, 13 maggio 2024, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Una premessa “colloquiale”; 2. La trattazione prioritaria della domanda di concordato; 3. Le verifiche in sede di apertura del concordato; 4. Lo scrutinio nell’ambito del giudizio di omologazione; 5. Segue. I presupposti per la concessione di nuova finanza; 6. Alcuni rilievi critici e una proposta; 7. L’intensità del controllo giudiziale nella nuova disciplina: incremento o decremento?.
1. Una premessa “colloquiale”
Con questo breve contributo si intende sottoporre ai lettori i primi – e fatalmente provvisori[1] – risultati di uno studio, tuttora in corso, finalizzato (anche) a predisporre la relazione che sarà tenuta il prossimo 24 maggio a Torino in occasione del convegno celebrativo del centenario di “Il diritto fallimentare e delle società commerciali”, la più antica rivista del nostro settore.
Come indicato nel titolo, le riflessioni qui esposte hanno ad oggetto il contenuto dello scrutinio giudiziale nelle varie fasi del concordato preventivo, traendo le mosse dalla seguente premessa: chi sia chiamato a confrontarsi con le previsioni codicistiche in materia è portato a ricavarne, quanto meno prima facie (ma in verità non solo), un’impressione di eccessiva complessità e al tempo stesso di non soverchia chiarezza: complice, forse, un non completo coordinamento, in sede di redazione finale del testo del codice, fra le previsioni dettate, rispettivamente, dagli artt. 7, 47 e 112. Occorre allora interrogarsi sulle ragioni di questo diffuso “sentiment” e verificare se sia possibile porvi in qualche modo rimedio, nell’interesse di un maggior livello di certezza interpretativa e, di conseguenza, di un miglior funzionamento del sistema nel suo complesso.
Ora, si sarebbe per vero tentati, se si tornasse ai modi di dire che si adoperavano da ragazzi, di definire il combinato disposto degli artt. 7, 47 e 112 un “ucas”: acronimo che, lungi dall’appartenere al lessico giuridico, sta, assai più colloquialmente, per “ufficio complicazioni affari semplici”. Con ciò non si vuole affatto banalizzare – sia chiaro – i termini di una questione rilevantissima (essendo il controllo di cui trattasi un presidio essenziale e irrinunciabile di legalità) e comprensibilmente dibattuta, bensì tentare di verificare, anche in una prospettiva de iure condendo, se sia possibile introdurre nell’attuale quadro normativo elementi di opportuna semplificazione, a beneficio di tutti gli operatori del settore, a cominciare da coloro che questa nuova e complessa disciplina sono chiamati ad applicare.
A tal fine, è ovviamente indispensabile
muovere dall’analisi delle disposizioni di cui trattasi e dei problemi che esse
sollevano.
2. La trattazione prioritaria della domanda di concordato
La tematica del controllo giudiziale sul piano di concordato in continuità aziendale presenta, ancor più che in passato[2], svariati profili di emersione disciplinare, dal cui insieme si ricavano i requisiti – per lo più declinati, dal punto di vista linguistico, attraverso il ricorso alla litote – che tale piano deve possedere affinché la domanda sia, nell’ordine: (i) esaminata in via prioritaria; (ii) attestata; (iii) ammessa; (iv) omologata.
La prima disposizione che viene in evidenza è notoriamente l’art. 7, il quale, al secondo comma, prefigura l’ipotesi in cui siano state presentate più domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle procedure di insolvenza e detta le condizioni affinché il tribunale esamini “in via prioritaria” quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale. Queste condizioni risiedono, oltre che nella non manifesta inammissibilità della domanda ex art. 40, nella non manifesta inadeguatezza del piano a conseguire i propri obiettivi e nell’indicazione espressa delle ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori.
Ci si riferisce, come si diceva, al piano concordatario in continuità, giacché negli altri casi (tipicamente nel concordato liquidatorio) la norma postula che oggetto di esplicita enucleazione sia “la convenienza per i creditori”, che rappresenta evidentemente un quid pluris rispetto alla semplice mancanza di danno per costoro, dal momento che il concetto di “assenza di pregiudizio”, non declinato dall’art. 7, risulta riconducibile – com’è noto – al “soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale” di cui parla l’art. 84, c. 1, con riferimento a tutte le tipologie concordatarie[3].
Solo al cospetto delle anzidette condizioni – nell’ambito delle quali non si parla di “fattibilità” del piano – il tribunale antepone la trattazione della domanda di concordato, dovendo altrimenti far luogo, sussistendone i presupposti, all’apertura della liquidazione giudiziale.
La formulazione della norma denota, in modo sufficientemente perspicuo, la volontà di escludere, in questa fase, una verifica in ordine alla realizzabilità del piano. La scelta dei termini adoperati – “non manifestamente inammissibile”, “non manifestamente inadeguato” – depone nel senso che, trattandosi di valutazione giocoforza sommaria, debbano venire in rilievo circostanze ostative percepibili ictu oculi, essendo necessario, in difetto, esaminare prioritariamente la domanda diversa da quella di liquidazione giudiziale. Ciò non toglie, beninteso, che il tribunale sia chiamato ad appurare non solo, ovviamente, la legittimazione del debitore e la conformità della domanda ai prescritti crismi formali, ma anche che la domanda stessa consenta, per come è formulata e documentalmente corredata, di apprezzare la non deteriorità della soluzione concordataria rispetto alla liquidazione giudiziale (o la sua convenienza nell’ipotesi di piano liquidatorio), senza che tale assunto possa risolversi in una petizione di principio[4].
Quanto al requisito della non manifesta inadeguatezza del piano al conseguimento dei propri obiettivi, l’espressione rimanda a casi, nella pratica assai rari, di palese irragionevolezza e incoerenza di determinati assunti, quale potrebbe essere l’integrale destinazione al servizio del debito chirografario del valore di un immobile ipotecato almeno parzialmente capiente.
Non pare invece cogliere nel segno l’esemplificazione proposta da una commentatrice della norma, la quale ha fatto riferimento “ad un accordo di ristrutturazione di debiti rispetto ad un’impresa con un indice di sovraindebitamento talmente elevato da non consentire alcun margine di risanamento (una caratteristica, dunque, molto vicina alla verifica sulla fattibilità economica del piano)”[5]. Ed invero, la legge ha inteso far sì che aspetti del genere vengano scrutinati dal tribunale non già ai fini della trattazione prioritaria ex art. 7, bensì semmai dell’ammissione al concordato e soprattutto (con l’ausilio della relazione commissariale) della sua successiva omologazione. Senza dire che il menzionato accordo di ristrutturazione ben potrebbe avere un contenuto meramente liquidatorio (tranne che nell’ipotesi di cui all’art. 61, c.2), non essendo a quel punto prescritto il requisito della risanabilità dell’impresa in continuità aziendale di cui all’esempio in parola.
3. Le verifiche in sede di apertura del concordato
Di ammissione della domanda concordataria da parte del tribunale si occupa l’art. 47, difatti rubricato “Apertura del concordato preventivo”, il quale delimita, al primo comma, il perimetro delle verifiche giudiziali. Nel caso del concordato in continuità esse si appuntano sui due seguenti e concomitanti aspetti: la ritualità della proposta e la non manifesta inidoneità del piano alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali.
Quanto alla ritualità[6], il relativo scrutinio attiene anzitutto alla regolare instaurazione del procedimento (radicamento della competenza, completezza dei documenti, ecc.), nonché, probabilmente, alla corretta formazione delle classi (punto su cui pare interverrà l’emanando decreto correttivo[7]), ma non è certo che si estenda, ad esempio, al rispetto delle cause legittime di prelazione, di tal che può affermarsi che il controllo sulla ritualità della proposta “ha un contenuto simile, ma più ristretto rispetto a quello sull’ammissibilità”[8].
Con riguardo all’ulteriore profilo che il tribunale è chiamato a verificare, si tratta nuovamente di una attitudine che deve possedere il piano e anche qui, come nell’art. 7, il requisito è formulato “in negativo”, cioè come non manifesta inidoneità. Ma se il ridetto art. 7, come in precedenza ricordato, prescrive, genericamente, la non manifesta inadeguatezza a raggiungere “gli obiettivi prefissati” (espressione riprodotta dalla lett. a) dell’art. 47 a proposito del concordato liquidatorio), la lett. b) di questa disposizione suona più precisa e pregnante: il piano viene messo in rapporto (i) alla (non palese inidoneità alla) soddisfazione dei creditori – non già quale parametro astratto bensì – “come proposta dal debitore”, nonché (ii) alla possibilità che il piano consenta di conservare i valori aziendali: formulazione, quest’ultima, che riecheggia quelle “finalità conservative del patrimonio produttivo” di cui parla l’art. 1 del d.lgs. n. 270/1999, enunciando appunto i fini che il legislatore persegue attraverso l’istituto dell’amministrazione straordinaria.
Ne emerge chiaramente il superamento dell’idea, fatta propria in passato da una parte della giurisprudenza, che la domanda vada bloccata in limine tutte le volte in cui il piano non appaia verosimilmente realizzabile (c.d. fattibilità economica). Questa valutazione viene ora chiaramente attribuita dal codice ai creditori, mentre la declaratoria di inammissibilità è consentita esclusivamente nell’ipotesi di manifesta inidoneità del piano intesa appunto nei termini anzidetti.
Come si è in altra sede osservato, il legislatore “ha dunque optato, anche su sollecitazione della dottrina, per una soluzione che non contempla il sindacato diretto del tribunale in ordine alla fattibilità economica del piano, sul corretto presupposto che la valutazione prognostica circa la realizzabilità del piano (e quindi la percentuale di soddisfacimento) compete ai creditori. Ne consegue che, quand’anche sussistano dubbi sulla fattibilità del piano (che del resto, per sua natura non è – né può essere – connotato da certezza quanto al risultato), il tribunale non può per ciò solo bloccare l’iter della domanda e deve consentire che sulla possibilità per il piano di conseguire i propri obiettivi si esprimano i creditori attraverso l’esercizio del voto”[9].
Sulla stessa lunghezza d’onda, si è osservato che “il tribunale deve verificare che il piano, per come prospettato, non manchi di ogni possibilità minima di poter soddisfare i creditori nella misura e con la tempistica indicati dal debitore e non sia chiaramente inidoneo a raggiungere l’obiettivo della preservazione della continuità aziendale. Anche in questo caso, se il tribunale ritiene improbabile, ma possibile la soddisfazione dei creditori e la conservazione dei valori aziendali, la procedura va aperta”[10].
Si tratta quindi, come efficacemente rilevato da altri, di un giudizio che si arresta alla “manifesta non attendibilità: solo proposte e piani, come si suol dire, campate per aria e manifestamente fantasiose impediranno l’ammissione, negli altri casi con un rinvio alle valutazioni che verranno effettuate dal commissario giudiziale e che dovranno orientare la determinazione dei creditori”[11]. E in proposito si è precisato che la manifesta inattitudine del piano è ravvisabile esclusivamente in due ipotesi: “(i) quando sono previste azioni programmatiche non contemplate dalla legge (ii) e quando le azioni, pur legittime, non hanno alcuna possibilità di realizzare l’obiettivo indicato nel piano”[12]. L’utilità della previsione contenuta nell’art. 47 risulta quindi evidente, nella misura in cui consente, per così dire, un’actio finium regundorum tra verifiche demandate al tribunale e valutazioni spettanti al ceto creditorio, sorreggendo l’assunto secondo il quale il criterio del “più probabile che non” risulta estraneo al perimetro del controllo giudiziale.
4. Lo scrutinio nell’ambito del giudizio di omologazione
L’ultimo controllo sul piano concordatario da parte del tribunale avviene notoriamente in sede di omologazione[13]: contesto in cui, dal punto di vista dei vantaggi della continuità, può addivenirsi all’omologazione di un concordato siffatto anche ove non sia raggiunta la maggioranza delle classi, purché si sia espressa a favore del concordato almeno una classe “pregiudicata” o “maltrattata” (art. 112, c. 2, lett. d) [14].
Con riferimento al piano in continuità, la lett. f) del predetto art. 112, c. 1, prescrive che il piano “non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza”, laddove riguardo ai casi diversi dalla continuità aziendale, l’art. 112, c. 1, lett. g), parla invece di “fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati” (con una formulazione uguale a quella dell’art. 47, c. 1, lett. a)[15]. E dalla giustapposizione dei due richiamati precetti si ricava la conferma della scelta del legislatore di non prevedere una verifica diretta in ordine alla fattibilità del piano in continuità.
Come si vede, relativamente a quest’ultimo viene ripreso il concetto già espresso dall’art. 87, c. 3, a proposito del contenuto dell’attestazione, ove tuttavia si richiede tout court (e comprensibilmente) che l’esperto certifichi l’attitudine del piano a impedire o superare l’insolvenza, mentre lo scrutinio omologatorio affidato al tribunale attiene giustamente all’esistenza (recte: alla non mancanza) di ragionevoli prospettive in tal senso. Ancora una volta si ricorre, quindi, a una valutazione prognostica all’insegna del criterio di ragionevolezza, certamente appropriato ai fini dell’espletamento di questo tipo di controllo.
Al riguardo, si è sostenuto che dopo la votazione favorevole il sindacato del tribunale sia “ancor meno intenso (proprio perché la fattibilità è stata valutata positivamente dai creditori)”[16]. In realtà, accertarsi che un piano non sia privo – e quindi sia dotato – di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza comporta un’indagine più pregnante rispetto all’appurare semplicemente la non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati[17]. Ed invero, non sembra potersi parlare di una minore intensità del controllo omologatorio rispetto a quello che va condotto in fase di ammissione: tanto è vero che le condizioni di ammissibilità devono persistere al momento dell’omologazione e vanno quindi nuovamente scrutinate con il medesimo rigore utilizzato nella fase precedente, oltre a doversi appurare la regolarità della procedura e l’esito favorevole della votazione. Non a caso, la più recente e avvertita giurisprudenza di merito ha così statuito in proposito: “non appare quindi condivisibile, alla luce del tenore letterale delle disposizioni richiamate e dei principi ispiratori della materia (…), l’affermazione del primo giudice circa la sostanziale sovrapponibilità del sindacato di ammissibilità che il tribunale è tenuto ad operare in sede di ammissione rispetto a quello in sede di omologa, essendo lo stesso, nel primo caso, circoscritto soltanto alla sola verifica della non manifesta inidoneità della proposta alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali, e, nel secondo, invece, non contenuto entro tali limiti e, soprattutto, da effettuarsi alla stregua delle specifiche condizioni contemplate dal primo comma dell’art. 112, nonché in base a tutti i riscontri, le informazioni e i chiarimenti acquisiti nel corso della procedura e all’esito di un contraddittorio pieno con il proponente”[18].
Sulla base di quanto osservato emerge comunque l’inanità degli sforzi talora compiuti in sede applicativa per predicare l’esistenza di un controllo di fattibilità anche con riguardo al piano in continuità. Così come appare in definitiva equilibrata (e in linea con quanto si è venuto fin qui osservando) la soluzione interpretativa adottata da attenta giurisprudenza in sede di interpretazione dell’art. 112, c. 1, lett. f): “La formulazione, in negativo, della disposizione normativa rende evidente che oggetto d’esame non è l’accertamento dell’idoneità del piano a regolare la crisi, ma la non implausibilità dello stesso a consentire il risanamento dell’impresa. Il piano predisposto dal debitore deve risultare non prima facie inadeguato, non evidentemente inadatto a consentire il raggiungimento degli obiettivi indicati”[19].
Non sembra quindi, neppure in questo caso, che nell’effettuare questo “scrutinio di ragionevolezza” il tribunale sia chiamato a ricorrere al criterio del “più probabile che non”. La verifica attiene al fatto che, anche sulla base della relazione del commissario giudiziale, le prospettive di impedire o superare l’insolvenza, riguardate in una dimensione giocoforza predittiva, non risultino irragionevoli: il che val quanto dire che le previsioni formulate nel piano non devono essere contrarie alle esigenze della ragione, ovverosia destituite di fondamento razionale (specie alla stregua dei principi aziendalistici) e dunque, in definitiva, chiaramente illogiche o implausibili.
5. Segue. I presupposti per la concessione di nuova finanza
La trattazione relativa alla fase omologatoria va completata con l’ulteriore previsione contenuta nel ridetto art. 112, c. 1, lett. f), la quale si riferisce al caso in cui il piano di concordato presupponga la concessione di nuovi finanziamenti. Al riguardo, il placet del tribunale a un piano che contempli l’erogazione di finanziamenti è subordinato dalla norma al fatto che essi (i) siano necessari all’attuazione del piano e (ii) non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori. E proprio da quest’ultima previsione si ricava la possibilità che la nuova finanza incida negativamente sugli interessi dei creditori (per effetto, tipicamente, dell’incremento delle passività prededucibili), ma al tempo stesso la necessità che tale pregiudizio non sia ingiusto, nel senso che dev’essere giocoforza “compensato” da altri benefici (a cominciare dall’indispensabilità ai fini della continuità aziendale e di conseguenza della realizzazione del piano), di modo che, al postutto, risulti sempre rispettato il canone del soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella da essi ritraibile nel caso di liquidazione giudiziale.
La norma solleva poi l’interrogativo, assai rilevante nella pratica, di quale sia il momento in cui le banche o gli altri soggetti finanziatori devono formalizzare la loro disponibilità al rilascio di nuova finanza: giacché è risaputo che spesso non risulta possibile far valere questa circostanza con il tribunale prima della ammissione al concordato e talora neppure prima dell’omologazione, complici i tempi di decisione da parte di alcune banche, ma anche la persistenza di criticità del piano all’atto della loro valutazione.
A rigore, si potrebbe ritenere che tale disponibilità debba manifestarsi anteriormente al deposito del piano, anche per consentire all’attestatore di certificarne la fattibilità. Senonché, sono gli stessi precetti fin qui menzionati che, in virtù della loro formulazione, autorizzano a concludere nel senso della non irragionevolezza di una tale prospettiva: la concessione di nuova finanza, in altri termini, deve risultare non implausibile durante tutta la procedura, incluso ovviamente il momento dell’omologazione, senza che i finanziatori formalizzino necessariamente il loro impegno prima dell’atto finale della procedura.
Beninteso, devono potersi riscontrare, in concreto, elementi tali di far propendere nel senso della ragionevole probabilità che detto evento si verifichi, senza tuttavia bisogno di acquisirne la sicurezza prima del voto dei creditori (poiché è “informato” anche il consenso reso sul presupposto di una tale persistente, dichiarata, incertezza) e neppure prima dell’omologazione. Non a caso, in uno dei più importanti concordati preventivi degli ultimi tempi, quello del Gruppo Cimolai, il tribunale si è orientato precisamente in questo senso, affermando testualmente che “l’oggetto della valutazione prevista dall’art. 112, co. 1 lett. f) CCII, correlata alla non irragionevolezza del piano predisposto dalla debitrice, esclude la necessità che quest’ultima dimostri che risultino già emesse, da parte delle banche interessate, le c.d. delibere di preaffidamento, la cui mancata allegazione è stata lamentata, sufficiente essendo che la concessione di credito si prospetti come non implausibile”[20].
Orbene, un orientamento di questo tipo consente bensì il permanere di elementi di incertezza al momento dell’omologazione, ma appare in definitiva coerente con la scelta del legislatore – come si è ripetutamente messo in luce – di declinare il concetto di fattibilità come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi del piano e di richiedere semplicemente, ai fini dell’omologazione, che quest’ultimo non sia privo di quelle ragionevoli prospettive di impedire l’insolvenza (ove non ancora in atto) o comunque di superarla. E da questo punto di vista tanto la lettera quanto lo spirito della norma parrebbero rispettati dalla decisione in parola.
6. Alcuni rilievi critici e una proposta
La norma che suscita minori riserve è a ben vedere quella dell’art. 7, anche perché la sua finalità è circoscritta alla trattazione prioritaria della domanda di concordato preventivo rispetto a quella di liquidazione giudiziale.
Nello schema di questa disposizione è comune ai concordati liquidatori e in continuità la necessità che la domanda non sia manifestamente inammissibile e che il piano non sia manifestamente inadeguato a conseguire i propri obiettivi, mentre le due tipologie vengono differenziate con riferimento all’indicazione della convenienza per i creditori; e ciò sebbene l’art. 84 sia fondato sul criterio di non deteriorità, da esso sancito in via generale, sicché quanto prescritto dalla lett. c) della norma non parrebbe precisamente irrinunciabile (che senso ha richiedere l’indicazione della convenienza quando il requisito “generale” è appunto quello del soddisfacimento in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale?).
La previsione che va incontro ai maggiori rilievi critici è tuttavia l’art. 47, soprattutto se letto “in controluce” rispetto all’art. 112.
Il contenuto dell’art. 47 è tutto (e solo) incentrato sulla distinzione fra liquidazione e continuità, trascurando altri aspetti “recuperati” invece nell’art. 112, qual è tipicamente la corretta formazione delle classi[21], di cui invece ci si dovrebbe far carico anzitutto in fase di apertura della procedura.
Ma procediamo con ordine, entrando nel dettaglio.
Mi domando, in primo luogo, se sia davvero corretto parlare di ammissibilità/ritualità della proposta anziché della domanda. Non è forse la domanda a essere oggetto, da parte del tribunale, di un’eventuale censura di inammissibilità? E il termine inammissibilità, di matrice schiettamente processuale, si addice realmente a un concetto – quello di proposta – connotato da forte negozialità? Sarebbe allora preferibile utilizzare sempre il termine “domanda”, come avviene nell’art. 7.
In secondo luogo: è opportuno distinguere tra ammissibilità e ritualità (usando “a tutti i costi” una differente terminologia per le due tipologie concordatarie), o ciò non risulta piuttosto foriero di inutili incertezze interpretative?
Oltretutto, se si ritiene – come parrebbe – che la semplice ritualità sia qualcosa di non perfettamente coincidente con l’ammissibilità, si potrebbe a rigore sostenere che il tribunale non possa emettere una declaratoria di inammissibilità se non nei due casi – irritualità e manifesta inidoneità del piano – indicati alla lett. b) dell’art. 47: il che peraltro sarebbe assai poco razionale, dovendo in effetti ribadirsi il potere/dovere del tribunale di pronunciarsi in tal senso tutte le volte in cui difettino i requisiti di ammissibilità della domanda (ad esempio, l’inosservanza dell’ordine delle cause legittime di prelazione, la scorretta formazione delle classi, la disparità di trattamento all’interno di almeno una di esse, o la mancanza di un’utilità per ciascun creditore).
Sarebbe in definitiva assai più semplice e sistematicamente coerente parlare di inammissibilità in entrambe le lettere della norma: come non a caso fanno sia l’art. 7 che l’art. 112.
Analogamente, sarebbe preferibile che l’art. 47 utilizzasse un’unica espressione - la manifesta inidoneità del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati - per entrambe le tipologie concordatarie. Del resto, la soddisfazione dei creditori come proposta dal debitore e la conservazione dei valori aziendali altro non sono che, per l’appunto, gli obiettivi propri del piano in continuità.
E veniamo all’art. 112, fra le più articolate e (eccessivamente?) complesse dell’intera disciplina.
Come già ricordato, il primo comma della norma richiede, alla lett. f), che nel concordato in continuità il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l'insolvenza e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l'attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori; e alla lettera g) che, in ogni altro, la fattibilità del piano, intesa come non manifesta inattitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Quanto poi all’aspetto della fattibilità, richiedere – come fa l’art. 112 – che il piano non sia privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza rappresenta, semmai, qualcosa di più incisivo e pregnante rispetto alla manifesta inidoneità del piano alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali, giacché quest’ultimo tipo di scrutinio si limita per l’appunto ai profili di manifesta (e quindi palese, eclatante, rilevabile ictu oculi) carenza del requisito, mentre in sede di omologazione il tribunale dispone degli strumenti per scandagliare maggiormente in profondità il contenuto del piano (e non a caso detta aggettivazione nella norma scompare, se non nella declinazione del termine “fattibilità” relativamente al concordato liquidatorio).
Merita poi ricordare che l’art. 10, par. 3, della Direttiva Insolvency attribuisce al tribunale il potere di negare l’omologazione ove il piano “risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire o superare l’insolvenza e di garantire la sostenibilità economica dell’impresa”. Questa formulazione, ripresa in forma “monca” dall’art. 112, è invece riprodotta pressoché verbatim all’art. 87, c. 3, sui compiti del l’attestatore ed invero non sembra esservi motivo di non trasporla telle quelle anche nell’art. 112: tanto più che è proprio al giudizio di omologazione che il precetto unionale è destinato.
Alla luce dei rilievi che precedono, ecco allora – per quel che vale – la proposta di revisione delle disposizioni fin qui commentate che mi sentirei di formulare, all’insegna dell’obiettivo – si torna a dire – di maggior semplicità, chiarezza e coerenza interna.
La lett. c) dell’art. 7, c. 2, potrebbe essere così riscritta: “nella proposta siano espressamente indicate le ragioni dell’assenza di pregiudizio per i creditori”.
Le lettere a) e b) dell’47, c. 1, potrebbero essere unificate e riformulate come segue: “l’ammissibilità della domanda, incluse la corretta formazione delle classi e la parità di trattamento all’interno di ciascuna di esse, e la manifesta inidoneità del piano al conseguimento degli obiettivi prefissati”.
L’art. 112, c. 1, potrebbe infine modificarsi in questi termini: “Il tribunale omologa il concordato se verifica: a) la regolarità della procedura; b) l’esito della votazione; c) l’ammissibilità della domanda, inclusa la corretta formazione delle classi e la parità di trattamento all’interno di ciascuna di esse; d) in caso di concordato in continuità aziendale, che tutte le classi abbiano votato favorevolmente, che il piano non risulti privo della ragionevole prospettiva di impedire o superare l’insolvenza e di garantire la sostenibilità economica dell’impresa e che eventuali nuovi finanziamenti siano necessari per l’attuazione del piano e non pregiudichino ingiustamente gli interessi dei creditori; e) nel caso di concordato liquidatorio, la non manifesta inidoneità del piano al conseguimento degli obiettivi prefissati”.
7. L’intensità del controllo giudiziale nella nuova disciplina: incremento o decremento?
Alla luce di quanto fin qui osservato, si può tentare di rispondere all’interrogativo che ciclicamente si ripropone all’indomani di ogni modifica delle disposizioni sul concordato preventivo, vale a dire se per effetto della novella i poteri del tribunale risultino aumentati ovvero diminuiti[22].
Diciamo subito che relativamente al codice della crisi il ragionamento dev’essere, rispetto al passato, più articolato.
Ed infatti, con riguardo alle riforme del 2005 e del 2012 si è parlato, concordemente, di un arretramento dello scrutinio giudiziale, mentre nella miniriforma del 2015 più d’uno ha visto un incremento dei poteri del giudice, essendo comunque incontrovertibile che le previsioni sulla soglia del 20% a beneficio dei creditori chirografari e sulla competitività nell’affitto e nella vendita dell’azienda hanno avuto l’effetto di limitare la “libertà di manovra” del debitore, peraltro con implicazioni per lo più virtuose dal punto di vista della recovery del ceto creditorio.
Nel descrivere, in sintesi, il dibattito circa la disciplina previgente, si è di recente affermato che “in primis, sotto il punto di vista del perimetro del giudizio del tribunale, la nuova formulazione dell’art. 47 supera il dibattito tra coloro che sostenevano che il tribunale dovesse limitarsi a verificare la fattibilità economica del piano e coloro che sostenevano invece che il giudizio del tribunale avesse un perimetro più ampio, ricomprendendo non solo la fattibilità economica, ma anche la fattibilità giuridica del piano. Come si evince dal fatto che la disposizione oggi non fa più riferimento alla sola “fattibilità economica del piano”, il tribunale dovrà accertare la generale attitudine del piano a raggiungere gli obiettivi concordatari, sia dal punto di vista giuridico, sia dal punto di vista economico”[23]. Sembra di contro a chi scrive che la querelle avesse principalmente ad oggetto proprio il tema della fattibilità economica (piuttosto che quella giuridica, pacificamente sindacabile dal tribunale)[24]; e in ordine a ciò si è ritenuto di osservare che “in passato la Corte di Cassazione aveva ripetutamente escluso che al tribunale fosse consentito scrutinare la realizzabilità del piano, sul presupposto che una valutazione siffatta competesse, in prima battuta e sul piano tecnico, all’attestatore e che rientrasse poi nell’ambito delle prognosi dei creditori circa le loro prospettive di soddisfacimento. Di conseguenza, ove i creditori avessero dubitato dell’effettiva realizzabilità del piano e della possibilità di ottenere un trattamento migliore che in caso di fallimento, tale previsione negativa si sarebbe verosimilmente tradotta in un voto contrario al concordato”[25].
A prescindere da ciò e venendo al quadro normativo attuale, si reputa che le nuove norme, per poter essere colte appieno sotto l’aspetto che ci occupa, non possano che essere considerate nel loro insieme.
Sì può allora iniziare col ribadire che, rispetto ad alcune (criticabili) letture del passato, l’introduzione degli artt. 7 e 47 abbia sancito un arretramento del controllo giudiziale, se è vero – come è vero – che per bloccare in limine l’iniziativa concordataria occorre riscontrare gli estremi dell’inammissibilità (“manifesta” ex art. 7) della domanda o la manifesta inidoneità del piano a conseguire gli obiettivi prefissati (che per il concordato in continuità sono declinati dall’art. 47 – si torna a ripetere – in termini di soddisfazione dei creditori come proposta dal debitore e di conservazione dei valori aziendali).
Senza dimenticare la funzione di “filtro” svolta dal parere del commissario giudiziale, posto che l’incipit della norma prescrive che il tribunale ne acquisisca il preventivo parere, dal momento che vengono in evidenza, nell’esame del piano e dell’attestazione, profili aziendalistici con cui i giudici, specie all’inizio del loro percorso professionale, possono avere minore “familiarità”.
Alla luce di queste due previsioni, sembra potersi concludere che, nell’eventuale fase “prenotativa” e al momento dell’ammissione al concordato, il controllo giudiziale risulta in certa misura ridimensionato, specie rispetto a quelle interpretazioni “invasive” già peraltro opportunamente respinte, in passato, dalla Cassazione.
Quanto alla fase successiva all’apertura del concordato, viene in evidenza il disposto dell’art. 106, c. 1, relativo alla revoca dell’ammissione alla procedura. Norma, questa, che non parla più, come faceva in precedenza l’art. 173, l. fall., del difetto delle condizioni prescritte “per l’ammissibilità del concordato”, bensì della mancanza delle condizioni per l’apertura del concordato previste (non già all’art. 47 ma) “agli artt. da 84 a 88”. E in ciò si potrebbe forse scorgere un ampliamento dello spettro delle verifiche demandate al tribunale, sebbene la previsione in esame faccia pur sempre riferimento alle “condizioni prescritte per l’apertura del concordato” e, quindi, al sopravvenuto venir meno dei presupposti su cui si è basato il provvedimento di ammissione.
L’analisi non sarebbe completa, naturalmente, se non si tornasse a considerare, ai limitati fini di queste conclusioni, la disciplina del concordato in continuità nella fase di omologazione.
Ora, sulla base del disposto dell’art. 112 il requisito dell’unanimità delle classi viene meno ogniqualvolta la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta sia approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione.
Ed ancora: se un creditore propone opposizione eccependo il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale.
Tali previsioni, specie quelle sulla non necessità dell’approvazione da parte della maggioranza delle classi, denotano, a livello di sistema, una sorta di passaggio dalla negozialità “strutturale” del regime previgente, retto dal principio maggioritario, alla “coattività trasversale” della disciplina di nuovo conio, in cui il controllo giudiziale appare significativamente “riconfigurato”, essendo il tribunale chiamato a decidere se aderire all’opzione approvata da una – anche (in ipotesi) esigua – minoranza.
Una rivoluzione copernicana, insomma, certamente consentita dalla Direttiva unionale, all’insegna di uno spiccato favor per la soluzione concordataria in continuità[26]. E questa novità “morfologica” risulta, sotto il profilo qui in esame, indubbiamente foriera di un rafforzamento delle prerogative giudiziali rispetto a quelle del ceto creditorio; rafforzamento che, allargando lo sguardo al sistema nel suo complesso, assume tratti ancor più marcati – com’è ben noto – nel concordato semplificato[27], annoverabile nell’ambito dei cc.dd. concordati coattivi[28], stante addirittura l’assenza del voto da parte dei creditori.
Il superamento della regola maggioritaria quale tradizionalmente intesa e del principio di autotutela dei creditori[29] su di essa fondato rappresenta dunque un elemento di discontinuità oggettivamente forte, ma si tratta di un cambiamento di prospettiva cui dobbiamo tutti – volenti o nolenti – abituarci: a meno di voler intravvedere nella norma profili di incostituzionalità, che tuttavia non appaiono emergere in modo flagrante (anche se il punto potrebbe forse meritare un approfondimento in altra sede).
[1] Anche in considerazione della possibile approvazione, nell’arco dei prossimi mesi, del decreto correttivo al codice della crisi.
[2] Sul tema, nel vigore della legge fallimentare, sia consentito richiamare, se non altro per gli opportuni riferimenti al dibattito, i seguenti contributi: Il controllo giudiziale sull’ammissibilità della domanda di concordato preventivo e sulla formazione delle classi, in Dir. fall., 2010, I, 551 ss.; Il sindacato in itinere sulla fattibilità del piano concordatario tra dottrina e giurisprudenza, in Fall., 2011, 941 ss.; Il controllo giudiziale su domanda e piano concordatari e i compiti dell’attestatore nell’evoluzione recente della disciplina, in Giur. comm., 2017, I, 387 ss., pubblicato anche in S. Ambrosini (a cura di), Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, Bologna, 2017, 157 ss.
[3] Cfr., tra i contributi in argomento, P. F. Censoni, Il diritto delle crisi e i nuovi concordati, in S. Ambrosini (a cura di), Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, Pisa, 2023, 97 ss.; A. Audino, Sub art. 84, in A. Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alle leggi su crisi di impresa e insolvenza, Padova 2023,576 ss.; M. Arato, Sub art. 84, in P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo (a cura di), Il Codice della Crisi. Commentario, Torino, 2024, e già in precedenza, alla vigilia del varo del codice, S. Leuzzi, Appunti sul concordato preventivo ridisegnato, in dirittodellacrisi.it, 5 maggio 2022; S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, in ristrutturazioni aziendali, 9 giugno 2022.
[4] F. Ghignone, Sub art. 7, in A. Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alle leggi su crisi di impresa e insolvenza, cit., 69-70.
[5] C. Briguglio, Art. 7. Trattazione unitaria delle domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e alle procedure di insolvenza, in P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo (a cura di), Il Codice della Crisi. Commentario, cit., 61.
[6] Adoperata, oltre che dall’attuale art. 25 sexies, c. 3, nell’ambito della disciplina del concordato semplificato (su cui cfr., ex aliis, G. Bozza, Il ruolo del giudice nel concordato semplificato, in S. Ambrosini (a cura di), Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, cit., 195 ss.; S. Pacchi, Gli sbocchi della composizione negoziata e, in particolare, il concordato semplificato, ivi, 155 ss.; S. Ambrosini, Concordato semplificato: la giurisdizione come antidoto alla “coattività” dello strumento e alla “tirannia” dell’esperto, in ristrutturazioni aziendali, 27 ottobre 2023), dal vecchio art. 125, c. 2, l. fall., per indicare l’oggetto dello scrutinio del giudice delegato in ordine alla proposta di concordato fallimentare (“valutata la ritualità della proposta”). E riguardo allo scrutinio giudiziale in sede omologatoria in quest’ambito la Cassazione aveva chiarito che “a seguito della riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, nel giudizio di omologazione del concordato fallimentare il controllo del tribunale è limitato alla verifica della regolarità formale della procedura e dell'esito della votazione - salvo che non sia prevista la suddivisione dei creditori in classi ed alcune di esse risultino dissenzienti - restando escluso ogni controllo sul merito, ad eccezione dell'indagine sull'eventuale abuso dell'istituto. La valutazione sul contenuto della proposta concordataria, riguardando il profilo della convenienza, è, invece, devoluta ai creditori, sulla base del parere inerente ai presumibili risultati della liquidazione formulato dal curatore e dal comitato dei creditori, mentre al giudice delegato spetta soltanto un controllo sulla ritualità della proposta medesima” (Cass., 29 ottobre 2013, n. 24359, in Fall., 2014, 779 ss., con nota di A. Penta, I poteri del tribunale in sede di omologazione - Alla ricerca del punto di equilibrio tra la tutela dei creditori e la salvaguardia del debitore fallito).
[7] Ai sensi del riformulando art. 47, c. 1, le verifiche in esso prescritte andranno espletate “anche con riferimento alla corretta formazione delle classi”. Stessa formulazione dovrebbe essere aggiunta anche all’art. 25 sexies, c. 3, a proposito del controllo del tribunale nel concordato semplificato.
[8] G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell'insolvenza, Torino, 2022, 120.
[9] S. Ambrosini, Accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o a una procedura di insolvenza: iniziativa e procedimento unitario, in Pacchi, Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza,Bologna, 2023, 144.
[10]G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 120.
[11]A. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, 2023, 159.
[12]M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Piacenza, 2023, 245.
[13] Sul tema cfr., ex aliis, S. Leuzzi, Il giudizio di omologazione del concordato preventivo: oggetto, regole, controlli, in dirittodellacrisi.it, 9 ottobre 2023.
[14] Sulla vistosa deroga al principio di maggioranza, v. ex aliis, G. D’Attorre, Dal principio di maggioranza al principio di minoranza, ivi, 2023, 309 ss.; G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, in dirittodellacrisi.it, 27 giugno 2023, 8 ss. Quanto, in particolare, all’interrogativo se il “maltrattamento” possa consistere anche nel significativo riscadenziamento di una classe di creditori privilegiati pagati per intero, la norma attuale non lo esclude, né risulta agevole pervenire a diversa conclusione in via interpretativa. Scelta diversa pare verrà invece adottata, con una previsione necessariamente espressa, dal Decreto correttivo, che potrebbe integrare la lett. d) dell’art. 112, stabilendo che ai creditori di detta classe “è offerto un importo non integrale del credito”.
[15] E dunque, anche qui, con l’espunzione – da alcuni auspicata – dell’aggettivo “economica” associato al sostantivo “fattibilità”: sul che cfr. S. Ambrosini, Criterio di prevalenza, fattibilità economica, ipertutela dei privilegiati, silenzio-diniego: quattro “tabù” da sfatare nel concordato preventivo che verrà, in ristrutturazioniaziendali.it, 7 marzo 2022.
[16] M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d'impresa, cit., 246.
[17] Secondo G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 121, il controllo prescritto dalla norma “assume contenuto simile a quello sulla fattibilità del piano”.
[18] App. Bologna, 23 febbraio 2024, in dirittodellacrisi.it.
[19] Trib. Trieste, 15 settembre 2023, in Quaderni di Ristrutturazioni aziendali, n. 3/2023, 153. E sul punto v. anche N. Usai, Il controllo sulla fattibilità del concordato con continuità aziendale nel CCII: una prima applicazione dello standard europeo, in dirittodellacrisi.it, 9 aprile 2024.
[20] Così Trib. Trieste, 15 settembre 2023, cit., ritenendo che corroborassero l’assunto, nella specie, la discontinuità e indipendenza della governance, la prospettata riduzione del fabbisogno finanziario rispetto alle previsioni iniziali e l’introduzione di un meccanismo di incentivazione alla concessione di linee di firma basato sull’assegnazione di warrant a quanti si fossero impegnati a fornire tali linee o le relative controgaranzie.
[21] In proposito cfr. la nota 5.
[22] All’indomani del varo del codice, in dottrina si è esaminato “trasversalmente” il ruolo del giudice nella ristrutturazione, specie nell’ottica di verificare quanto sia univoco l’indirizzo del legislatore rispetto all’annoso contrasto tra presidi pubblicistici e istanze privatistiche: V. Zanichelli, Il Giudice nella ristrutturazione, in dirittodellacrisi.it, 15 novembre 2022.
[23] M. Arato, Art. 47. Apertura del concordato preventivo, in P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo (a cura di), Il Codice della Crisi. Commentario, cit., 319.
[24] E v. ex pluribus, da ultimo, App. Bologna, 23 febbraio 2024, cit., secondo la quale “dopo l’intervento delle Sezioni Unite, quindi, costituiva principio giurisprudenziale consolidato quello per cui il giudice (…) era tenuto ad effettuare una valutazione circa la fattibilità del piano proposto, sotto il profilo della correttezza giuridica” (corsivo aggiunto).
[25] S. Ambrosini, Accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o a una procedura di insolvenza: iniziativa e procedimento unitario, in S. Pacchi, S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 143.
[26] E in argomento cfr., ex multis, S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella dirattiva del parlamento europeo e del consiglio 2019/1023, in Dir. fall., 2019, I, 1259 ss.; L. Stanghellini, La tormentata attuazione della Direttiva europea in materia di “quadri di ristrutturazione preventiva”, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna, 2022, 75 ss.; P. Vella, La nuova era della ristrutturazione preventiva nel codice della crisi e dell’insolvenza dopo l’attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023, ivi, 10 ss.; V. Minervini, Codice e Direttiva: principi immanenti (e sovraordinamentali) del diritto della crisi, ivi, 90 ss.
[27] Sul tema, tra gli altri, G. Fichera, Sul nuovo concordato semplificato: ovvero tutto il potere ai giudici, in dirittodellacrisi.it, 11 novembre 2021; S. Pacchi, Gli sbocchi della composizione negoziata e, in particolare, il concordato semplificato, cit.; S. Ambrosini, Concordato semplificato: la giurisdizione come antidoto alla “coattività” dello strumento e alla “tirannia” dell’esperto, cit.
[28] Fra i primi, sul punto, L. Panzani, I limiti all’autonomia negoziale nella disciplina della crisi, in S. Ambrosini (a cura di), Le crisi d'impresa e del consumatore, Liber amicorum per Alberto Jorio, Bologna, 2021, 229.
[29] Al riguardo,in luogo di molti, L. Panzani, op. ult. cit., 201 ss..