Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Concessione abusiva di credito e risarcimento del danno da violazione di norme di condotta


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Articolo

La sostenibilità economica nel concordato in continuità aziendale


Paolo Bastia

Data pubblicazione
15 giugno 2023

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Sommario: 1. La sostenibilità economica nel solco della continuità aziendale.  -     2. Il nuovo impianto normativo della sostenibilità economica. -   3.  La dottrina giuridica sulla sostenibilità economica. - 4.  La Direttiva Insolvency e la viability. -  5.  I richiami alla Scienza aziendale. - 6.  La rappresentazione formale per la sostenibilità economica. -  7.  Le implicazioni organizzative e professionali. -  8. Conclusioni.


1. La sostenibilità economica nel solco della continuità aziendale

 Il nuovo Codice della Crisi, recependo la Direttiva Insolvency (Dir. UE 2019/1023 del 20 giugno 2019), ha affiancato alla tradizionale e un tempo univoca finalità della tutela dell’interesse dei creditori, anche quella della continuità aziendale[1], nel cui solco si inserisce la “sostenibilità economica”[2], come connotazione del fine istituzionale dell’azienda in funzionamento e più esattamente come concorso al suo fine ultimo, in grado di contemperare esigenze diffuse, anche quelle ultronee all’interesse dei creditori, che rimane comunque  un’esigenza fondamentale e temporalmente prioritaria, partendo da situazioni di crisi o di insolvenza.

La richiamata direttiva europea afferma una duplice finalità dei quadri di ristrutturazione preventiva e conseguentemente del piano di ristrutturazione: l’interesse del ceto creditorio e la continuità aziendale, nel cui solco si inserisce la sostenibilità economica dell’azienda, che trova logicamente senso e concreta possibilità soltanto nel filone della continuità gestionale. Ma a ben vedere, il rinnovato e  primario  rilievo alla continuità aziendale non si limita ad essere il riconoscimento anche in ambito giuridico del fondamentale principio della Scienza aziendale[3], di valore assoluto, ma viene a rappresentare il presupposto logico per la perseguibilità di precisi finalismi relativi, multi-soggettivi, che coinvolgono gli interessi convergenti nell’azienda atta a perdurare, evidenziandone il ruolo di “luogo” di contemperamento dei molteplici interessi, anche potenzialmente distinti tra loro, ma conciliabili in una logica di  sostenibilità, potendo meglio risolvere   - su piani diacronici -  un trade off che in una situazione meno lungimirante verrebbe condizionato da potenziali situazioni originariamente conflittuali[4].

Qualificata dottrina giuridica, intervenendo sulla continuità aziendale, afferma: “Si ha quindi l’impressione che per la Dir. la continuità aziendale – anche se solo parziale, ed anche se non la realizzi il debitore, ma un terzo cui questi trasferisca l’azienda – sia non già un “valore-mezzo” (come tradizionalmente nelle procedure concorsuali ordinarie), bensì un “valore-fine [5]. E ancora, parla di “progressivo spostamento del baricentro della ristrutturazione dall’interesse dei creditori alla continuazione dell’attività imprenditoriale[6]. Quindi chiarisce ulteriormente il suo pensiero: “risulta evidente che il processo in corso di graduale osmosi tra le procedure di ristrutturazione dove la continuità è un “valore-mezzo” e quelle in cui essa è un “valore-fine”, si fonda sotto traccia sulla constatazione che la continuità aziendale è comunque uno strumento capace di aumentare il tasso di recovery dei creditori, sia pure in concomitanza con la tutela degli altri soggetti interessati alla ristrutturazione (lavoratori, fornitori, stakeholders, soci e lo stesso imprenditore); un simile approccio si trova preconizzato nel secondo comma dell’art. 84 CCII, per cui la prosecuzione dell’attività d’impresa assicura il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario «nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci», a testimonianza che il valore della continuità aziendale è in realtà un “valore-fonte”, da cui dipendono tutti gli altri, a cominciare dalla soddisfazione dei creditori, passando attraverso la tutela dei posti di lavoro, per finire alla preservazione della stessa imprenditorialità.[7].

La direttiva europea precisa chiaramente (Considerando n. 2) che i quadri di ristrutturazione preventiva hanno al tempo stesso lo scopo di: i) impedire la perdita di posti di lavoro; ii) evitare la perdita delle conoscenze e competenze imprenditoriali; iii) massimizzare il valore dell’impresa a beneficio dei creditori, rispetto a quanto potrebbero ricevere nello scenario liquidatorio o in un altro scenario alternativo al piano; iv) massimizzare quello stesso valore anche per i proprietari dell’impresa e in ultima analisi per l’economia nel suo complesso.

Emergono concetti aziendalmente già sondati, come quello di conservazione e di “creazione di valore”[8], quale risorsa a disposizione per la pluralità dei soggetti interessati alla continuità aziendale (gli stakeholders), ma che richiedono di essere ricondotti alla sostenibilità economica introdotta nel CCII.

Il riconoscimento della compagine degli stakeholders nelle crisi d’impresa è stato ben sviluppato nella dottrina [9], a commento della rinnovata concezione dell’impresa nelle Direttiva Insolvency.  Si osserva quindi un avvicinamento alle posizioni oramai da decenni affermate nella letteratura strategica internazionale e in quella economico aziendale italiana, circa la responsabilità sociale dell’impresa e l’orientamento strategico di fondo, che accosta alle strategie competitive anche quelle sociali e ambientali[10].

La sostenibilità economica costituisce, più esattamente, una connotazione della continuità aziendale, intesa come durabilità, attitudine a permanere nel tempo, quale fattore costitutivo della natura stessa dell’azienda.

Gino Zappa, il Padre dell’Economia Aziendale Italiana, ha definito l’Azienda come “Istituto atto a perdurare”[11], affermandone la natura volta alla persistenza nel tempo.

Il problema che si pone è quello della nozione del tutto nuova in ambito giuridico e altrettanto nuova nella letteratura economico aziendale e manageriale di “sostenibilità economica”, ancorché si possa attingere proficuamente a robusti paradigmi per trovare delle risposte adeguate.

Il rilievo non è solo di tipo concettuale, per quanto importante, ma anche di ordine pratico, dal momento che la soluzione al problema dell’interpretazione e della declinazione in atti concreti della “sostenibilità economica” coinvolge diversi attori in vari momenti: i) certamente l’attestatore, esplicitamente indicato all’ art. 87, terzo comma, CCII, che deve rilasciare apposita attestazione al riguardo, in caso di concordato con continuità aziendale; ii) ma anche il tribunale in sede di omologazione, ai sensi dell’art. 112 CCII; iii) neppure possono esimersi dal fornire complete soluzioni di metodo il commissario giudiziale nell’ambito della sua relazione ex art. 105 CCII, così pure l’imprenditore con i suoi advisor in sede di predisposizione del piano, che deve essere attestato proprio anche sul tema del requisito della sostenibilità economica, che si impone come richiesta ineludibile di una prognosi a tale  riguardo.

La connessione tra continuità aziendale e sostenibilità economica è particolarmente stretta, essendo la prima la condizione perché la sostenibilità possa esplicarsi come fenomeno e quindi come orientamento prognosticabile. Questa connessione è evidenziata proprio nell’art. 87, terzo comma, CCII, perché l’attestazione della sostenibilità economica viene richiesta relativamente al piano di continuità aziendale. Ed è evidente che questo orientamento è rispondente sia alla continuità diretta che a quella indiretta, previste dall’art. 84, secondo comma, CCII. La continuità indiretta, se conduce l’impresa in crisi verso imprese cessionarie finanziariamente solide e competitive e quindi già performanti sul mercato, può essere anche un percorso più rapido e rassicurante, rispetto a quella diretta, per un giudizio prognostico della sostenibilità economica.

Si può a tale proposito richiamare l’esempio di un’azienda in crisi commerciale e finanziaria, ma con una qualificata funzione di ricerca e sviluppo e un’eccellenza del portafoglio prodotti, la quale ha trovato attraverso il trasferimento aziendale a un global player un rilancio pressoché immediato, in virtù delle forti sinergie commerciali a livello mondiale, prima non accessibili.

La continuità aziendale non implica una linea inerziale o semplicemente un riequilibrio omeostatico (cioè di mero riordino dell’equilibrio preesistente), ma può spingersi a esiti più radicali, in discontinuità strategica, con cambiamenti e riorientamenti del modello di business e degli assetti proprietari e manageriali, verso nuovi livelli e profili di equilibro, diverso da quello passati e quindi meglio definibile come “eterostatico”[12].

La continuità aziendale rilevante ai fini della sostenibilità economica è certamente quella proiettata nel lungo andare, giacché l’orizzonte temporale a cui essa è riferibile potrebbe essere anche più ristretto: i) una continuità temporanea, finalizzata alla cessione di un ramo aziendale o alla conclusione di trattative con le parti nel caso di composizione negoziata della crisi, per giungere alla sottoscrizione di un contratto o alla definizione di un accordo; ii) una continuità limitata a dodici mesi, come quella convenzionalmente definita secondo l’art. 3, comma 3, lettera b), CCII; persino una continuità temporaneamente interrotta e riavviata in virtù di un intervento risolutivo, totale o parziale (i.e. la cessione d’azienda o di uno o più  rami aziendali).

Un preciso riferimento di fonte professionale alla prospettiva convenzionale della continuità è poi racchiuso nel Principio OIC 11, che così recita:

“4.2 Prospettiva della continuità aziendale

20. Gli amministratori devono acquisire tutte le informazioni disponibili circa la permanenza del presupposto della continuità aziendale. Se gli amministratori sono a conoscenza del fatto che in un arco temporale futuro di almeno dodici mesi dalla data di chiusura dell’esercizio intervenga, o è probabile che intervenga, una delle cause di interruzione previste al par. 19, ne devono tenere conto nella redazione del bilancio d’esercizio e darne adeguata informativa.”.

La nuova, ampia e moderna prospettiva che il legislatore ha recentemente introdotto nel CCII nelle gestioni delle crisi aziendali e nella conseguente revisione dell’assoluta centralità del ruolo dei creditori, per fare emergere ulteriori istanze oramai ineludibili, se si vuole evolvere con i sistemi normativo ed economico internazionali e non restare nelle retrovie del pensiero e delle prassi originate in contesti oramai superati,   troverà presumibilmente critiche e resistenze al cambiamento[13]. Pertanto, una delle finalità di questo, pur limitato, contributo è tra l’altro quella di fornire una sistematica e un’interpretazione, anche fondata sulla qualificata dottrina giuridica che si sta concordemente formando, circa le implicazioni delle novità qui discusse sulla formazione dei giudizi che i professionisti e gli organi di giustizia sono ora chiamati a formulare, dalla predisposizione del piano con la proposta, fino all’omologazione del concordato in continuità aziendale.

 

2. Il nuovo impianto normativo della sostenibilità economica

Nel nuovo Codice della crisi i richiami alla “sostenibilità” sono diffusi, ma con significati sostanzialmente diversi e inseriti in differenti contesti, non immediatamente coordinati.

Va subito precisato che la sostenibilità economica non va specificatamente interpretata con la sostenibilità lato sensu e in particolare con la sostenibilità sociale e ambientale, per quanto queste dimensioni non siano affatto incompatibili e anzi sembrano essere state introdotte dal legislatore del Codice della crisi, con diverse aperture che preludono ad una visione dell’impresa moderna e internazionalmente affermata, nella letteratura economica internazionale e anche in quella aziendalistica, oltreché nelle prassi virtuose delle imprese che interpretano le strategie, unitamente a quelle competitive, anche in ottica sociale e ambientale, con la pubblicazione, su base obbligatoria o facoltativa, dell’informazione non finanziaria.

L’indicazione precisa di “sostenibilità economica” dell’impresa è rinvenibile nel Codice della crisi soltanto al terzo comma dell’art. 87, con riferimento al piano di continuità aziendale e quale compito per l’attestazione del professionista.

La norma recita infatti: “Il debitore deposita, con la domanda, la relazione di un professionista indipendente, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano e, in caso di continuità aziendale, che il piano è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano.”.

Appare evidente la derivazione della norma dall’art. 8 della Direttiva Insolvency, che chiede espressamente il rilascio di un’attestazione, su questo aspetto, da parte di un professionista indipendente.

Certamente, la rappresentazione dei dati e delle informazioni prospettiche, anche qualitative, per consentire l’espressione del giudizio da parte dell’attestatore, deve essere già contenute nel piano redatto dall’imprenditore in crisi.

Si noti che la sostenibilità economica non è direttamente e immeditatamente collegata alla esecuzione della proposta e alla salvaguardia degli interessi dei creditori, rappresentando dunque, a tutta evidenza, una nuova finalità a sé stante, concernente direttamente l’impresa, come bene tutelato nel suo funzionamento, nell’interesse generale della collettività, del sistema economico, all’interno del quale l’impresa risanabile può mantenere la propria collocazione, evitando effetti di contagio ed anzi recuperando la sua funzionalità economica nel sistema delle imprese.

Di sostenibilità economico-finanziaria, quindi apparentemente prossima al concetto in esame, si parla all’art. 21, primo comma, del CCII (Gestione dell’impresa in pendenza delle trattative): “Nel corso delle trattative l’imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa. L’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. Quando, nel corso della composizione negoziata, risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori. Restano ferme le responsabilità dell’imprenditore. “.

Va osservato che in questo caso la sostenibilità economico finanziaria viene valutata contestualmente ad una situazione di crisi nel percorso della composizione negoziata e che quindi la sua prospettiva, sia sostanziale che temporale, è quella immediata, di minimo, di conservazione di una condizione di continuità aziendale, con meri profili di superamento e contenimento di ulteriori criticità. Quello che rileva è che l’accento è sullo stato di salute dell’impresa e non sull’immediata salvaguardia degli interessi dei creditori.

Questa interpretazione emerge chiaramente dalla lettura del punto 7.5 del “protocollo”, ovvero della sezione III del Decreto Dirigenziale del Ministero della Giustizia del 21 marzo 2023 (già esistente nel previgente testo del 28 settembre 2021): “Dinanzi ad uno stato di crisi è opportuno che l’esperto ricordi all’imprenditore che deve gestire l’impresa per evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività. A tal riguardo, non vi è di norma pregiudizio per la sostenibilità economico-finanziaria quando nel corso della composizione negoziata ci si attende un margine operativo lordo positivo, al netto delle componenti straordinarie, o quando, in presenza di margine operativo lordo negativo, esso sia compensato dai vantaggi per i creditori, derivanti, secondo una ragionevole valutazione prognostica, dalla continuità aziendale (ad esempio, attraverso un miglior realizzo del magazzino o dei crediti, il completamento dei lavori in corso, il maggior valore del compendio aziendale rispetto alla liquidazione atomistica dei beni che lo compongono). Con le trattative in corso e ancora sussistendo concrete prospettive di risanamento, in caso di insolvenza dovrà avvenire nel prevalente interesse dei creditori come disposto dall’articolo 21, comma 1, del Codice della crisi d’impresa.”.

La sostenibilità economico-finanziaria è quindi chiaramente, in questo caso, una condizione di minimo e non ancora di raggiunto equilibrio dell’impresa e viene commisurata, invero semplicisticamente, ma con evidenti esigenze pragmatiche, ad un (solo) dato essenziale, per quanto rilevante: il margine operativo lordo (o EBITDA) normalizzato (con esclusione dei componenti straordinari), necessariamente prospettico, valorizzando la portata effettiva e la rilevanza segnaletica del margine operativo lordo, per la sua ambivalente espressione di efficienza economica e, al tempo stesso, di autofinanziamento dell’impresa.

Che si tratti inequivocabilmente di condizione di minimo emerge dall’estensione della sostenibilità economico-finanziaria anche alle situazioni che presentino un margine operativo negativo, purché compatibile con altri fattori compensativi, questa volta nell’interesse anche dei creditori, in grado di consentire una conservazione di valore attraverso la continuità aziendale.

Altro richiamo normativo, ma ad una nozione “ristretta” di sostenibilità, è rinvenibile all’art. 3, comma 3, lettera b), CCII, laddove si precisa che: “Al fine di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi d’impresa, le misure di cui al comma 1 e gli assetti di cui al comma 2 devono consentire di:

b) verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi e rilevare i segnali di cui al comma 4.” (enfasi nostra).

Qui la limitazione del concetto attribuito alla sostenibilità è duplice, sia relativamente alla sola dimensione finanziaria, sia all’orizzonte temporale dei successivi dodici mesi, con il preciso fine di richiedere una idonea strumentazione di early warninig per impedire l’insolvenza.

A livello professionale, possono soccorrere come riferimento i Principi per la redazione dei Piani di risanamento (CNDCEC), ove si legge, a proposito dell’equilibrio finanziario sostenibile, nella ristretta, per quanto importante dimensione finanziaria:

“2.2.5 Equilibrio finanziario sostenibile.

A tal fine, merita particolare attenzione il fatto che a regime vi sia la capacità di conseguire flussi di cassa operativi, al netto di quanto occorrente per permettere gli investimenti di mantenimento e per l’assolvimento delle imposte sul reddito, atti ad assicurare il servizio del debito. In tali situazioni, l’obiettivo del risanamento aziendale può dirsi raggiunto.

2.2.6 Nell’arco temporale di Piano, non è necessario che si verifichi un’estinzione di tutti i debiti. Il risanamento dell’esposizione debitoria può considerarsi raggiunto allorché il debito sia sostenibile e coerente con i flussi di cassa liberi al servizio del debito e con il livello di patrimonializzazione.”

Quanto agli accennati profili interpretativi della sostenibilità della gestione d’impresa intesa come assunzione esplicita di responsabilità sociale e ambientale, lato sensu, rilevano sia l’art. 84, secondo comma e l’art. 87, lettera f), CCII.

L’art. 84(Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano) precisa, infatti, che: “2. La continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro”. Con ciò viene esplicitamente introdotta una finalità pubblicistica e sociale all’interno della disciplina concorsuale, sia per la continuità diretta che per quella indiretta.

L’art. 87, relativamente al contenuto del piano concordatario, chiede che: “f) ove sia prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta, l'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente;”. Per quanto si prescrivano obblighi di conformità a normative specifiche, queste concernono le dimensioni sociale e ambientale della gestione e non già, direttamente, la salvaguardia degli interessi dei creditori, potendosi anzi presumere un possibile trade off, laddove i costi connessi con gli interventi richiesti vadano ad assorbire risorse finanziarie senza un corrispondente vantaggio monetario diretto per il ceto creditorio.

L’art. 87, lettera i), fornisce inoltre una significativa indicazione circa l’orientamento al futuro che viene richiesto al piano, in termini non solo di valutazione del rischio attuale, ma del rischio prospettico, in un’ottica decisamente forward looking, allorquando prescrive che in piano indichi, inter alia: “i) le iniziative da adottare qualora si verifichi uno scostamento dagli obiettivi pianificati[14].

Ne discende che la sostenibilità, quella economica, dell’impresa, prefigurata ed anche perseguita attraverso il piano concordatario, deve essere intesa in maniera lungimirante e non concomitante, anche mettendo alla prova il piano con le sue assunzioni, sulla base di opportune metodologie simulative di lungo periodo, come ad esempio gli stress test, in grado di cogliere anticipatamente dei fattori di potenziale criticità, valutandone su basi probabilistiche le  implicazioni sul piano e approntando ex ante  ipotesi subordinate e soluzioni eventualmente occorrenti.

È utile chiarire che il concetto di sostenibilità economica, qui espresso, nella sua prospettiva lungimirante, comporta il fatto che la produzione di perdite d’esercizio, nel passato e nella fase iniziale del piano, non pare preclusiva dell’accesso al concordato preventivo o a simili strumenti di regolazione negoziale della crisi. Pur tuttavia, proprio perché il presupposto della continuità aziendale collega nel divenire i risultati economici (e finanziari) consuntivi a quelli attuali e poi a quelli prospettici, il piano concordatario deve dimostrare un percorso, anche graduale, di riequilibrio e quindi, necessariamente, di ritorno ad una redditività dell’impresa coerente con il settore (anche ai fini dell’integrità del patrimonio netto, da mantenere o ripristinare nel suo valore positivo) e ad una capacità di autofinanziamento stabilizzati.

Su questo punto è illuminante un recente articolo di Stefano Ambrosini ove si legge (pagg.2- 3): “Ciò significa, da un lato, che la generazione di perdite – anziché di utili – non è di per sé ostativa all’accesso al concordato preventivo o a strumenti analoghi, dall’altro, che una situazione siffatta, peraltro in una qualche misura “fisiologica” nel caso di imprese in crisi o insolventi, deve tuttavia trovare rimedio proprio grazie all’attuazione del piano, giacché altrimenti non hanno ragion d’essere opzioni alternative alla liquidazione giudiziale: pena, com’è ben noto, la responsabilità dei gestori dell’impresa per aver concorso all’incremento del passivo. Non a caso, fin dalle primissime disposizioni il nuovo codice pone l’accento sull’idoneità delle iniziative dirette a far fronte allo stato di crisi (art. 3, commi 1 e 2). Di qui la considerevole importanza della prospettiva di riassorbimento – per quanto possibile celere – di dette perdite e la necessità che questa sia “validata” dall’attestatore come realisticamente alla portata dell’impresa e positivamente scrutinata dal tribunale quando venga investito della questione: non poi così diversamente, mutatis mutandis, da ciò che avviene per il ripristino, in progresso di tempo, del patrimonio netto positivo, ove esso sia risultato, ai “nastri di partenza”, negativo. Sempre dall’elaborazione in ambito aziendalistico, del resto, ricaviamo che le perdite vanno considerate, oltre ovviamente che per la gravità, anche sotto il profilo della loro sostenibilità, che costituisce una condizione storica ed evolutiva, in quanto strettamente correlata alla grandezza di più immediato riferimento, vale a dire il patrimonio netto” [15].

 

3. La dottrina giuridica sulla sostenibilità economica

Sul tema della sostenibilità economica si è profilata una prima, qualificata dottrina giuridica, mentre non vi sono sostanziali contributi specifici di tipo aziendalistico, ancorché, come vedremo, alla Scienza aziendale è possibile e opportuno attingere fruttuosamente.

Le prime nozioni colte nella dottrina giuridica di “sostenibilità economica”, sostanzialmente aderente al termine di viability introdotto dalla Direttiva Insolvency, sono le seguenti.

Secondo alcuni [16] va intesa come “capacità dell'azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro”, mutuando la nozione dal principio OIC 11.

Nel medesimo senso si è osservato che “ogni qualvolta l'impresa si mostri sostenibile, ossia capace di tornare a produrre utili in un tempo prospetticamente ristretto, coincidente con la durata ragionevole di un piano di ristrutturazione” [17].

Entrambe le nozioni valorizzano la natura di “azienda in funzionamento” e di “redditività” come prestazione, collocando questi due caratteri distintivi in un ambito pragmaticamente finito, sia temporalmente che come finalismo.

Da questo punto di vista si parte dall’osservazione che nella regolazione dell’impresa, sia nella disciplina societaria che in quella concorsuale, non è rara l’interferenza della norma giuridica con quella elaborata nell’ambito delle discipline economiche.

La reciproca interferenza tra regola giuridica e regola economica fa sì che, assai spesso, nella ricerca del criterio di integrazione di un nuovo termine indeterminato, debba essere privilegiata un’opzione ermeneutica che si rifaccia ai canoni della scienza economico aziendale.

Ne è un esempio la previsione contenuta nell’art. 3, comma 2, CCII, in merito all’obbligo dell’imprenditore di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’art. 2086 c.c. ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di iniziative idonee.

L’adeguatezza non può allora che essere ricavata da criteri di carattere tecnico, di buona o adeguata organizzazione. Ne sono conferma le modifiche (aggiuntive) apportate al testo dell’art. 3 CCII ad opera del D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83, dove, con l’inserimento del comma 3, viene esplicitato che, per poter essere considerato adeguato, l’assetto amministrativo, organizzativo e contabile deve consentire di rilevare gli squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa o dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore (lett. a), richiamando, in tal modo, i principi aziendali.

Il parametro tecnico integrativo è altresì evidente nell’art. 3, comma 3, lett. b) dove viene fatto riferimento alla verifica della non sostenibilità dei debiti e all’assenza di prospettive di continuità aziendale per i dodici mesi successivi (con un’evidente assonanza con il principio OIC n. 11).

L’obbligo disciplinato dall’art. 3 CCII mediante il ricorso alla clausola generale sin qui esaminata sottende il “bilanciamento tra interessi contrapposti: quello dell’imprenditore a plasmare l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della propria impresa e quello dei creditori, al pari degli altri e molteplici interessi, anche pubblicistici, che ruotano attorno alla crisi di impresa”.

A tale proposito, anche Stefania Pacchi ha evidenziato il tema del “bilanciamento” degli interessi convergenti[18], quando dice che: “La proposta di questo scritto è di riflettere sulla possibilità di un bilanciamento degli interessi diversificati – di tutti gli stakeholders.

Il ragionamento di Raffaella Brogi si sviluppa nell’ipotesi del concordato in continuità aziendale, laddove occorre tenere conto di quanto previsto, con riferimento alla disciplina dell’omologazione, dall’art. 112, comma 1, lett. f), CCII, il quale richiede la verifica che il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza.

Questa norma impone dunque un “collegamento sistematico necessario” con l’art. 10, par. 3, della Direttiva Insolvency, dove viene prescritto agli Stati membri l’obbligo di assicurare la facoltà dell’autorità amministrativa o giudiziaria di rifiutare l’omologazione del piano di ristrutturazione privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa.

Proprio questo confronto con l’art. 10 della Direttiva Insolvency evidenzia il mancato richiamo alla ragionevole probabilità del piano di garantire la sostenibilità economica, verifica che la norma europea fa rientrare nell’ambito del sindacato del tribunale.

Secondo l’Autrice, a una prima lettura delle modifiche al Codice della crisi - introdotte dal D.Lgs. n. 83/2022 - il mancato richiamo alla sostenibilità economica ad opera dell’art. 112, comma 1, lett. f), CCII potrebbe essere recuperato, in termini di coordinamento sistematico, mediante il riferimento all’art. 87, comma 3, CCII (così come modificato dal D.Lgs. n. 83/2022), dove è previsto che il professionista indipendente, oltre alla veridicità dei dati deve attestare, in caso di continuità aziendale, che il piano è atto a impedire o superare l’insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale.

A sua volta, Salvatore Leuzzi[19] osserva che Il concordato in continuità, in particolare, mira ora ad assicurare al tempo stesso la sostenibilità economica dell'impresa e ad attribuire a ogni creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello ritraibile nell’evenienza liquidatoria. E in un secondo contributo[20] il tema della sostenibilità economica viene calato nella realtà concreta del giudizio di omologazione, quando afferma che: “L’art. 112 CCII riprende il solco dell'art. 10, par. 3, Dir. UE 2019/1023, che prescrive agli Stati membri l'obbligo di assicurare la facoltà dell'autorità amministrativa o giudiziaria di rifiutare l'omologazione del piano di ristrutturazione privo della prospettiva ragionevole di impedire l'insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell'impresa”.

L’art. 112, comma 1, tuttavia, non contiene un analogo riferimento alla “sostenibilità economica dell’impresa, da intendersi come capacità di quest’ultima di rappresentare un complesso economico funzionante destinato ragionevolmente a produrre reddito nell’arco di durata del piano di ristrutturazione.”

Prosegue l’autore “Benché non catalogata dalla norma sui controlli, la viability quale prospettiva ragionevole è, tuttavia, oggetto di verifica in sede di omologazione. Viene in rilievo, a monte, infatti, il riferimento espresso, contenuto nell’art. 87, comma 3, CCII. A tenore di quest’ultimo, l'attestazione del concordato in continuità va riferita, infatti, oltre che alla veridicità dei dati aziendali, alla fattibilità del piano e alla sua attitudine a impedire o superare l'insolvenza, anche alla sostenibilità economica dell'impresa, che va specificamente garantita al pari di un trattamento non deteriore, per ciascuno dei creditori, rispetto a quanto sarebbe ritraibile in ipotesi di liquidazione giudiziale. 

Le norme del Codice vanno, del resto, interpretate alla luce del diritto unionale e l’art. 10, comma 3, della Direttiva insolvency pretende appunto che il piano non sia privo della prospettiva ragionevole di garantire la sostenibilità economica dell'impresa. Quest'ultima è menzionata, d’altronde, in altre disposizioni del testo eurounitario, a cominciare dall’art. 1, lett. a), che lega teleologicamente i quadri di ristrutturazione preventiva all’obiettivo di impedire l'insolvenza e di assicurare la viability.”.

Coerente col nuovo impianto è dunque l’art. 112 CCII, laddove descrive l’essenza del giudizio di omologazione nei concordati in continuità, per il quale risulta sufficiente che il piano “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”, occorrendo dunque che il concordato consenta un soddisfacimento quantitativamente non inferiore a quello realizzabile attraverso la procedura della liquidazione giudiziale. Le modalità di adempimento non possono essere arbitrariamente fissate dal debitore, ma devono tener conto della sostenibilità dell’impresa ex art. 87, comma 3.

 

4. La Direttiva Insolvency e la viability

Da ultimo, anche la legislazione europea consegna alcune importanti clausole generali, di sicuro impatto sulla normativa interna, anche ai fini dell’obbligo di interpretazione conforme da parte del giudice nazionale, come ad es. quella di sostenibilità economica, menzionata negli artt. 1, 4, 8, 10 e 19, Dir. UE 2019/1023 del 20 giugno 2019, c.d. Direttiva Insolvency).

Un importante riferimento sull’estensione delle finalità del legislatore europeo circa la sostenibilità è quello rappresentato, fra i tanti che citano la viability (tradotta con il termine “sostenibilità economica”), dal “Considerando” n. 2.

In tale fonte si legge che i quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l'insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane. Tali quadri dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori, rispetto a quanto avrebbero ricevuto in caso di liquidazione degli attivi della società o nel caso del migliore scenario alternativo possibile in mancanza di un piano, così come per i proprietari e per l'economia nel suo complesso.

A sua volta, l’articolo 1 (Oggetto e ambito di applicazione), precisa che:

1. La presente direttiva stabilisce norme in materia di:

a) quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l'insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore;”.

Di particolare interesse è poi l’articolo 8 (Contenuto del piano di ristrutturazione):

“1. Gli Stati membri dispongono che il piano di ristrutturazione presentato per adozione conformemente all'articolo 9, o per l'omologazione dell'autorità giudiziaria o amministrativa conformemente all'articolo 10, contenga almeno le seguenti informazioni:

h) una dichiarazione circa i motivi per cui il piano di ristrutturazione ha prospettive ragionevoli di impedire l'insolvenza del debitore e di garantire la sostenibilità economica dell'impresa, comprese le necessarie condizioni preliminari per il successo del piano. Gli Stati membri possono esigere che tale dichiarazione dei motivi sia redatta o convalidata da un esperto esterno o da un professionista nel campo della ristrutturazione, ove questi sia stato nominato.” (enfasi nostra).

Questa indicazione è stata poi traslata nell’art. 87, comma 3, CCII, per quanto attiene gli obblighi del giudizio di attestazione del professionista indipendente.

Merita osservare che la sostenibilità è sempre qualificata come “economica” e come afferente “l’impresa”, potendosi dedurre che l’attestatore (così come il tribunale in sede di omologazione del concordato in continuità) deve esprimere un giudizio prognostico particolarmente complesso e lungimirante: l’impresa è infatti, sempre, un sistema complesso, formato da numerosi e variegati elementi interconnessi, da quelli patrimoniali, tangibili e intangibili, fino a quelli umani (management e personale) e organizzativi e relazionali con i soggetti esterni, in un orizzonte temporale che non può che essere esteso alla situazione quantomeno a fine piano, a regime. In altri termini, occorre valutare, sulla base degli elementi conoscitivi disponibili, che il piano non solo sia fattibile (altro ordine di giudizio, orientato all’implementazione del piano e alla sua possibilità di essere concretamente eseguibile), ma che rilasci una prospettiva a finire, per l’impresa nel suo complesso, di recuperata perdurante capacità autonoma di operare sul mercato.

L’apertura della direttiva alla continuità aziendale e alla recuperabilità dell’impresa, come finalismo autonomo rispetto all’interesse dei creditori, non è dunque priva di responsabilizzazione, in quanto la minore centralità dei creditori deve trovare elementi compensativi nella funzionalità e quindi nel beneficio collettivo dell’agire dell’impresa definitivamente risanata, evidentemente in considerazione della duplice funzione economica dell’impresa, colta sia nella creazione di valore, ma senz’altro anche nella sua capacità di redistribuzione del valore, verso i creditori a vario titolo, i dipendenti, i fornitori (anche quelli potenziali), la clientela servita, i finanziatori, gli enti erariali e previdenziali, la collettività.

A tale proposito, la rappresentazione del piano di risanamento nella sua dimensione economica prospettica (piano economico), potrebbe trovare migliore rappresentazione formale in una struttura “a valore aggiunto”[21], laddove la produttività economica (il valore aggiunto, quale eccedenza dei ricavi sui “costi esterni” derivanti dagli approvvigionamenti di beni e servizi) oltre a dimostrare l’efficienza economica dell’impresa stessa, misura la capacità  distributiva verso il personale (retribuzioni) e verso gli enti previdenziali (oneri sociali), verso lo sviluppo dell’impresa stessa (ammortamenti e accantonamenti), verso il sistema bancario e finanziario (oneri finanziari), verso l’erario (imposte) e infine verso la proprietà (utili netti).

Lo stesso valore aggiunto, che riflette l’orientamento strategico dell’impresa - in quanto aumenta con l’integrazione delle attività, mentre diminuisce con l’esternalizzazione della produzione e dei servizi - misura sul lato dei costi di approvvigionamento le esternalità positive della gestione aziendale nei confronti dei fornitori a vario titolo, che nelle reti stabili  e organizzate (partnership, terzisti, subfornitori e indotto in genere) costituiscono modalità virtuose di recupero non solo dell’equilibrio dell’impresa in crisi, ma di  risanamento anche delle relazioni collaborative e  cooperative tra imprese: una dimensione di straordinaria importanza, posto che il mercato non è costituito solo dalla dimensione competitiva, ma anche da quella sinergica e collaborativa nelle relazioni tra imprese[22].

L’Articolo 10 (“Omologazione del piano di ristrutturazione”) rappresenta il vertice dell’intero processo di definizione, rappresentazione e controllo della sostenibilità economica del concordato in continuità aziendale, perché, come precisato dalla dottrina giuridica, comporta per traslazione l’obbligo di un giudizio anche in capo al tribunale, in una interpretazione coerente dell’art. 112 del CCII. Tale articolo specifica, infatti, che: “3. Gli Stati membri assicurano che l'autorità giudiziaria o amministrativa abbia la facoltà di rifiutare di omologare il piano di ristrutturazione che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l'insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell'impresa.” (enfasi nostra).

Sorge quindi il tema della rappresentazione, a favore del giudizio del tribunale, della sostenibilità economica, al quale si vuole fornire qualche spunto di risposta, di metodologia e di contenuto informativo, nelle pagine seguenti.

 

5. I richiami alla Scienza aziendale

La sostenibilità pare essere, per come viene rappresentato nel quadro normativo, un concetto più specifico rispetto a quello di continuità aziendale, che ne è il presupposto.

La sostenibilità è sostanzialmente una dimensione della manifestazione della continuità, non inerziale, non conservativa, non solo interna ed endoaziendale, ma densa di connotati di solidità, di persistenza e durabilità, nonché di larga percezione esterna, per la riconciliazione di rapporti, allentati a causa della crisi o dell’insolvenza, con i creditori e presumibilmente con gli stakeholders in genere.

Occorre collocare l’interpretazione della sostenibilità nel contesto di riferimento in cui la normativa la colloca e ne chiede idonee rassicurazioni (da parte dell’attestatore e del tribunale), vale a dire quello del pieno e definitivo superamento della crisi e della riconquistata fiducia, almeno in parte, dei soggetti esterni.

I richiami alla Scienza aziendale, che paiono inevitabili come ancoraggio logico e metodologico, non possono quindi essere pienamente risolutivi, in quanto, come andiamo a precisare, fanno riferimento a condizioni di equilibrio e di economicità afferenti ad un’azienda sana (fisiologicamente) e non esattamente riveniente da un risanamento.

Occorre forse integrare i concetti ripresi dalla tradizione economico aziendale e manageriale con quelli di esito del risanamento e individuare una saldatura tra piano strategico (piano “per il successo competitivo”) e piano di risanamento: quest’ultimo teso verso un “nuovo” stato di equilibrio, che implica non soltanto l’accertamento preventivo di una condizione di salute raggiungibile dall’azienda, ma anche l’avvenuta eliminazione delle cause della crisi e dell’insolvenza.

Del resto, occorre tenere molto ben presente che all’attestatore e al tribunale in sede di omologazione, sia nel Codice della crisi (artt. 87 e 112), che nella Direttiva Insolvency (artt. 8 e 10), si chiede, insieme alla verifica prospettica della sostenibilità economica, congiuntamente, anche quella dell’idoneità del piano a “impedire l’insolvenza” (testo della Direttiva), ovvero a “impedire o superare l’insolvenza” (espressione del Codice della crisi).  Ciò comporta, inevitabilmente, che la sostenibilità prospettica non sia sic et simpliciter una condizione di buona salute dell’azienda, ma di uno stato di assenza e di avvenuta eliminazione delle cause della crisi o dell’insolvenza: una valutazione quindi “rafforzata” dell’auspicata fisiologia tendenziale dell’impresa, riferibile, secondo logica, alla fase terminale del piano di risanamento.

La sostenibilità economica non è quindi l’ equilibrio di un’azienda qualsiasi, ma di un’azienda consapevolmente fuoriuscita (o meglio che dovrà uscire) da una situazione patologica e quindi meritevole di uno speciale livello di attenzione, onde evitare il rischio di ricadute e di ritorni delle cause patologiche iniziali: collegandosi con ciò la sostenibilità economica, logicamente, all’analisi delle cause e circostanze della crisi e dell’insolvenza (profilo assente nel giudizio sulla condizione di equilibrio di un azienda già in salute).

Il piano economicamente sostenibile deve quindi presentare a finire non soltanto una rappresentazione economica, patrimoniale e finanziaria in equilibrio, ma anche particolarmente prudenziale, con speciale attenzione ai presidi che siano stati previsti per “impedire e superare” l’insolvenza e i vari fattori di insuccesso inizialmente presenti. Deve essere con ciò dimostrata, descritta e misurata economicamente e finanziariamente l’esistenza di una discontinuità, di uno scarto rassicurante, convincente, dell’azienda risananda, rispetto allo stato di partenza, tramite interventi non solo meramente strategici (investimenti, nuova finanza, innovazioni di prodotto), ma pertinenti al risanamento d’impresa: ristrutturazioni per rimuovere le inefficienze, riorganizzazioni per recuperare la produttività; ridimensionamenti e liquidazioni o cessioni parziali per rifocalizzare la gestione nel suo core business, riqualificazione dei processi operativi in linea con il settore e il contesto competitivo. 

Di seguito si richiamano molto sinteticamente i principali riferimenti aziendalistici.

a) L’ottica aziendalistica tradizionale

Ciò posto, la sostenibilità economica interpretata nella prospettiva dottrinale tradizionale dell’Economia Aziendale può essere  riconducibile al modello del “generale equilibrio aziendale”, che include l’economicità (o efficienza economica) in senso stretto (redditività); ovvero  in senso ampio, tale da ricomprendere i fattori gestionali  che determinano una soddisfacente redditività: efficienza, produttività, competitività: una economicità comunque  prospettica e durevole, a valere nel tempo, “a regime”.

L’equilibrio generale, che ricomprende vari fattori qualitativi di potenziale successo (tradizione, reputazione, qualità dei processi e dei prodotti, felice localizzazione, know how, competenze manageriali e del personale, fidelizzazione della clientela, ecc.) si articola poi nelle tre canoniche condizioni prospettiche di equilibrio, da considerare congiuntamente: l’equilibrio patrimoniale, l’equilibrio economico, l’equilibrio finanziario[23].

 

b) La “Scuola Bocconi-Ca’ Foscari”

La Scuola delle Università Luigi Bocconi e Ca’ Foscari[24] evidenzia due attitudini fondamentali all’equilibrio aziendale:

i)                                            l’equilibrio istituzionale (di lungo periodo), riconducibile a:

-                                              soddisfazione di tutti i soggetti interessati (stakeholders);

-                                              durabilità dell’impresa;

-                                              autonomia e autosufficienza dell’impresa;

i)                                            l’equilibrio economico (o economicità), quale:

-                                              attrazione e remunerazione dei fattori produttivi;

-                                              redditività come criterio di gestione e come obiettivo, rappresentato da congrui flussi di reddito.

La tradizione soprattutto degli Studi aziendali dell’Università Bocconi è sempre stata aperta al tema degli interlocutori, al contemperamento degli interessi, senza però far venir meno la centralità della funzione obiettivo dell’impresa, intesa come perseguimento della redditività, compatibilmente con le attese di soddisfacimento dei vari attori sociali.

 

c) La prospettiva della “creazione di valore

La sostenibilità economica può essere accostata anche ad un’ulteriore importante prospettiva di analisi: quella strategica, che impone anche una comparatività esterna (oltre alla sola continuità aziendale) con il contesto competitivo.

Questo approccio può condurre a interpretare la sostenibilità economica come “creazione del valore”, secondo due stadi:

i)         uno stadio ultimo e sintetico che è quello della redditività (rispetto al settore e ai competitor);

ii)       uno stadio intermedio che è quello della competitività e dell’accumulazione delle risorse strategiche distintive: potenzialità, risorse intangibili, tecnologie avanzate, risorse umane, qualità dei prodotti e dei processi, portafoglio prodotti bilanciato, fidelizzazione della clientela, nicchie competitive, barriere all’entrata. Tali risorse non sono solo quelle già presenti nell’impresa, ma anche quelle innovative, da acquisire, nella ricerca di nuovi clienti, nell’adeguamento del portafoglio prodotti, nel perseguimento della transizione tecnologica, ecologica, energetica, ecc. 

L’approccio internazionale della creazione del valore[25] è fortemente finalizzato all’attenzione della letteratura strategica al ruolo giocato dalle risorse (anche di quelle intangibili) e dagli stakeholder nel funzionamento di imprese portate a configurarsi come sistemi progettuali, cognitivi ed evolutivi, aperti a relazioni interaziendali di carattere collaborativo[26].

 

6. La rappresentazione formale per la sostenibilità economica

Gli indicatori ricavabili dai vari approcci aziendalistici, a cui poter attingere per rappresentare nel piano la sostenibilità economica e consentirne i vari ordini di giudizio (tra cui quello dell’attestare e quello del tribunale in sede di omologazione), possono essere diversi, come di seguito rappresentati e selezionati tra i più noti e praticati, secondo una espressività che pone al centro l’azienda risanata in condizioni di economicità in senso ampio (creazione di valore, continuità durevole,  autonomia e redditività) e in linea con il settore e i competitor[27] e che da questa fonte sviluppa indizi segnaletici prospettici lungo le più rilevanti direzioni di relazioni intersoggettive, ai fini del loro bilanciamento: verso la clientela, verso i fornitori, verso i creditori, verso la proprietà.

 Creazione di valore e bilanciamento degli interessi intersoggettivi




1.                    lato azienda: posizionamento strategico (ranking, quota di mercato), valorizzazione delle risorse intangibili,  flussi di reddito e di cash flow stabilmente positivi, patrimonio netto positivo, ROI (return on onvestment), ROS (return on sales), EBITDA (earning before interest, taxse, depreciation and amortization), KPI (key performance indicator); ancora, nelle imprese più strutturate: incidenze dei costi di produzione, marginalità lorde (industriali e commerciali), break even point analysis, leva operativa, analisi della coerenza del modello di business;

2.                    lato azionisti/soci: ROE (return on equity), reddito d’esercizio stabilmente positivo, flussi di dividendi attesi;

3.                    lato clienti: premium price (congruità dei prezzi), qualità dei prodotti (con indicatori di qualità e di non qualità), tempi di incasso, catene del valore orientate alla clientela, tempi di consegna, servizi post-vendita, ecc.;

4.                    lato fornitori: sistema di prezzi adeguato, dilazioni regolari, valutazione dell’incidenza dei costi di approvvigionamento, continuità e rinnovazioni contrattuali nei confronti dei fornitori, servizi logistici, puntualità nelle forniture, ecc.;

5.                    lato creditori: valutazione del rischio (strategico, di credito, finanziario), capacità di rating, patrimonio netto positivo, cash flow positivo, leverage (debiti/patrimonio netto), rapporto Debiti/EBITDA, indice di solvibilità DSCR (debt service coverage ratio), insolvency test, riserve di liquidità, adeguati assetti organizzativi (art. 2086, secondo comma c.c.) e in particolare le rilevazioni di cui all’art. 3, comma 3, CCI), analisi di sensitività, stress test.

Questo complesso sistematico di dati, indizi, indici e informazioni, a carattere prospettico, costituisce un set informativo modulabile a seconda delle dimensioni e delle caratteristiche dell’impresa[28], a cui attingere, anche con opportune integrazioni, per rappresentare sia nella relazione di attestazione, che nello stesso piano di risanamento, così come nella relazione del commissario giudiziale, la sostenibilità economica, al servizio dei creditori, per l’espressione del voto informato, così come del tribunale, in sede di giudizio di omologazione.

Nell’impresa minore, gli indicatori possono essere anche numericamente assai ridotti, ma la loro rilevanza segnaletica emerge proprio dalla multidimensionalità dei profili indagati, distribuendo i dati e le informazioni secondo la “mappa” indicata, o altra analoga, coerente con il tipo di business gestito.

La sintesi di questi indicatori a vario spettro è quella di una rappresentazione organica e sistematica nel piano in continuità aziendale della “formula imprenditoriale”, cioè degli elementi a tendere che l’imprenditore (i.e. l’organo ammnistrativo nelle società) intende selezionare in modo coerente e ragionevolmente credibile per riportare l’azienda a livelli competitivi, una volta che sia risanata, esprimendo così una tensione imprenditoriale che possa essere meritevole di un giudizio positivo sulla sostenibilità economica.

Si noti, in definitiva, che il giudizio sulla sostenibilità economica estratto da un simile set informativo (del tutto enunciativo e adattabile al singolo caso concreto), anche per la generale notorietà di questi elementi conoscitivi nella comunità finanziaria e professionale, può consentire di  esprimere, attraverso il piano di risanamento dell’impresa in fase di fuoriuscita dalla crisi o da uno stato di insolvenza reversibile,  un equilibro, un bilanciamento, un contemperamento durevole delle condizioni di soddisfazione dei vari stakeholders, variamente rappresentati da informazioni “dedicate”: lato creditori per i temi del rischio, ma anche lato azionisti, clienti, fornitori, impresa (ivi ricompresi i dipendenti e i partner a vario titolo): una raggiunta e durevole condizione, in concreto, di capacità di creazione di valore (o di ricchezza/utilità) e di distribuzione del valore dell’impresa prefigurata “a regime”.

 

7. Le implicazioni organizzative e professionali

L’introduzione degli obblighi delle idonee misure e degli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili continua a sollevare diffuse perplessità circa la capacità implementativa delle aziende minori e sono noti e dibattuti i diffusi ritardi nella loro adozione. Non va dimenticato, tuttavia, che si tratta oramai di un obbligo di legge.

L’introduzione dell’obbligo di fornire nel piano concordatario in continuità aziendale congrua informativa e di richiedere l’espressione formale di giudizi ai fini dell’attestazione e dell’omologazione del concordato con continuità, circa la sostenibilità economica dell’impresa, potrebbe ulteriormente riproporre delle perplessità. In questo secondo caso, parrebbe tuttavia che tali obblighi siano ineludibili e indifferibili, in quanto il piano del concordato in continuità è attestabile necessariamente anche sulla base di un giudizio assertivo sulla sostenibilità economica da parte del professionista indipendente, mentre il tribunale non può esprimersi in sede di omologazione in assenza di tale giudizio.

Peraltro, i creditori dissenzienti possono prendere in considerazione una debole rappresentazione della sostenibilità economica nel piano, ai fini delle loro eventuali opposizioni.

Lo stesso commissario giudiziale, come detto, nella sua relazione ex art. 105 CCII dovrà esprimersi sulla sostenibilità economica del piano. L’art. 92 del CCII attribuisce oggi al commissario giudiziale, nel concordato in continuità, un nuovo ruolo, di intervento anche nella fase elaborativa del piano, anche per contemperare, tramite il suo affiancamento nella negoziazione del piano, gli interessi del debitore e dei creditori, potendo formulare suggerimenti per la sua redazione. È certo quindi che il tema della sostenibilità economica va affrontato anche dal commissario giudiziale.

Il legislatore ha evidentemente incrementato il contenuto della “informazione strategica” nel piano in continuità aziendale, rivelando, parrebbe, il deciso favor, al di là della fattibilità tel quel del piano, per il completo risanamento dell’impresa, che alla fine dell’arco di piano, “a regime”, dovrà essere in grado di restare sul mercato motu proprio.

Rispetto alla capacità dell’impresa in crisi o insolvente di assolvere a questo impegno informativo, sembra emergere un riconoscimento delle migliori professionalità al servizio dei concordati in continuità, o meglio di professionalità che a vario titolo (imprenditore, management, advisor, commissario, attestatore) integrino la cultura della gestione della crisi, altrimenti confinata a valutazioni delle sole criticità, con  una cultura della conservazione e della creazione di valore, sul solco della continuità aziendale oggi ritenuta una vera e propria finalità del concordato preventivo e, in questo solco, della evoluzione verso la sostenibilità economica, come “tensione” del piano di risanamento.

Alla tradizionale e sempre necessaria analisi delle cause e circostanze della crisi e dell’insolvenza si richiede oggi, per il concordato in continuità aziendale, anche un’indagine tipica dell’analisi strategica: quella sui profili delle opportunità di mercato e dei punti di forza dell’impresa (anche relativamente ai concorrenti), sulla valutazione delle risorse distintive e sui potenziali fattori competitivi, (tecnologici, commerciali, logistici), sulla progettazione di nuove iniziative, sull’adeguatezza organizzativa per sostenerle, sulla misurazione prospettica dei loro sviluppi economici e finanziari.

Si tratta in realtà non di un maggiore impegno amministrativo o burocratico, ma di un nuovo taglio dell’approccio alle soluzioni delle crisi, che può interessare certamente anche le imprese minori, che sono numericamente le più presenti nel nostro tessuto economico e che sovente, ancorché in crisi, possiedono “potenzialità” che meritano di essere conservate, valorizzate e rilanciate: competenze distintive, eccellenze di prodotto,  nicchie competitive, progettualità, qualità, artigianalità,  creatività, tradizioni e, quando compatibili con la continuità diretta,  continuità  familiari.

A ben vedere, non emergono particolari problematiche di tipo organizzativo e di onerosità di interventi per l’elaborazione e la rappresentazione della propria “formula imprenditoriale” a piano, da parte dell’imprenditore. Va naturalmente considerato il fatto che rientrano, tra questi elementi della formula imprenditoriale anche le idonee misure e gli adeguati assetti obbligatori, ma qui, oltre a esservi un tema di legalità, emerge anche lo stile imprenditoriale di chi propone il risanamento e propone, a piano, proprio la sostenibilità economica, relativamente più importante proprio per un’imprese che intende superare, definitivamente, uno stato di crisi o di insolvenza.


8. Conclusioni

L’obbligo in capo all’attestatore di esprimere un giudizio professionale sulla sostenibilità economica, che verosimilmente impegna anche il giudizio di omologazione e certamente impone al redattore del piano di risanamento una adeguata rappresentazione informativa, costituisce una novità di assoluto rilievo nel Codice della crisi, in un rapporto dialogico con la Direttiva Insolvency.

Sul piano sostanziale, emerge l’esigenza di una ampia e lungimirante rappresentazione prospettica dell’evoluzione futura di un’azienda in crisi o insolvente che, attraverso la completa implementazione del piano di risanamento nella procedura di concordato in continuità aziendale, riguadagna le condizioni piene per operare nei mercati competitivi.

Il vero impegno aggiuntivo non pare quello redazionale, posto che l’informativa che dovrebbe esprimere una sorte di “formula imprenditoriale”  - mediante la costruzione metodologica di una sinossi organica e coerente di indicatori oramai convenzionali -   costituisce una rappresentazione selettiva del modello di azienda proposto dall’imprenditore che intende accedere al concordato in continuità aziendale: non è sufficiente che sia dimostrata ex ante la ragionevole fattibilità del piano, ma occorre anche che si forniscano elementi conoscitivi credibili circa la sostenibilità economica dell’impresa e che, pertanto, si sottoponga a valutazione prognostica la  capacità dell’impresa, a fine arco di piano, a regime quindi, di rimanere stabilmente nel mercato. Si tratta di un giudizio, in fondo, sulle capacità imprenditoriali e strategiche stesse, che la chiara e completa esplicitazione della “formula imprenditoriale” dovrebbe essere in grado di fornire ai vari destinatari, ai creditori, agli organi di giustizia.

Presumibilmente, questa prospettazione non è scevra di conseguenze sulla durata attesa dell’arco di piano, perché, al di là del giudizio di fattibilità che può riguardare anche piani di breve periodo, la prefigurazione della sostenibilità economica e con essa il perseguimento a tendere del bilanciamento dei diversi interessi convergenti sulle sorti dell’impresa, potrebbe  comportare un allungamento dell’arco di piano, poiché ad esso si viene a chiedere un più elevato livello di impegno in termini di risultati da raggiungere o comunque un maggiore e più approfondito spettro di condizioni di riequilibrio non effimero, ma duraturo e convincente. Con ciò il piano sostenibile dovrebbe incorporare adeguati elementi prudenziali e di gestione del rischio e dell’incertezza, in coerenza con quanto richiesto dall’art. 87, primo comma, lettera i), del Codice della crisi, per prevenire possibili scostamenti e predisporre anticipatamente le idonee soluzioni. 



[1] Sul punto, alla vigilia dell’entrata in vigore del Codice, S. Ambrosini, Concordato preventivo fra vecchio e nuovo: continuità normativa, interessi protetti e soddisfacimento dei creditori, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 5 agosto 2021. Più di recente v. A. Maffei Alberti, L’interesse dei creditori e la continuazione dell’attività nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: un’analisi trasversale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 30 marzo 2023; L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 10 ottobre 2022.

[2] Cfr. S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, in dirittodellacrisi.it, settembre 2022, p. 2, secondo il quale “Che la sostenibilità economica divenga il baricentro del diritto concorsuale si coglie già tra i principi generali del CCII”. Si concentrano piuttosto sulla “risanabilità” V. Minervini, Il (necessario) ripensamento delle procedure concorsuali dopo il “lockdown”: dal concetto di “insolvenza” a quello di “risanabilità”?, in Dir. Fall., 2020, I, p. 965 ss.; S. Ambrosini, Il codice della crisi dopo il d.lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in Dir. Fall., 2022, I, p. 837 ss.

[3] Il principio di continuità a valere nel tempo, colto in ottica prospettica, senza pur sciogliere il vincolo della sua storicità, costituisce il principio più importante dell’Economia aziendale, esaltando la natura stessa dell’impresa, quale sistema dinamico e probabilistico e al tempo stesso unitario, idoneo per sua natura al coordinamento gestionale, alla sintesi delle diverse istanze, alla comunanza degli interessi convergenti e alla loro soluzione in ottica di giustapposizione. In proposito si vedano, per le varie Scuole in Italia, A. Amaduzzi, L'azienda nel suo sistema operante e nell'ordine delle sue rilevazioni, Torino, 1953; E. Giannessi, Le aziende di produzione originaria, Pisa, 1960; C. Masini, Lavoro e risparmio, Torino, 1979; S. Sciarelli, Il sistema d’impresa, Padova, 1985.

[4] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, interpretando la dottrina di Eraclito della tensione tra gli opposti come conciliazione o armonia degli opposti stessi, vede nella “conciliazione” la loro stessa “verità”: si veda Geschichte der Philosophie, Glockner, Stuttgart, I, pag. 343 (cfr. Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, 1969, I, pag. 22).

[5]Cfr. P. Vella, La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1° gennaio 2022 e in dirittodellacrisi.it, 18 febbraio 2022, p. 6.

[6]P. Vella, cit., p. 7.

[7]P. Vella, cit., p. 7 e 8.

[8] La creazione di valore, come finalità dell’impresa, costituisce un orientamento assai affermato nella letteratura economica e strategica internazionale, con ricadute verso una pluralità di potenziali fruitori e con un forte accento verso la clientela: cfr. la “catena del valore” di M. Porter, Competitive Advantage: Creating and Sustaining Superior Performance, New York, 2008.

Per un taglio aziendalistico, si esamini G. Donna, La creazione di valore nella gestione dell’Impresa, Roma, 1999.

[9] Cfr. S. Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 3 settembre 2022, e soprattutto l’ultimo, ampio contributo, Id., Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 26 maggio 2023.

[10] Si vedano l’opera pionieristica di I. Ansoff, La strategia sociale dell’impresa, Milano, 1984 e, per la letteratura economico aziendale italiana, V. Coda, Responsabilità sociale e strategia dell’impresa, in L. Sacconi (a cura di), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, Roma, 2005; S. Sciarelli, Responsabilità sociale ed etica d’impresa: una relazione finalizzata allo sviluppo aziendale, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1999. Nella letteratura economica, oltre alla pietra miliare del premio Nobel 1991 R. Coase, The problem of social cost, in Journal of Law and Economics, October 1960, (pagg.1-44), si veda K. R. Turner – W. David, Economia ambientale, Bologna, 2003.

[11] La nozione di azienda come “istituto atto a perdurare” è stata magistralmente affermata dal Caposcuola Gino Zappa nella sua ultima opera, Le Produzioni nell’economia delle imprese, Milano, 1957. È evidente l’approccio neo-istituzionalista, nettamente distinto rispetto alla visione dell’azienda come astratto “nesso di contratti” (nexus of contracts) propria della agency costi theory (cfr. Michael C. Jensen – William Meckling, Theory of the firm: managerial behavior, agency costs, and ownership structure, in Journal of Financial Economics, 3: 305-360, 1976).

[12] Il concetto di equilibrio “eterostatico” è fondamentale per comprendere gli esiti attesi dei risanamenti delle imprese in crisi e in stato di insolvenza reversibile: non si tratta  di un equilibrio dinamico e probabilistico, tendenziale, inteso come ripristino di una condizione precedente e oggi perduta (equilibrio omeostatico),  ma di  un differente livello di equilibrio, in discontinuità strategica e organizzativa rispetto a situazioni di equilibrio pregresse dell’impresa, solitamente non più riproponibili, per i diversi interventi modificativi dell’originario modello di business, relativamente al portafoglio prodotti, alla ridefinizione delle relazioni con i clienti e con i fornitori, fino ai cambiamenti tecnologici e a quelli della proprietà e della corporate governance nei casi di più radicale turnaround. Sull’argomento, si veda F. Amigoni, Sistemi di controllo direzionale, Milano, 1979; M. Cecchi, Strategie e sistemi di controllo, Milano, 2001; nonché il nostro, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Milano, 2022.

[13] Sono sempre attuali le considerazioni di Harvey Leibenstein, con cui apre il suo innovativo articolo X-Efficiency: from Concept to Theory, in Challenge, Vol. 22, sept./oct. 1979, pagg. 13-22: “Anyone attempting to introduce to economics a nontradicional concept or idea is normally met by a cycle of critical challenges”.

[14] Cfr. in proposito la concordanza del punto di vista di S. Leuzzi, cit., pag. 7: “Il precetto è la positivizzazione dell’obbligo di stress test per ciascuna impresa che aspiri alla concorsualizzazione concordataria dei debiti. Delineare le iniziative in rapporto agli scostamenti significa, infatti, simulare la capacità del soggetto di fronteggiare gli scenari avversi, misurandone i riflessi sull’operatività dell’impresa e gli effetti in termini di contrazione di liquidità, redditività e patrimonializzazione. L’impresa è chiamata ad illustrare attraverso quali interventi governerebbe, in termini di sana e prudente gestione, prestabilite congiunture sfavorevoli, rischi di recessione, pericoli di chiusura o di rallentamento dei mercati, emergenze internazionali, penetrazioni sul mercato di prodotti concorrenziali, aumenti dei costi del denaro, dell’energia e delle materie prime”.

[15] S. Ambrosini, La gestione dell’impresa “in perdita” tra vecchia e nuova sistematica concorsuale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 21 marzo 2023.

[16] Cfr. R. Brogi, Clausole generali e diritto concorsuale, in Fall., 2022, pag. 877.

[17] Cfr. S. Leuzzi, cit., pag. 2.

[18] Cfr. S. Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, cit., pag. 19.

[19] Cfr. S. Leuzzi, cit.

[20] Cfr. S. Leuzzi, L’omologazione del concordato preventivo in continuità, in dirittodellacrisi.it, 16 febbraio 2023.

[21] Cfr. O. Gabrovec Mei, Valore aggiunto e bilancio sociale, in (G. Rusconi e M. Dorigatti a cura di), Teoria generale del bilancio sociale e applicazioni pratiche), Milano, 2004.

[22] Il presupposto della competitività come condizione tipica del mercato è stato da tempo superato, in quanto integrato anche dalla dimensione collaborativa e cooperativa delle relazioni interaziendali, fondamentale per la stessa crescita e per lo sviluppo dell’impesa singola, che si viene a identificare, secondo una felice metafora, non più come “isola”, ma come parte di un “arcipelago” nel mare del mercato (cfr. Paul H. Rubin, The Expansion of  Firms, in Journal of Political Economy, n. 81, 1973, pagg. 936-949). Più precisamente, le relazioni collaborative tra imprese costituiscono configurazioni organizzative “per linee esterne” delle imprese del tutto accostabili agli assetti organizzativi interni, fino al punto che le prescrizioni di cui all’art. 2086, secondo comma, c.c. e di cui all’art. 3, comma 3, CCII, andrebbero opportunamente progettate anche su scala di rete aziendale per essere realmente efficaci, come se fossero unità organizzative della medesima impresa a struttura complessa, in considerazione della comune gestione organizzata che condividono: si pensi alle reti di subfornitura, ai sistemi di franchising, alle joint ventures, ai consorzi, alle partnership e alleanze strategiche, alle costellazioni aziendali, contrattuali e non.

Sulla rilevanza empirica e il riconoscimento nell’analisi economica delle relazioni non competitive interaziendali, che a loro volta diventano modalità per competere in misura più efficace in unione con  i propri partner, si vedano i premi Nobel dell’Economia (rispettivamente del 1991 e del 2009) Ronald Coase (The nature of the firm, in Economica, November 1937, pagg. 386-405) e Oliver Williamson (The economic institutions of the capitalis: firms markets, reletional contracting, The Free Press, New York, 1985; ed. ital. L’organizzazione economica, Bologna, 1991).  

Per una rassegna della letteratura italiana sulle forme intermedie tra impresa monolitica e mercato cfr. R. Nacamulli – A. Rugiadini, Organizzazione e mercato, Bologna, 1985; R. Fiocca (a cura di), Imprese senza confini, Milano, 1987; nonché il nostro, Gli accordi tra imprese, Bologna, 1989.

È evidente che le progettazioni di percorsi e di piani di risanamento, così come di strumenti diagnostici e prognostici e di assetti organizzativi adeguati, in concreto, non possono essere limitati dai confini legali della singola impresa colta nella sola veste giuridica, quando la sua gestione è strategicamente o anche solo di fatto condotta in congiunzione con altre imprese, all’interno di un sistema reticolare (networking strategico). L’assunto solo legale e convenzionale rispetto a una realtà economica sottostante ben più complessa, rappresentato dell’autonomia giuridica dell’azienda come criterio progettuale, pone semplificazioni,  limiti e distorsioni importanti all’efficacia delle soluzioni, per una vastissima casistica di imprese nel nostro tessuto economico, che è peraltro denso di aree distrettuali e di filiere produttive, particolarmente fertili di relazioni orizzontali e verticali di congiunzione delle gestioni delle imprese in esse operanti, con vari ruoli di imprese rete (con compiti di regia strategica), di imprese nodali, di imprese satelliti.

[23] Si tratta del noto modello di Aldo Amaduzzi e della sua Scuola, a cui ha fatto evidentemente riferimento (anche solo per il grado di affermazione nella dottrina e nella prassi nel nostro paese) il Codice della Crisi, sia all’art. 12 (presupposti oggettivi per l’accesso alla composizione negoziata) che all’art. 3, comma3, lettera a), in ordine alle rilevazioni per le idonee misure e per gli adeguati assetti, al fine di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi. Cfr. A. Amaduzzi, L’azienda, Torino, 1975; nonché il suo pioneristico lavoro Il sistema dell’impresa nelle condizioni prospettiche del suo equilibrio, Milano, 1949. Dello stesso Autore, merita citare anche Conflitto ed equilibro di interessi nel bilancio dell’impresa, Bari, 1949, in cui già il tema dei contrastanti rapporti intersoggettivi veniva posto ante litteram.

[24] Cfr. G. Airoldi, G. Brunetti e V. Coda, Lezioni di Economia Aziendale, Bologna, 2020.

[25] Cfr. Alfred Rappaport, Creating Shareholders Value. The New Standard for Business performance, The Free Press, New York, 1985, quale iniziatore dell’approccio orientate al solo azionista, poi evoluto verso altre dimensioni, più responsabili verso gli altri soggetti. A tale proposito si vedano G. Donna, cit.; L. Guatri, La teoria di creazione del valore: una via europea, Milano, 1991.

[26] Cfr. Robert M. Grant, L’analisi strategica per le decisioni aziendali, Bologna, 2020.

[27] Una necessaria ricaduta sull’analisi del piano di risanamento e della sua sostenibilità economica è quella dell’analisi competitiva e di benchmarking, che sviluppa dati ed elementi conoscitivi in termini “relativi”, rispetto al settore e ancor meglio relativamente a selezionati competitor (comparabili): si tratta di analisi oggi di agevole fruizione, grazie ai diversi provider e alle ricorrenti pubblicazioni sui dati di settore da parte di numerose fonti di generale accessibilità, spesso anche con l’incrocio dei dati su scala regionale e provinciale. Cfr. P. Bastia, Sistemi di pianificazione e controllo, Bologna, 2009; Robert M. Grant - Judith Jordan, Fondamenti di strategia, Bologna, 2011.

[28] Per approfondimenti sui significati di questi indicatori segnaletici per il risanamento dell’impresa in crisi, con la loro rappresentazione sistematica e la loro interpretazione prognostica, si veda: P. Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Milano, 2022; Composizione negoziata della crisi e piani di risanamento, Torino, 2023.