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Concordato preventivo fra vecchio e nuovo: continuità normativa, interessi protetti e soddisfacimento dei creditori


Stefano Ambrosini

Data pubblicazione
05 agosto 2021

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Sommario: 1. Premessa: la “continuità normativa” fra legge fallimentare e Codice della crisi. – 2. Finalità del concordato, interessi protetti e modalità di soddisfacimento dei creditori. – 3. Segue. La questione della misura minima del soddisfacimento dei creditori. – 4. Il dichiarato favor per il concordato con continuità: una strada lastricata di buone intenzioni. – 5. Il concordato in continuità e il relativo “statuto” nel CCI. – 6. Segue. Continuità diretta. – 7. Cenni al dibattito sulla continuità indiretta nella disciplina della legge fallimentare. – 8. La continuità indiretta nel CCI. – 9. Continuità versus liquidazione: l’inapplicabilità, de jure condito, del criterio della prevalenza.

(*) Il presente contributo, che costituisce parte di un più ampio saggio, è pubblicato in AA.VV., Le soluzioni negoziate della crisi d’impresa, a cura di Ambrosini, Torino, 2021, pp. 1-22.

 

1. Premessa: la “continuità normativa” fra legge fallimentare e Codice della crisi

Com’è noto, la vigente legge fallimentare non contiene disposizioni né in tema di finalità dell’istituto, né in materia di profili distintivi tra tipologie concordatarie[1].

Nell’art. 84 del nuovo Codice della crisi[2] questi rilevanti aspetti si trovano invece espressamente disciplinati, con il che la norma assume un’importanza centrale nel nuovo assetto normativo. E siccome l’art. 84 ripropone problemi sorti nell’imperio della disciplina previgente (alcuni dei quali mira a risolvere) e ne solleva di nuovi, vi è anzitutto da chiedersi, ai fini della corretta applicazione dello jus conditum, che valenza possano avere le nuove previsioni – notoriamente non ancora in vigore – rispetto alla possibile soluzione di almeno alcuni dei dubbi interpretativi posti dalla disciplina della legge fallimentare.

Un primo, significativo, ausilio a questi fini può ricavarsi dalla recente presa di posizione, sul punto, da parte della Corte di Cassazione.

Ed invero, si è da ultimo affermato che la pretesa di rinvenire nel CCI “norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare – nello specifico segmento – un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro”[3]. E nella successiva ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite dell’annosa questione circa la configurabilità o meno del c.d. fallimento omisso medio[4] la Suprema Corte ha ribadito il concetto della continuità normativa fra vecchia e nuova legge.

La conclusione cui sembra corretto giungere – si anticipa qui ciò che si dirà in appresso – è quindi nel senso della impossibilità di ricavare un canone interpretativo del disposto dell’art. 84 per quanto concerne il criterio della prevalenza[5]; laddove con riferimento al diverso tema della continuità indiretta è stata la stessa Suprema Corte a valorizzare espressamente la valenza sul piano ermeneutico della nuova disposizione[6]. E analoga considerazione pare formulabile con riguardo all’interpretazione restrittiva dell’art. 163-bis rispetto a ipotesi – come l’aumento di capitale riservato a un terzo, o il trasferimento della partecipazione sociale di controllo – non contemplate dalla norma, anche perché riferite a beni non di proprietà del debitore, sui quali pertanto i creditori non possono fare alcun legittimo affidamento; interpretazione, questa, avvalorata dall’inserimento ad opera del CCI (art. 91) dell’avverbio “esclusivamente” all’interno del primo comma della suddetta previsione.

 

 

 

 

2.    Finalità del concordato, interessi protetti e modalità di soddisfacimento dei creditori

La rubrica della norma recita “Finalità del concordato preventivo”. Dal punto di vista delle figure retoriche – come già altrove osservato[7] – detta rubrica rappresenta un caso di sineddoche, riferendosi essa a una parte soltanto della previsione (che a ben vedere non è né la più importante, né la più innovativa), quella cioè in cui, al comma 1, si afferma che con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori.

Il “cuore” dell’art. 84 è invece costituito dalla declinazione delle modalità con cui il perseguimento di tale obiettivo può avvenire (mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio) e dai criteri in base ai quali distinguere il concordato liquidatorio da quello in continuità e, all’interno di que­st’ultimo, la continuità diretta da quella indiretta.

Questa dicotomia continuità/liquidazione nulla toglie, beninteso, alla persistente unitarietà dell’istituto concordatario. Com’è stato rilevato, infatti, “nonostante il primo comma dell’art. 84 affermi seccamente che la soddisfazione dei creditori può avvenire ‘mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio’, quasi che si trattasse di due distinte procedure concorsuali, è all’evidenza che – come nel regime precedente – unico rimane l’istituto del concordato preventivo, in quanto, a fronte della generalità delle disposizioni contenute nel capo III del titolo IV della parte I del Codice che restano applicabili a tutti i concordati, il legislatore ha inteso introdurre soltanto talune norme speciali che riguardano quello in continuità, ancora oggi dunque inequivocabilmente strutturato come ‘derogatorio’ rispetto al modello generale”[8].

La formulazione della norma chiarisce, anzitutto, che anche nella nuova legge l’interesse dei creditori continua a rappresentare la “stella polare” cui il legislatore guarda nel disciplinare la soluzione concordata della crisi. Come si diceva, l’art. 84 prevede infatti la “funzionalizzazione” dello strumento concordatario al soddisfacimento dei creditori, con ciò denotando che quello del ceto creditorio è l’interesse perseguito in via prioritaria (anche se – come si vedrà subito in appresso – non esclusiva) e che pertanto altri interessi possono bensì essere realizzati, ma solo se ed in quanto risultino compatibili con quello dei creditori e non già ove si pongano in contrasto con esso.

Non si tratta, come si diceva, di un interesse esclusivo, alla luce di quanto espressamente stabilito dal comma 2 dello stesso articolo, il quale, a proposito del concordato in continuità diretta, parla di “interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci”; disposizione, questa, richiamata immediatamente dopo, in quanto compatibile, con riferimento alla continuità indiretta. D’altronde, già nell’ambito della Sezione I del Capo II, dedicata agli obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolven­za, l’art. 4, comma 1, lett. c)[9], impone al debitore di gestire l’impresa durante la procedura nell’interesse prioritario dei creditori[10].

Va detto inoltre che dall’esame complessivo della norma si evince che tra gli interessi (implicitamente) protetti vi è anche quello della tutela dell’oc­cupazione, rispetto al quale chi scrive ha parlato per primo di discutibile “contaminazione” della disciplina concorsuale con i predetti profili lavoristici, oggettivamente più acconci al contesto e ai fini propri dell’amministrazione straordinaria[11]. E più di recente si è aggiunto come appaia “evidente che l’in­serimento di regole volte alla salvaguardia occupazionale (per quanto ispirate da pur legittimi obiettivi di natura sociale) rappresenti una previsione incompatibile con i principi della legge delega, in quanto non vi è alcun dubbio che la salvaguardia occupazionale si ponga in contrasto con il miglior interesse dei creditori che da sempre rappresenta la finalità primaria del concordato preventivo”[12].

Come detto, la disposizione di cui al comma 1 parla di soddisfacimento tout court. È soltanto l’art. 87 a parlare di miglior soddisfacimento con specifico riferimento al concordato in continuità, con ciò confermando – ad avviso di chi scrive – che si tratta di un requisito richiesto dal legislatore per il solo concordato in continuità e non anche per quello liquidatorio[13]. Con la precisazione che, in base al comma 2 dell’art. 7, nel piano (indipendentemente dalla tipologia di concordato) va espressamente indicata la convenienza per i creditori: il che implica una non lieve attenuazione della differenza, sotto il profilo che ci occupa, fra concordato in continuità e concordato liquidatorio, pur restando la convenienza concettualmente distinta dal miglior soddisfacimento.

Esaminando l’art. 84 nel suo complesso, può ancora osservarsi che una “precisazione”, in qualche modo, della nozione di soddisfacimento si rinviene nell’ultima parte del comma 3, là dove è stabilito, in parziale continuità con l’art. 161, comma 2, lett. e), che a ciascun creditore deve essere assicurata un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile. Non sfug­ge peraltro che la sostituzione del verbo “indicare”, di cui all’art. 161, comma 3, lett. e), con “assicurare” (già utilizzato dall’odierno art. 160, ultimo comma, l. fall.) connota la fattispecie di una diversa, maggiore, pregnanza.

Merita in proposito soggiungere, con riferimento al sopra citato ultimo comma dell’art. 160 l. fall., che secondo la più recente giurisprudenza di legittimità al tribunale spetta “verificare la funzionalità del piano rispetto al raggiungimento di un risultato che preveda necessariamente il soddisfacimento dei creditori chirografari nell'indicata percentuale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la pronuncia della corte di appello, secondo la quale dovevano essere i creditori, in sede di approvazione della proposta concordataria, a valutare l'idoneità di quest'ultima ad assicurare il pagamento della soglia minima dei crediti chirografari)”[14].

Dall’ultima parte del comma 3 dell’art. 84, poi, si ricava che nel concordato in continuità l’utilità da assicurare a ciascun creditore può essere rappresentata dalla mera prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali con il debitore o con il suo avente causa.

A differenza dell’attuale art. 160, ultimo comma, il termine soddisfacimento è impiegato dall’art. 84 anche all’ultimo comma, vale a dire nella disposizione riservata al concordato liquidatorio: donde la possibilità di ricorrere in via generalizzata a modalità satisfattive diverse dal pagamento (non potendo certo considerarsi casuale, dato il dibattito da tempo in corso sul punto, la scelta terminologica compiuta dal legislatore della riforma).

In linea generale, comunque, per quanto attiene alle finalità dell’istituto può ribadirsi che anche nell’assetto delineato dalla riforma, come del resto nel sistema tuttora vigente, il concordato preventivo persegue una duplice finalità: evitare che lo stato di crisi (ove questo sia in concreto il presupposto) degeneri in insolvenza e, in ogni caso, scongiurare la liquidazione fallimentare anche nelle ipotesi in cui l’impresa sia già insolvente.

 

3.    Segue. La questione della misura minima del soddisfacimento dei creditori

La disposizione dell’art. 84 qui in esame non risolve uno dei problemi più rilevanti dal punto di vista applicativo: quello rappresentato dal livello minimo di soddisfacimento dei creditori chirografari, che viene talora prospettato, nella pratica, in termini di pochi punti percentuali, quando non addirittura intorno all’uno o due per cento.

Dal 2015 la questione ha cessato di interessare – com’è noto – il concordato liquidatorio per effetto dell’avvenuta introduzione della soglia del 20%, ma ha continuato a riguardare il concordato con continuità aziendale e appare destinata a non perdere importanza neppure nel nuovo assetto ordinamentale.

Nel recente passato, a fronte dell’opinione secondo la quale la previsione di una percentuale di soddisfacimento eccessivamente bassa non dovrebbe consentire l’ammissione al concordato (difettandone in tal caso la causa concreta), si è sostenuto, da parte di alcuni autori (fra cui chi scrive), che tale aspetto deve in linea di principio ritenersi demandato alla valutazione dei creditori in ordine alla convenienza dell’opzione concordataria e che solo “una percentuale meramente simbolica non integri gli estremi indefettibili del piano di concordato (vale a dire non consenta alcuna ‘ristrutturazione dei debiti’, né ‘soddisfazione dei crediti’ quali inderogabilmente prescritti dalla lett. a) del comma 1 dell’art. 160)”[15].

Cominciamo col ribadire come relativamente al ricorso al concetto di causa concreta del concordato la più autorevole dottrina giuscommercialistica sia da tempo schierata su posizioni estremamente critiche.

Si è infatti osservato, in proposito, come “rispetto al concordato preventivo, non ci sia spazio per utilizzazioni operative della nozione di causa e che, eventualmente, ogni discorso in chiave finalistica debba essere svolto in termini di funzione: e la funzione del concordato è il soddisfacimento dei creditori nella maggior misura possibile”[16] e che “la causa concreta, che rappresenta – è stato detto – un bisticcio linguistico o, come si è scritto, un concetto sfuggente, viene intesa come l’obiettivo specifico perseguito dal tipo di procedimento, finalizzato concretamente al superamento della situazione di crisi dell’impren­ditore e a un soddisfacimento, pur modesto e parziale, dei creditori”[17].

Il ricorso al concetto in parola, a ben vedere, “significa ricorrere ad una argomentazione di tipo finzionistico”[18]: l’interprete, come reazione a scelte legislative da lui non condivise, costruisce un modello ideale della fattispecie e, in mancanza di un elemento essenziale di detto modello, “egli disapplica la normativa (…). Un simile tipo di argomentazione costituisce una evidente forzatura delle scelte legislative. Non solo: in questo modo il parametro da cui dipende l’applicazione o non della normativa è molto labile, in quanto tutto è rimesso all’idea che il singolo interprete ha dei requisiti necessari perché (…) un piano sia idoneo ad assicurare il soddisfacimento della ‘causa concreta’ del procedimento di concordato”[19].

Le critiche, comprensibilmente severe, non sembrano tuttavia aver fatto breccia nella giurisprudenza, se è vero che anche nelle recenti decisioni di legittimità sul punto si ribadisce che “la causa concreta della procedura di concordato preventivo, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento” consiste “nel superamento della situazione di crisi dell’impren­ditore e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti”[20].

Nondimeno, la Suprema Corte non attinge a tale concetto per risolvere la questione del livello minimale di soddisfacimento dei creditori chirografari. Proprio dal precedente testé citato, infatti, si ricava la puntuale conferma della tesi in base alla quale nel concordato in continuità è necessaria, ma sufficiente, l’assicurazione di un soddisfacimento in una qualche misura, ancorché assai modesta, del ceto chirografario (nel caso in esame la proposta di concordato contemplava il pagamento dei chirografari all’uno per cento).

Anche nella prospettiva ermeneutica fatta propria dalla Cassazione, “non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria possa ritenersi (…) di per sé, inadatta a perseguire la causa concreta a cui la procedura è volta”[21]. Donde la dubbia correttezza di quell’orientamento della giurisprudenza che ha in passato ritenuto inammissibili domande in cui si offrivano ai chirografari percentuali inferiori, in certi casi al 5%, in altri al 3%, la cui fissazione appariva già in allora – come si è avuto modo di segnalare ripetutamente in sede convegnistica – piuttosto arbitraria, anche perché sprovvista di qualsiasi base testuale, risultando invece preferibili quelle decisioni che, ammettendo percentuali pari o inferiori al 4% (peraltro, di regola, ulteriormente ridimensionate nelle previsioni commissariali), hanno valorizzato la comparazione con lo scenario deteriore in caso di fallimento. Non a caso, in svariati provvedimenti adottati di recente da alcuni fra i maggiori tribunali italiani si ammette espressamente la possibilità di offrire ai chirografari anche un paio di punti percentuali.

Né pare condurre a ritenere il contrario la formulazione dell’art. 161, comma 2, lett. e), ove si richiede che nella proposta sia indicata “l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”, senza che siano menzionati aspetti quantitativi di sorta.

Se così è, deve allora ribadirsi che l’unica ipotesi di reiezione in limine della domanda sotto il profilo di cui trattasi è data dalla palese inidoneità, prima facie, del piano concordatario a conseguire l’obiettivo del ritorno in bonis del debitore, senza che il tribunale possa sovrapporre alla valutazione dei creditori il proprio sindacato sul contenuto economico della proposta e sulla sua convenienza rispetto all’alternativa fallimentare. “Il Tribunale, dunque, deve avere riguardo – chiarisce la Suprema Corte – a rilevare dati da cui emerga, in maniera eclatante, la manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, ivi compresa la soddisfazione in una qualche misura dei crediti rappresentati. Una volta esclusa questa evenienza va lasciata al giudizio dei creditori, quali diretti interessati all’esito della procedura, la valutazione – sotto i diversi aspetti della plausibilità dell’esito e della convenienza della proposta – delle modalità di soddisfacimento dei crediti offerte dal debitore, ivi comprese la consistenza delle percentuali di pagamento previste”[22].

A tale stregua, la conclusione cui correttamente pervengono i giudici di legittimità è che non rientra nell’ambito della verifica della fattibilità riservata al giudice un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta e quindi sulla convenienza della stessa, anche sotto il profilo della misura minimale del previsto soddisfacimento. Fermo restando, ad avviso di chi scrive, che in situazioni nelle quali la percentuale risulti puramente simbolica, come nel noto caso del tre per diecimila esaminato anni fa da una corte di merito[23], non debbono ritenersi integrati i requisiti minimi della fattispecie legale, non potendosi parlare, in ipotesi siffatte, di soddisfacimento dei creditori (analogamente a quanto si afferma, mutatis mutandis, in tema di c.d. vendita nummo uno, dove la corresponsione di una somma puramente simbolica non può essere considerata alla stregua di un prezzo).

Così chiariti i termini della soluzione da ultimo accolta dalla Cassazione, merita domandarsi se essa appaia destinata a trovare conferma – sempre con esclusivo riferimento al concordato in continuità (stante il tenore dell’ultimo comma dell’art. 84) – anche dopo che sarà entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Una delle novità introdotte dalla riforma attiene precisamente al contenuto del controllo giudiziale, dal momento che, ai sensi del comma 1 dell’art. 47, in sede di ammissione alla procedura, a seguito del deposito del piano e della proposta di concordato, il tribunale fa luogo all’apertura del concordato una volta “verificata l’ammissibilità della proposta e la fattibilità economica del piano ed acquisito, se non disponga già di tutti gli elementi necessari, il parere del commissario giudiziale, se nominato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b)”. Ai sensi del comma 3 della medesima norma, poi, il tribunale, “quando accerta la mancanza delle condizioni di ammissibilità e fattibilità di cui al comma 1, sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed il pubblico ministero, con decreto motivato dichiara inammissibile la proposta e, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale”. Ed ancora, in base al comma 3 del successivo art. 48, il tribunale, in sede di omologazione, “verifica la regolarità della procedura, l’esito della votazione, l’ammissibilità della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.

Orbene, il nuovo art. 47, pur introducendo lo scrutinio giudiziale sulla fattibilità economica del piano, non comporta, a ben vedere, la possibilità per il tribunale di negare l’ammissione al concordato ogniqualvolta la percentuale offerta ai creditori chirografari venga giudicata troppo bassa. La verifica in questione, infatti, attiene al potere/dovere del giudice di valutare, di regola sulla scorta dei rilievi commissariali, l’effettiva realizzabilità del piano e, di conseguenza, le concrete prospettive di soddisfacimento dei creditori, indipendentemente dall’entità dello stesso.

Potrà quindi accadere anche in futuro, ovviamente, che venga ritenuto non fattibile un piano che preveda una recovery – poniamo – del 15% per i chirografari e, viceversa, fattibile uno che contempli una percentuale compresa, ad esempio, fra il 2 e il 3%. Ciò che conta, ai fini della valutazione prognostica di cui trattasi, non è il livello della percentuale, ma la possibilità che il piano di concordato, per com’è in concreto strutturato, supportato dal punto di vista finanziario e attestato, assicuri realmente il risultato previsto a beneficio dei creditori[24].

In definitiva, nell’ottica della nuova disciplina, non diversamente da quanto accade oggi, il giudizio sulla convenienza della soluzione concordataria resta riservato ai creditori anche nell’ipotesi in cui il loro soddisfacimento sia previsto in misura minimale, esulando ciò dallo scrutinio circa la fattibilità economica del piano di cui ai nuovi artt. 47 e 48 del Codice.

 

4.    Il dichiarato favor per il concordato con continuità: una strada lastricata di buone intenzioni

Quello del favor per la soluzione concordataria (in continuità aziendale) è, nel nuovo assetto ordinamentale, il terreno elettivo sul quale misurare la distanza fra obiettivi enunciati e loro effettiva traduzione a livello di diritto positivo.

Interessante, da questo punto di vista, si rivela il tenore della Relazione illustrativa al d.lgs. n. 14/2019: “Nell’ultimo decennio il legislatore si è perciò indirizzato a favorire, nei limiti del possibile, il ricorso all’istituto concordatario, e nulla induce ora a sovvertire tale linea di condotta, pur con i contemperamenti che l’esperienza ha già mostrato essere necessari per evitare possibili abusi in danno dei creditori (…) In molti casi, tuttavia, le proposte concordatarie hanno continuato ad assumere il tradizionale contenuto della cessione dei beni, che raramente rappresenta per i creditori una soluzione davvero più vantaggiosa, (…) Il favore per l’istituto concordatario si giustifica, invece, principalmente quando esso valga a garantire la continuità aziendale e, per suo tramite, ricorrendone i presupposti, riesca altresì ad assicurare nel tempo una migliore soddisfazione dei creditori. Muovendo da tale empirica constatazione, si è ritenuto di incentivare il ricorso al concordato in continuità: quando cioè, vertendo l’impresa in situazione di crisi o anche di insolvenza, la proposta pre­veda il superamento di tale situazione mediante la prosecuzione (diretta o indiretta) dell’attività aziendale, sulla base di un adeguato piano che consenta, al tempo stesso, di salvaguardare il valore dell’impresa e, tendenzialmente, i livelli occupazionali, con il soddisfacimento dei creditori”.

Rispetto a tale enunciazione “programmatica”, il disposto del comma 3 del­l’art. 84 risulta, a ben guardare, in flagrante controtendenza. Ed invero, aver subordinato al superamento della prevalenza quantitativa – come si dirà – la possibilità di configurare un concordato in continuità contrasta con il fine, per l’appunto più dichiarato che concretamente perseguito, di favorire la continuità aziendale attraverso lo strumento concordatario. È infatti sufficiente che il valore dei beni oggetto di dismissione superi il valore dei beni destinati alla prosecuzione dell’attività d’impresa per ricadere, peraltro, in modo “artificioso” rispetto alle reali dinamiche della vita di un’azienda, nel perimetro applicativo del concordato liquidatorio, arrivando così a negare la tutela della continuità aziendale sulla base di un criterio tanto rigido e formale quanto, appunto, poco aderente alla realtà delle nostre imprese.

In altri termini, la continuità aziendale non prevalente può inscriversi nel quadro concordatario solo a condizione che siano rispettate le soglie di cui all’art. 84, ultimo comma.

In mancanza di ciò, l’unico modo per proseguire l’attività, da parte però, a quel punto, del curatore, è la liquidazione giudiziale con esercizio provvisorio (art. 211).

Ne consegue che uno dei primi aspetti cui si dovrebbe porre mano nella (auspicata) riscrittura delle norme in materia di concordato – a cominciare dal superamento dei vincoli della legge delega – consiste nell’espunzione dell’im­provvido (e, come si è visto, incoerente) criterio della prevalenza[25].

Discorso analogo, come si dirà al paragrafo 8, vale per i limiti introdotti dall’art. 84 con riferimento alla continuità indiretta: limiti, oltretutto, eccedenti il perimetro della delega.

Dove invece obiettivi e soluzioni sembrano essere coerenti gli uni con le altre è nell’ambito dei principi generali di carattere processuale e, segnatamente, all’art. 7, il cui comma 2 prevede che debba essere dato esame prioritario alle domande che contemplano il mantenimento della continuità aziendale, anche indiretta, purché nel piano sia esplicitata la convenienza per i creditori della soluzione proposta e sempre che la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile o infondata.

Con il che viene, fra l’altro, sancita in via generale la necessità di indicare espressamente la convenienza della soluzione concordataria per i creditori (norma, per vero, non strettamente indispensabile), laddove – come si diceva in precedenza – il requisito del miglior soddisfacimento dei creditori è previsto solo con riferimento al concordato in continuità.

Improntata a evidente favor per il concordato è poi la norma sul c.d. cram down dei crediti tributari e previdenziali introdotta – in via anticipata rispetto all’art. 48, comma 5, CCI – dalla legge 27 novembre 2020, n. 159, ai sensi della quale all’art. 182-bis, comma 4, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Il tribunale omologa l’accordo anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie quando l’adesione è decisiva ai fini del raggiungimento della percentuale di cui al comma 1 e quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista di cui al medesimo comma, la proposta di soddisfacimento della predetta amministrazione o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria”. Disposizione, questa, che, in coerenza sia con il predetto favor, sia con l’opportuna eterotutela giudiziale di creditori quali Fisco e INPS ogniqualvolta le determinazioni di essi non mirino effettivamente all’obiettivo del loro miglior soddisfacimento, deve trovare applicazione – a dispetto dell’infe­lice tenore letterale – non soltanto in caso di mancata espressione del voto, ma anche nell’ipotesi di voto negativo reso dai creditori in questione[26].

In ogni caso, è forte la percezione, alla luce di una disciplina del concordato – quella del Codice della crisi – oggettivamente più rigorosa, nel suo complesso, di quella vigente, che la riforma non sia improntata a un reale favor per la soluzione concordataria tout court e neppure, a ben vedere, per il concordato in continuità (come si dirà in seguito trattando della continuità indiretta).

 

5.    Il concordato in continuità e il relativo “statuto” nel CCI

Come già anticipato in ordine alla declinazione del concetto di continuità, il comma 2 dell’art. 84 stabilisce che la continuità può essere diretta, ove sia condotta dallo stesso imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, ovvero indiretta, nel caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio, o la ripresa dell’attività (e qui riecheggia il concetto di “riattivazione” di cui alla legge sull’amministrazione straordinaria), da parte di soggetto diverso dal debitore.

Rinviando al paragrafo successivo la disamina delle questioni relative alla distinzione fra continuità diretta e indiretta, merita qui porre in luce le disposizioni che racchiudono al proprio interno quello che può definirsi lo “statuto” del concordato con continuità aziendale, vale a dire le regole che si applicano esclusivamente a detta tipologia.

Oltre agli elementi prescritti in via generale dall’art. 87, il piano di concordato in continuità deve indicare:

a) i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria;

b) le ragioni per le quali la continuità risulta funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;

c) ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, un’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.

In caso di concordato in continuità, inoltre, la relazione del professionista indipendente deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori (art. 87, ultimo comma).

Il piano concordatario in continuità può altresì prevedere una moratoria fino a due anni dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (art. 86)[27].

Inoltre, quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, il debitore può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un professionista indipendente attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori. L’attestazione del professionista non è necessaria per i pagamenti effettuati fino a concorrenza dell’ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano apportate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione postergato alla soddisfazione dei creditori (art. 100).

Il tribunale può autorizzare, alle medesime condizioni, il pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione (art. 100).

Va infine ricordato che i contratti in corso di esecuzione, stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto del deposito della domanda di concordato, se il professionista indipendente ne attesta la conformità al piano, ove predisposto, e la ragionevole capacità di adempimento (art. 95)[28].

 

6. Segue. Continuità diretta

Il più volte citato comma 2 dell’art. 84 chiarisce che di continuità diretta può parlarsi nel solo caso in cui la gestione dell’azienda in esercizio – secondo la terminologia dell’odierno art. 186-bis, a sua volta mutuata dall’art. 63, d.lgs. n. 270/1999 – sia proseguita dal medesimo soggetto che ha presentato la domanda di concordato, vale a dire lo stesso debitore, non essendovi nel nostro sistema spazio per iniziative concordatarie di terzi (ma solo, in costanza di procedura, per la proposizione di proposte concorrenti[29]).

È la norma stessa a precisare che, quanto al piano proposto dal debitore (ma il rilievo vale anche rispetto al suo “avente causa”, vale a dire, tipicamente, il cessionario dell’azienda), l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che deve essere assicurata a ciascun creditore può anche essere rappresentata dalla prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali.

Alla nozione di continuità diretta va ricondotta anche l’ipotesi di un terzo investitore che faccia il proprio ingresso nella compagine della società debitrice sottoscrivendone l’aumento di capitale, giacché è pur sempre il debitore, seppur patrimonializzato grazie ad apporti esterni, a proseguire l’attività d’im­presa[30].

In questo ambito assume considerevole rilevanza enucleare quegli apporti qualificabili alla stregua di risorse esterne in senso proprio, come tali escluse dall’obbligo di rispettare la par condicio creditorum.

Al riguardo, devono ritenersi provenienti ab externo tutti – e soltanto – quei flussi di cassa scaturenti da una continuità aziendale resa possibile esclusivamente dall’apporto di soggetti terzi rispetto all’impresa debitrice.

In dottrina, muovendo dalla consapevolezza del rischio di uno scardinamento della predetta regola, si è osservato che “un suggerimento operativo potrebbe essere (…) quello di considerare come risorse esterne solo quelle che non derivano geneticamente dal patrimonio dell’impresa che accede al concordato preventivo, ma sono il frutto di interventi di terzi. Non saranno quindi risorse esterne né l’incasso di crediti né gli ‘utili’ della gestione conseguiti nel periodo di esecuzione del piano di concordato”[31].

 

7.    Cenni al dibattito sulla continuità indiretta nella disciplina della legge fallimentare

Relativamente alla natura – liquidatoria o con continuità aziendale – del concordato preventivo basato sull’affitto di azienda o di un ramo di essa è notoriamente in corso da diversi anni una serrata disputa tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

Secondo una corrente di pensiero (a cui chi scrive non ha mai ritenuto di aderire), “continuità aziendale e affitto d’azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è continuità non può esservi affitto d’azienda; dove vi è affitto d’azienda non può esservi continuità”[32].

Depongono invero in senso contrario al predetto assunto sia la lettera della legge – là dove si parla di “cessione dell’azienda in esercizio” (nulla essendovi in tale espressione che autorizzi a escludere l’affitto) – sia la ratio della stessa, che risulta improntata, in modo sufficientemente perspicuo, a una nozione di continuità aziendale in senso oggettivo, vale a dire indipendentemente dal soggetto – il debitore o un terzo – che conduce l’azienda al momento del deposito della domanda di concordato.

A ciò si aggiunga che (i) non tutto l’art. 186-bis – della cui integrale applicabilità all’ipotesi di continuità indiretta giustamente si dubita – deve considerarsi ad applicazione necessaria, ma, nel caso di affitto, nei soli limiti di compatibilità con esso; (ii) il rischio d’impresa grava pur sempre (anche) sul debitore, ancorché concedente l’azienda in affitto, non foss’altro che in virtù delle vicende che possono riguardare il contratto di affitto stesso, a cominciare dai possibili inadempimenti dell’affittuario (d’altronde, non par dubbio che l’an­da­mento dell’attività d’impresa continui a incidere, seppur indirettamente, sulla fattibilità del piano); (iii) l’art. 160, ultimo comma, dichiara espressamente inapplicabile al concordato in continuità la soglia del 20% a beneficio dei chirografari: non avrebbe dunque senso precludere la soluzione concordataria imponendo il fallimento in quelle situazioni che, pur connotate dalla continuazione dell’attività d’impresa, vedono l’azienda già affittata a terzi, giacché la ratio legis consiste precisamente nel preferire il fallimento ogniqualvolta con la liquidazione del patrimonio aziendale (e non già con la prosecuzione del­l’attività, sia pure ad opera di un terzo) non si assicuri il predetto livello di soddisfacimento.

In piena aderenza a quest’ultima tesi, da tempo propugnata in dottrina (fra i primi da chi scrive[33]) e progressivamente condivisa da larga parte della giurisprudenza di merito, la Corte di Cassazione[34] ha sancito la riconducibilità sia dell’affitto “ponte”, sia di quello “puro” (cioè non prodromico alla cessione), all’ambito applicativo dell’art. 186-bis, con quanto ne consegue in termini, da un lato, di attestazione “rafforzata” dell’esperto, dall’altro (e soprattutto), di non operatività della soglia percentuale minima del 20% di cui all’ultimo comma dell’art. 160.

Il principio di diritto opportunamente affermato dai giudici di legittimità è il seguente: “Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall’art. 186-bis l. fall. è configurabile anche quando l’azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell’ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o, come nell’ipo­tesi dell’affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d’affitto – recante, o meno, l’obbligo dell’affittuario di procedere, poi, all’acquisto dell’azien­da (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) – può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile”[35].

A tale conclusione la sentenza giunge attraverso un percorso argomentativo che si lascia apprezzare per coerenza e linearità.

Premesse alcune considerazioni di carattere generale sul concordato preventivo con continuità aziendale (dichiaratamente desunte dai contributi dottrinali in materia), la Corte rileva come il legislatore del 2012 abbia “inteso favorire la prosecuzione dell’attività d’impresa in senso tanto soggettivo quanto oggettivo (basti soltanto pensare alla compiuta disciplina sui contratti in corso di esecuzione o alla puntuale regolamentazione dei finanziamenti)”[36], precisando correttamente che ciò su cui l’attenzione della legge “ha mostrato di appuntarsi è la ‘azienda in esercizio’, indipendentemente dalla circostanza che essa sia condotta dal debitore, o da soggetti diversi. Di qui, fra l’altro, la riconducibilità dell’affitto di azienda stipulato anteriormente al deposito della domanda nel perimetro applicativo dell’art. 186-bis (fattispecie che va sotto il nome di continuità indiretta)”[37].

In ordine, poi, al momento di stipulazione del contratto d’affitto d’azienda, la decisione di cui trattasi afferma, convincentemente, come risulti “affatto indifferente la circostanza che, al momento della ammissione al concordato o del deposito della domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o, come nel caso dell’affitto della stessa, da un terzo, in quanto, in ogni caso, il contratto d’affitto costituisce un semplice strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei valori intrinseci, primo tra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, produrrebbe in modo irreversibile”[38].

Con riferimento, inoltre, al rilievo dottrinale[39] circa la non persistente “pienezza” della qualità d’imprenditore in capo al debitore che abbia concesso in affitto l’azienda prima del deposito della domanda, la Corte, superando l’obiezione (in verità non decisiva), rileva giustamente che “l’imprenditore che affitta la sua azienda conserva ancora una serie di obblighi giuridici, come il divieto di concorrenza ex art. 2557 cod. civ. e la tutela dei segni distintivi, i quali non fanno venire meno la sua natura di imprenditore commerciale a prescindere dal venir meno del suo rapporto materiale con l’azienda”[40].

Ed invero, come da tempo osservato, appare “incontestabile che il rischio d’impresa continui a gravare, seppur indirettamente, sul soggetto in concordato e che l’andamento dell’attività incida, in ultima analisi, sulla fattibilità del piano”. Non a caso la Suprema Corte statuisce in proposito che, “ogni qualvolta la prosecuzione dell’attività di impresa da parte dell’affittuario (a prescindere dal momento della stipulazione del contratto di affitto) sia rilevante ai fini del piano, e cioè influenzi la soddisfazione dei creditori concorsuali, il concordato preventivo dovrà essere qualificato con continuità aziendale”[41].

Quanto infine all’ipotesi in cui l’affitto non sia strutturato in chiave prodromica alla cessione ma risulti, per così dire, “fine a se stesso”, la Cassazione, facendo propria (testualmente) una recente opinione dottrinale sul punto[42], afferma: “Discorso analogo vale, mutatis mutandis, per il cd. affitto puro, quello, cioè, che non risulti prodromico alla cessione dell’azienda, ma alla sua semplice dislocazione in capo all’affittuario, con successiva retrocessione, durante la fase esecutiva del piano o al termine di essa, al debitore. Non ha infatti senso annettere natura liquidatoria a tale fattispecie, nella quale il piano consente il ritorno in bonis dell’imprenditore addossando temporaneamente a terzi gli oneri ed i rischi connessi alla conduzione dell’attività, senza che vi sia, ten­denzialmente, alcuna dismissione di cespiti aziendali (salva l’ipotesi di alienazione di beni non funzionali alla ‘riperimetrata’ continuità, espressamente contemplata dall’art. 186-bis l. fall.)”[43].

 

8. La continuità indiretta nel CCI

La legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017, con una scelta da salutare con favore, aveva anticipato la soluzione accolta dalla Cassazione testé illustrata, stabilendo, nell’ambito dei princìpi generali (e precisamente all’art. 2, comma 1, lett. g), la necessità di “dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore (…)”. In sede di emendamenti parlamentari al testo della delega varato dal Governo, si era altresì individuato, fra i princìpi e i criteri direttivi in materia di concordato preventivo, quello di: “integrare la disciplina del concordato con continuità aziendale, prevedendo (…) che tale disciplina si applichi anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato” all’art. 6, comma 1, lett. i).

La legge in parola aveva pertanto vincolato il legislatore delegato alla necessità di ricomprendere tout court nel perimetro delle norme sul concordato in liquidità la fattispecie della continuità indiretta.

In coerenza con ciò (seppur solo parzialmente, come si vedrà subito in appresso) l’art. 84, stabilisce al comma 2, che la continuità può anche essere “indiretta, in caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente alla presentazione del ricorso, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo, ed è previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per i successivi due anni”.

Come già altrove si è avuto modo di osservare[44], l’impostazione adottata dal decreto delegato suscita qualche perplessità, sia dal punto di vista della “contaminazione” della fattispecie con aspetti occupazionali più acconci, come si diceva, alla disciplina dell’amministrazione straordinaria che non a quella del concordato preventivo, sia sotto il profilo del rispetto della legge delega, dal momento che l’art. 6, comma 1, lett. i), n. 3, è imperniato sul presupposto dell’identità di disciplina fra continuità diretta e indiretta, con ciò sembrando escludere disposizioni di “sfavore” (in termini di oneri supplementari) per quest’ultima, com’è, invece, chiaramente quella sul livello minimo di lavoratori da mantenere o riassumere. Senza dire del possibile, ulteriore, profilo di incostituzionalità – di là dal dirimente contrasto con la legge delega – in ordine alla dubbia ragionevolezza di una siffatta disparità di trattamento fra continuità diretta e indiretta, tanto più – si ripete – al cospetto di un quadro che, dalla ratio sottesa alle indicazioni del legislatore delegante alla posizione da ultimo assunta dalla Suprema Corte, è caratterizzato dal principio della medesima disciplina delle due fattispecie e, come tale, verosimilmente idoneo a limitare la discrezionalità del legislatore delegato sul punto in questione.

L’assunto della irragionevole disparità di trattamento è condiviso in dottrina da chi ha puntualmente osservato che “la norma rischia di essere viziata anche per irragionevolezza se non per violazione del principio di eguaglianza. Pur nella diversità di fattispecie, infatti, non si ravvisano ragioni per l’adozione di una disciplina che finisce con il premiare la continuità diretta, posto che (anche al netto di qualsiasi valutazione circa il comportamento del debitore e l’eventuale concorso nella causazione o nell’aggravamento della crisi): (i) l’impresa concordataria ha certamente più difficoltà di prosecuzione rispetto ad un terzo acquirente in bonis; (ii) proprio i lavoratori potrebbero essere più favorevoli a soluzioni che prevedano la cessione dell’azienda ad un terzo più ‘solido’; (iii) il piano di continuità diretta è certamente il più rischioso per i creditori per la intrinseca maggiore aleatorietà dell’attività di impresa rispetto al conseguimento di un prezzo – o di un valore – a fronte della cessione a terzi. Ciò senza considerare, ancora, la disparità – anch’essa priva di qualunque ragione – che si avrebbe a seconda che l’intervento del terzo avvenga attraverso l’ingresso nella compagine sociale e nel capitale, ovvero mediante acquisto dell’azienda”[45].

Quanto infine alle conseguenze della possibile violazione del predetto obbligo di mantenimento o riassunzione di lavoratori, si dubita in dottrina che “si possa riqualificare il concordato in dipendenza del comportamento di un terzo – l’affittuario dell’azienda in concordato – comunque estraneo al debitore, il quale non potrebbe in ogni caso imporre il mantenimento della forza lavoro all’affittuario, se non alla condizione di esercitare una indebita ingerenza sulla gestione altrui. È vero, poi, che la violazione da parte del terzo cessionario od affittuario dell’obbligo di mantenimento dei limiti occupazionali potrebbe essere invocato dal cedente o affittante come inadempimento contrattuale, atteso che evidentemente detto obbligo sarà stato inserito nel negozio traslativo; tuttavia una risoluzione del contratto di cessione o affitto di azienda per inadempimento, ex art. 1453 c.c., pure in astratto praticabile, per un verso, condurrebbe al risultato di compromettere, inevitabilmente, l’esecuzione del piano concordatario presentato e, per altro verso, non consentirebbe comunque di assicurare il rispetto delle soglie occupazionali ex lege[46].

 

9. Continuità versus liquidazione: l’inapplicabilità, de jure condito, del criterio della prevalenza

Quella della qualificazione del concordato come liquidatorio o meno a seconda della presenza di una componente dismissiva di beni (strumentali alla continuità prima della sua riperimetrazione ad opera del piano concordatario) è – com’è noto – questione annosa anche per via del silenzio serbato sul punto dalla legge fallimentare.

In un contributo apparso all’indomani della miniriforma del 2015 chi scrive si era posto l’interrogativo circa l’applicabilità della percentuale minima del 20% ai chirografari nel concordato misto: “La risposta secondo la quale la semplice presenza di una componente liquidatoria dovrebbe comportare l’os­servanza della soglia minima non persuade. Anzi, il favor del legislatore (anche) di quest’ultima riforma per il concordato in continuità dovrebbe indurre a ritenere, semmai, l’esatto contrario, vale a dire che la presenza di elementi di continuità aziendale (purché non di irrisoria rilevanza rispetto al tutto) giustifichi di per sé l’applicazione dell’art. 186-bis e quindi l’esclusione del­l’obbli­go relativo al 20%”[47].

Naturalmente, la continuità aziendale deve risultare effettiva e non artificiosamente costruita allo scopo di evitare l’applicazione dell’art. 160, ultimo comma, giacché in questa seconda ipotesi si ricade evidentemente nell’abuso del diritto[48].

Questa impostazione è stata di recente recepita dalla giurisprudenza di legittimità: “Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis l. fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito”[49].

La Cassazione perviene a tale risultato attraverso un’analisi e una interpretazione del testo normativo pienamente corrette: “L’individuazione del canone regolante il concordato il cui piano abbia un contenuto complesso deve giocoforza trovare soluzione ponendo attenzione all’attuale contesto normativo, che si struttura come detto – attraverso l’individuazione di una disciplina di carattere generale a cui si accompagna, in termini di specialità con l’introduzione di regole peculiari rispetto alla fattispecie comune, il disposto della l. fall., art. 186-bis. Questa norma, all’ultimo periodo del suo comma 1, include espressamente nel novero regolato dalla disciplina speciale il caso in cui il piano preveda ‘anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’im­presa’. La compresenza in piano di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell’attività aziendale è dunque espressamente contemplata dal legislatore, all’interno della norma, speciale e derogatoria dei criteri generali, di cui alla l. fall., art. 186-bis. Il che non lascia spazio a equivoci di sorta in merito al fatto che tale normativa governi la fattispecie (vale a dire che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni)”.

Da ciò consegue che, de jure condito, non appare fondatamente predicabile introdurre, quale “spartiacque ermeneutico”, il criterio della prevalenza (tanto meno di carattere quantitativo)[50].

Né infine risulta invocabile, allo stato, il disposto del nuovo art. 84 CCI, stante l’assenza, con riguardo alla questione in esame, del presupposto della continuità normativa fra vecchia e nuova disciplina, già illustrato nella premessa di questo contributo.

NOTE

[1] Sull’istituto del concordato preventivo si vedano, nella trattatistica degli ultimi anni, Ambrosini, Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, IV, Torino, 2014, p. 4 ss.; Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca-Galgano, a cura di De Nova, Bologna, 2014; Censoni, Il concordato preventivo: organi, effetti, procedimento, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio-Sassani, IV, Milano, 2016, p. 3 ss.; Arato, La domanda di concordato, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso-Panzani, III, Torino, 2016, p. 3284 ss.

[2] Su questa disposizione cfr., ex aliis e per ulteriori riferimenti, Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, p. 855 ss.; D’Angelo, Il concordato preventivo con continuità aziendale nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in Dir. fall., 2020, I, p. 27 ss.; Zorzi, Concordato con continuità e concordato liquidatorio: oltre le etichette, in Dir. fall., 2020, I, p. 58 ss.; Calandra Buonaura, Il nuovo concordato preventivo, in AA.VV., La riforma delle procedure concorsuali, in ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di Jorio-Rosapepe, Milano, 202,1 pp. 165 ss.

[3] Così, espressamente, si sono pronunciate le Sezioni Unite della Cassazione nel recente arresto rappresentato dalla sentenza 24 giugno 2020, n. 12476, in www.unijuris.it.

[4] Cass., 31 marzo 2021, n. 8919, in www.ilcaso.it.

[5] Sul criterio della prevalenza v. da ultimo, anche per riferimenti, la (come di consueto puntuale) analisi di Macagno, Il criterio della prevalenza nel concordato preventivo del CCII, in www.dirittodellacrisi.it, 8 Aprile 2021.

[6] Cass., 15 gennaio 2020, n. 734, in Fallimento, 2020, pp. 477 ss.

[7] Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo: “finalità”, “presupposti” e controllo sulla fattibilità del piano, in www.ilcaso.it, 25 febbraio 2019, p. 2.

[8] Fichera, Il concordato preventivo con continuità aziendale, in AA.VV., Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, nella collana “i quaderni di in executivis”, a cura di D’Arrigo-De Simone-Di Marzio-Leuzzi, 2019, pp. 209 ss.

[9] Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento,2021, pp. 589 ss.; Nigro, I principi generali della nuova riforma “organica” delle procedure concorsuali, in Dir. banc. merc. fin., 2020, p. 11 ss.; Ambrosini, I “princìpi generali” nel Codice della crisi d’impresa, in www.ilcaso.it, 26 gennaio 2021; D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in AA.VV., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, p. 253.

[10] Anche da ultimo si è osservato in dottrina che “il legislatore delegato individua nei due modelli di concordato strumenti fungibili in vista di uno scopo unitario, consistente in quel soddisfacimento dei creditori che altrove è qualificato come ‘prioritario’ (artt. 4, comma 2, lett. c) ed 84, comma 2, c.c.i.). Sembra testualmente recepito l’indirizzo che già leggendo le disposizioni della legge fallimentare esprime ostilità verso deviazioni dell’istituto dalla funzione di tutela dei creditori”: così D’Orsi, Il concordato preventivo parzialmente liquidatorio, in Giur. comm., 2021, I, p. 358.

[11] Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo: “finalità”, “presupposti” e controllo sulla fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale), cit., p. 3.

[12] Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., p. 859.

[13] In questo senso, già in passato, cfr. A. Rossi, Il migliore soddisfacimento dei creditori (quattro tesi), in Fallimento, 2017, pp. 637 ss.; Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori, in www.ilcaso.it, 25 aprile 2018; contra, tuttavia,Patti, Il miglior soddisfacimento dei creditori: una clausola generale per il concordato preventivo?, ivi, 2013, pp. 1107 ss.

[14] Cass. 17 maggio 2021, n. 13224, in www.ilcaso.it.

[15] Ambrosini, Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, cit., p. 242.

[16] Nigro, in AA.VV., Seminario a commento di Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Giur. comm., 2014, I, p. 236.

[17] Gambino, ivi, p. 240.

[18] Sacchi, ivi, p. 226.

[19] Sacchi, ibidem.

[20] Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2019, n. 3863, in www.ilcaso.it.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Trib. Roma, 16 ottobre 2008, in Dir. fall., II, p. 551. Sul tema specifico v., in luogo di altri, Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per mancanza di causa, in Banca, borsa, tit., II, pp. 736 ss., cui sia consentito aggiungere Ambrosini, La domanda di concordato, in Ambrosini-Demarchi-Vitiello, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, pp. 60-62.

[24] Ambrosini, Brevi note sul soddisfacimento minimo dei creditori nel concordato preventivo, fra “causa concreta” e giudizio di convenienza (considerazioni de jure condito et condendo), in www.ilcaso.it, 14 febbraio 2019.

[25] Prima ancora del varo del decreto legislativo delegato, autorevole dottrina aveva ammonito circa il rischio, per l’istituto concordatario, di subire “una regressione (in termini di ragionevolezza e di fruibilità) verso un approdo persino deteriore rispetto a quello risultante dalla originaria disciplina del 1942; meglio dunque sarebbe lasciar decadere la legge delega e ripartire con un nuovo progetto, che – lungi dal contrastare la precedente e recente riforma (quella avviata a partire dal 2005) – si limiti a completarla, in direzione e nel rispetto dell’autonomia contrattuale del debitore e dei suoi creditori, cioè dei principali (ancorché non unici) portatori degli interessi meritevoli di tutela nella soluzione delle crisi d’impresa, che il giudice – garante della correttezza del procedimento – è chiamato ad agevolare nell’interesse generale dell’eco­nomia, non a contrastare” (Censoni, La “controriforma” della disciplina del concordato preventivo, in www.ilcaso.it, 11 aprile 2018, p. 29). Parole che suonano tanto più profetiche oggi che la situazione economica è estremamente peggiorata rispetto a tre anni fa.

[26] Nello stesso senso, in giurisprudenza, Trib. Teramo, 14 aprile 2021, in www.ilcaso.it; Trib. Genova, 13 maggio 2021, ivi; contra Trib. Bari, 18 gennaio 2021, ivi. In dottrina, variamente orientati, Pacchi-Monteleone, Il nuovo “cram down” del tribunale nella transazione fiscale, in www.ilcaso.it, 9 febbraio 2021; Andreani-Cesare, Il voto espressamente negativo come presupposto del cram down fiscale, in www.ilcaso.it, 2 marzo 2021; Danovi-Giuffrida, Cram down fiscale e previdenziale, in Nuova transazione fiscale, a cura di Danovi-Acciaro, Milano, 2021, pp. 41 ss.

[27] Quando è prevista tale moratoria i creditori hanno diritto al voto per la differenza fra il loro credito maggiorato degli interessi di legge e il valore attuale dei pagamenti previsti nel piano calcolato alla data di presentazione della domanda di concordato, determinato sulla base di un tasso di sconto pari alla metà del tasso previsto dall’art. 5 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in vigore nel semestre in cui viene presentata la domanda di concordato preventivo.

[28] Sul tema cfr., anche per riferimenti, Palladino, Concordato preventivo – I contratti in corso di esecuzione nel concordato preventivo: il perimetro operativo della disciplina e l’elaborazione di un modello procedimentale unitario, in Giur. it., 2015, p. 1147 ss.; Iozzo, I contratti pubblici ed il concordato preventivo, in Le soluzioni negoziate della crisi d’impresa, op. cit., pp. 83 ss.

[29] Sul punto cfr., da ultimo, Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in www.ilcaso.it, 2 giugno 2021, p. 1, ove altri riferimenti.

[30] In tal senso, in giurisprudenza, si è espresso recentemente Trib. Brescia, 27 maggio 2021, in www.ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.

[31] Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., p. 862.

[32] Così Di Marzio, Affitto d’azienda e concordato in continuità, in www.ilfallimentarista.it, 2013, p. 4; nello stesso senso già Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell’affitto d’azienda, ivi, 2012, p. 3; Lamanna, La legge fallimentare dopo il decreto sviluppo, Milano, 2012, p. 58; Vitiello, Brevi e scettiche considerazioni sul concordato preventivo con continuità aziendale, ivi, 2013, p. 2.

[33] Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in www.ilcaso.it, 4 agosto 2013, pp. 5 ss.

[34] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, in www.ilcaso.it.

[35] Ibidem.

[36] Ibidem.

[37] Ibidem.

[38] Ibidem.

[39] Cfr. Fabiani, Concordato preventivo, in Commentario Scialoja-Branca al codice civile, Bologna, 2014, p. 194, secondo il quale “il debitore, pur se non perde la qualifica di imprenditore si trasforma in ‘imprenditore quiescente’ perché solo al momento della cessazione del contratto di affitto riprenderà, a pieno, il suo ruolo”.

[40] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, cit.

[41] Ibidem.

[42] Ambrosini, Concordato preventivo con continuità aziendale: problemi aperti in tema di perimetro applicativo e di miglior soddisfacimento dei creditori, cit., p. 4.

[43] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, cit.

[44] Ambrosini, Il concordato preventivo con affitto d’azienda rientra, dunque, nel perimetro applicativo dell’art. 186-bis, cit., pp. 7-8.

[45] D’Angelo, Il concordato preventivo con continuità aziendale nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, cit., pp. 41-42.

[46] Fichera, Il concordato preventivo con continuità aziendale, cit., p. 214.

[47] Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della “miniriforma” del 2015, in Dir. fall., 2015, I, p. 369.

[48] Sul tema cfr., ex aliis, Pacchi, L’abuso del diritto nel concordato preventivo, in Giust. civ., 2015, p. 795 ss.; Amatore, L’ abuso del diritto nelle procedure concorsuali, in Officina del diritto, 2015, pp. 52 e ss.; cui adde, più di recente, Santagata, Concordato preventivo “meramente dilatorio” e nuovo “Codice della crisi e dell’insolvenza”, in Dir. fall., 2019, I, pp. 333 e ss., ove altri riferimenti.

[49] Cass., 15 gennaio 2020, n. 734, in Fallimento, 2020, pp. 477 ss. (con nota di Brogi).

[50] Non sembra dunque condivisibile, allo stato, la soluzione adottata da Trib. Milano, 28 novembre 2019, in www.ilcaso.it, secondo cui occorre far riferimento a quanto previsto dal Codice della crisi, il quale “ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi ‘quantitativa attenuata’ che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre ‘i ricavi attesi’ essere superiori ai valori della liquidazione, dall’altra parte, amplia l’area semantica del ‘ricavato prodotto dalla continuità’, facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro”.