, 04 settembre 2023, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Premessa; 2. La ratio della norma; 3. Le limitazioni introdotte; 4. I riflessi della norma sul diniego alla transazione fiscale dovuto a fattori diversi dalla convenienza della proposta; 5. I riflessi della norma sulla percentuale di soddisfacimento e sulla durata della dilazione di pagamento; 6. L’avviso della omologazione ai creditori pubblici e il dies a quo di 90 giorni; 7. La data di efficacia della norma; 8. L’alternativa del concordato.
1. Premessa
Con l’articolo 1-bis del decreto-legge 13 giugno 2023, n. 69, convertito dalla Legge 10 agosto 2023, n. 103, è stata temporalmente sospesa, fino all’entrata in vigore di un apposito decreto legislativo integrativo e correttivo del Codice della crisi, l’applicazione delle disposizioni recate dall’ultimo periodo del comma 2 e dal comma 2-bis dell’art. 63 del Codice della crisi, che disciplinano l’omologazione forzosa della proposta di transazione e contributiva presentata nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Al tempo stesso sono state introdotte, in sostituzione di quelle sospese, disposizioni che limitano significativamente la omologazione forzosa della transazione che il tribunale può disporre in caso di mancata adesione dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali alla proposta formulata loro dal debitore nel suddetto ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (nel prosieguo, per speditezza, il riferimento ai debiti tributari e all’amministrazione finanziaria dovrà intendersi eseguito anche, rispettivamente, ai debiti contributivi e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie).
La norma costituisce una reazione del legislatore a vari casi di utilizzo distorto, e dunque di abuso, della transazione fiscale, per effetto del quale sono state di fatto aggirate e vanificate le cause di prelazione che assistono i crediti tributari; abuso che non era tuttavia agevole contrastare sulla base delle disposizioni precedentemente vigenti e degli indirizzi espressi su tale tema dalla giurisprudenza. Da qui l’intervento legislativo, il quale, per i motivi esposti più avanti, non modifica, peraltro, le regole che disciplinano l’approvazione della proposta di transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate, ma solo la omologazione forzosa della stessa che il tribunale può pronunciare a seguito dell’inerzia o del diniego dell’amministrazione finanziaria; non riguarda, inoltre, la transazione fiscale proposta nell’ambito del concordato preventivo.
L’uso distorto dell’istituto a cui si è testé fatto riferimento è quello costituito soprattutto da proposte che hanno previsto soddisfacimenti irrisori dei crediti tributari, spesso formulate, per di più, nell’ambito di accordi sostanzialmente rivolti solo al Fisco e con notevole ritardo rispetto all’insorgenza della crisi finanziaria dell’impresa, dopo che i crediti tributari erano aumentati e quelli verso gli altri creditori erano diminuiti per effetto di pagamenti finanziati proprio attraverso il mancato delle imposte. In diversi casi si è trattato - intendiamoci - di proposte comunque convenienti per l’Erario, nel momento in cui venivano presentate, perché tali sono anche quelle con cui viene offerto un pagamento di pochi punti percentuali, se l’alternativa è peggiore, ed è per questa ragione che, sulla base delle norme all’epoca vigenti, ne è stata disposta la omologazione, sulla scorta di un orientamento giurisprudenziale peraltro non unanime, visto che vari tribunali (ad esempio quelli di Salerno, Lecce e Monza), oltre alla Corte di Appello di Milano, avevano ritenuto che simili proposte di transazione costituissero un abuso del diritto.
La nuova norma rappresenta, quindi, tutt’altro che un fulmine a ciel sereno o una decisione assunta, come qualcuno ha erroneamente commentato, sull’emozione del momento, a seguito di un caso che, riguardando una società calcistica, aveva avuto una certa eco mediatica, ma costituisce, al contrario, l’approdo di un dibattito da vario tempo in corso e di un contrasto giurisprudenziale che vedeva: 1) da un lato, l’indirizzo secondo cui la convenienza assumeva un peso in ogni caso decisivo ai fini della omologazione forzosa della transazione e doveva essere valutata comunque nel momento della proposta; 2) dall’altro lato, l’orientamento in base al quale il cram down fiscale sarebbe stato già da escludere nel caso in cui l’amministrazione finanziaria fosse stata l’unico soggetto al quale l’accordo di ristrutturazione veniva proposto. I motivi su cui si fondava questo secondo orientamento erano i seguenti:
1) l’art. 182-bis della legge fallimentare prevedeva, ai fini della omologazione, il deposito e la pubblicazione “di un accordo” (o, come attualmente prevede l’art. 40 del Codice della crisi, “degli accordi”), per il che, ove un accordo non sia stato raggiunto con l’unico creditore a cui è stato proposto, esso non è giuridicamente esistente, non può essere stato depositato e non può dunque essere omologato;
2) l’art. 40 del Codice, come peraltro la rubrica dell’art. 182-bis, utilizza il plurale (“accordi”) e pertanto l’omologazione presupporrebbe necessariamente l’esistenza di una pluralità di intese con i creditori;
3) il cram down fiscale si giustificherebbe solo quando il rifiuto dell’Agenzia delle Entrate alla proposta appaia irragionevole;
4) il cram down fiscale richiederebbe la sussistenza di un interesse concorsuale, da considerarsi prevalente, in quanto rappresenta la ragione fondativa delle procedure concorsuali, e non vi è alcun interesse concorsuale in funzione del quale le ragioni del Fisco debbano essere sacrificate, qualora la proposta di ristrutturazione non coinvolga altri creditori, ma miri a imporre all’Amministrazione finanziaria la mera volontà del debitore.
A dire il vero, questo secondo indirizzo, pur cogliendo l’esigenza di contrastare gli abusi discendenti da un uso distorto della transazione fiscale, non pareva conforme alle disposizioni vigenti per varie ragioni.
Il primo degli argomenti su cui si fondava non era convincente, perché, potendo il cram down essere disposto solo in assenza dell’adesione del Fisco, è evidente che esso non poteva né può richiedere la precedente stipula di un accordo con il Fisco, che renderebbe inutile lo stesso cram down.
Il secondo argomento sovraccaricava di significato l’uso del plurale “accordi”, poiché è evidente che il legislatore ha fatto riferimento alla fattispecie ordinaria dell’accordo di ristrutturazione, in cui normalmente intervengono più creditori, il che di per sé non esclude tuttavia che possa essere stipulato un solo accordo, in particolare quando un soggetto è sostanzialmente titolare dell’intero credito.
In merito al terzo argomento, non vi è dubbio che, se l’amministrazione finanziaria dimostra che la proposta di transazione fiscale non è conveniente per l’Erario, non sussiste il principale presupposto della omologazione forzosa, ma ciò è l’effetto dell’assenza di tale presupposto e non del fatto che l’accordo di ristrutturazione sia stato proposto a un solo creditore.
Quanto all’ultimo argomento, che è quello centrale, occorre considerare che mediante il cram down fiscale il Giudice si sostituisce al Fisco nella valutazione della convenienza della proposta di transazione fiscale, quando l’Agenzia delle Entrate rigetta la proposta nonostante la convenienza della stessa: ciò significa che, sino all’entrata in vigore della Legge 10 agosto 2023, n. 103, ai fini della omologazione forzosa era sufficiente l’interesse fiscale. Infatti, in base ai principi affermati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 8405/2021, l’interesse concorsuale consentiva (e consente) tale tipo di omologazione persino in assenza dell’interesse fiscale, ma, se quest’ultimo sussiste, ciò è di per sé sufficiente per attuare il cram down, ai fini del quale le norma richiede del resto solo la convenienza per il creditore (e cioè, con riguardo al creditore costituito dall’amministrazione finanziaria, il solo interesse fiscale) e non un interesse concorsuale generale.
Il vero tema è quello dell’abuso dell’istituto ed è difficile escludere che un uso distorto della transazione sussista quando il Fisco è di fatto l’unico creditore a cui viene richiesto di ristrutturare il debito, in particolare se il soddisfacimento offertogli è irrisorio e nel corso degli anni precedenti, mentre il versamento delle imposte è stato sistematicamente omesso incrementando i debiti fiscali, gli atri creditori sono stati invece pagati, sostanzialmente aggirando le norme che attribuiscono ai crediti tributari una causa di prelazione, a beneficio di crediti privi di alcuna causa di prelazione. Queste situazioni non potevano essere però essere contrastate forzando le disposizioni vigenti, bensì mediante lo strumento dell’abuso; tuttavia, in assenza di specifiche disposizioni, quest’ultimo, come già si era visto, sarebbe stato applicato in modo differente da caso e caso e ne sarebbe discesa un’attuazione della norma che disciplina la omologazione forzosa non omogenea e foriera di inevitabili disparità di trattamento. Da qui l’esigenza dell’intervento del legislatore, che avrebbe potuto avere a oggetto sia l’introduzione di una norma generale sia una modifica legislativa che prevedesse delle barriere, quali soglie di soddisfacimento minimo variabile a seconda della situazione.
Una norma generale anti-abuso avrebbe potuto essere fondata sulla valutazione della convenienza della proposta di transazione al momento dell’insorgenza della crisi anziché alla data di presentazione della stessa, e ciò avrebbe probabilmente consentito di contrastare un numero significativo di condotte elusive, ma tale regola sarebbe stata di difficile applicazione e non avrebbe evitato pronunce divergenti e trattamenti disomogenei. Da qui, evidentemente, la decisione del legislatore di ripiegare sulla previsione di due soglie minime: una decisione meno appagante e meno adeguata sul piano concettuale, ma forse più pratica. Tale misura, ferma restando la necessità della convenienza e del carattere determinante dell’adesione (anche se di questo secondo presupposto non si comprende il fondamento), esclude infatti sia l’esigenza di analisi complesse e opinabili, sia la rilevanza di altre valutazioni, come ad esempio quella concernente la condotta pregressa del contribuente.
3. Le limitazioni introdotte
Quanto al suo contenuto, la nuova norma prevede che, se proposta nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, la transazione è omologata dal tribunale, anche in mancanza di adesione dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali, quando, oltre a essere - come in passato - conveniente per i creditori pubblici rispetto all’alternativa liquidatoria e determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali del 60 o del 30 per cento dei crediti oggetto dell’accordo, ricorrono anche le ulteriori condizioni che seguono:
1. il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi è pari almeno al trenta per cento del loro ammontare, comprensivo di sanzioni e interessi, se il credito complessivo di cui sono titolari altri creditori aderenti corrisponde ad almeno un quarto dell’intero importo dei debiti dell’impresa istante;
2. il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi è pari almeno al quaranta per cento del loro ammontare, comprensivo di sanzioni e interessi, e la dilazione di pagamento non eccede il periodo di dieci anni, se il credito complessivo di cui sono titolari altri creditori aderenti è inferiore a un quarto dell’intero importo dei debiti dell’impresa istante oppure se non vi è alcun altro creditore aderente all’accordo;
3. gli accordi di ristrutturazione non hanno carattere liquidatorio.
Pertanto, se i debiti complessivi dell’impresa in crisi sono pari, ad esempio, a dieci milioni di euro e quelli tributari e contributivi a sei milioni (interessi e sanzioni inclusi), la proposta di transazione deve prevedere un soddisfacimento di questi ultimi non inferiore al 30 per cento, se aderiscono all’accordo altri creditori titolari di crediti per almeno 2,5 milioni di euro (e in questo caso la dilazione di pagamento può anche eccedere la durata di dieci anni); se invece aderiscono all’accordo altri creditori che sono titolari di crediti per un ammontare inferiore a quello di 2,5 milioni, o non vi aderisce alcun altro creditore (anche nel caso in cui ciò sia dovuto al fatto che non sussistono altri creditori), il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi deve essere pari almeno al 40 per cento e la dilazione di pagamento non può eccedere i dieci anni.
I commi 2 e 3 dell’art. 1-bis del decreto-legge n. 69/2023 fanno riferimento, con riguardo a entrambe le soglie, al “soddisfacimento dei crediti dell’amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”. Occorre quindi chiedersi se l’uso della congiunzione “e” sta a indicare che il soddisfacimento minimo richiesto debba essere almeno pari al 30 (o al 40) per cento dell’importo complessivo di tali crediti ovvero di ciascuno di detti crediti, il che non è ovviamente indifferente. Infatti, considerando, ad esempio, crediti verso l’Inps pari a 100 e debiti verso l’Agenzia delle Entrate pari a 200, in presenza dell’adesione di altri creditori per almeno un quarto dei debiti complessivi dell’impresa debitrice, per rispettare le soglie di cui trattasi nel primo caso sarebbe sufficiente pagare per l’importo di 89 il debito verso l’Inps (importo determinato considerando il soddisfacimento derivante dalla liquidazione giudiziale) e per 1 quello verso l’agenzia fiscale, offrendole un soddisfacimento solo dell’1 per cento, posto che un pagamento di 90 rappresenta il 30 per cento del debito complessivo di 300 (= 100 + 200) in essere verso tali creditori; nel secondo caso, invece, sarebbe necessario, seppur a fronte di un pagamento di 89 a favore dell’Inps, offrire all’Agenzia delle Entrate un soddisfacimento almeno di 60 (corrispondente al 30 per cento del rispettivo credito di 200). La prima tesi tradisce la ratio della norma ed è inoltre smentita dal fatto che la norma richiede che il soddisfacimento minimo dei crediti del Fisco e degli enti di previdenza e assistenza da essa previsto sia pari almeno al 30 (o al 40) per cento “dei rispettivi crediti”, cioè di ciascuno di tali crediti. Pertanto, sia per ragioni letterali sia in considerazione dello scopo della norma, è da ritenersi corretta solo la seconda delle interpretazioni testé esposte.
I suddetti commi, inoltre, prevedono espressamente che le percentuali di soddisfacimento sopra indicate devono essere applicate ai crediti dell’amministrazione finanziaria e degli enti di previdenza e assistenza considerando anche le sanzioni e gli interessi, i quali devono essere calcolati sino alla data di deposito della proposta di transazione o sino a quella della situazione debitoria di riferimento dei debiti oggetto della stessa; non viene tuttavia precisato sulla base di quali criteri le sanzioni debbano essere determinate: sulla base delle misure applicabili sino a tali date oppure tenendo conto anche delle misure applicabili per effetto di eventi successivi ancorché previsti? Si pensi, ad esempio, a un debito relativo a imposte non versate per l’importo di 100, in relazione al quale sia in corso un pagamento dilazionato ai sensi dell’art. 3-bis del D. Lgs. n. 462/1997, discendente dalle comunicazioni di irregolarità di cui all’art. 36-bis del d.P.R. n. 600/1973 (relativo alle imposte sui redditi) o all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972 (relativo all’iva), con applicazione di interessi pari a 9. Se alla data della presentazione della domanda di transazione la rateizzazione è regolare, le sanzioni sono dovute in tale momento nella misura del 10 per cento e dunque per l’ammontare di 10 (e tali rimangono se la rateizzazione prosegue): l’importo complessivamente dovuto è pertanto pari a 119. Tuttavia, se la rateizzazione decade a seguito del mancato pagamento di una rata entro la scadenza della rata successiva, cosa che accade se il pagamento dilazionato viene interrotto in quanto assorbito dalla transazione fiscale, l’importo dovuto viene iscritto a ruolo e la sanzione si rende applicabile nella misura del 30 per cento: in questa ipotesi, quindi, il debito complessivo, a parità di interessi, ammonterebbe a 139. Assumendo che la soglia applicabile sia quella del 40 per cento, nel primo caso l’importo da versare per rispettarla sarebbe pari a 47,6, mentre nel secondo caso ammonterebbe a 55,6, con una differenza, tutt’altro che marginale, di oltre il 14 per cento fra un’ipotesi e l’altra. È da ritenersi che l’interpretazione più coerente con la lettera della disposizione di cui trattasi sia la prima, poiché essa stabilisce che il soddisfacimento dei creditori pubblici deve essere pari almeno al 30 o al 40 per cento “dell’ammontare dei rispettivi crediti, inclusi sanzioni e interessi”. Ciò significa che le sanzioni dovute sono quelle relative ai crediti determinati al momento di presentazione della proposta di transazione o alla data di rappresentazione della situazione debitoria a cui questa si riferisce, e non a quelle che si rendono dovute successivamente a seguito della interruzione della rateizzazione, che potrebbe (anzi: dovrebbe) avere luogo solo dopo che la transazione sia stata omologata. Questa conclusione è inoltre confortata dall’entità delle due soglie, che, per rappresentare dei valori minimi, sono tutt’altro che modeste e diverrebbero ingiustificatamente gravose qualora si sposasse l’interpretazione alternativa. Il calcolo delle sanzioni dovrebbe comunque prescindere dalla notifica dei relativi atti da parte dell’amministrazione finanziaria, essendo sufficiente, ai fini della loro quantificazione, l’insorgenza del relativo presupposto.
Oltre agli interessi calcolati sino alla data di presentazione della proposta di transazione o a quella di esposizione della situazione debitoria a cui essa si riferisce, sugli importi discendenti dalla proposta di transazione si rendono dovuti anche gli interessi di dilazione in base al tasso legale applicabile tempo per tempo. Ciò è peraltro espressamente previsto solo con riguardo al caso di mancata adesione di creditori diversi da quelli pubblici per un importo pari almeno a un quarto dei debiti complessivi dell’impresa debitrice, a cui corrisponde un soddisfacimento minimo del 40 per cento; tuttavia, non vi è motivo per adottare una diversa disciplina anche relativamente all’ipotesi in cui il soddisfacimento minimo sia quello del 30 per cento.
Il citato art. 1-bis del decreto-legge n. 69/2023 non prevede alcuna qualificazione degli “altri creditori” a cui fa riferimento, ma è di tutta evidenza che deve trattarsi di creditori diversi da quelli precedentemente indicati, cioè diversi dall’amministrazione finanziaria e dagli enti di previdenza e assistenza. Ne discende che, ai fini della determinazione della suddetta quota di adesione di un quarto, rilevano tutti gli “altri creditori” esistenti al momento della omologazione degli accordi (o a una data assai prossima a tale momento), inclusi quelli che sono legati all’impresa proponente da rapporti di controllo o collegamento. Del resto, l’esclusione di questi ultimi si porrebbe in evidente contrasto con la ratio della norma, che in presenza dell’adesione qualificata di altri creditori prevede una riduzione della soglia di soddisfacimento dal quaranta al trenta per cento, consentendo un pagamento inferiore in presenza di una non trascurabile adesione di altri creditori e quindi di una ripartizione del sacrificio fra più soggetti; sacrificio che è del tutto naturale richiedere innanzitutto ai creditori legati al debitore da rapporti di controllo e collegamento. Non viene precisato quale debba essere il sacrificio dei creditori diversi da quelli pubblici, ma è da escludere che debba essere corrispondente a quello dell’amministrazione finanziaria e degli enti di previdenza e assistenza, posto che il divieto di trattamento deteriore dei crediti di tali soggetti non trova applicazione nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, pur essendo applicabile nel concordato preventivo. L’effetto dell’adesione di tali creditori non può in ogni caso essere priva di rilievo sostanziale, seppur tenendo conto anche solo dell’effetto riduttivo derivante dall’attualizzazione del credito conseguente a una rinegoziazione dei tempi di pagamento dello stesso, ove significativo.
Le soglie di pagamento del 30 e del 40 per cento introdotte dalla norma di cui trattasi non costituiscono tuttavia una forfettizzazione del soddisfacimento dei crediti tributari, perché - come si è già rilevato - la convenienza e la natura determinante dell’adesione dei creditori pubblici sono tuttora necessarie ai fini del cram down fiscale, pur non essendo più di per sé sufficienti; continuano invece a essere sufficienti rispetto all’approvazione della proposta in via ordinaria da parte delle agenzie fiscali.
A questo proposito occorre mettere in guardia l’interprete dal rischio di una lettura della norma avulsa dal contesto in cui è collocata, cioè disgiunta da altre disposizioni del Codice della crisi e sradicata dalla ratio della stessa, che ne dilaterebbe il contenuto oltre le intenzioni del legislatore (e dello stesso dato normativo), generando effetti tanto indesiderati quanto negativamente rilevanti sul piano operativo. Si intende dire che la norma non può essere interpretata nel senso che il tribunale può omologare gli accordi di ristrutturazione dei debiti tributari e contributivi esclusivamente se ricorrono le suddette condizioni (rispetto della soglia del 30 o del 40 per cento, ecc.), non solo in sede di cram down, cioè quando manca l’adesione delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, ma anche in via ordinaria, cioè dopo che tali creditori pubblici hanno espressamente approvato la proposta di transazione; ciò significherebbe, per converso, che, ove tali condizioni non siano rispettate, l’omologazione degli accordi non sarebbe consentita nemmeno in presenza dell’approvazione del Fisco e degli enti previdenziali.
Questa interpretazione contrasta infatti sia con la ratio della disposizione introdotta con il citato articolo 1-bis dalla Legge n. 103/2023, sia con la lettura sistematica della stessa:
a) contrasta con la ratio, perché lo scopo della norma è - come già si è osservato - quello di porre un limite alle proposte di transazione fiscale che prevedono un soddisfacimento irrisorio dei crediti tributari e contributivi, in particolare quando tali crediti rappresentano un percentuale molto elevata dell’intera esposizione debitoria dell’impresa in crisi che fa ricorso all’istituto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Lo si evince chiaramente dalla relazione tecnica che ha accompagnato il suddetto provvedimento, in cui si legge che la nuova disciplina “limita il ricorso all’omologa degli accordi di ristrutturazione in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria”: dunque solo in assenza di un accordo;
b) contrasta con la lettura sistematica delle norme del Codice della crisi, perché anche sul mero piano letterale è evidente che il comma 2 del citato articolo 1-bis non dispone in merito all’omologazione ordinaria della transazione fiscale e contributiva, essendo questa disciplinata dal comma 4 dell’articolo 48 del Codice della crisi, ai sensi del quale, quando è depositata una domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione, il tribunale “assunti i mezzi istruttori …….., omologa con sentenza gli accordi”;
c) il citato comma 2 dell’articolo 1-bis sostituisce temporaneamente le disposizioni del comma 2-bis dell’articolo 63, che avevano a oggetto l’omologazione forzosa degli accordi, e dunque ne rispecchia la funzione, ovverosia quella di consentirne l’omologazione nonostante la mancata adesione da parte dei creditori pubblici in deroga alla disciplina ordinaria. L’espressione “anche in mancanza dell’adesione dell’amministrazione finanziaria …..” prevista dalla norma era del resto presente anche nel comma 2-bis dell’art. 63 del Codice della crisi e deve essere letta nel senso che il tribunale omologa forzosamente la transazione, se ricorrono i presupposti in essa previsti, anche nel caso in cui manchi l’adesione del Fisco e degli enti previdenziali, cioè nonostante l’assenza di tale adesione; non nel senso che tali presupposti devono ricorrere, ai fini della omologazione, sia in mancanza sia in presenza dell’approvazione della transazione.
Per questi motivi la disciplina di cui trattasi deve essere così ricostruita:
1) l’omologazione ordinaria degli accordi, una volta che questi siano stati sottoscritti dai creditori, inclusi gli atti di transazione fiscale e contributiva approvati dalle agenzie fiscali e dagli enti previdenziali, è regolata dal comma 4 dell’articolo 48 del Codice della crisi;
2) l’omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva, richiesta nel caso in cui (e solo nel caso in cui) la proposta di transazione non sia stata approvata dalle agenzie fiscali e dagli enti previdenziali, è disciplinata dal comma 2 dell’articolo 1-bis del decreto-legge n. 69/2023, convertito dalla Legge n. 103/2023, il quale richiede che in tal caso ricorrano le condizioni sopra indicate (non a caso la norma corrispondente a detto comma era in origine contenuta nel comma 5 dell’articolo 48, che segue il menzionato comma 4);
3) conseguentemente, non è necessario che tali condizioni ricorrano ai fini della omologazione delle transazioni che, ciò nonostante, siano state approvate dal Fisco e dagli enti previdenziali, in quanto ritenute comunque convenienti e dunque meritevoli di accoglimento.
Infine, occorre considerare che solo il cram down assicura al contribuente-debitore una reale tutela giurisdizionale contro illegittime resistenze dell’amministrazione finanziaria e quindi la sua esclusione, incidendo sul diritto di difesa del contribuente, dovrebbe essere quanto più possibile limitata. Per questo motivo, la norma introdotta dalla Legge n. 103/2023 dovrebbe trovare applicazione solo a seguito di un rigetto adeguatamente motivato della proposta di transazione, e non anche in presenza di una motivazione solo apparente o anche palesemente incongrua; ancor meno per effetto della mera inerzia del Fisco.
4. I riflessi della norma sul diniego alla transazione fiscale dovuto a fattori diversi dalla convenienza della proposta
Secondo la prassi di alcuni uffici dell’Agenzia delle Entrate, al di là delle istruzioni ufficiali, le condotte evasive eventualmente poste in essere, anche in tempi non recenti, dall’impresa che presenta una proposta di transazione fiscale sono idonee a inficiare l’attendibilità e l’apprezzamento della proposta, in quanto denoterebbero l’assenza, da parte dell’impresa debitrice, di collaborazione e trasparenza nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Pertanto, in tal caso la proposta non potrebbe essere valutata sulla base della sua convenienza per l’Erario, obliterando il presupposto secondo cui il Fisco deve rispettare il principio di legalità e non può esercitare la propria funzione con una logica meramente imprenditoriale: conseguentemente, sebbene la proposta risulti conveniente, dovrebbe prevalere la considerazione della gravità dei comportamenti del contribuente, “anche perché la stipula di un accordo in presenza delle suddette condotte darebbe origine a un’inammissibile sorta di condono a favore dell’impresa debitrice”.
Questo indirizzo appare non conforme al disposto dell’art. 63 del Codice, perché è di per sé priva di fondamento l’equazione secondo cui al compimento di atti di frode, e a maggior ragione se questi risalgono a molti anni prima della presentazione della proposta di transazione, deve conseguire, solo per questo motivo, il rigetto di tale proposta. Lo ha del resto escluso la stessa Divisione Contribuenti dell’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 34 del 29 dicembre 2020, laddove ha precisato che la presenza delle condotte di cui trattasi rende necessario, in sede di valutazione della proposta, l’ampliamento dell’ambito oggettivo delle attività da svolgere, poiché tali circostanze devono “portare a ritenere le esigenze di tutela dell’interesse erariale prevalenti rispetto alla speditezza della procedura”. Una cosa, infatti, è che la sussistenza di precedenti atti fraudolenti induca l’amministrazione finanziaria a eseguire analisi più ampie e approfondite di quelle ordinarie, per verificare se tali atti incidono sulla valutazione della convenienza della proposta che detta amministrazione è chiamata a compiere, rafforzando così la tutela dell’interessa erariale; un’altra cosa è che la mera presenza di tali atti costituisca di per sé un ostacolo all’approvazione della proposta, anche ove questi non si siano tradotti nell’occultamento di patrimonio.
Non vi è infatti dubbio che, se mediante condotte fraudolente l’impresa debitrice ha costituito risorse occulte, occorre tenerne conto ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione, che dovrà in tal caso essere determinata calcolando anche il soddisfacimento derivante da dette risorse; così come nell’esecuzione di tale valutazione bisogna considerare i possibili incrementi di patrimonio derivanti da eventuali azioni di responsabilità, da azioni revocatorie esercitabili nell’ipotesi della liquidazione giudiziale dell’impresa proponente e da co-obbligazioni (in presenza, ad esempio, di vendite simulate, liberalità, spin off distrattivi, pagamenti preferenziali, ecc.). Non tutti gli illeciti, tuttavia, si traducono nella costituzione di patrimoni occulti: l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, ad esempio, non consente la distrazione di attivo né, in assenza del pagamento di “commissioni” per la loro emissione (peraltro generalmente a tal fine corrisposte), concorre di per sé ad arrecare un danno all’impresa debitrice, al contrario dell’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, da cui una distrazione dell’attivo è inevitabilmente provocata. Anche quando le condotte fraudolente poste in essere abbiano consentito nel corso degli anni la costituzione di un patrimonio occulto, occorre inoltre verificare se tale patrimonio continua a esistere al momento della ristrutturazione dei debiti, che è quello con riguardo al quale, in assenza di diverse disposizioni, l’accertamento delle attività e delle passività dell’impresa proponente deve essere eseguito ai fini della valutazione della convenienza della proposta di transazione.
Tali condotte rilevano, tuttavia, anche in questo caso, non in quanto giustifichino una punizione del debitore da esercitare mediante il rigetto (autolesionista) di una transazione fiscale comunque conveniente, ma ove l’esistenza di un maggior patrimonio renda più conveniente per il Fisco la liquidazione giudiziale rispetto alla transazione. È dunque anche in questa ipotesi al criterio della convenienza che la valutazione deve essere informata e non a quello della punizione, da cui finirebbe poi per essere penalizzato soprattutto l’Erario. Non v’è chi non veda come tale esclusivo criterio di valutazione possa condurre all’approvazione di transazioni fiscali a cui corrispondano distrazioni perpetrate in danno dell’Erario, ma, ferma restando la necessità di rispettare le soglie di soddisfacimento sopra richiamate, il compito di punire spetta ad altri e non a chi ha invece il compito di recuperare quanto più efficacemente possibile i crediti erariali. Lo conferma l’art. 341, comma 3, del Codice, che estende l'applicazione dei reati fallimentari all'accordo di ristrutturazione con omologazione forzosa, proprio per evitare che chi si è reso responsabile delle suddette condotte rimanga impunito, beneficiando, grazie all’accordo, del mancato assoggettamento dell’impresa al fallimento e al concordato, nel cui ambito prima di tale estensione i reati fallimentari erano confinati. Si tratta – come ha scritto Roberto Fontana – di un contrappeso senza il quale sarebbe sufficiente, per neutralizzare la sanzione penale prevista per le condotte fraudolente, proporre “all’Agenzia delle Entrate o all’ente previdenziale il pagamento di una frazione minima del debito, dovendo in ogni caso il tribunale, secondo la giurisprudenza allo stato prevalente, procedere all’omologazione anche a fronte del rigetto da parte dell’ente della domanda di adesione”. È tuttavia chiara la separazione voluta dal legislatore tra il profilo sostanziale dell'istituto della transazione fiscale, volto al più conveniente recupero del credito erariale, e il profilo delle responsabilità, che devono essere accertate con strumenti diversi e in altre sedi.
L’introduzione di una norma anti-abuso, qual è quella prevista dall’art. 1-bis del decreto-lege n. 69/203, consente il superamento delle criticità discendenti dalla suddetta prassi degli uffici dell’Agenzia delle Entrate? Certamente, per i motivi già esposti, non fa venire meno la necessità della convenienza della proposta, che deve sempre e in ogni caso ricorrere sia ai fini della omologazione ordinaria sia di quella forzosa; tuttavia, può consentire, se la convenienza sussiste, il superamento di altri fattori, perché lo scopo di una norma anti-abuso è proprio quello di evitare, attraverso la previsione di limitazioni e condizioni, uno scrutinio concernente la fisiologicità dell’operazione, che è da ritenersi “non anomala” in quanto rispetti tali limitazioni e soddisfi tali condizioni, prescindendo da un giudizio nel merito sulla natura abusiva della transazione da esprimere caso per caso, che è ciò che una norma avente la struttura di quella di cui trattasi intende evitare. Per i motivi esposti, la condotta pregressa del contribuente, che non si fosse tradotta in un occultamento di una parte del patrimonio dello stesso incidendo sulla valutazione della convenienza della proposta, avrebbe già dovuto essere considerata irrilevante ai fini dell’approvazione e della omologazione della transazione fiscale; dovrebbe esserlo, a maggior ragione, a seguito dell’entrata in vigore della disposizione di cui trattasi, per effetto della quale si deve escludere che rilevi in ordine alla natura abusiva della proposta, una volta che le condizioni previste dalla norma siano rispettate.
5. I riflessi della norma sulla percentuale di soddisfacimento e sulla durata della dilazione di pagamento
La nuova disciplina rileva indirettamente anche ai fini della durata della dilazione di pagamento delle somme dovute in dipendenza della transazione fiscale. Infatti, disporre che il cram down è consentito in alcuni casi solo se la dilazione di pagamento non eccede i dieci anni, significa legittimare a pieno titolo, negli altri casi, anche dilazioni di pagamento ben superiori a dieci anni (in conformità, peraltro, a quanto è accaduto ogniqualvolta, seppur non frequentemente, l’Agenzia delle Entrate ha approvato proposte di transazione che prevedevano una dilazione di pagamento di quindici o anche vent’anni).
Sia l’art. 56 del Codice della crisi, richiamato dal successivo art. 57, sia l’art. 87 del medesimo Codice richiedono che nel piano siano indicati, rispettivamente, “i tempi delle azioni da compiersi” e “i tempi di adempimento della proposta”, ma non quantificano l’ampiezza di tali tempi. I principi di attestazione approvati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti prevedono (punto 6.5.12) che l’arco temporale oggetto di considerazione deve comunque attestarsi a data non anteriore al momento in cui, in base al piano, è previsto che siano soddisfatti i creditori, o, nel caso di continuità aziendale, siano ripristinate le normali condizioni di finanziamento (e di fido) ovvero, nel caso di prosecuzione di contratti pubblici, siano ripristinate condizioni che consentano un regolare adempimento degli stessi. Anche quando il pagamento di alcuni creditori va oltre il quinquennio, come normalmente avviene, ad esempio, relativamente a taluni debiti finanziari e ai debiti fiscali, non è quindi indispensabile che il piano abbia una durata pari a quella della dilazione concordata (o anche solo richiesta, se l’approvazione della proposta di accordo ha luogo mediante cram down), a patto che il riequilibrio patrimoniale, finanziario ed economico sia previsto nell’arco temporale del quinquennio. Ciò che rileva è infatti che, grazie alle falcidie previste, alle dilazioni quinquennali e a quelle ultra-quinquennali, entro l’arco di piano di cinque anni venga recuperato tale equilibrio.
Inoltre, la durata della dilazione di pagamento costituisce al tempo stesso sia un fattore di valutazione della convenienza della proposta di transazione, sia un fattore che determina tale convenienza, ogniqualvolta il soddisfacimento dei debiti tributari derivi dalla produzione dei flussi finanziari generati dalla prosecuzione dell’attività. Tale soddisfacimento è, infatti, tanto maggiore quanto più ampia è la dilazione di pagamento e, pertanto, a parità dell’importo dei flussi gestionali prodotti annualmente, il soddisfacimento delle agenzie fiscali è direttamente proporzionale alla durata della dilazione. È quindi di tutta evidenza, in tali casi, l’interesse erariale a evitare una riduzione della dilazione di pagamento, che, a parità dell’importo del flusso finanziario annuale destinabile al soddisfacimento dei debiti tributari, inevitabilmente comporta anche una riduzione della percentuale di pagamento offerta, posto che tale riduzione non può essere compensata da un incremento dell’importo pagabile annualmente, in considerazione del fatto che la capacità di produzione di liquidità da parte del debitore è dettata dal mercato e dalla struttura aziendale del debitore e non è modificabile a seconda delle esigenze dei creditori. Non vi è dubbio che l’affidabilità delle previsioni che costituiscono il contenuto del piano è inversamente proporzionale all’arco temporale oggetto delle stesse, ma ciò non significa che la dilazione di pagamento non possa avere una durata superiore a cinque anni. Ciò che l’amministrazione finanziaria - ovvero il tribunale in sede di omologazione - dovrebbero domandarsi è se la somma di cui viene offerto il pagamento rende la proposta di per sé conveniente per l’Erario rispetto all’alternativa liquidatoria, e quindi meritevole di accoglimento, anche in considerazione del pagamento previsto, seppur con minore probabilistica certezza, negli anni successivi ai primi cinque, il cui versamento può rendere ancor più conveniente - e dunque suscettibile di approvazione e omologazione - la proposta di transazione fiscale.
La norma introdotta dalla Legge n. 103/2023, consentendo - persino con riguardo all’ipotesi meno favorevole al debitore - una dilazione di pagamento di dieci anni, aiuta a superare le criticità emerse nella giurisprudenza in merito alle dilazioni di maggior durata.
Infine, riguardando tale norma anche l’omologazione forzosa della transazione contributiva con un soddisfacimento non inferiore al 30 o al 40 per cento, viene ribadita dal legislatore l’illegittimità della prassi degli enti previdenziali, in base alla quale vengono sistematicamente rigettate le proposte che escludono il pagamento integrale dei crediti destinati al trattamento pensionistico dei lavoratori, anche se non si tratta, a dire il vero, del primo intervento legislativo che sconfessa tale prassi, perché già vi aveva provveduto la stessa norma sul cram, dowm, imponendo l’approvazione della transazione in quanto conveniente, indipendentemente dalla percentuale di pagamento offerta.
6. L’avviso della omologazione ai creditori pubblici e il dies a quo di 90 giorni
A tutela dei creditori pubblici, la nuova norma introduce, in caso di richiesta di omologazione, anche non forzosa, degli accordi di ristrutturazione con annessa transazione fiscale, l’onere del debitore di darne avviso alle agenzie fiscali e agli enti previdenziali, disponendo che il termine di trenta giorni di cui questi ultimi dispongono per opporsi alla omologazione decorre dalla ricezione di tale avviso. Scopo della previsione di tale onere è, con tutta evidenza, quello di rendere edotti i creditori pubblici della richiesta di omologazione, al fine di consentire loro di interporre tempestiva opposizione alla omologazione richiesta dal debitore, ove la ritengano necessaria, colmando una lacuna delle norme previgenti, le quali, non prevedendo un’analoga comunicazione, hanno di fatto talvolta impedito alle agenzie fiscali e agli enti previdenziali di potersi opporre tempestivamente alla omologazione di transazione oggetto di diniego, non avendo avuto conoscenza della richiesta di omologazione forzosa formulata dall’impresa debitrice; con la ulteriore conseguenza di non poter presentare reclamo avverso l’omologazione eventualmente pronunciata dal tribunale, per difetto di legittimazione attiva per non aver promosso opposizione avverso tale omologazione nel termine a tal fine previsto. Infatti, come ha affermato la Corte di Appello di Milano con decreto n. 464 emesso in data 2.2.2022, il procedimento di reclamo ha “natura di gravame e [costituisce] acquisizione pacifica in giurisprudenza che la qualità di parte […], e quindi di soggetto legittimato all’impugnazione, si determina, nei gradi e nelle fasi ulteriori del giudizio, anche nei procedimenti disciplinati dagli artt. 737 e seg. c.p.c., esclusivamente per relationem rispetto alla qualità di parte assunta formalmente nei gradi e nelle fasi anteriori (…). Ne consegue che, secondo i principi generali, il rimedio previsto dal citato articolo 182-bis L. Fall., certamente ascrivibile al novero dei procedimenti in camera di consiglio, è esperibile solo dai creditori opponenti”.
Non pare tuttavia che la suddetta disposizione possa incidere sul termine a decorrere dal quale il debitore acquisisce il diritto di richiedere l’omologazione forzosa della transazione fiscale, sul presupposto della mancata adesione delle agenzie fiscali dovuta all’inerzia delle stesse. Infatti, anche se, da un lato, l’art. 1-bis del decreto-legge n. 69/2023 ha sospeso l’applicazione dell’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 63 del Codice della crisi, il quale stabiliva che, ai fini della omologazione forzosa della transazione, l’eventuale adesione dei creditori pubblici doveva intervenire entro novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, dall’altro lato, il comma 5 dello stesso art. 1-bis ha reintrodotto la medesima disposizione: pertanto, nessuna modifica è al riguardo intervenuta; inoltre, le due norme assolvono funzioni differenti. L’omologazione forzosa da parte del Tribunale presuppone che il debitore abbia precedentemente e tempestivamente dato all’amministrazione finanziaria la possibilità di esprimersi sulla proposta di transazione che le ha formulato e che l’adesione sia “mancante”, circostanza che ricorre solo a seguito del rigetto espresso della proposta o solo dopo che sia inutilmente decorso il termine di novanta giorni previsto attualmente dal comma 5 del citato art. 1-bis e, precedentemente, dall’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 63 del Codice della crisi. Conseguentemente, poiché la domanda di omologazione forzosa può essere presentata solo in caso di “mancanza” dell’adesione del Fisco, essa non può essere depositata se il suddetto termine di novanta giorni non è ancora spirato, non potendo l’accordo, sino a quel momento, essere ancora considerato “mancante”. Inoltre, l’Agenzia delle Entrate deve essere messa in condizione di potersi opporre alla omologazione forzosa e ciò le è consentito solo se può disporre di un congruo periodo per esaminare la proposta di transazione formulatale, periodo che il legislatore ha individuato in quello di novanta giorni. Ciò posto, occorre considerare che, a norma del comma 4 dell’art. 48 del Codice, l’opposizione deve intervenire entro trenta giorni dall’iscrizione della domanda di omologazione nel registro delle imprese, che è eseguita contestualmente al deposito di tale domanda; pertanto, se quest’ultima è coeva alla proposta di transazione fiscale, il diritto di opposizione delle agenzie fiscali verrebbe sostanzialmente escluso, perché l’opposizione dovrebbe essere proposta in trenta giorni e tale periodo non è mai sufficiente per valutare una proposta di transazione fiscale.
La disciplina che deriva da queste disposizioni rimane quindi, a modesto avviso di chi scrive, la seguente:
1) a seguito dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria il debitore può richiedere la omologazione ordinaria della transazione fiscale, depositando l’accordo di ristrutturazione sottoscritto dall’Agenzia delle Entrate e dall’agente della Riscossione, senza dover attendere alcun termine;
2) l’omologazione forzosa della transazione può essere richiesta solo a seguito del rigetto della proposta, e in questo caso senza dover attendere alcun termine, ovvero, in mancanza di un provvedimento dell’Amministrazione finanziaria, solo trascorsi inutilmente novanta giorni dalla data di deposito della proposta; in entrambe le fattispecie il debitore deve depositare, non un accordo sottoscritto, ma il testo dell’accordo proposto al Fisco oggetto di mancata adesione.
7. La data di efficacia della norma
La disposizione transitoria recata dal comma 6 del sopra citato art. 1-bis prevede l’applicazione delle norme di cui trattasi alle proposte di transazione fiscale depositate “in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto”; è dunque diversa da quella originariamente prevista, che stabiliva l’applicazione di dette norme “alle proposte depositate in data successiva a quella di entrata in vigore della legge” in cui queste erano destinate a essere inserite. Poiché il decreto-legge n. 69/2023 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 giugno 2023 ed è entrato in vigore il giorno successivo, ne discende che le norme di cui trattasi si applicano alle proposte depositate dal 15 giugno 2023.
Ciò posto, poiché l’emendamento contenente tali norme è stato presentato il 17 luglio 2023, nel corso dell’iter parlamentare avente a oggetto la conversione del citato decreto-legge 13 giugno 2023, n. 69, ne deriva un’applicazione in senso lato retroattiva, dovuta evidentemente alla volontà di ostacolare gli effetti della “corsa” alla presentazione di proposte di transazione fiscale avente lo scopo di evitare le limitazioni di cui trattasi, originata dalle notizie di stampa circolate a metà giugno, quando, nella seduta del 15 giugno 2023, le medesime norme erano state esaminate dal Consiglio dei Ministri, che aveva però deciso di disporne l’introduzione successivamente, mediante un provvedimento diverso da quello oggetto del suo esame in tale seduta. Lo si può ritenere nel merito più o meno opportuno, ma pare difficile privare il legislatore della facoltà di stabilire l’efficacia temporale del nuovo regime. Del resto, è vero che il principio di irretroattività costituisce un fondamento dello Stato di diritto, un elemento essenziale di civiltà giuridica e un fattore di certezza delle norme, e inoltre non è escluso che, anche al di fuori della materia penale, una legge retroattiva possa porsi in contrasto con specifiche norme costituzionali; tuttavia, esso ha rango non costituzionale e la sua osservanza è rimessa alla prudente valutazione del legislatore.
In ogni caso, sulla base della suddetta disposizione transitoria, le norme di cui trattasi sono irrilevanti rispetto alle proposte di transazione depositate prima del 15 giugno 2023, anche se il procedimento di omologazione forzosa delle stesse è iniziato successivamente a tale data ed è tuttora pendente, così come nel caso in cui procedimento venga avviato successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione n. 103/2023 (cioè del giorno successivo a quello della pubblicazione della stessa nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 10 agosto 2023, e dunque successivamente all’11 agosto 2023). Per forza di cose, tali norme non possono quindi trovare applicazione con riguardo alle proposte di transazione, ancorché contenenti un soddisfacimento inferiore a quello corrispondente alle soglie introdotte, di cui sia stata richiesta la omologazione forzosa entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 69/2023 (cioè entro l’11 agosto 2023), per due ragioni: a) perché, se riguardano proposte presentate anteriormente al 15 giugno 2023, come testé rilevato, ne è espressamente esclusa l’applicazione dalla disposizione transitoria; b) perché, se riguardano proposte depositate dal 15 giugno 2023, è impossibile che la richiesta di omologazione forzosa possa essere stata efficacemente presentata - con riguardo a proposte depositate dal 15 giugno 2023 - entro la data di entrata in vigore della legge di conversione (11 agosto 2023), non essendo ancora decorso in tale momento il termine di novanta giorni previsto, prima, dal comma 2-bis dell’art. 63 e, ora, dal comma 5 del citato art. 1-bis, per richiederne l’omologazione forzosa; salvo ritenere che, contrariamente a quanto sostenuto nelle pagine precedenti e all’indirizzo giurisprudenziale prevalente, il cram down possa essere richiesto anche anteriormente allo spirare del novantesimo giorno successivo a quello di deposito della proposta di transazione.
Ciò precisato, considerato che in base alla disposizione transitoria le nuove norme “si applicano alle proposte di transazione fiscale depositate ai sensi all’articolo 63, commi 1 e 2, del codice di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019 in data successiva a quella di entrata in vigore del presente decreto-legge” (cioè, come detto, dal 15 giugno 2023), resta da chiedersi quali atti debbano essere stati depositati anteriormente a tale data, per escludere l’applicazione di dette norme. Il richiamo (anche) del citato comma 2 indurrebbe a ritenere che il deposito della proposta debba avere avuto a oggetto anche la documentazione indicata negli articoli 57, 60 e 61 del Codice della crisi, vale a dirsi tutta la documentazione prevista dall’art. 39, commi 1 e 3, del medesimo Codice. Tuttavia, tenuto conto della ratio della predetta disposizione, ciò che dovrebbe rilevare è che anteriormente al 15 giugno 2023 sia stata formulata la proposta di transazione, sebbene non corredata da tutta la documentazione di cui all’art. 39, parte della quale - come spesso accade nella prassi - sia stata successivamente trasmessa ai competenti uffici, senza che questi ne abbiano precedentemente contestato la mancanza. A maggior ragione, è da escludere che il deposito, eseguito dal 15 giugno 2023 in poi, della modifica di una proposta di transazione presentata anteriormente a tale data, possa comportare l’applicazione delle nuove norme.
8. L’alternativa del concordato
La nuova disciplina trova applicazione solo con riguardo agli accordi di ristrutturazione dei debiti e non tocca pertanto la disciplina del cram down fiscale nel concordato preventivo. Non ne deriva, tuttavia, come qualcuno ha commentato, una sorta di disparità di trattamento fra i due istituti: sia perché si tratta di strumenti fondati su principi differenti, giacché uno coinvolge tutti i creditori e vede l’applicazione del principio maggioritario, mentre l’altro può essere rivolto anche a pochi creditori ed è efficace esclusivamente per chi vi aderisce; sia perché nel concordato in continuità è ancora tutto da accertare se il cram down fiscale è consentito (si veda, indipendentemente dal fatto che la si possa condividere o meno, la sentenza 18 luglio 2023 del Tribunale di Lucca, che lo ha appunto escluso).