, 09 luglio 2024, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
«L’inferno è solamente una questione temporale / A un certo punto arriva, punto e basta / A un certo punto han chiuso l’ingresso principale / E hanno detto avete perso il posto / È vero il mio lavoro è sempre stato infame / Ma l’ho chiamato sempre il mio lavoro».
Sono versi di Non ho che te, canzone di Luciano Ligabue di una decina di anni fa, forse non tra le migliori, musicalmente parlando, dello straordinario repertorio della rockstar reggiana, ma certamente tra quelle di contenuto più intenso, coinvolgente, toccante. Un operaio che, «a un certo punto», trova serrato il cancello della ditta per cui lavorava e precipita in un inferno che, in breve, diventa «il posto che frequenti», il «buio sotto questo sole», «le luci quasi tutte spente» – ove non contano più i prestiti bancari, le mobilitazioni sindacali, le prospettive pensionistiche – e che lo spinge persino a interrogarsi inquieto se la propria donna sappia ancora cosa fare «di un uomo che non ha un lavoro».
Si tratteggiano così in taglienti pennellate quasi impressionistiche (molto meglio di quanto avrebbero saputo fare interi e noiosi trattati di diritto e di sociologia del lavoro) l’inferno della crisi d’impresa quando s’abbatte sui lavoratori e lo smarrimento psicologico e relazionale di chi perde, in rapido volgere e non per colpa sua, quello che aveva «chiamato sempre il mio lavoro»; ed è drammaticamente efficace l’enfasi dell’aggettivo possessivo, che compensa l’”infamità” delle mansioni (come si dice, un task work), evidentemente faticose, ripetitive e poco gratificanti. Certo, si è lontani dal compiacimento orgoglioso, ergofilo (e un po’ ingenuo, in verità) di Tino Faussone, il protagonista de La chiave a stella di Primo Levi, che amava il proprio lavoro di montatore di gru tanto da ravvisarvi «la miglior approssimazione concreta alla felicità sulla terra»; i tempi sono decisamente cambiati[1], ma quel “mio” è ancora avido di significato, dice ancora molto, è un urlato e protervo “atto occupativo”, per così dire, della “quota di proprietà”, del “dividendo” sull’azienda datoriale che il lavoratore rivendica dopo avervi vissuto e operato, magari a lungo, quale componente inisolabile dal suo contesto socio-economico e di “comunità”, in cui s’inserisce (s’inseriva) costitutivamente e funzionalmente ciò che era stato «chiamato sempre il mio lavoro».
Ma se questa è la condizione del lavoratore, non meno infernale, simmetricamente plumbea, è quella dell’imprenditore alle prese con il proprio dissesto, e la lirica di Ligabue – sta anche qui la sua originalità poetica – non trascura l’altra faccia della medaglia: l’operaio incrocia il padrone che gli si para davanti con «gli occhi gonfi, la giacca da stirare / Mi ha visto, si è girato, stava male / Aveva gli occhi vuoti, la barba da rifare». Una persona esanime con lo stesso «gelo nelle ossa», lo stesso naufragio esistenziale del suo (ex) dipendente, che però, inaspettatamente, ha la forza di rivolgergli uno sguardo non di disprezzo, anzi, di empatia[2]: lo “sguardo che salva” di Simone Weil, lo sguardo, misteriosamente promettente, del riconoscimento reciproco: «dell’impresa da parte del lavoratore, e del lavoratore da parte dell’impresa. Ciò nella consapevolezza che gli scopi dell’uno non soltanto sono compatibili con quelli dell’altro, ma sono la condizione ultima (al di là di attriti intermedi anche importanti, ma che diverrebbero, in questa visione, incidenti di percorso da gestire e se possibile da superare) del loro perseguimento»[3]; nella presa d’atto, sì rovinosa ma autenticamente vera, che dipendenti e datori, quando su entrambi rovina la crisi, simul stabunt aut simul cadent.
Lo ha inteso perfettamente Francesco Vella nell’insistere sul «ruolo di inevitabile protagonista ricoperto dal fattore lavoro, da un lato principale destinatario dei tristemente noti effetti della crisi, e dall’altro prioritario riferimento per uscirne il prima possibile»[4]; lo ha inteso perfettamente, con piglio più pragmatico, Adriano Patti nel mettere a tema «due diverse, ma complementari precarietà: da una parte, quella dell’impresa, che da una condizione di crisi ha esigenza di ripristinarne una di efficiente funzionalità in vista di una ricollocazione competitiva sul mercato, attraverso un’opportuna ristrutturazione economica e organizzativa, quasi sempre comportante interventi di riduzione anche del personale in essa occupato; dall’altra, la situazione di precarietà del lavoratore, innestata nella prima quale sua componente, ma con la peculiare caratterizzazione - che la emancipa da quella - della titolarità di una posizione giuridica soggettiva meritevole di particolare protezione, non soltanto di natura economica»[5], ma pure di natura costituzionale – si aggiunge – in quanto caratterizzata da «un complesso apparato di norme inderogabili, a tutela del lavoratore, che riverberano sotto il profilo retributivo, previdenziale e della salvaguardia del rapporto»[6].
Un vero dilemma o, se si vuole, un riedito “comma 22”: l’impresa in crisi «per uscirne il prima possibile» non può fare a meno dei lavoratori, ma «per uscirne il prima possibile» può fare a meno dei lavoratori. Sì, perché se l’impresa commerciale, come voleva Ronald Coase, è poco più di una rete di rapporti contrattuali – nexus of contracts – il contratto di lavoro non ne sta fuori, e se lo squilibrio economico-finanziario o l’insolvenza tout court dell’impresa portano allo scioglimento di uno o più dei nodi della rete, anche quello lavorativo non può sottrarsene, che piaccia o no; e, d’altra parte, è maledettamente vero che se prima non si risana l’impresa, non si può dopo salvare il lavoro.
C’è modo di sciogliere questo dilemma?
Giuseppe Rensi, coraggioso giurista e filosofo troppo poco ricordato, diceva che «Il problema del lavoro, come tutti quelli che maggiormente interessano l’umanità, è, così dal punto di vista morale, come dal punto di vista economico-sociale, insolubile»[7]; specialmente il lavoro subordinato[8] in cui soltanto, e non altrove, l’obbligazione del prestatore realizza il perfetto (e felice) ossimoro di Pierre Legendre del “vincolo che separa”. Ma anche quello dell’impresa è un problema non meno arduo, tant’è che «ancora oggi la teoria economica non riesce a esprimerne una soddisfacente rappresentazione analitica e quindi a spiegarne in maniera convincente il ruolo»[9]; spesso di essa si dice tutto il male possibile (e, spiace notarlo, pesa ancora l’atavico retaggio cattocomunista[10]): che inquina, sfrutta, corrompe, discrimina, uccide – a tal punto che ne è persino interdetto il puro uso sostantivale se non sia accompagnato da un attributo accomodante, rassicurante: impresa sociale, impresa sostenibile, impresa etica, impresa responsabile, impresa verde, e via aggettivando[11]. Resta ancora difficile percepire l’impresa come valore in sé, senza aggettivi, sine glossa: la stessa Carta fondamentale, in fondo, non le riserva che pochi e secchi versetti. Ciononostante, l’impresa, come il lavoro, è, per dirla con Rensi, una “impossibile necessità” e, fortunatamente, non se ne può fare a meno perché opera come «elemento di miglioramento della società»[12]: e quanto sarebbe bello se, per la sua costituzione, sparissero tanti “lacci e lacciuoli” burocratici e ci fossero maggiori e più accessibili incentivi, specie in favore di donne e di giovani. Le imprese servono perché creano ricchezza, perché creano innovazione, perché creano benessere, perché creano cultura, perché – soprattutto – creano lavoro, perché è «il fare impresa la via maestra per creare lavoro»[13].
Ecco, il cerchio narrativo si chiude, ma rimane, damocleamente sospeso, il dilemma.
La dialettica della “complementare precarietà” tra l’imprenditore in crisi e i suoi dipendenti fatica, per definizione, a trovare un’appagante sintesi; c’è però da dire che il Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza – e gliene va reso merito, perché tutt’altro che scontato – non è rimasto sordo al lamento sollecitatorio, dopo decenni di ipoacusia, affinché diritto concorsuale e diritto del lavoro, dopo tante incomprensioni, iniziassero a dialogare costruttivamente e la sorte dei lavoratori nel dissesto datoriale trovasse una sua (pur rapsodica) esplicitazione normativa: sotto il profilo non solo della tutela del credito (su cui non poco si è fatto: dall’estensione dell’intervento del Fondo di garanzia per il t.f.r. al divieto di misure protettive, dal pagamento delle mensilità pregresse alla proibizione del relative priority rule e della rateizzazione ex art. 25-undecies, CCII)[14], ma anche (ed è l’aspetto più critico) della conservazione dei posti di lavoro e, ancora più a monte, del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione della crisi e nelle relative scelte strategiche[15]. Preservazione dell’occupazione e cogestione della crisi non sono l’una all’altra estranee: se è vero, com’è vero, che il «il lavoratore subordinato collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa»[16], non si capisce perché tale impegno collaborativo dovrebbe recedere in tempi di vacche magre – se non quando s’eclissa il «pieno “riconoscimento” del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità»[17], se non quando, detto al contrario, il lavoro, improvvisamente, diventa soltanto una voce del conto economico. Questo, peraltro, non è sufficiente, essendo anche necessario, da parte loro, che lavoratori e sindacati, senza rinunciare a una giusta e sana (e, per certi versi, necessaria) dose di conflittualità, provino con maggior vigore a «”guardare negli occhi” la razionalità economica»[18] e le sue dinamiche aziendali, a non intendere il rapporto di lavoro, come pensava Franz Neumann, all’ineluttabile stregua di «un rapporto di potere»[19], a farsi carico, realmente e realisticamente (esempi virtuosi, di certo, non mancano), della complessità di un’impresa in crisi[20]. Vasto programma, si dirà; ma credo sia ormai irrinviabile. È stato un prezioso contributo di Stefania Pacchi quello di avere intuito l’impellente esigenza di una “rivoluzione della soggettività” dei protagonisti impegnati nel percorso di conservazione delle imprese in difficoltà: la sua indagine sul workers buyout – la possibilità concessa ai lavoratori, a certe condizioni, di rilevare l’impresa datoriale – le ha consentito di mettere al centro della riflessione, in generale, «lo scenario della nascita di una nuova “soggettività d’impresa” e di un nuovo soggetto, “il lavoratore associato”»[21]; e mi sembra il termine appropriato, quello del lavoratore attivamente e fattivamente “associato” (non mero spettatore passivo) al destino del proprio datore[22].
Nell’approccio da parte del diritto della crisi d’impresa a questo delicatissimo intreccio, gioca un ruolo essenziale la summa divisio tra procedure liquidatorie (nei due archetipi della liquidazione giudiziale e del concordato preventivo liquidatorio) e il prolisso coacervo di procedure conservative, compositive, ristrutturative, in continuità – che dir si voglia; a me piace definirle “procedure di resilienza”. Nelle prime, semplicemente, l’irrimediabile orizzonte dissolutivo dell’impresa insolvente assorbe i rapporti lavorativi (salvo il caso, come si dirà oltre, dell’eventuale esercizio provvisorio e della conseguente cessione dell’azienda): nella liquidazione giudiziale c’è un’apposita norma, l’art. 189 CCII, che (pur non priva di incertezze e discontinuità, anche dopo il maquillage dell’ultimo decreto correttivo) certifica l’evenienza risolutoria dei contratti di lavoro pendenti (la dice lunga la soppressione del principio, che sembrava sacro, per cui «L’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento»)[23] tramite una disciplina ad hoc, che rivendica una gelosa valenza endoconcorsuale (il monito dell’art. 2119, comma 2, c.c. non sembra lasciare spazio a dubbi) e non contaminabile, come pare, dalla disciplina giuslavoristica vigente; nel concordato preventivo (et similia) non c’è neppure tanto, mancando una specifica disciplina interna (anzi, decisamente esclusa dall’art. 97, comma 13, CCII, che rimanda alla disciplina giuslavoristica vigente), sicché il destino dei lavoratori coinvolti rimane fatalmente ancorato a quello loro pertoccante nel piano concordatario (arg. ex art. 87, comma 1, lett. o, CCII).
Nelle procedure non liquidatorie la musica è alquanto diversa – modulata sul “basso continuo” della direttiva 2019/1023/UE – giacché è finalmente avvertita l’urgenza, da un lato, di preservare l’occupazione, compatibilmente con la preservazione dell’impresa, e, dall’altro, di coinvolgere le rappresentanze sindacali dei lavoratori nelle opzioni lato sensu ristrutturative. Lo dimostrano, per tacer d’altro, due norme esemplari: l’art. 84, comma 2, CCII, per cui la continuità aziendale «preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro» (e le fa da pendant l’art. 53, comma 5-bis, CCII che autorizza l’omologazione ‘forzata’ del concordato quando lo imponga l’«interesse generale dei creditori e dei lavoratori»), e l’art. 4, comma 3, CCII, per cui l’imprenditore, quando intenda adottare «rilevanti determinazioni […]che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori» (e per le quali non siano già previste apposite procedure), deve informarne previamente i referenti sindacali e partecipare all’eventuale e successiva fase di confronto.
Ma è vera gloria? Si realizza così il tanto auspicato reciproco riconoscimento?
La prima disposizione giustappone l’interesse dei prestatori per la più ampia conservazione dei posti di lavoro all’interesse dei creditori per la migliore realizzazione del credito (interesse, quest’ultimo, che, almeno in via teorica, non rappresenta più l’unico meritevole di pregiudiziale e prioritaria protezione)[24]. È già una piccola rivoluzione, anche se solo di principio, e lo attesta la cautelativa espressione «se possibile», che, qualunque cosa voglia dire, sembra devitalizzare ciò che con passione è stato appena affermato; come tutte le norme di principio, essa sconta una strutturale carenza di concretezza applicativa, abbandonata, di fatto, alle singole specificità congiunturali (ogni impresa in crisi, tolstojanamente, è in crisi a modo suo). Ci saremmo aspettati regole un po’ più consistenti da rendere una solida traduzione di tanta premura occupazionale, come sarebbero state, ad esempio, quelle che avessero autorizzato il livellamento dei posti di lavoro soltanto come extrema ratio, quando, cioè, non fosse possibile adottare (previa esplicitazione delle ragioni economiche od organizzative) interventi a carattere conservativo tramite apposite modulazioni, anche in peius se del caso, dei contratti di lavoro (si pensi agli accordi di solidarietà difensivi o a quelli di transizione occupazionale); che avessero introdotto istituti premiali in favore dell’imprenditore adoperatosi, nonostante la crisi, al mantenimento dei livelli occupazionali; che avessero previsto l’obbligo per il cessionario dell’azienda di stabilizzare per un certo tempo i lavoratori trasferitigli. Si sa, i principi sono belli quando li si guarda da lontano, ma questo non dovrebbe succedere nella delicata materia di cui sto parlando[25]; tanto per dire: se l’imprenditore in continuità decide (legittimamente, peraltro) di procedere a licenziamenti collettivi per razionalizzare i costi del personale, quale dev’essere il limite esuberale perché possa ancora parlarsi di continuità? Se si tratta, poniamo, di cento dipendenti, ha senso parlare ancora di continuità ove se ne licenzino ottanta? Dove va fissato, detto altrimenti, il punto di caduta, l’equilibrio ‘paretiano’ tra continuità aziendale e preservazione dell’occupazione? L’Urtext dell’art. 84, comma 2, CCII lo suggeriva e lo individuava nella soglia manutentiva «di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso»; questa proposizione, ahimè, è stata cancellata, è ormai una foglia morta caduta dall’orbe normativo, ma potrebbe nondimeno riemergere (la nostalgia, a volte, fa strani scherzi) in forma di prassi virtuosa?
La seconda disposizione non manca di un suo indubbio fascino, perché rende tangibile l’ottima idea del sistematico coinvolgimento (engagement) dei lavoratori, attraverso i loro rappresentanti sindacali, nella gestione della crisi datoriale; ma bisogna apprezzarne bene lo spessore qualitativo, ed è forse mancato un po’ di coraggio nel forzare la verticalità gerarchica della governance aziendale (ancora in larga misura d’osservanza fordista)[26] e dei suoi processi decisionali – nonostante l’ingombrante presenza dell’art. 2086, comma 2, c.c. (e del suo riflesso concorsuale ex art. 3, comma 2, CCII), ancora non del tutto esplorato quanto ai suoi possibili riverberi lavoristici[27]. È mancato, cioè, il coraggio di generalizzare e di istituzionalizzare l’accordo sindacale quale strumento elettivo per una compiuta compartecipazione dei lavoratori; come bene argomentato da Giovanni La Croce, non si è previsto, di fatto, «che i lavoratori abbiano diritto di partecipare all’approvazione di un piano di ristrutturazione che comporti una riduzione dell’occupazione o delle loro retribuzioni, [sicché si è persa] un’occasione storica per rendere i lavoratori partecipi del loro futuro. […] Sta di fatto che i lavoratori sono oggi sostanzialmente estranei al processo di ristrutturazione della loro impresa, cui partecipano esclusivamente in ragione delle posizioni creditorie vantate»[28]. Non basta che le maestranze siano informate o siano formalisticamente chiamate a partecipare alle riunioni con i vertici preposti alla gestione della crisi – tutto ciò odora tanto di workwashing; bisogna piuttosto che le decisioni in tal senso, in qualche modo, siano davvero condivise. Ora, non pretendo di mettere a sistema quello che le relazioni industriali tedesche chiamano Mitbestimmung; non è forse ancora il tempo di tanta ambizione – anche se, detto per inciso, d’altro non si tratterebbe che della sostenibile leggerezza dell’art. 46 Cost.[29] Tuttavia, se può essere opportuno non limitare, quando le cose vanno bene, la libertà e la discrezionalità operativa dell’imprenditore (pur sempre “capo dell’impresa” ex art. 2086, comma 1, c.c.), può non esserlo affatto quando le cose vanno male e il “capo dell’impresa” in limine decoctionis rischia di uscirne indebolito, con «gli occhi gonfi, la giacca da stirare», quando non del tutto delegittimato.
È stato Lorenzo Stanghellini, in tempi non sospetti e molto prima della “gloriosa rivoluzione” del diritto della crisi d’impresa, a ravvisare tra gli obiettivi delle procedure d’insolvenza (oggi diciamo degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza) quello di «trasferire il controllo dell’impresa in crisi da un soggetto che ha ormai un sistema di incentivo distorto e inefficiente […] alla categoria di soggetti che ormai loro malgrado forniscono il capitale di rischio: i creditori. La procedura d’insolvenza fa sì che i creditori, divenuti per effetto delle perdite, in sostanza, i veri «soci» (investitori di capitali di rischio) senza però alcun diritto, assumano il controllo dell’impresa in crisi: essa produce coattivamente questo trasferimento e crea una «organizzazione» attraverso la quale i creditori-controllanti possono esercitare i poteri che spettano agli investitori»[30]. Perché i “lavoratori associati” non dovrebbero rientrarvi a pieno titolo anche quando non siano (come può senz’altro capitare)[31] creditori ‘pecuniari’? Come s’è detto, essi sono qualcosa di più di ‘banali’ creditori o di meri stakeholder, avendo conferito come «veri soci» le proprie energie collaborative, creative, intellettuali, demiurgiche, manuali – tant’è che ogni preliminare discorso sulla “gestibilità” e sulla “sostenibilità” della crisi d’impresa passa preliminarmente dal chiarire «a chi essa “appartenga” [visto che] altri soggetti - oltre gli shareholders - possono vantare diritti di tipo proprietario»[32].
Non sarebbe stata fuori luogo, perciò, una più meditata valorizzazione degli accordi collettivi – specie nella forma ‘elastica’ e versatile degli accordi di prossimità ex art. 8 d.l. n. 138/2011, appositamente previsti per la «gestione delle crisi aziendali e occupazionali»[33] – né sarebbe stata disarmonica rispetto all’impianto complessivo degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, votati piuttosto che al collaudato versante (statico) della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., a quello (dinamico) della composizione contrattuale e della praticabilità negoziale degli interessi in gioco. Senza dimenticare, perché è importante tenerlo presente in questo non agevole frangente, che l’accordo sindacale «non si limita mai a stabilire il solo valore di scambio del lavoro»[34], poiché di questo ha una visione complessiva, compiuta, organica, che tiene conto della storia particolare di quella impresa (il suo carico valoriale) e della storia particolare di quei lavoratori (il loro vissuto professionale)[35]; d’altronde, la creatività legislativa – e la memoria corre agli inquieti giorni del lockdown e dell’emergenza pandemica – ha partorito, vincendone la sottile contraddizione, ipotesi di accordi sindacali obbligatori[36], ed è proprio l’accordo sindacale (se ne riparlerà appresso), graduando opportunamente le garanzie lavorative approntate dall’art. 2112 c.c., a farsi proficuo viatico per la cessione dell’azienda in crisi. Sarebbe stato auspicabile, se non altro, qualcosa di somigliante al dispositivo di coinvolgimento gestionale dei dipendenti delle imprese del c.d. terzo settore, a quel «meccanismo di consultazione o di partecipazione mediante il quale lavoratori, utenti e altri soggetti direttamente interessati alle attività siano posti in grado di esercitare un’influenza sulle decisioni dell'impresa» (art. 11, comma 2, d.lgs. n. 112/2017); un innovativo assetto compartecipativo non limitato al mero obbligo informativo, ma aperto a un reale coinvolgimento tale da influenzare (verbo incerto, ma comunque significativo) le strategie ristrutturative dell’impresa[37].
Molto ci sarebbe ancora da fare, ma molto, comunque, è stato fatto (a criticare una legge si fa presto, a scriverla non altrettanto), con esiti, talvolta, sorprendenti e inattesi. È il caso della disciplina concorsuale del trasferimento d’azienda, funzionale non solo a garantirne la continuazione dell’attività (e a proteggere, all’occorrenza, il talento imprenditoriale), ma anche a salvaguardarne i livelli occupazionali (e a proteggere, all’occorrenza, la perizia lavoratoriale); essa, infatti, ha del miracoloso e ha il potere addirittura di resistere al corto circuito del “comma 22”; non è sempre vero, infatti, che la dissoluzione liquidativa dell’impresa datoriale debba inesorabilmente trascinare con sé i rapporti di lavoro, nel senso che la cessione d’azienda – se tempestivamente e ‘cairologicamente’ ben gestita e se sterilizzata da ogni asimmetria informativa – può rappresentare un utile e piacevole diversivo.
Occorre perciò tornare alla ‘basica’ dicotomia tra procedure liquidatorie e non liquidatorie, per meglio calibrarvi il punto di vista dei lavoratori – che, molto spesso, cambia la comune narrazione delle cose. Non credo sia insensato ritenere che, in un’ottica quantomeno fenomenologica[38], l’alternativa liquidazione/continuità vada ulteriormente precisata nel senso che una procedura d’insolvenza dovrebbe ritenersi liquidatoria non solo quando lo sia, per così dire, istituzionalmente, per natura, per nominazione legislativa, ma anche quando il suo esito concreto e sintetico (a prescindere dal nomen iuris) sia, appunto, la dissoluzione del compendio aziendale con la fissione atomistica dei singoli beni che lo compongono. La situazione contraria, ove l’azienda, nella sua oggettività, sopravvive funzionante ancorché sotto la titolarità e nelle mani di un altro imprenditore, non dovrebbe corrispondere a un fenomeno realmente liquidatorio; sempre a condizione, però, che l’operatività dell’azienda prosegua inalterata e senza soluzione di continuità e che si conservi integro il vincolo organizzativo ex art. 2555 c.c. – esattamente come si verifica nel trasferimento aziendale progressivo al termine della sequenza liquidazione giudiziale-esercizio dell’impresa[39].
D’altronde, non c’è dubbio che, in senso strettamente giuridico, la cessione d’azienda, in una procedura liquidatoria, sia un atto, appunto, di liquidazione – ed è confermato (come già nel “vecchio” fallimento)[40] dalla sedes materiae nell’ambito dedicato alla liquidazione dell’attivo; non c’è altresì dubbio che l’operazione traslativa in una procedura di liquidazione, anche solo a livello di valutazione economica dell’azienda (dato che «l’abbattimento dei valori dei cespiti ed in specie dell’azienda conseguente alla dichiarazione di fallimento è dato notorio nella pratica»[41]), sia cosa diversa da quella in una procedura conservativa o in continuità, che può praticare prezzi di mercato più competitivi. Tuttavia, non c’è del pari dubbio che quella effettuata nel milieu liquidatorio si sovrapponga alla (e collimi con la) nozione lavoristica di cessione d’azienda fatta propria (sotto dettatura eurounionale) dall’art. 2112, comma 5, c.c., per cui costituisce «trasferimento di azienda qualunque operazione che […] comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata e che conserva nel trasferimento la propria identità»; e si nota agevolmente il saldo ancoraggio dell’effetto traslativo, ai fini del mantenimento dei diritti dei lavoratori coinvolti, alla titolarità soggettiva dell’azienda (che cambia) e all’identità oggettiva dell’azienda (che non cambia). Stesso concetto che si ritrova (ma con linguaggio più contorto) nel testo dell’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 in tema di cambio d’appalto (così novellato su sollecitazione europea), per cui, nel subentro dell’appaltatore avvicendatario, non si verifica alcun trasferimento d’azienda quando «siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa», ossia, tradotto in italiano, quando muta l’identità dell’azienda, in maniera incompatibile con la definizione lavoristica di cessione.
Se, dunque, una procedura d’insolvenza, benché formalmente liquidatoria, riesce ciononostante a mantenere l’identità dell’azienda nella sua intatta continuità produttiva mediante, dapprima, l’esercizio provvisorio e, quindi, la cessione o l’affitto ad altro imprenditore (anche nella forma del rent to buy, oggi tanto di moda), si è ancora innanzi di fatto a una procedura liquidatoria, o non piuttosto a una forma, chiamiamola così, di “continuità ibrida”, “sovraestesa”? Una liquidazione giudiziale cui sia stato autorizzato l’esercizio provvisorio in vista della cessione dell’azienda è ancora di fatto una procedura liquidatoria? E lo è ex parte prestatoris (perché è questo, lo ripeto, il punto di vista che m’interessa) una procedura d’insolvenza che, tramite la cessione dell’azienda, non scuota il rapporto lavorativo nonostante l’irreversibilità della crisi dell’originario datore? A pieno rigore, la risposta ex parte locatoris rimane affermativa, perché la liquidazione giudiziale, istituzionalmente liquidatoria, rientra a tutti gli effetti nella previsione di cui all’art. 5, par. 1, della direttiva 2001/23/CE (e nella sua proiezione domestica ex art. 47, comma 5, l. n. 428/1990)[42], ove si autorizza, all’esito della prescritta consultazione sindacale e della sottoscrizione del relativo accordo (se n’è già accennato), la quasi totale compressione dei diritti dei lavoratori (in primis, del diritto alla prosecuzione del rapporto lavorativo presso il cessionario) – a differenza delle procedure istituzionalmente non liquidatorie, nelle quali la deroga all’art. 2112 c.c. è assai più modesta (anzi, pressoché inoffensiva). Inoltre, non è neppure vero che, nella liquidazione giudiziale, la cessione d’azienda sia a “impatto zero” sui rapporti di lavoro e che questi ne rimangano assolutamente insensibili: in effetti, l’art. 47, comma 5-bis, l. cit. introduce una specie di “finta” interruzione della continuità contrattuale ai limitati effetti del t.f.r., che diventa «immediatamente esigibile nei confronti del cedente dell’azienda», facendo sì che il Fondo di garanzia possa intervenire «anche a favore dei lavoratori che passano senza soluzione di continuità alle dipendenze dell’acquirente», in quanto, con incantevole deroga all’art. 2120, comma 1, c.c., «la data del trasferimento tiene luogo di quella della cessazione del rapporto di lavoro». È chiaro, però, che si tratta di una norma non generalizzante e prevista a specifica tutela del credito per t.f.r. maturato presso il cedente, nel senso che i lavoratori, pur nella prosecuzione intonsa del rapporto (che, d’altra parte, viene confermata), possono pretendere illico et immediate l’assistenza accollatoria da parte dell’ente di previdenza[43].
Ma il diavolo, come si sa, sta nei dettagli. Sorprende, infatti, come nell’art. 47, comma 5, l. cit. l’eventualità della compressione ‘concordata’ dei diritti dei lavoratori sia consentita, letteralmente (e non senza imbarazzo), «quando la prosecuzione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata» – lasciando così intendere che tale compressione non sarebbe ammessa (o, tutt’al più, ammessa negli stessi limiti minimali in cui è ammessa nelle procedure non liquidatorie) quando, a contrario, la prosecuzione dell’attività sia stata disposta o non sia cessata. Se posti in questa visuale, l’art. 47, comma 5, l. cit. e l’art. 2112, comma 5, c.c., costituendo entrambi ricadute esecutive della direttiva 2001/23/CE, si allineano in diapasonica armonia – poiché, alla fine, quello che dovrebbe contare affinché, nel passaggio traslativo, le garanzie a tutela dei diritti dei lavoratori rimangano (in tutto o in parte) impregiudicate, è, appunto, il mantenimento dell’operatività e, soprattutto, dell’integrità identitaria dell’azienda. Trovo difficile attribuire un diverso significato alla suesposta proposizione normativa: che sia uno svarione del legislatore (“errore da professionisti”, direbbe Paolo Conte) è poco probabile e, se sì, sarebbe stato verosimilmente rimosso o modificato in tono più intelligibile dal decreto correttivo; che sia da riferirsi soltanto all’ultimo sostantivo («liquidazione coatta amministrativa») non è da escludersi pregiudizialmente (anche se la punteggiatura non depone in questo senso), ma avallerebbe un’ingiustificata discriminazione tra procedure analoghe: non s’intende cos’avrebbe di diverso (e di più meritevole) l’esercizio provvisorio della liquidazione coatta amministrativa rispetto a quello della liquidazione giudiziale. È anche bene rammentare che l’art. 5, par. 2, della suddetta direttiva non esclude che la tutela “forte” dei lavoratori si conservi «indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso» – come dire che l’integrale applicazione dell’art. 2112 c.c. può convivere con una procedura liquidatoria; così come l’art. 8 acconsente affinché ogni singolo Stato membro disponga in termini più favorevoli ai lavoratori.
Ammetto che sul versante sistematico qualcosa stona e disturba[44] innanzi a tale interpretazione – e se non ci fosse l’interpretazione, ammonisce la splendida Patrizia Cavalli, «sarebbe sopportabile ogni male», compreso il diritto oscuro. L’acquirente di un’azienda sottoposta a liquidazione giudiziale, anche se in esercizio, non potrebbe contare sullo ‘snellimento’ della forza lavoro e non vi potrebbe compiere alcun’opera selettiva – senza neppure confidare su uno “sconto” nella relativa valutazione, sulla falsariga dell’art. 63, comma 1, d.lgs. n. 270/1999 nell’ambito dell’amministrazione straordinaria. E allora di che si tratta? Di una curiosa eterogenesi dei fini, come dicono i filosofi bravi? Di una forzata distorsione ermeneutica da law stylist ossequiante la presunta predominanza etica e la tipica autoreferenzialità del diritto del lavoro? O piuttosto di un brutto pensiero? Sì, forse è così, è proprio uno di quei brutti pensieri che vengono al tempo della crisi; e lo canta Ligabue: «Vedessi dove arrivano i pensieri di qualcuno / Vedessi, amore, come fan spavento».
[1] Qualcosa di simile, però (anche se calato nel contesto culturale giapponese, ben diverso in ciò da quello occidentale), è espresso nel film Perfect Days, l’ultima meravigliosa fatica di Wim Wenders. Per il resto, sull’attuale percezione valoriale del lavoro, rimando a A. Bottini-A. Orioli, Il lavoro del lavoro, Milano, 2023, 9-23.
[2] Quasi un manifesto contro lo stigma sociale del fallimento e la vieta formula del fallitus ergo fraudator.
[3] B. Caruso-R. Del Punta-T. Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, in csdle.lex.unict.it, 2020, 24. È su questo riconoscimento “privato” che, in fondo, si sostiene e si alimenta il riconoscimento “sociale” del lavoro (quello che Jürgen Habermas chiama Anerkennung), oggi seriamente messo in discussione.
[4] F. Vella, Introduzione a Fondazione Unipolis, La partecipazione dei lavoratori nelle imprese, Bologna, 2017, 9.
[5] A. Patti, Rapporti di lavoro e impresa in crisi, in «Questione Giustizia», 2, 2019, 302. Ciò è tanto più vero innanzi alla formidabile ed epocale rimodulazione del lavoro – ben lungi dalla sua “fine” preconizzata da Jeremy Rifkin – a ragione della duplice transizione digitale ed ecologica, destinata inevitabilmente a sovvertire il tradizionale Sitz im Leben lavorativo che si dava riposantemente per assodato; perdipiù, l’eventualità della crisi non sembra essere più uno stato d’eccezione, un momento patologico transeunte, ma, al contrario, qualcosa di fisiologicamente e strutturalmente connesso con il fare impresa (l’icastica “permacrisi” di Michael Spence) che partecipa di un mondo segnato dall’incertezza, di quella che Ulrich Beck aveva profeticamente chiamato “società del rischio” (Risikogesellschaft). Dovrebbe sconcertare, ad esempio, che solo nel settore metalmeccanico siano in Italia 103.451 i lavoratori attualmente coinvolti in crisi aziendali (Fonte: «Sole-24 Ore»).
[6] R. Bellè, Il lavoro subordinato, in A. D. De Santis-A. Patti, Lavoro e crisi d’impresa, Bari, 2023, 16.
[7] G. Rensi, Contro il lavoro, Saggio sull’attività più odiata dell’uomo, Camerano, 2012, 33.
[8] Fin tanto che la duplice transizione ci consentirà di parlarne ancora, quantomeno nella forma con cui l’abbiamo conosciuto finora.
[9] P. A. Toninelli, Storia d’impresa, Bologna, 2006, 17.
[10] La vulgata del capitalismo intrinsecamente predatorio e amorale trascura che Adam Smith aveva teorizzato la moderna economia politica capitalistica non disgiunta da un saldo fondamento etico: la Ricchezza delle nazioni va letta unitamente alla Teoria dei sentimenti morali.
[11] Cfr. F. De Bortoli, Prefazione a F. Amatori, L’impresa italiana, Roma, 2020, 11.
[12] G. Sapelli, Etica d’impresa e valori di giustizia, Bologna, 2007, 114.
[13] S. Zamagni, Responsabili. Come civilizzare il mercato, Bologna, 2019, 171.
[14] Sicché i lavoratori, ironizza Stefano Massini, possono rimanere «fieri d’essere in cima alla lista dei creditori [e] possono dormire sonni tranquilli: se il loro armatore andrà in rovina, i pezzi della nave toccheranno per primi all’equipaggio»: S. Massini, Lavoro, Bologna, 2016, 54. Rimane invece dissonante, nel concordato in continuità, la previsione della moratoria fino a sei mesi del pagamento dei crediti retributivi (art. 86 CCII), a mio parere affetta da incostituzionalità ex art. 36, comma 1, Cost.
[15] Stupisce, peraltro, che per l’accesso a uno degli strumenti regolativi dell’insolvenza (penso, in particolare, alla procedura di composizione negoziata) il dato dell’occupazione e delle sue componenti qualitative (in termini di tipologie dei contratti di lavoro) sia irrilevante, come attesta il silenzio ostentato sul punto dall’art. 39 CCII.
[16] B. Caruso-R. Del Punta-T. Treu, op. cit., 24. Se posso dire, le imprese non sono mai migliori dei loro dipendenti.
[17] Ibid.
[18] Ibid., 12.
[19] F. L. Neumann, Il diritto del lavoro tra democrazia e dittatura, Bologna, 1983, 399. Propongo la rivisitazione in positivo della tesi marxiana per cui i lavoratori sono definiti attraverso il loro rapporto con i mezzi di produzione, nel senso, cioè, che il diritto del lavoro, soprattutto nella pratica applicativa, non può più prescindere dalla conoscenza competenziale dell’economia aziendale.
[20] Con ciò, ovviamente, non intendo affatto asserire che il lavoro debba mettersi al servizio esclusivo dell’impresa (tradirei l’art. 4 Cost., che l’orienta invece «al progresso materiale o spirituale della società»), né, a scanso di ogni romanticheria neocorporativa e di derive illusorie del discorso, ridimensionare o minimizzare i problemi che insidiano il lavoro – dalla questione salariale a quella della rappresentatività, dalla precarietà al divario di genere, dalla produttività alla sicurezza, dal work/life balance al sommerso, dalla “finanziarizzazione” dell’economia alle delocalizzazioni selvagge – e che l’effetto distorsivo della crisi datoriale può solo conclamare e aggravare. Rimando per questo a G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1, Torino, 2013, e a L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Bari, 2011.
[21] S. Pacchi, Una possibile alternativa per la continuità indiretta: l’acquisto dell’azienda da parte dei lavoratori, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2021, 9. D’altra parte, credo (e spero) che nessuno oggi pensi più (al netto di episodi incresciosi e criminali) che le imprese abbiano solamente a cuore la massimizzazione del profitto degli azionisti e del management – ed è cosa di non poco conto.
[22] Cosa molto difficile, lo riconosco, innanzi a un’impresa dematerializzata o gestionalmente affidata a un algoritmo, con il quale, notoriamente, non si parla.
[23] Per fortuna, è fatta salva l’indennità di mancato preavviso, quantunque in privilegio e non in prededuzione.
[24] Cfr. G. D’Attorre, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in dirittodellacrisi.it, 2021.
[25] Se il lavoro, nelle parole di Francesco Vella, ricopre il «ruolo di inevitabile protagonista» nella soluzione della crisi d’impresa, allora, per forza di cose, è da qui che bisogna ripartire. Prendo spunto dall’interessante studio di Fabio Lorenzo Sattin sulla figura di Benedetto Cotrugli, mercante dalmata di metà Quattrocento, che aveva definito «la mercatura come «un’arte ovvero una disciplina praticata tra le persone legittimate a esercitarla, ordinata secondo giustizia e relativa alle cose commerciali, per la conservazione del genere umano, ma pure con speranza di guadagno». […] L’obiettivo primario dell’attività di impresa è quindi, secondo Cotrugli, «la conservazione del genere umano», e il guadagno, quantunque essenziale e importante, viene in qualche modo dopo, anzi, per certi versi ne è una “naturale” conseguenza (“ma pure”)»: F. L. Sattin, L’uomo al centro dell’attività d’impresa, in «Il Sole-24 Ore», 23 giugno 2024, 13. Ecco, bisogna ripartire da qui.
[26] Cfr. T. Treu - A. Occhino, Diritto del lavoro. Una conversazione, Bologna, 2021, 50.
[27] Faccio comunque mia l’affermazione di Ilario Alvino per il quale «La scelta di inserire all’interno dell’art. 2086 c.c. l’obbligo di istituire assetti adeguati ci dice, in altri termini, che quello stesso obbligo non è posto nell’interesse esclusivo dei soci o dei creditori, ma è posto anche nell’interesse dei lavoratori che vengono inseriti all’interno dell’organizzazione dell’impresa per effetto della stipulazione del contratto di lavoro»: I. Alvino, Art. 2086 c.c. e procedura di informazione e consultazione sindacale, in «LavoroDirittiEuropa», 1, 2023, 10.
[28] G. La Croce, Il sottile equilibrio fra gli interessi al risanamento delle imprese e la tutela dei superiori interessi erariali e occupazionali, in dirittodellacrisi.it, 2024, 8.
[29] La Cisl ha presentato alle Camere un disegno di legge d’iniziativa popolare sulla partecipazione gestionale e organizzativa dei lavoratori nelle imprese.
[30] L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 50-51.
[31] Ricordando che l’accantonamento delle quote del t.f.r. è fonte di finanziamento per l’imprenditore e capitale di rischio per il dipendente.
[32] S. Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2023, 5 e 6. Aggiungo le perplessità di Anna Grandori: «Perché dunque si dà per scontato che chi fornisce capitale umano, non abbia in genere titolo a diritti di proprietà? Perché si discute di forme di partecipazione, magari anche attraverso distribuzione di utili o azioni ai dipendenti a scopi motivazionali; o di inclusione dei dipendenti tra gli stakeholders; e non si discute di quando i dipendenti non dovrebbero essere tali, ma dovrebbero essere soci in virtù di investimenti effettuati?»; A. Grandori, 10 tesi sull’impresa. Contro i luoghi comuni dell’economia, Bologna, 2015, 51-52.
[33] Accordi che, oltretutto, hanno una pur limitata efficacia erga omnes (gli accordi ‘ordinari’ vincolano di norma i lavoratori che aderiscono alle organizzazioni sindacali firmatarie) e possono derogare a ogni disposizione legislativa.
[34] M. Tiraboschi, Un errore di prospettiva equiparare i minimi tabellari e contrattuali, in «Il Sole-24 Ore», 12 giugno 2024, 25. In questa prospettiva, è da accogliere con soddisfazione la novella operata dal decreto correttivo sull’art. 23, comma 1, lett. a, CCII, che, in tema di composizione negoziata della crisi, prevede ora espressamente che il contratto di approdo della procedura possa essere sottoscritto, oltre che con i creditori, anche con «una o più parti interessate dall’operazione di risanamento», tra cui certamente rientrano i lavoratori, specie quando non siano creditori.
[35] Tra l’altro, sarebbe stato anche un ottimo segnale in tempi di disagio della contrattazione collettiva (pure di quella integrativa di secondo livello, che fatica ad affermarsi), segnata dall’eccessiva frammentazione dei processi produttivi (filiere di appalti e subappalti, subforniture, terziarizzazione incontrollata, ecc.), a tal punto che la determinazione merceologica del contratto collettivo di riferimento viene spesso affidata alla semplice “scelta” privata del datore.
[36] Si rilegga, ad esempio, l’art. 1, comma 2, lett. l, d.l. n. 23/2020 in tema di garanzie prestate dalla Sace s.p.a., per cui l'impresa che ne beneficia «assume l'impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali».
[37] Dunque, «l’obbligo d’informativa dettato dall’art. 4 CCII, pare […] si ponga a valle dell’assunzione delle decisioni dell’imprenditore, sostanzialmente relegando i lavoratori e le loro organizzazioni a meri recettori di un qualcosa di già definito, non negoziabile. […] Siamo al cospetto, probabilmente, non solo di una norma imperfetta, ma di una norma inutile, che deve indurre l’interprete a prudenza e a ritenere che i rapporti di lavoro nell’ambito delle ristrutturazioni d’impresa non godano affatto di uno statuto speciale, applicandosi ai medesimi le norme generali senza eccezione alcuna»: G. La Croce, op. cit., 10 e 12.
[38] Non voglio rispolverare l’antica (ma suggestiva) convinzione di Cesare Vivante che faceva della “natura dei fatti” un’autentica e vincolante fonte del diritto commerciale; suggerisco solo l’opportunità di tornare a riflettere sulla normatività del reale nel modo in cui esso accade e si manifesta. «Una corretta interpretazione dei fatti è anzitutto un presupposto indispensabile per porre rimedio a difetti della legge positiva»: E. Gliozzi, L’imprenditore commerciale. Saggio sui limiti del formalismo giuridico, Bologna, 1998, 21. Si tratterebbe di chiedersi, parafrasando quello che Tullio De Mauro diceva della lingua, non solo come una certa situazione debba essere disciplinata, ma anche come possa essere disciplinata.
[39] Che, ai sensi dell’art. 211 CCII, non dovrebbe cessare per il solo fatto dell’apertura della procedura, a meno che non sussista pregiudizio per i creditori, tenuto anche conto che la vendita del complesso aziendale è preferita alla liquidazione dei singoli beni (art. 214, comma 1, CCII); perdipiù, la sequenza esercizio d’impresa-cessione d’azienda dovrebbe costituire una delle ragioni impeditive ex art. 189, comma 3, CCII (nel testo riscritto dall’ultimo decreto correttivo) allo scioglimento dei contratti di lavoro pendenti.
[40] Come pure nella normativa fiscale: l’art. 9, comma 1, nn. 1.1 e 1.2, l. n. 111/2023 distingue, per la determinazione del reddito d’impresa tassabile, tra istituti di risanamento e istituti liquidatori, e questi ultimi sono tali se da loro discende «l’estinzione dell’impresa debitrice», e non dell’azienda.
[41] R. Bellè, Trasferimento di azienda in esercizio provvisorio fallimentare e derogabilità delle tutele eurounitarie: la Suprema Corte ancora sulla natura “liquidatoria” quale criterio dirimente, in «Fallimento», 2022, 26.
[42] Ibid., 26-27.
[43] Rimando al mio La formazione progressiva del credito per t.f.r. e la sua incidenza sull’ammissione al passivo del fallimento datoriale: sentieri battuti e nuove prospettive”, in «Fallimento», 2022, 663-664.
[44] R. Bellè, op. cit., 28-29.