si può ammettere che questo preveda le operazioni indicate all’art. 120-bis, comma 2, capaci di ledere significativamente gli interessi dei soci. Al riguardo, la notazione secondo cui l’interesse dei creditori è prevalente, ma non l’unico da considerare nell’ambito del risanamento, porta a ritenere che soluzioni così drastiche possano essere percorse dagli amministratori soltanto là dove rispondano a un criterio di ragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle altre opzioni percorribili che non comportino uguale sacrificio per soci. E la scelta di attivare strumenti capaci di imporre un elevato sacrificio ai soci, non può dirsi ragionevole e proporzionale ogniqualvolta esista la possibilità di offrire una pari soddisfazione ai creditori mediante piani di ristrutturazione che, al contempo, conducano a un minore pregiudizio per i soci. In tali circostanze, sulla scorta di quanto affermato, la scelta più invasiva potrebbe allora considerarsi abusiva[38].
Venendo, infine, all’ipotesi di dissesto più grave, l’insolvenza, cioè, ormai divenuta irreversibile, qui gli spazi di manovra degli amministratori si riducono drasticamente fino a sostanzialmente eliminarsi. In questa situazione, si può dire che agli amministratori resta solo la scelta tra liquidazione giudiziaria o l’accesso ad uno degli strumenti di regolazione della insolvenza previsti dall’ordinamento, nell’ambito dei quali, ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. c), il patrimonio deve essere gestito “nell’interesse prioritario dei creditori” in un’ottica di liquidatoria: scelta che, in ogni caso e a sua volta, deve essere condotta sempre dando prevalenza agli interessi dei creditori alla migliore soddisfazione delle proprie ragioni. Restano ferme però le considerazioni svolte al termine del paragrafo precedente circa la permanente necessità di ponderare, secondo il metro della ragionevolezza, l’interesse dei creditori con altri interessi rilevanti (tra i quali quelli dei soci), che non devono essere, appunto, irragionevolmente pregiudicati[39], con la precisazione che in tali circostanze gli spazi in cui può ritenersi irragionevole la scelta degli amministratori di perseguire soluzioni che comportino un impatto drastico sulla posizione dei soci si riducono notevolmente, fino a quasi del tutto scomparire, atteso che in una situazione di insolvenza irreversibile si è già definitivamente realizzata la perdita dell’investimento.
[1] Il Codice della Crisi è stato introdotto – in attuazione della l. 19 ottobre 2017, n. 1 .5 – con il d.lgs. 10 gennaio 2019, n. 14 che, come noto, prima della sua integrale entrata in vigore [avvenuta il 15 luglio 2022 (a seguito di vari rinvii operati dai d.l. 8 aprile 2020, n. 23, d.l. 24 agosto 2021, n. 118 e, da ultimo, dall’art. 42 d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito in l. 29 giugno 2022, n. 79)], ha subito importanti modifiche per effetto di due importanti interventi che hanno profondamente mutato l’impianto originario: il primo per il tramite di un “decreto correttivo” (d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147) emanato in forza della originaria legge delega; il secondo con l’attuazione della c.d. Direttiva Insolvency da parte del d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83.
[2] La l. n. 20/2019 delega il Governo ad apportare ulteriori modifiche al Codice (secondo i principi dell’originaria delega della l. n. 155/2017) fino al luglio 2024.
[3] D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (riforme, queste, che erano state precedute dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con la l. 23 febbraio 2006).
[4] Portale, Dalla ‘pietra del vituperio’ alle nuove concezioni del fallimento e delle altre procedure concorsuali, in BBTC, 2010, I, 389 ss.
[5] Su questa “categoria” del diritto: Tombari, Principi e problemi di “diritto societario della crisi”, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, 3, Torino, 2014, 2835 ss.; in toni critici: Sacchi, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale inutile o dannosa?, in NLCC, 2018, 1286 ss. In relazione al tema degli obblighi degli amministratori in fase di crisi v., prima del codice del codice della crisi, ex multis: Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, in Diritto societario e crisi di impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, 109; Montalenti, I doveri degli amministratori, degli organi di controllo e della società di revisione nella fase di emersione della crisi, ivi, 40; Maugeri, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), in ODC, 2014, 20; Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, 2015; Luciano, La gestione della s.p.a. nella crisi preconcorsuale, Milano, 2016.
[6] Con la Direttiva (UE) 2019/1023 (c.d. Direttiva Insolvency).
[7] Introdotta con il d.l. 118/2021, con l. 147/2021 (e confluita nel Codice della Crisi) in linea con omologhi istituti introdotti in altri ordinamenti europei. In Germania: Sanierungsmoderation (§§ 94 ss. StaRUG), cfr. Hoegen, Die Sanierungsmoderation, in NZI-Beilage, 2021, 59 ss., Blümle-Erbe, Dritter Teil. Sanierungsmoderation (§ 94 - § 100), in Unternehmensstabilirsierungs- und–-restrukturierungsgesetz (StaRUG) – Kommentar, a cura di Braun, Monaco di Baviera, 2021; da segnalare che il legislatore tedesco a sua volta si ispira all’istituto della conciliation ai sensi dell’art. L. 611-4 ss. del Code de commerce francese, cfr. Arnold, Slavik, “La boîte à outils française” und seine Einflüsse auf das StaRUG, in NZI-Beilage, 2021, 79 ss.
[8] Tra i molti contribuiti dedicati alla nuova norma, si segnalano, senza pretesa di esaustività: Ginevra, Tre questioni applicative in tema di assetti adeguati nella s.p.a., in BBTC, 2021, I, 552 ss.; Ginevra, Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in NLCC, 2019, 1216 ss.; Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 266; Calandra Buonaura, Corretta amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella società per azioni, in Giur. comm., 2021, I, 441; Bastia, Ricciardiello, Gli adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi: tra principi generali e scienza aziendale, in BIS, 2020, 359; Benazzo, Il codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. soc., 2019, 274 s.; Fortunato, Codice della crisi e codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. soc., 2019, 956; Montalenti, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giur. comm., 2020, I, 829; Rordorf, Doveri e responsabilità degli organi di società alla luce della crisi di impresa e insolvenza, in Riv. soc., 2019, 929; Santagata, Assetti organizzativi adeguati e diritti particolari di “ingerenza gestoria” dei soci, in Riv. soc., 2020, 1455 ss.; Presciani, (voce) Assetti Organizzativi d’impresa, in Digesto delle discipline privatistiche (sez. comm.), Agg. IX, Torino, 2022, 1 ss.; Mirone, Assetti organizzativi, riparti di competenze e modelli di amministrazione: appunti alla luce del “decreto correttivo” al Codice della crisi e dell’insolvenza, in Giur. comm., 2022, I, 183 ss.; Id., L’organizzazione dell’impresa societaria alla prova del codice della crisi: assetti interni, indicatori e procedure di allerta, in ODC, 2020, 26. Sul tema degli assetti organizzativi, prima dell’inserimento dell’art. 2086, co. 2, c.c. si era già espressa la dottrina, trattando delle previsioni di cui agli artt. 2381, commi 3 e 5 e 2403 c.c.: Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, I, 5 ss.; Irrera, Assetti adeguati e governo delle società capitali, Milano, 2005; Kutufà, Adeguatezza degli assetti e responsabilità gestoria, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, 709; e v. anche l’opera collettanea: Aa.Vv., Assetti adeguati e modelli organizzativi nella corporate governance delle società di capitali, diretto da Irrera, Bologna, 2016.
[9] Su tale principio: Santagata, Assetti organizzativi, cit., 1455 ss.; Mirone, Assetti organizzativi, cit., 183 ss.; Presciani, (voce) Assetti organizzativi d’impresa, cit., 11; con specifico riguardo alle società di persone Capelli, La gestione delle società di persone dopo il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: una prima lettura del nuovo art. 2257, primo comma, c.c., in ODC, 2020, 325.
[10] Rordorf, Doveri, cit., 933; Benazzo, Il codice, cit., 284; Presciani, (voce) Assetti organizzativi d’impresa, cit., 6.
[11] In particolare, l’art. 13 rinviava ai ritardi nei pagamenti indicati all’art. 24, ossia “a) l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno sessanta giorni per un ammontare pari ad oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno centoventi giorni per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti”. Accanto a tali profili che – secondo la citata impostazione – avrebbero dovuto essere monitorati mediante gli assetti adeguati, il sistema dell’allerta (come originariamente progettato e, lo si ripete, mai entrato in funzione) prevedeva pure degli obblighi di segnalazione in capo: da un lato, alle banche, tenute ad avvisare gli organi societari della revisione o revoca degli affidamenti in essere (art. 14, comma 4); dall’altro lato, ai c.d. creditori pubblici qualificati (INPS e Agenzia delle entrate, agenti di riscossione delle imposte), tenuti a informare il debitore della presenza di “esposizioni debitorie rilevanti”, da considerarsi tali, “ a) per l’Agenzia delle entrate, quando l’ammontare totale del debito scaduto e non versato per l’imposta sul valore aggiunto […], è superiore ai seguenti importi: euro 100.000, se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente non è superiore ad euro 1.000.000; euro 500.000, se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente non è superiore ad euro 10.000.000; euro 1.000.000 se il volume di affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno precedente è superiore ad euro 10.000.000; b) per l’Istituto nazionale della previdenza sociale, quando il debitore è in ritardo di oltre sei mesi nel versamento di contributi previdenziali di ammontare superiore alla metà di quelli dovuti nell’anno precedente e superiore alla soglia di euro 50.000; c) per l’agente della riscossione, quando la sommatoria dei crediti affidati per la riscossione dopo la data di entrata in vigore del presente codice, autodichiarati o definitivamente accertati e scaduti da oltre novanta giorni superi, per le imprese individuali, la soglia di euro 500.000 e, per le imprese collettive, la soglia di euro 1.000.000” (art. 15).
[12] Benazzo, Il codice, cit., 287; Mirone, L’organizzazione, cit., 41; Presciani, (voce) Assetti Organizzativi d’impresa, cit., 6 s.
[13] L’attuale art. 3, comma 4, Codice fa riferimento a “a) l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni; b) l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti; c) l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di sessanta giorni o che abbiano superato da almeno sessanta giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purché rappresentino complessivamente almeno il cinque per cento del totale delle esposizioni”; d) l’esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’articolo 25-novies, comma 1”il quale ultimo richiama una serie di debiti “critici” per i quali, peraltro, è previsto l’obbligo di segnalazione agli organi della società (art. 25-novies) in crisi da parte degli stessi creditori (c.d. creditori pubblici qualificati: INPS, INAIL, Agenzia delle entrate, Agenzia delle riscossioni). Più nel dettaglio, si tratta di debiti: a) verso l’INPS per contributi previdenziali, scaduti da almeno 90 giorni di ammontare superiore“1) per le imprese con lavoratori subordinati e parasubordinati, al 30 per cento di quelli dovuti nell’anno precedente e all’importo di euro 15.000; 2) per le imprese senza lavoratori subordinati e parasubordinati, all’importo di euro 5.000” (art. 25-novies, co. 1, lett. a); b) verso l’INAIL per premi assicurativi scaduti da oltre novanta giorni e di importo superiore a euro 5.000 (art. 25-novies, co. 1, lett. b); c) verso l’Agenzia delle entrate per IVA di ammontare superiore a 20.000 euro, oppure superiore a 5.000 euro se tale minore somma è pari ad almeno il 10% dell’ammontare del volume d’affari risultante dalla dichiarazione relativa all’anno d’imposta precedente; (art. 25-novies, co. 1, lett. c); d) affidati per la riscossione all’Agenzia delle entrate-Riscossione, scaduti da oltre novanta giorni, superiori, per le imprese individuali, all’importo di euro 100.000, per le società di persone, all’importo di euro 200.000 e, per le altre società, all’importo di euro 500.000 (art. 25-novies, co. 1, lett. d).
[14] Ad esempio, nella versione definitiva del Codice della Crisi, si è data rilevanza (anche ai fini dell’adeguatezza degli assetti) pure ai debiti scaduti verso l’INAIL.
[15] Così sono stati considerati “rilevanti” pure debiti scaduti da meno tempo (ad es. il ritardo “critico” per i debiti per retribuzioni è passato da trenta a sessanta giorni, per i debiti verso i fornitori lo stesso è stato abbreviato da centoventi giorni a novanta; inoltre, gli obblighi di segnalazione in capo all’INPS scattano già al novantesimo giorno dalla scadenza ritardo e non più dopo sei mesi) o di ammontare più contenuto (ad es. i debiti IVA verso l’Agenzia delle entrate, per i debiti verso INPS, debiti affidati alla Agenzia delle entrate-Riscossione). Cfr. le disposizioni riportate alle note 11 e 13.
[16] L’art. 13, commi 1 e 2, Codice prevede l’istituzione, in attuazione della Direttiva Insolvency, “una piattaforma telematica nazionale accessibile agli imprenditori iscritti nel registro delle imprese attraverso il sito istituzionale di ciascuna camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura”, nella quale è resa “disponibile una lista di controllo particolareggiata, adeguata anche alle esigenze delle micro, piccole e medie imprese, che contiene indicazioni operative per la redazione del piano di risanamento e un test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento accessibile da parte dell’imprenditore e dei professionisti dallo stesso incaricati”; affidando ad un successivo decreto dirigenziale del Ministero della giustizia il compito di definire “il contenuto della piattaforma, la lista di controllo particolareggiata, le indicazioni per la redazione del piano di risanamento e le modalità di esecuzione del test pratico”. Il decreto richiamato nella norma è stato emanato dal Ministero della Giustizia il 28 settembre 2021, con lo scopo di fornire indicazioni all’imprenditore ed all’esperto su come debba essere condotto il tentativo di risanamento attraverso la fase di composizione negoziata della crisi. Alla luce del decreto ministeriale il test pratico ha una funzione di “auto-diagnosi” al fine di consentire di valutare lo stato di difficoltà e, quindi, la “complessità” del risanamento, sostanzialmente per il tramite di un unico indicatore di riferimento: il rapporto debito da ristrutturare / flussi da destinare alla sua copertura. La lista di controllo (o check list), invece, costituisce uno strumento di “auto-prognosi”: fornisce indicazioni di dettaglio volte a consentire i) un controllo delle assunzioni e dei dati prospettici utilizzati nel redigere il piano di risanamento e ii) la verifica della sua adeguatezza. Sul punto, con maggiori dettagli sul contenuto tecnico degli strumenti, cfr. Ranalli, Le indicazioni contenute nella piattaforma: il test, la check-list, il protocollo e le possibili proposte, 26 novembre 2021, in www.dirittodellacrisi.it.
[17] Procedimentalizzazione nella quale è assegnato dalla legge un ruolo determinante anche all’organo di controllo (art. 25-octies), con l’attribuzione di una funzione di impulso ad alcuni “creditori pubblici qualificati” (art. 25-novies).
[18] Prima delle recenti modifiche apportate al codice, si erano espressi nel senso di una sostanziale applicazione del principio di insindacabilità: Benedetti, L’applicabilità della business judgement rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Riv. soc., 2019, 413 ss.; Formisani, Business judgement rule e assetti organizzativi: incontri (e scontri) in una terra di confine, in RDS, 2018, 479 ss.; Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2021, 594; Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in NLCC, 2019, 1166, Trib. Roma, 15 settembre 2020, in Dejure; Trib. Roma, 8 aprile 2020, in BBTC, 2021, II, 278 ss. In senso opposto, altra parte della dottrina, sottraeva le scelte in esame al principio della insindacabilità: Ginevra, Presciani, Il dovere, cit., 1237; Calandra Buonaura, Amministratori, cit., 12; Mirone, L’organizzazione, cit., 35; Montalenti, Il Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Aa.Vv., Crisi d’impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo codice e nuova cultura, a cura di Montalenti e Notari, Milano, 2021, p. 26; Presciani, (voce) Assetti, cit., 16.
[19] Si pensi, ad esempio, alla presenza debiti scaduti “critici” destinati ad essere coperti da un imminente e sicuro incasso.
[20] Sul punto, di recente: Scognaruglio, Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa. Prime riflessioni, in Il nuovo diritto delle Società, 2022, 1163; Benedetti, La posizione dei soci nel risanamento della società in crisi: dal potere di veto al dovere di sacrificarsi (o di sopportare) (Aufopferungs o Duldungspflicht)?, in RDS, 2017, 755 ss.; Michieli, Il ruolo dei soci nelle procedure di composizione della crisi, in Riv. soc., 2021, 850 ss.
[21] Rossi, I soci nella regolazione della crisi della società debitrice, in Società, 2022, 945 ss.; Scognamiglio, Viola, I soci nella ristrutturazione dell’impresa, cit., 1163; Arato, Il ruolo di soci e amministratori nei quadri ristrutturazione preventiva, 2022, www.dirittodellacrisi.it; Brogi, I soci e gli strumenti di regolazione della crisi, in Fallimento, 2022, 1290.
[22] È noto, infatti, che con il sopravvenire del dissesto, i due interessi in questione (dei soci e dei creditori) possono porsi in un rapporto conflittuale, giacché i soci, avendo ormai perso integralmente il proprio investimento, potrebbero essere tentati di appoggiare iniziative altamente rischiose a discapito dei creditori.
[23] Cfr. anche per altri richiami: Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in NLCC, 2019, 1166; Sacchi, Sul così detto “diritto societario della crisi”, cit., 1286; sul tema v. anche Mucciarelli, Doveri degli amministratori di società in crisi, lex concursus e sovranità nazionale, in NLCC, 2020, 698 ss.
[24] Come, invece, era previsto nel regime previgente al Codice in seguito al d.l. 14 marzo 2005, n. 3 (convertito in l. n. 51/2006). Sul punto: Presti, Stato di crisi stato di insolvenza, in Cagnasso e Panzani (diretto da), Crisi di impresa e procedure concorsuali, I, Torino, 2016, 400 ss.
[25] Definita ora dall’art. 2, comma 1, lett. a) Codice come “lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”.
[26] Definito dall’art. 2, comma 1, lett. b), Codice come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
[27] Cfr. Trib. Milano, 9 aprile 2019, in Giur. comm., 2020, II, 1468, con nota di Jorio, Sulle nozioni di crisi e di insolvenza prospettica.
[28] Su tali disposizioni: Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori di s.p.a. e sulle azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi e della “miniriforma” del 2021, in Ristrutturazioni Aziendali, 2021, 22; Id., La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, ivi, 2021, 4; Panzani, I doveri delle parti, in Studi sull’avvio del Codice della Crisi. Speciale riforma, a cura di De Simoni, Fabiani, Leuzzi, 2022, 25 s., www.dirittodellacrisi.it. Va osservato, fin da subito, che il richiamo delle norme in questione (inserito con l’ultimo decreto correttivo del codice della crisi) sembra precludere ora una interpretazione estensiva dell’art. 4 (cfr. in questa direzione: Cian, Crisi dell’impresa, cit., 1166) che imponga di anteporre gli interessi dei creditori a quelli dei soci già ai primi stadi della crisi.
[29] Nell’ambito della composizione negoziata della crisi, infatti, nessuna prerogativa gestoria è riconosciuta all’esperto, nemmeno in termini di veto rispetto ad atti potenzialmente dannosi per i creditori. L’art. 21, commi 2-3-4, Codice, infatti, riconosce all’esperto dei meri poteri di moral suasion, che si risolvono: i) nella possibilità di segnalare agli organi sociali (c.d.a. e collegio sindacale) la propria contrarietà rispetto al compimento di certi atti di straordinaria amministrazione idonei ad “arrecare pregiudizio ai creditori, alle trattative o alle prospettive di risanamento”; ii) il potere (dovere) di iscrivere il proprio dissenso nel registro delle imprese qualora l’atto sia comunque compiuto. Per il rilievo che nell’ambito della composizione negoziata non vi sia alcuno spossessamento v. Ambrosini, Appunti, cit., 26; Id., La nuova composizione, cit., 4; Panzani, I doveri, cit., 26.
[30] Ambrosini, Appunti, cit., 23; Panzani, I doveri, cit., 28.
[31] Ginevra, Tre questioni applicative, cit., 557;Ginevra, Presciani, Il dovere, cit., 1226; Presciani, (voce) Assetti organizzativi d’impresa, cit., 7.
[32] Ambrosini, Appunti, cit., 25; Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi, cit., 595.
[33] In questo senso, cfr. il Considerando 24 della Direttiva Insolvency: “onde evitare abusi dei quadri di ristrutturazione, è opportuno che le difficoltà finanziarie del debitore presentino una probabilità di insolvenza” e, dunque, che l’impresa verta in una situazione di crisi in senso stretto, e non soltanto di una mera pre-crisi.
[34] Ambrosini, Appunti, cit., 23, il quale precisa che “l’unica previsione operante in materia depone perspicuamente nel senso che gli amministratori di società sono tenuti a perseguire l’interesse prevalente dei creditori solo al cospetto di uno stato d’insolvenza, ancorché reversibile quale tipicamente (e necessariamente) è l’insolvenza presupposta dalla composizione negoziata”; Ricciardiello, La crisi dell’impresa di gruppo tra strumenti di prevenzione e di gestione, Milano, 2020, 136, il quale afferma che “l’eccessiva anticipazione di una gestione conservativa può configurare persino profili di responsabilità degli amministratori alla stessa stregua di un ritardo nell’accesso a procedure di risoluzione della crisi”.
[35] Mucciarelli, Doveri, cit., 710, secondo il quale, in fase di crisi, è fatto divieto agli amministratori di “innalzare il profilo di rischio dell’impresa”; analogamente Cian, Crisi, cit., 1169.
[36] Valutazione, questa, che, ai sensi del nuovo art. 3, comma 3, lett. c), Codice, gli assetti organizzativi devono consentire di operare con una certa facilità, fornendo tutti i dati necessari a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento di cui all’articolo 13, al comma 2.
[37] D’Attorre, Le regole di distribuzione del valore, in Fallimento, 2022, 10 ss., secondo cui “nella liquidazione giudiziale si possono rinvenire una pluralità di norme (…) che (…) possono assumere un rilievo sistematico, concorrendo a definire un principio generale del sistema, operante già nell’attuale tessuto normativo. Il principio generale si radica nel riconoscimento che l’interesse dei creditori, obiettivo primario della procedura di liquidazione giudiziale, deve contemperarsi con altri interessi di pari rilevanza costituzionale. La concomitante presenza di plurimi interessi rilevanti impone la ricerca di un punto di equilibrio che non risolve i conflitti nella meccanica affermazione dell’uno e nella negazione dell’altro, ma nella doverosa ponderazione, attuata secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. In ragione di ciò, non sempre la liquidazione dell’attivo deve avere come obiettivo primario la massimizzazione del ricavato, dovendosi talvolta legittimamente perseguire un risultato sub-ottimale, se necessario per la tutela degli interessi-altri e ferma la tutela del contenuto minimo garantito dell’interesse dei creditori, rappresentato da quanto avrebbero conseguito senza la liquidazione giudiziale”; Id., La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, I, 60 ss.; Id., La formulazione legislativa dei principi generali nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in BBTC, 2019, 471 ss.
[38] Cfr. anche Considerando 3 della Direttiva Insolvency: “nei quadri di ristrutturazione i diritti di tutte le parti coinvolte, compresi i lavoratori, dovrebbero essere tutelati in modo equilibrato”. Sul punto, Balp, Early Warning Tools at the Crossroads of Insolvency Law and Company Law, in Bocconi Legal Studies research, paper n. 3010300, 2017, 23 ss., https://www.ssrn.com/index.cfm/en/.
[39] Cfr., ancora, D’Attorre, Le regole, cit., 10, il quale ha precisato che “in questa prospettiva, le regole di distribuzione del valore confermano che, nell’attuale sistema, il diritto della crisi e dell’insolvenza non rappresenta più solo un insieme di regole dirette ad attuare in modo efficiente e tendenzialmente paritario la responsabilità patrimoniale dell’imprenditore insolvente nell’interesse esclusivo dei creditori, ma un qualcosa di profondamente diverso. La normativa della crisi e dell’insolvenza è oggi la disciplina di una fase, sia pure delicata, della vita economica o imprenditoriale del debitore, della quale ne viene regolamentata la pianificazione, la gestione e l’esito, assicurando un ragionevole equilibrio tra le esigenze dei creditori, dei terzi, della collettività e dello stesso debitore”.