, 11 luglio 2024, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: - 1. La continuità aziendale fra imprese in bonis e imprese in crisi: il profilo contabile. - 2. Segue. Il profilo gestorio - 3. Le declinazioni della continuità aziendale nel codice della crisi. La continuità diretta. - 4. La continuità indiretta: il dibattito nel vigore della legge fallimentare. - 5. La continuità indiretta nel codice della crisi. - 6. Segue. La conclusione e la modifica del contratto di affitto ai fini della continuità indiretta; la congruità del canone d’affitto. - 7. Segue. La ripresa dell’attività. - 8. Il caso della concessione in affitto dell’azienda da parte di una società in liquidazione. - 9. L’utilità per ciascun creditore. - 10. Cenno a continuità indiretta e competitività. - 11. Segue. Il rapporto tra offerta di acquisto dell’azienda e valore di liquidazione.
1. La continuità aziendale fra imprese in bonis e imprese in crisi: il profilo contabile
Com’è ben noto (agli aziendalisti prima ancora che ai giuristi), l’espressione “continuità aziendale” si rinviene anzitutto nell’art. 2423-bis c.c., dedicato (già nel testo anteriore alla riforma del 2003) ai principi di redazione del bilancio, il cui comma 1, n.1), stabilisce che la valutazione delle voci deve essere fatta, oltre che secondo prudenza, “nella prospettiva della continuazione dell'attività”. Il che val quanto dire che il bilancio deve esprimere valori di funzionamento, che si ottengono attraverso l’applicazione di criteri coerenti con la finalità di rilevare l’utilità che i beni possono produrre a beneficio dell’impresa in esercizio[1].
La continuità aziendale rappresenta quindi il presupposto necessario affinché possano utilizzarsi i criteri ordinari nella redazione dei bilanci d’esercizio e al tempo stesso “qualifica” la regolarità dell’informativa di bilancio e con essa la veritiera e corretta rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa nel suo insieme. A tal fine occorre appunto che l’impresa prosegua nel suo normale corso, senza che vi siano l’intenzione o la necessità di porla in liquidazione o di cessare l’attività, non occorrendo peraltro una previa, formale, delibera di messa in liquidazione[2].
In sostanza, nell’ottica aziendalistica – in cui il sistema aziendale, secondo la nota definizione di Gino Zappa, è un istituto economico destinato a perdurare[3] – si presume che un’impresa si trovi in condizioni di continuità quando, in base alle prospettive dei flussi attesi, può far fronte alle proprie obbligazioni e agli impegni nel corso dell’ordinaria attività: il che significa che la liquidità derivante dalla gestione corrente, insieme ai fondi disponibili (in cassa, in banca, per effetto di linee di credito, ecc.), risulta sufficiente a fronteggiare sia i debiti scaduti che gli impegni in scadenza.
Di contro, è necessario adottare criteri di liquidazione “allorché l’azienda non sia più un complesso funzionante con entry value produttivo di reddito e degradi invece a coacervo di beni destinati al realizzo diretto (exit value), per onorare i debiti”[4].
I criteri adottati ai fini contabili, pertanto, variano al variare delle valutazioni in ordine alla continuità aziendale, idonee a imprimere una “curvatura” o l’altra al bilancio. Un esempio paradigmatico è notoriamente quello delle immobilizzazioni: nello scenario di continuità, esse sono valutate considerando la loro vita utile e la recuperabilità mediante l’uso, mentre in ottica liquidatoria viene preso a riferimento il loro valore di realizzo.
Le coordinate che delineano il quadro disciplinare in materia sono note e difatti vengono richiamate, in tutto o in parte, nei numerosi contributi scientifici che trattano, da diversi angoli visuali, di continuità aziendale[5]. A livello di principi contabili nazionali, l’OIC 11, par. 22 – nella cui elencazione dei postulati di bilancio manca il richiamo espresso alla continuità aziendale – è imperniato sul concetto di valutazione prospettica: “Nella fase di preparazione del bilancio, la direzione aziendale deve effettuare una valutazione prospettica della capacità dell’azienda di continuare a costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro, relativo a un periodo di almeno dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio. Nei casi in cui, a seguito di tale valutazione prospettica, siano identificate significative incertezze in merito a tale capacità, nella nota integrativa dovranno essere chiaramente fornite le informazioni relative ai fattori di rischio, alle assunzioni effettuate e alle incertezze identificate, nonché ai piani aziendali futuri per far fronte a tali rischi ed incertezze. Dovranno inoltre essere esplicitate le ragioni che qualificano come significative le incertezze esposte e le ricadute che esse possono avere sulla continuità aziendale”[6].
Per le società che adottano i principi contabili internazionali[7], lo IAS 1, ai paragrafi 25 e 26, dispone che nella fase di preparazione del bilancio la direzione aziendale deve effettuare una valutazione della capacità dell’entità di continuare a operare come un’entità in funzionamento. Il bilancio deve essere redatto nella prospettiva della continuazione dell’attività, a meno che la direzione aziendale non intenda liquidare la società o interromperne l’attività, o non abbia alternative realistiche a ciò. Qualora essa sia a conoscenza, nell’effettuare le proprie valutazioni, di significative incertezze in ragione di eventi o condizioni che possano comportare l’insorgere di seri dubbi sulla capacità dell’entità di continuare a operare come un’entità in funzionamento, tali incertezze vanno debitamente evidenziate[8].
La valutazione che l’organo gestorio è chiamato a effettuare implica sovente un’integrazione informativa proveniente da fonti diverse dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Gli amministratori possono ad esempio basarsi su supporti “formalizzati” quali piani industriali, rinegoziazioni del debito o disponibilità di fonti finanziarie aggiuntive, ma anche su informazioni qualitative come le caratteristiche del management, la storia dell’impresa, ecc. Il grado di analisi dipende dalle specifiche circostanze di ciascuna società: in alcuni casi, prima di ritenere sussistente il presupposto della continuità aziendale, può ravvisarsi la necessità di considerare una vasta gamma di fattori relativi alla redditività sia attuale che attesa, ai piani di rimborso dei debiti, nonché alle potenziali fonti di finanziamento alternative.
Il riferimento previsto dall’OIC 11 all’intervallo di dodici mesi come orizzonte minimo di osservazione è comunemente accolto anche nella prassi contabile italiana, nonché nel Principio di Revisione Internazionale (ISA Italia) n. 570[9]. In base a quest’ultimo il revisore deve considerare una serie di indicatori, e segnatamente: 1) indicatori finanziari, quali ad esempio la situazione di deficit patrimoniale o di capitale circolante netto negativo, indicazioni di cessazione del sostegno finanziario da parte dei finanziatori e altri creditori, bilanci storici o prospettici che mostrano cash flow negativi e incapacità di saldare i debiti alla scadenza, incapacità nel rispettare le clausole contrattuali dei prestiti (cc.dd. covenants); 2) indicatori gestionali, quali l’uscita di amministratori o di dirigenti “chiave” senza riuscire a sostituirli, la perdita di mercati fondamentali, di contratti di distribuzione, di concessioni o di fornitori importanti; 3) altri indicatori come la riduzione per perdite del capitale sociale di oltre un terzo o addirittura al di sotto del limite legale, contenziosi legali e fiscali che, in caso di soccombenza, potrebbero comportare obblighi di risarcimento che l’impresa non è in grado di sostenere, modifiche legislative o politiche governative dalle quali si attendono effetti sfavorevoli all’impresa, ecc.[10].
Analogamente, il principio IAS 10, che si occupa dei fatti intervenuti dopo la data di chiusura dell’esercizio, afferma, al paragrafo 15, che il peggioramento dei risultati operativi e della situazione patrimoniale-finanziaria successivamente a tale data “può essere indicativo della necessità di considerare se il presupposto della continuità aziendale risulti ancora appropriato”.
Con specifico riguardo, poi, alle società “vigilate”, Banca d’Italia, Consob e Isvap con il documento congiunto n. 2 del 6 febbraio 2009, e la Consob con la comunicazione n. 9012559 del 6 febbraio 2009, hanno richiamato tutti i partecipanti al processo di elaborazione delle relazioni finanziarie a una puntuale ed esaustiva applicazione delle norme e dei principi contabili di riferimento considerati nella loro interezza.
In particolare, il primo dei due documenti – sovente richiamato in dottrina – sottolinea che tra gli indicatori di incertezze significative vanno annoverati: (i) i prestiti a scadenza fissa e prossimi alla scadenza senza che vi siano prospettive verosimili di rinnovo o di rimborso; (ii) l’eccessiva dipendenza da prestiti a breve termine per finanziare attività a lungo termine; (iii) le indicazioni di cessazione del sostegno finanziario da parte dei finanziatori e altri creditori; (iv) l’incapacità nel rispettare le clausole contrattuali dei prestiti; (v) la perdita di mercati fondamentali, di contratti di distribuzione, di concessioni o di fornitori importanti; (vi) la riduzione del capitale al di sotto dei limiti legali o non conformità ad altre norme di legge.
In merito all’informativa da rendere sulle valutazioni in ordine al presupposto della continuità aziendale da parte delle società quotate, il documento in parola prevede che, laddove gli amministratori ritengano che, pur risultando appropriato l'utilizzo del presupposto della continuità aziendale, sussistano tuttavia rilevanti incertezze, idonee a far sorgere dubbi significativi circa la capacità dell'impresa di proseguire la propria attività in continuità aziendale, queste incertezze e i correlati significativi dubbi dovranno essere chiaramente esplicitati come tali – in aderenza a quanto previsto dal principio contabile IAS 1, paragrafo 23 – nelle note esplicative al bilancio[11].
Nella valutazione del presupposto della continuità aziendale, il revisore può concludere nel senso che non sussistono dubbi su di essa e che le eventuali incertezze rilevate dagli amministratori non risultano essere significative e non generano dubbi in proposito, ovvero che esistono dubbi sulla continuità aziendale.
Alla luce di quanto fin qui esposto emerge con nitore la centralità del rapporto tra continuità aziendale e attitudine a generare ricchezza in base all’equilibrio dei flussi in entrata e in uscita. Deve quindi convenirsi con chi, in dottrina, rileva che la continuità aziendale “è riferita prevalentemente a profili contabili relativi ai criteri di valutazione degli assets di un'impresa, soprattutto societaria, nonché, anche in senso più ampio di quello contabile, alla capacità di un'impresa di produrre ricchezza e di soddisfare i debiti connessi alla sua attività man mano che vengono a scadenza, mediante un equilibrio di flussi finanziari provenienti soprattutto dalla gestione caratteristica”[12].
Fino all’entrata in vigore, nel marzo 2019, di un limitato “pacchetto” di disposizioni del codice della crisi, il nostro legislatore societario era collocato – com’è ben noto – nella prospettiva eminentemente statica della disciplina del capitale sociale, basata sugli adempimenti degli artt. 2446 e 2482-bis e, nel caso di riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, sulla regola “ricapitalizza o liquida” ricavabile dagli artt. 2447 e 2482-ter. L’introduzione, ad opera dell’art. 375 CCII, del secondo comma dell’art. 2086 c.c. ha connotato il quadro di un forte dinamismo, nella misura in cui ha posto il focus sull’andamento dei flussi finanziari ai fini della valutazione delle condizioni dell’impresa, confermando altresì che la predetta regola va declinata in questi termini: “ricapitalizza, ristruttura o liquida”.
Con il fondamentale precetto dell’art. 2086, c. 2, c.c. – ai sensi del quale “l'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale” – il principio della continuità aziendale ha abbandonato la dimensione squisitamente contabile per divenire – com’è stato osservato – il punto di riferimento centrale nella gestione dell’impresa[13]. Detto altrimenti, il principio in esame, fino a quel momento di matrice prevalentemente bilancistica, ha assunto ex professo una valenza schiettamente gestoria[14].
Tutto quanto si è venuto dicendo va naturalmente calato nel contesto del codice della crisi quale varato nel luglio 2022, a cominciare dalla definizione di crisi nella sua duplice componente, ontologica e fenomenologica: intendendosi notoriamente per crisi “lo stato del debitore che rende probabile l'insolvenza” e manifestandosi essa “con l'inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi” (art. 2, lett. a), CCII).
Tale definizione è intimamente connessa – e non poteva essere altrimenti – con la norma sull’adeguatezza delle misure e degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi, con la quale esordisce il Capo II (“Principi generali”) del codice della crisi[15]. Ed infatti, ai sensi dell’art. 3, c. 3, gli assetti di cui all’art. 2086 c.c., al fine di prevedere tempestivamente l’emersione della crisi, devono consentire, oltre alla rilevazione di eventuali squilibri di carattere patrimoniale e economico-finanziari e di segnali “sintomatici” di cui al c. 4 del predetto art. 3, la verifica della sostenibilità dei debiti e delle prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi”.
Orbene, va in primo luogo notato come la scelta, da parte del legislatore del codice della crisi, dell’orizzonte annuale risulti coerente con quanto stabilito dal già ricordato principio OIC 11, ove si parla di produzione di reddito per un periodo di almeno dodici mesi dalla data di riferimento del bilancio.
In secondo luogo, emerge chiaramente il collegamento instaurato dal codice fra continuità aziendale e assenza di crisi, pur dovendosi precisare che la perdita di continuità aziendale non comporta ipso iure l’inverarsi di uno stato di crisi, come dimostrano le cc.dd. liquidazioni in bonis, nelle quali la decisione di cessare l’attività e dismettere il patrimonio aziendale prescinde completamente dalla probabilità dell’insolvenza.
In terzo e ultimo luogo, i principi fin qui sintetizzati risultano gravidi di implicazioni sul versante dei gestori dell’impresa e delle loro responsabilità[16]. Appare infatti conclamato, alla luce dell’art. 2086, c. 2, c.c., che l’omessa predisposizione di adeguati assetti organizzativi costituisce di per sé fonte di responsabilità (purché, evidentemente, risulti causativa di un danno risarcibile): condotta, quest’ultima, che secondo una rigorosa giurisprudenza integra anche una grave irregolarità ex art. 2409 c.c.[17], da riguardarsi con maggior rigore relativamente alle società in bonis, giacché in questi casi non è invocabile lo stato di crisi come “giustificazione” della violazione del precetto sopra richiamato[18].
Altrettanto deve dirsi, beninteso, riguardo alla mancata rilevazione tempestiva della crisi o dell’insolvenza come denotano chiaramente i precetti sulla quantificazione in caso di liquidazione giudiziale e sulla responsabilità penale per aggravamento del dissesto (art. 378 CCII e 217, c. 1, n. 4, l. fall.).
Da quanto messo in luce si ricava come la possibilità di intercettare a tempo debito i segnali di crisi e di adottare senza indugio le opportune iniziative passi anche – se non soprattutto – per l’adozione di efficaci strumenti di previsione delle difficoltà dell’impresa, in un contesto in cui la dimensione preventiva, per essere effettivamente tale, deve avere ad un tempo carattere predittivo.
Non a caso, la letteratura (di matrice non solo giuridica) si è recentemente evoluta nella direzione di indicare all’imprenditore e al management strumenti non solo preventivi, ma anche – per l’appunto – predittivi, ovviamente in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche specifiche dell’impresa: strumenti diretti “a cogliere non solo i segnali “forti” degli indicatori di origine bilancistica e di natura economico-finanziaria, eventualmente ritratti da budget e piani aziendali; ma anche segnali “deboli”, ipotetici, da cui sviluppare simulazioni e stress test per ricercare con percorsi euristici potenziali tracce di rischio ed echi di criticità rivenienti dall’ambiente e non solo dalle dinamiche endogene della gestione aziendale”[19].
Viene allora in evidenza, al riguardo, quella che è stata efficacemente definita la doppia anima del principio di continuità aziendale: “da un canto presupposto di rilevazione e valutazione delle voci di bilancio di un complesso produttivo in funzionamento, il cui venir meno si identifica con la cessazione effettiva dell’attività cui consegue la disgregazione di quel complesso; d’altro canto prospettiva di funzionamento dell’impresa proiettata in un prevedibile futuro, la cui compromissione o la cui assenza determina l’insorgere di obblighi gestori e di controllo negli amministratori, sindaci e revisori”[20].
Dal che si trae l’ulteriore conferma della centralità, sia dal punto di vista aziendalistico sia sotto il profilo della gestione dell’impresa (specie nei momenti di difficoltà), del concetto di pianificazione[21], come denota plasticamente il numero di volte in cui viene impiegato il termine “piano” all’interno del codice della crisi[22].
Prima, dunque, di passare all’analisi della disciplina di nuovo conio e segnatamente dell’art. 84, c. 2, CCII, merita ribadire che la continuità aziendale, oltre alla sua accezione strettamente contabile, si presenta, in estrema sintesi, come idoneità dell’impresa a generare reddito onorando al tempo stesso i propri debiti. E se la dimensione finanziaria è quella cui tipicamente si ricollega l’epifania della crisi, è vero anche che il suo superamento si basa su elementi di natura economica, quali i valori dell’organizzazione aziendale e la redditività d’impresa[23].
In definitiva, dal nuovo assetto ordinamentale si ricava la conferma, quanto ai “principi parametrici” dell’esercizio dell’impresa (in bonis come in crisi), dell’attualità delle parole utilizzate oltre tre lustri fa da Paolo Ferro-Luzzi in uno scritto sul conflitto di interessi degli amministratori: “credo che occorra innanzi tutto individuare i parametri propri, tipici, coessenziali e dunque anche corretti dell’esercizio dell'impresa (…), parametri che sostanzialmente sono costituiti dal principio di "continuità" e, in evidente connessione, dal principio di "solvenza", cioè adempimento nei confronti dei titolari del capitale di credito, e dal principio di "redditività", cioè remunerazione del capitale di rischio”[24].
3. Le declinazioni della continuità aziendale nel codice della crisi. La continuità diretta.
Svolte le considerazioni che precedono sulla nozione di continuità aziendale e sui suoi corollari applicativi, si può ora passare all’esame della disciplina codicistica del concordato con continuità aziendale, partendo dalla sua prima declinazione, ora definita espressamente “continuità diretta”.
Il secondo comma dell’art. 84 chiarisce che di continuità diretta può parlarsi nel solo caso di prosecuzione dell’attività d’impresa da parte dell’imprenditore che ha presentato la domanda di concordato, vale a dire lo stesso debitore, non essendovi notoriamente nel nostro sistema spazio per iniziative concordatarie di terzi [25] (ma solo, in costanza di procedura, per la proposizione di proposte concorrenti ex art. 90)[26].
Alla nozione di continuità diretta va ricondotta anche l’ipotesi di un investitore che faccia il proprio ingresso nella compagine della società debitrice sottoscrivendone l’aumento di capitale (di regola a lui riservato), giacché è pur sempre il debitore, sebbene patrimonializzato grazie ad apporti esterni, a proseguire l’attività d’impresa [27].
In quest’ambito assume considerevole rilevanza, per l’appunto, l’enucleazione degli apporti qualificabili alla stregua di risorse esterne in senso proprio, come tali escluse dall’obbligo di rispettare la par condicio creditorum.[28]
Nel vigore della disciplina precedente, muovendo dalla consapevolezza del rischio di uno scardinamento della predetta regola, si è osservato che “un suggerimento operativo potrebbe essere (…) quello di considerare come risorse esterne solo quelle che non derivano geneticamente dal patrimonio dell’impresa che accede al concordato preventivo, ma sono il frutto di interventi di terzi. Non saranno quindi risorse esterne né l’incasso di crediti né gli ‘utili’ della gestione conseguiti nel periodo di esecuzione del piano di concordato”[29]. In tal modo sono destinati a restare estranei alla nozione quei flussi di cassa scaturenti da una continuità aziendale resa possibile esclusivamente dall’apporto di soggetti terzi rispetto all’impresa debitrice: flussi che in effetti non sarebbe per nulla agevole separare da quelli conseguibili dall’impresa a prescindere da interventi ab externo.
Un aspetto problematico – come posto in luce da una recente pronuncia di merito[30] – attiene alla natura dell’apporto effettuato dall’assuntore, essendo innegabile che ciò avviene in vista – e a fronte – dell’acquisizione di tutti gli attivi del debitore: il tema, per vero, esula dall’oggetto del presente contributo, anche se un chiarimento sul punto da parte del legislatore potrebbe risultare opportuno nell’ottica di scongiurare eterogeneità con riguardo all’applicazione delle regole di priorità.
Quanto al piano in continuità (diretta o indiretta), è richiesto che esso contenga al proprio interno il piano industriale e che ne siano indicati gli effetti sul piano finanziario e i tempi necessari al riequilibrio della situazione finanziaria (art. 87, c. 1, lett. e).
Specularmente, l’attestazione del piano in continuità deve verificarne l’idoneità a impedire o superare l'insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell'impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale (art. 87, c. 3).
La previsione specificamente riferita alla continuità diretta è invece quella dell’art. 87, c. 1, lett. f), in base alla quale occorre altresì l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell'ambiente.
Particolare rilievo assume, nell’ipotesi di continuità diretta, il precetto, sancito in via generale dall’art. 87, c. 1, lett. b), secondo il quale il piano deve contenere una descrizione delle cause e dell’entità dello stato di crisi o di insolvenza in cui si trova e l'indicazione delle strategie d'intervento. Ed invero, la circostanza che il debitore, anziché “passare la mano”, si proponga di porre lui stesso rimedio alla crisi della propria impresa comporta un’attenzione in qualche modo “rafforzata” agli strumenti e alle strategie che egli intende mettere in campo a tal fine; e questo perché è la sua gestione ad avere condotto l’impresa nella situazione in cui si trova all’attualità.
Si tratta quindi, da parte dei suoi consulenti e dell’attestatore, rispettivamente di costruire un piano e di verificarne la tenuta all’insegna di un livello di necessaria discontinuità sotto vari e spesso concorrenti profili (posizionamento dell’impresa sul mercato, modello di business, contenimento dei costi, composizione del consiglio di amministrazione, competenze del management, strategie commerciali, ecc.); per tacere dell’attenzione, nella realtà connotata da maggiore complessità, ai cc.dd. fattori ESG[31].
Se quindi è consentito un calembour, la continuità aziendale diretta passa, pressoché invariabilmente, per una discontinuità gestionale rispetto al passato, dovendo l’impresa dimostrare che, in virtù dell’attuazione del piano, sarà in grado di invertire la rotta della generazione di perdite, tornando a produrre utili[32].
4. La continuità indiretta: il dibattito nel vigore della legge fallimentare
Relativamente alla natura – liquidatoria o con continuità aziendale – del concordato preventivo basato sull’affitto di azienda o di un ramo di essa è andata in scena, negli ultimi lustri, una serrata disputa tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Secondo una ben nota corrente di pensiero formatasi nell’imperio della legislazione previgente (a cui chi scrive non ha mai ritenuto di aderire), “continuità aziendale e affitto d’azienda si pongono in un rapporto di reciproca esclusione: dove vi è continuità non può esservi affitto d’azienda; dove vi è affitto d’azienda non può esservi continuità”[33]. Già in passato, per vero deponevano in senso contrario al predetto assunto sia la lettera dell’art 186-bis, l.fall. – là dove si parla di “cessione dell’azienda in esercizio” (nulla essendovi in tale espressione che autorizzi a escludere l’affitto) – sia la ratio della stessa, che risultava improntata, in modo sufficientemente perspicuo, a una nozione di continuità aziendale in senso oggettivo, vale a dire indipendentemente dal soggetto – il debitore o un terzo – che conduce l’azienda al momento del deposito della domanda di concordato.
Del resto, nel caso di affitto il rischio d’impresa grava pur sempre (anche) sul debitore, ancorché concedente l’azienda in affitto, non foss’altro che in virtù delle vicende che possono riguardare il contratto di affitto stesso, a cominciare dai possibili inadempimenti dell’affittuario (d’altronde, non par dubbio che l’andamento dell’attività di quest’ultimo continui a incidere, seppur indirettamente, sulla fattibilità del piano).
In piena aderenza a quest’ultima tesi, da tempo propugnata in dottrina (fra i primi da chi scrive[34]) e progressivamente condivisa da larga parte della giurisprudenza di merito, la Corte di Cassazione[35], già in passato, ha sancito la riconducibilità sia dell’affitto “ponte”, sia di quello “puro” (cioè non prodromico alla cessione), all’ambito applicativo dell’art. 186-bis. Il principio di diritto opportunamente affermato dai giudici di legittimità è il seguente: “Il concordato con continuità aziendale disciplinato dall’art. 186-bis l. fall. è configurabile anche quando l’azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell’ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o, come nell’ipotesi dell’affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d’affitto – recante, o meno, l’obbligo dell’affittuario di procedere, poi, all’acquisto dell’azienda (rispettivamente, affitto cd. ponte oppure cd. puro) – può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile”[36].
Con riferimento, inoltre, al rilievo dottrinale[38] circa la non persistente “pienezza” della qualità d’imprenditore in capo al debitore che abbia concesso in affitto l’azienda prima del deposito della domanda, la Corte, superando l’obiezione (in verità non decisiva), ha rilevato giustamente che “l’imprenditore che affitta la sua azienda conserva ancora una serie di obblighi giuridici, come il divieto di concorrenza ex art. 2557 cod. civ. e la tutela dei segni distintivi, i quali non fanno venire meno la sua natura di imprenditore commerciale a prescindere dal venir meno del suo rapporto materiale con l’azienda”[39].
Quanto infine all’ipotesi in cui l’affitto non sia strutturato in chiave prodromica alla cessione ma risulti, per così dire, “fine a sé stesso”, la Cassazione, facendo propria (testualmente) una recente opinione dottrinale sul punto[40], ha affermato: “discorso analogo vale, mutatis mutandis, per il cd. affitto puro, quello, cioè, che non risulti prodromico alla cessione dell’azienda, ma alla sua semplice dislocazione in capo all’affittuario, con successiva retrocessione, durante la fase esecutiva del piano o al termine di essa, al debitore. Non ha infatti senso annettere natura liquidatoria a tale fattispecie, nella quale il piano consente il ritorno in bonis dell’imprenditore addossando temporaneamente a terzi gli oneri ed i rischi connessi alla conduzione dell’attività, senza che vi sia, tendenzialmente, alcuna dismissione di cespiti aziendali (salva l’ipotesi di alienazione di beni non funzionali alla “riperimetrata” continuità, espressamente contemplata dall’art. 186-bis l. fall.)”[41].
Questi erano dunque, in estrema sintesi, i termini del dibattito con cui è stato chiamato a confrontarsi il codice della crisi.
5. La continuità indiretta nel codice della crisi
Com’è noto, la legge delega n. 155 del 19 ottobre 2017, con una scelta salutata da molti con favore, aveva anticipato la soluzione accolta dalla Cassazione e testé illustrata, stabilendo, nell’ambito dei princìpi generali (e precisamente all’art. 2, 1° c., lett. g), la necessità di “dare priorità di trattazione, fatti salvi i casi di abuso, alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore” (corsivo aggiunto). In sede di emendamenti parlamentari al testo della delega varato dal Governo, si era altresì individuato all’art. 6, 1° c., lett. i), fra i princìpi e i criteri direttivi in materia di concordato preventivo, quello di: “integrare la disciplina del concordato con continuità aziendale, prevedendo (…) che tale disciplina si applichi anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato”.
La legge in parola aveva pertanto vincolato il legislatore delegato alla necessità di ricomprendere tout court nel perimetro delle norme sul concordato in continuità la fattispecie della continuità indiretta. In coerenza con ciò (seppur solo parzialmente, come si vedrà subito in appresso) l’art. 84, comma 2 nella versione originaria del 2019, prevedeva la continuità “indiretta, in caso sia prevista la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente alla presentazione del ricorso, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo, ed è previsto dal contratto o dal titolo il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per i successivi due anni”.
Come già altrove si è avuto modo di osservare[42], l’impostazione adottata dal decreto delegato suscitava qualche perplessità, sia dal punto di vista della “contaminazione” della fattispecie con aspetti occupazionali più acconci, a ben vedere, alla disciplina dell’amministrazione straordinaria che non a quella del concordato preventivo, sia sotto il profilo del rispetto della legge delega, dal momento che l’art. 6, 1° comma, lett. i), n. 3, è imperniato sul presupposto dell’identità di disciplina fra continuità diretta e indiretta, con ciò sembrando escludere disposizioni di “sfavore” (in termini di oneri supplementari) per quest’ultima, com’è, invece, chiaramente quella sul livello minimo di lavoratori da mantenere o riassumere. Senza dire del possibile, ulteriore, profilo di incostituzionalità – di là dal dirimente contrasto con la legge delega – in ordine alla dubbia ragionevolezza di una siffatta disparità di trattamento fra continuità diretta e indiretta [43], tanto più – si ripete – al cospetto di un quadro che, dalla ratio sottesa alle indicazioni del legislatore delegante alla posizione da ultimo assunta dalla Suprema Corte, era ed è caratterizzato dal principio della medesima disciplina delle due fattispecie e, come tale, verosimilmente idoneo a limitare la discrezionalità del legislatore delegato sul punto in questione.
Consapevole delle criticità testé evidenziate, il legislatore del 2022 ha modificato la previsione sulla continuità indiretta, espungendo opportunamente ogni riferimento alla conservazione dei livelli occupazionali.
Sono stati invece mantenuti gli altri elementi qualificanti la fattispecie, dal che derivano i seguenti, rilevanti, corollari: (i) il piano in continuità indiretta può prevedere la cessione del compendio aziendale (che invece nel concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio rientra nella nozione di “cessione dei beni”: art. 25-septies)[44]; (ii) l’affitto dell’azienda non dev’essere necessariamente stipulato in costanza di procedura, ma può precederne l’avvio; (iii) tale affitto dev’essere retto da un nesso di funzionalità rispetto alla presentazione del ricorso per l’ammissione del concordato.
Con riguardo a quest’ultimo requisito, peraltro non previsto dalla legge delega, deve rilevarsi che la sua inopportuna previsione, inutilmente limitativa dell’ambito di operatività dell’istituto, si pone in controtendenza con l’obiettivo, dichiaratamente perseguito dal riformatore, di favorire per quanto possibile la continuità aziendale indipendentemente dalla natura diretta o indiretta di essa. La sua portata tuttavia, come ci si appresta a chiarire, non dev’essere sopravvalutata, pena la frustrazione dell’obiettivo (innegabilmente perseguito dal legislatore) di valorizzare questo sottotipo di concordato in continuità.
In linea generale, va ribadita l’importanza sistematica della previsione sulla continuità indiretta, specie se si considera che l’affitto d’azienda è stato talora guardato, nel passato, con un certo (spesso ingiustificato) sospetto. Ma deve pure mettersi in luce la consapevolezza della sua utilità progressivamente maturata in seno alla giurisprudenza, nell’ambito della quale si legge che con la continuità indiretta si scongiura “il rischio di irreversibile dispersione che l’arresto anche temporaneo dell’attività comporterebbe”[45] e che va individuato “nel contratto di affitto stipulato prima della proposizione della domanda di concordato (c.d. affitto-ponte) uno strumento per garantire la prosecuzione dell’attività”[46].
6. Segue. La conclusione e la modifica del contratto di affitto ai fini della continuità indiretta; la congruità del canone d’affitto
Come testé ricordato, l’affitto d’azienda dev’essere stipulato “in funzione della presentazione del ricorso”, giacché altrimenti scatta (seppur, come si diceva, discutibilmente) la qualificazione del concordato come liquidatorio.
Il nesso di cui trattasi non è necessariamente temporale, nel senso che il deposito della domanda di concordato può seguire anche di un ampio arco temporale la conclusione del contratto, purché quest’ultimo sia caratterizzato da un collegamento logico-funzionale al ricorso con cui viene chiesta l’ammissione alla procedura[47]. A questi fini, risulta sufficiente che il negozio menzioni il concordato preventivo come una delle opzioni che il debitore prefigura per risolvere la propria crisi, magari accanto alle alternative dell’accordo in esecuzione di un piano attestato di risanamento, dell’accordo di ristrutturazione o del piano di ristrutturazione omologato, non postulando la norma che il concordato costituisca ab origine l’unica soluzione adottabile.
Ciò che conta è che l’affitto sia realmente funzionale all’ammissione al concordato e che non costituisca un modo surrettizio (e quindi abusivo) per scongiurare l’applicazione del più rigoroso regime del concordato liquidatorio, come accadrebbe se il perimetro dell’affitto di un ramo fosse talmente “minimale” nel suo contenuto economico – rispetto a un piano concordatario che risultasse, nel suo complesso, sostanzialmente liquidatorio – da rappresentare una mera parvenza di continuità indiretta.
Sul piano pratico, poi, può verificarsi il caso di un affitto in corso di esecuzione, stipulato in un momento anteriore all’emersione della crisi e pertanto non funzionalizzato al superamento di essa. Orbene, in (comprensibile) mancanza di una clausola di funzionalità nell’affitto in essere, non pare doversi giungere necessariamente alla conclusione che sia impossibile predicare gli estremi della continuità indiretta. Si vuole, con ciò, intendere che l’affitto può essere modificato in funzione del concordato senza incorrere automaticamente nella censura di condotta abusiva: purché, beninteso, vi sia l’effettiva esigenza di adattare il contratto al redigendo piano concordatario. Può infatti accadere che a tali fini si renda opportuno aumentare l’entità del canone, ovvero rideterminare la durata del negozio, o comunque incidere su aspetti qualificanti del rapporto. In situazioni di questo tipo – e in generale ogniqualvolta non sia nitidamente ravvisabile un preciso intento abusivo – non dev’essere precluso al debitore il ricorso allo strumento della continuità indiretta[48].
Non avrebbe invero senso, anche sotto il profilo della ragionevolezza, negare la configurabilità di un concordato in continuità indiretta solo a cagione della pendenza di un affitto d’azienda non espressamente funzionalizzato sin dall’inizio alla presentazione della domanda, stante per l’appunto il chiaro intento normativo di valorizzare la continuità in ogni sua forma, (eccezion fatta – si ripete – per le sole ipotesi di abuso).Come si diceva, la previsione in commento prende atto che l’affitto d’azienda, lungi dall’essere riguardato come operazione depauperativa del patrimonio del debitore, costituisce di regola un utile strumento per preservare la continuità aziendale, dal momento che scongiura significative perdite di valore del compendio e disloca in capo all’affittuario i costi (e i rischi) della gestione a cominciare dal pagamento dei dipendenti e dei fornitori. Beninteso, il canone di affitto – specie nel caso di contratto stipulato anteriormente all’accesso alla procedura (e quindi senza obblighi di competitività) – deve risultare congruo, vale a dire che esso deve integrare un’adeguata remunerazione economica del capitale impiegato (c.d. return on).
In proposito, il criterio adottato nel 2016 dal Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, recita che “il corrispettivo da erogare al proprietario per l’utilizzazione del complesso dei beni necessari per l’esercizio dell’impresa deve essere quantificato come prodotto tra il valore dell’azienda e un appropriato tasso di rendimento”: anche se nella dottrina aziendalistica si è ancora da ultimo osservato che a detto criterio vadano apportati correttivi idonei a evitare impropri trasferimenti di valore all’affittuario[49].
Ad ogni buon conto, può rispondere a prassi “virtuosa” l’inserimento nel negozio di una clausola nella quale l’affittuario dia la propria disponibilità a rivedere il contenuto delle intese contrattuali in reciproca buona fede con la controparte, anche alla luce delle indicazioni eventualmente provenienti dagli organi della procedura.
7. Segue. La ripresa dell’attività
Nel vigore della legge fallimentare si era posto il dubbio se nell’ambito applicativo dell’art. 186-bis potesse rientrare anche il caso di un’attività temporaneamente cessata ma destinata a essere ripresa, magari proprio per effetto del ricorso allo strumento concordatario.
La locuzione “in esercizio” poteva invero giustificare una soluzione restrittiva, sebbene una lettura più ampia non apparisse già allora in contrasto con le finalità del concordato; e ciò tanto più in considerazione del fatto che l’istituto elettivamente pensato per preservare la continuità aziendale – l’amministrazione straordinaria – contempla anche l’ipotesi della “riattivazione” dei complessi produttivi (art. 1, d. lgs. n. 270/1999).
Minori incertezze, invece, sussistevano in ordine alla possibilità che il perimetro dell’attività proseguita dal cessionario o dall’affittuario potesse non coincidere con quello dell’attività in precedenza svolta dal debitore, tipicamente a causa di un ridimensionamento ascrivibile alla crisi in atto, che poteva portare con sé un calo della produzione o una rinuncia a certi prodotti o servizi e con ciò un decremento dei livelli occupazionali.
Sul primo aspetto, la Cassazione si è pronunciata, circa un anno fa, nel senso più rigoroso, postulando l’indefettibile presenza di un‘azienda in esercizio: “per aversi continuità occorre pur sempre che vi sia un’“azienda in esercizio”, anche nel caso in cui l’azienda stessa sia stata già affittata”. Conseguentemente, risultando accertato il dato storico della cessazione dell’attività aziendale e la sua mancata riattivazione, i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, affermando che, “in proiezione futura, la potenziale riattivabilità dell’attività produttiva non vale certo a superare il sopra ricordato profilo ostativo costituito dalla necessaria presenza del requisito della prosecuzione dell’attività aziendale al momento della presentazione della domanda ex art. 186-bis l. fall.”[50]
In altri termini, nell’imperio della legge fallimentare non era configurabile come concordato in continuità – secondo la Suprema Corte – quello di un’impresa che, al momento della presentazione del ricorso per l’accesso alla procedura, avesse cessato la propria attività, ancorché ne fosse previsto l’imminente riavvio. Approccio, questo, improntato forse a eccessivo rigore e certamente a scarso “pragmatismo”[51].
Una soluzione diversa è stata di contro opportunamente adottata dal codice della crisi, il quale, all’art. 84, c. 2, ha parlato ex professo di “ripresa dell’attività”, recidendo gordianamente il nodo interpretativo di cui si diceva.
Né pare che la portata della norma possa essere limitata attraverso il ricorso a un criterio rigidamente temporale, non rinvenendosi un dato testuale a supporto di ciò e non potendosi ricostruire in tal senso l’intentio legis: la norma – si è giustamente osservato – “non sembra introdurre siffatte limitazioni inerenti il decorrere del tempo, anche perché si potrebbe ipotizzare il caso di una azienda, cessata da lungo periodo, che, tuttavia, ove riaperta tramite lo strumento dell’esercizio ad opera di soggetto diverso dal debitore e, quindi, in continuità indiretta, abbia ancora una valenza operativa e una rispondenza sul mercato, per i più vari motivi, tali da legittimare una rituale proposta di concordato”[52].
In definitiva, la previsione di nuovo conio schiude nuove opportunità al debitore in concordato, rendendo la continuità indiretta – pur con il doveroso caveat circa la censurabilità di condotte schiettamente abusive – più ampiamente fruibile e quindi maggiormente appetibile.
8. Il caso della concessione in affitto dell’azienda da parte di una società in liquidazione.
Un cenno va riservato al caso in cui la società concedente in affitto l’azienda si trovi in stato di liquidazione, di regola per avere interamente perduto il proprio capitale.
Non pare a chi scrive che l’inverarsi di una causa di scioglimento a carico del debitore precluda la possibilità di configurare un concordato in continuità indiretta, o che essa postuli la previa revoca dello stato di liquidazione come condizione di ammissibilità della domanda. Ed invero, ciò che rileva è che il piano preveda la gestione dell’azienda in esercizio (o la ripresa dell’attività, se temporaneamente cessata) da parte del terzo, restando da questo punto di vista irrilevante se la società debitrice versi in stato di liquidazione, di fatto o di diritto.
A ciò si aggiunga che nel caso di continuità indiretta non si pone ovviamente il problema della ricostituzione del capitale minimo da parte del soggetto terzo, né di esso deve farsi carico la società debitrice, destinata tendenzialmente a uscire dal mercato dopo il ripianamento dei debiti falcidiati[53].
L’assunto è condiviso da una recente decisione di merito, la quale – con riferimento a una procedura presentata nel vigore della legge fallimentare (ma la questione non assume contorni diversi alla luce della disciplina attuale) – ha omologato un concordato preventivo “ di gruppo” relativo a tre società in liquidazione (una delle quali incorporante le altre prima dell’udienza di omologazione), ponendo appunto l’accento sul carattere oggettivo della continuità – sub specie di cessione dell’azienda in esercizio (già oggetto di affitto anteriormente al deposito del concordato) – e qualificando pertanto il piano come in continuità indiretta[54].
Non a caso, analogo orientamento è stato assunto dalla prevalente giurisprudenza, mutatis mutandis, in tema di domanda di accesso alla composizione negoziata presentata da società in liquidazione[55], essendosi correttamente affermato che “ad essere incompatibile con la composizione negoziata non è tanto lo stato di liquidazione societaria in sé e per sé considerato, quanto la sussistenza di un’insolvenza irreversibile e l’assenza di una concreta prospettiva di risanamento, inteso come riequilibrio finanziario e patrimoniale che consenta all’impresa di restare sul mercato, se del caso previa revoca dello stato di liquidazione”[56].
A conclusioni analoghe, d’altronde, si giunge accostando al piano del diritto concorsuale quello del diritto societario, le cui coordinate sono notoriamente tracciate dalle disposizioni sull’esercizio provvisorio dell’impresa (art. 2487, c. 1, lett. c), c.c.) e sull’utilità a fini liquidatori di eventuali nuove operazioni (art. 2489, c. 1, c.c.)[57].
È stato infatti condivisibilmente osservato che una relazione tra stato di liquidazione e continuità dell’impresa (per vero solo indiretta) è configurabile a condizione di poter in concreto ravvisare “(a) una diretta strumentalità – in termini vincolati di “utilità” – della continuazione dell’attività rispetto all’obiettivo della migliore e prioritaria soddisfazione dei creditori e, de residuo, dei soci; (b) un potere anche solo dei liquidatori – al netto dei pur possibili interventi autorizzativi dei soci – di decidere e porre in essere l’eccezionale atto gestorio “nuovo” costituito dalla particolare continuazione dell’impresa; (c) un piano della continuità liquidatoria predisposto dai liquidatori che preveda, tra l’altro, un termine di breve periodo entro il quale, in alternativa alla meno redditizia liquidazione atomistica dai tempi analoghi, venga assicurata la soddisfazione massima a tutte le parti interessate”[58].
E quanto alla specifica situazione di crisi o di insolvenza in cui versi la società si è precisato che essa “non solo non rende diverse o incompatibili le due diverse forme di continuità dell’impresa ma, anzi, finisce per riproporre – e, addirittura, irrobustire – il generale vincolo di “utilità” (già nell’art. 2489 c.c.) traducendolo in termini di necessaria strumentalità della continuità alla massima soddisfazione possibile dei creditori”[59].
9. L’utilità per ciascun creditore
Il terzo comma dell’art. 84, oltre a sancire – come già diffusamente ricordato in altra sede[60] – l’ammissibilità di un concordato con continuità non prevalente richiede che la proposta concordataria in continuità preveda per ciascun creditore “un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”.
Da questo punto di vista la norma ricalca il testo dell’art. 161, comma 2, lett. e), l. fall., il quale stabiliva che “in ogni caso, la proposta deve indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore”. Norma a sua volta così integrata dalla riforma del 2015 al fine di evitare – come si legge nella Relazione illustrativa dell’epoca – che “possano essere presentate proposte per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo che lascino del tutto indeterminato e aleatorio il conseguimento di un’utilità specifica per i creditori”. Il che rispondeva – e risponde tutt’oggi – alla duplice esigenza di rendere, per l’appunto, determinabile il contenuto della proposta rivolta a ognuno dei creditori e di fare in modo che questi, informati in termini chiari e precisi, possano esprimere un consenso (o un dissenso) realmente consapevole.
E se questa è la ratio legis, non pare invero esservi motivo, a dispetto della formulazione letterale, di non ritenere il precetto applicabile al concordato liquidatorio, essendo per l’appunto ravvisabili gli estremi dell’eadem ratio anche con riguardo a questa tipologia concordataria[61].
Quanto al dubbio, già in passato risolto positivamente, se l’utilità in questione possa consistere in un’obbligazione non necessariamente pecuniaria, esso è oggi completamente fugato dal fatto che la norma chiarisce ex professo che tale utilità può consistere anche nella “prosecuzione o rinnovazione di rapporti contrattuali”; e l’ulteriore precisazione che detti rapporti possono riferirsi sia al debitore che al suo avente causa (affittuario, cessionario, ecc.) chiarisce ulteriormente che la norma è applicabile alla continuità diretta come a quella indiretta.
Merita ancora segnalare, sul punto, che la previsione in parola costituisce ulteriore conferma, ove ve ne fosse bisogno (ma non parrebbe esservene), della possibilità che il soddisfacimento previsto per alcuni creditori, o classi di essi, consista nell’attribuzione di strumenti finanziari partecipativi; e che, trattandosi di datio in solutum, il concordato, per i creditori che di detta attribuzione siano resi destinatari, va considerato interamente eseguito per effetto di essa, come chiarito dalla giurisprudenza in due fra i casi pratici più importanti degli ultimi anni[62].
10. Cenno a continuità indiretta e competitività
Il nono e ultimo comma dell’art. 84 (ma il decreto correttivo dislocherà altrove il precetto) contempla l’ipotesi in cui il piano preveda l'offerta da parte di un soggetto individuato, avente ad oggetto l'affitto o il trasferimento in suo favore, anche prima dell'omologazione, dell'azienda o di uno o più rami d'azienda: in tal caso – dice la norma – il giudice provvede ai sensi dell'articolo 91, c. 1.
Com’è noto, il principio sancito dall’art. 91, c. 1 (già introdotto nel 2015 con l’apposita modifica dell’art. 163-bis della legge fallimentare, a seguito della presa d’atto dell’impossibilità di pervenirvi in via interpretativa[63]) stabilisce che, quando il piano concordatario comprenda un’offerta irrevocabile, da parte di un determinato soggetto, avente ad oggetto il trasferimento o l’affitto, a favore di questi, dell’azienda o di un ramo di essa, l’autorità giudiziaria dispone che di tale offerta sia data idonea pubblicità al fine di acquisire offerte concorrenti.
Ne deriva, dal punto di vista che ci occupa, che il piano in continuità indiretta basato su un’offerta irrevocabile di affitto o di acquisto del compendio aziendale o di parte di esso deve rispettare il principio di competitività, volto a perseguire l’obiettivo della massimizzazione dei valori attivi a beneficio del ceto creditorio, potendosi in effetti parlare a tutt’oggi di un istituto che “valorizza gli elementi del controllo giurisdizionale e dell’eterotutela creditor oriented, a discapito delle istanze privatistiche provenienti dal debitore, che vede compressa l’area della propria discrezionalità”[64].
La norma anzidetta non trova applicazione, invece, al caso in cui il contratto di affitto sia stato stipulato anteriormente al ricorso ex art. 44: ed infatti, tale negozio, se risulta valido ed opponibile alla massa dei creditori, è destinato a produrre effetti anche nel successivo concordato, fermo – come si diceva – il necessario nesso di funzionalità alla presentazione della domanda (art. 84, c. 2).
L’ultima parte del primo comma dell’art. 91 non è in effetti suscettibile di interpretazioni indebitamente estensive, tali da ricondurre nell’alveo della regola di competitività il contratto di affitto in corso di esecuzione. In altri termini, nel caso di affitto già pendente al momento dell’accesso allo strumento concordatario (fattispecie espressamente prevista dal ridetto art. 84 c. 2) non occorre dar vita a una procedura competitiva per individuare l’affittuario, perché appunto già esistente; cosa che al contrario andrà fatta al momento di mettere in vendita l’azienda: affittata o meno a seconda della vigenza del contratto al momento dell’aggiudicazione, atteso che il procedimento competitivo non è comunque idoneo a caducare un contratto valido e opponibile.
Si è d’altronde osservato, in linea generale, che rispetto al potere “conformativo” esercitabile dal tribunale nel vigore della legge fallimentare, “oggi l’azione dell’organo giurisdizionale è stata più opportunamente circoscritta al ruolo di garante dell’effettività della competizione, senza interferenze circa il suo contenuto, che resta quello enucleato dall’imprenditore in crisi nel rapporto dialettico con l’originario offerente. Il raggio di azione dell’autorità giudiziaria deve invece ritenersi circoscritto alle misure davvero necessarie per rendere le offerte pienamente comparabili”[65].
11. Segue. Il rapporto tra offerta di acquisto dell’azienda e valore di liquidazione
L’offerta irrevocabile di acquisto del compendio aziendale, oltre a innescare il meccanismo di cui all’art. 91 del codice, interferisce giocoforza con la tematica del valore di liquidazione. Si tratta infatti di appurare se il prezzo offerto dal terzo per rilevare l’azienda del debitore possa considerarsi equivalente al valore che detto compendio avrebbe in caso di liquidazione giudiziale.
Ora, appare chiaro che un’equazione siffatta non sia predicabile in via assoluta e con riguardo alla generalità dei casi, dovendo piuttosto individuarsi la portata esatta dell’offerta in dipendenza dall’effettiva volontà del terzo[66]. E ciò in quanto non è obiettivamente frequente che un’azienda mantenga invariato il valore che le si può attribuire ai fini del concordato preventivo anche nel diverso scenario della liquidazione giudiziale.
Può invero esservi coincidenza sul piano valoriale ogniqualvolta il terzo offra un determinato prezzo a prescindere da quale sia la procedura concorsuale nel cui ambito avrà luogo la gara, il che accade ogniqualvolta l’offerta sia destinata a restare ferma anche nell’ipotesi di liquidazione giudiziale.
Ove, al contrario, il tenore dell’offerta chiarisca che il valore in essa indicato dipende dal permanere del debitore in concordato e che nello scenario deteriore tale valore sarebbe destinato a diminuire a causa degli effetti della liquidazione giudiziale sul compendio aziendale, allora l’anzidetta equivalenza non risulta fondatamente sostenibile. E quest’ultima situazione si verifica sia nell’eventualità in cui il terzo subordini motivatamente l’efficacia della propria offerta al buon esito del concordato (ovvero chiarisca che il prezzo offerto non dipende dalle condizioni di mercato, bensì dall’esigenza di far fronte al fabbisogno concordatario, come tipicamente accade nel caso di offerta formulata da altra società del medesimo gruppo cui appartiene la società debitrice), sia quando formuli contestualmente una diversa offerta – a livelli evidentemente inferiori – per l’ipotesi di assoggettamento del debitore a liquidazione giudiziale. E lo stesso è a dirsi nelle ipotesi in cui sia lo stesso offerente a precisare che una parte soltanto della somma indicata corrisponde al prezzo dell’azienda[67].
Non si vede invero come possa affermarsi che “il mercato” attribuisca al compendio il valore portato dall’offerta ove quest’ultimo sia espressamente riferito all’azienda di un imprenditore in concordato, alla quale venga dichiaratamente associato un minor valore in caso di liquidazione giudiziale. E in tal caso il perito chiamato a calcolare il valore di liquidazione ben può – anzi, deve – valorizzare diversamente il compendio aziendale: sempre che, naturalmente, non vi sia un’altra offerta che indichi il medesimo valore di detto complesso di beni a prescindere dallo scenario che in concreto si verificherà, giacché questo sì che comporterebbe una “risposta del mercato” nel senso dell’equivalenza valoriale di cui si diceva.
Senza dire dei non lievi inconvenienti che deriverebbero dal far dipendere, sempre e comunque, il valore di liquidazione dall’entità dell’offerta formulata da un terzo, a prescindere dalle risultanze dell’elaborato peritale all’uopo redatto: assunto opinabile tanto sul piano logico quanto su quello metodologico.
Orbene, la distinzione di cui si è fin qui detto ha un’evidente ricaduta sul versante delle regole distributive ex art. 84, c. 6: la differenza fra il prezzo offerto solo a condizione del buon fine della procedura concordataria e il diverso prezzo in ipotesi offerto per il caso della liquidazione giudiziale (e comunque il valore attribuito dal perito in tale scenario) va considerata come valore eccedente quello di liquidazione, non dovendo a quel punto rispettarsi il criterio della graduazione delle cause legittime di prelazione.
[1] G. E. Colombo, I principi in tema di redazione del bilancio, in P. Abbadessa e G. B. Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 3, Milanofiori Assago, 2007, 155-156.
[2] Nello stesso senso G. E. Colombo, op. cit., 156. Contra, ma – ad avviso di chi scrive – in modo non persuasivo, L. A. Bianchi, I principi generali di bilancio, in AA. VV., La disciplina giuridica del bilancio d’esercizio, Milano, 2001, 139 ss.
[3] G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, Milano, 1957, I, 37.
[4] Così, da ultimo, M. Taliento, Il bilancio d’esercizio: clausola generale, postulati e deroghe secondo la disciplina civilistica e i principi contabili, in V. Donativi (diretto da), Trattato delle società, III, Milano, 2022, 1659.
[5] Fra i più recenti e stimolanti nella letteratura giuridica cfr. S. Fortunato, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in Dir. fall., 2021, I, 3 ss. In ambito monografico v., tra gli altri, F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, Milano, 2017; M. Spiotta, Continuità aziendale e doveri degli organi sociali, Milano, 2017, nonché, di quest’ultima autrice, Commento all’art. 2423-bis (principio di redazione del bilancio della continuità aziendale), in Commentario del codice civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2022, 78 ss.
[6] Al riguardo, si è osservato che il principio “richiama i due principali fattori che pongono limiti cognitivi al decision maker (incertezza e rischio) e che possono essere sì ridotti attraverso gli atteggiamenti corretti degli amministratori e gli strumenti indicati (secondo pluridecennale indicazione della dottrina), ma non eliminati, vuoi per l’estensione di tali condizioni, vuoi per i limiti fisiologici, anche in termini di “incompletezza informativa”, degli strumenti (piani aziendali)” (N. Abriani - P. Bastia, Valutazione e presidio della continuità aziendale tra scienze economiche e diritto societario della crisi, in dirittodellacrisi.it, 24 novembre 2022, 12).
[7] Sulla continuità aziendale alla luce di tali principi (e in particolare sul passaggio dal going concern al winding up concern) v., fra gli altri, F. Cossu, Continuità aziendale, società in liquidazione e principi contabili internazionali IAS/IFRS, in Giur. comm., 2019, I, 319 ss.
[8] I principi salienti dello IAS 1 prevedono che: (i) nella valutazione del presupposto della continuità aziendale, gli amministratori tengano conto di tutte le informazioni disponibili sul futuro, che è relativo (ma non limitato) ad almeno dodici mesi dopo la data di riferimento del bilancio; (ii) gli amministratori devono evidenziare nel bilancio le eventuali, significative, incertezze che possono comportare l’insorgere di seri dubbi sulla capacità di continuare a operare come un’entità in funzionamento.
[9] Emanato dall’International Auditing and Assurance Standards Board, tradotto in lingua italiana, con l’autorizzazione dell’International Federation of Accountants, dal CNDCEC con la collaborazione di Assirevi, dell’INRL e di Consob.
[10] Cfr. Linee guida, par. A.3.
[11] Al riguardo, gli amministratori possono trovarsi, al termine dell’esame, di fronte a tre scenari: 1) hanno la ragionevole aspettativa che la società continuerà con la sua esistenza operativa in un futuro prevedibile e hanno preparato il bilancio nel presupposto della continuità aziendale; 2) hanno identificato fattori che possono far sorgere dubbi significativi sulla capacità della società di continuare la propria operatività per un prevedibile futuro, ma considerano che sia comunque appropriato utilizzare il presupposto della continuità aziendale per redigere il bilancio; 3) considerano che sia improbabile che la società continui la propria esistenza operativa in un futuro prevedibile e non ritengono appropriato redigere il bilancio sul presupposto della continuità aziendale.
[13] M. Irrera, La collocazione degli assetti organizzativi e l’intestazione del relativo obbligo (tra codice della crisi e bozza di decreto correttivo), in Nuovo Dir. Soc., 2020, 115 ss.
[14] M. Spiotta, Commento all’art. 2423-bis (principio di redazione del bilancio della continuità aziendale), cit., 78 ss.
[15] In argomento v., anche per riferimenti, G. D’Attorre, La formulazione legislativa dei principi generali nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Aa.Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, 253; A. Nigro, I principi generali della nuova riforma «organica» delle procedure concorsuali, in Dir. banc. merc. fin., 2020, 11 ss.; R. Rordorf, I doveri dei soggetti coinvolti nella regolazione della crisi nell’ambito dei principi generali del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2021, 589 ss.; S. Ambrosini, I «princìpi generali» nel codice della crisi, in Id. (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna, 2022, 197 ss.
[16] Deve nondimeno precisarsi che all’atto di redigere il bilancio non si ritiene necessario, in base al nostro quadro normativo, l’esplicita conferma circa la sussistenza della continuità aziendale. Semplicemente, gli amministratori sono tenuti ad attenersi ai relativi corollari sul piano contabile, laddove, in difetto di tale presupposto, le valutazioni non possono che fondarsi sul valore di liquidazione. In altri Paesi, invece, quali Stati Uniti d’America e Regno Unito, si richiede che gli amministratori effettuino un’esplicita verifica della sussistenza del going concern, oltre a dover ostendere quelle specifiche informazioni che giustifichino la loro posizione circa il mantenimento della prospettiva di continuità aziendale.
[17] Trib. Milano, 21 ottobre 2019, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Venezia, 16 dicembre 2020, in ilcaso.it.
[18] Trib. Catanzaro, 6 febbraio 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.
[19] N. Abriani, P. Bastia, Valutazione e presidio della continuità aziendale tra scienze economiche e diritto societario della crisi, cit., 10 (corsivo aggiunto).
[20] S. Fortunato, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, cit., 33-34.
[21] In luogo di altri P. Bastia, Crisi aziendali e piani di risanamento, Torino, 2019, passim.
[22] In argomento cfr., ex aliis, A. Panizza, Adeguati assetti organizzativi, amministrativi, contabili e codice della crisi: aspetti (teorici ed) operativi, ivi, 3 febbraio 2023; P. Bastia, La sostenibilità economica nel concordato in continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 15 giugno 2023.
[23] Cfr., fra gli altri, F. Pacileo, Continuità e solvenza nella crisi di impresa, cit., passim.
[24] P. Ferro-Luzzi, Dal conflitto di interessi agli interessi degli amministratori; profili di sistema, in Riv. dir. comm., 2006, I, 669.
[25] Sul punto cfr., tra i contributi più recenti, S. Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in S. Ambrosini (a cura di), Le crisi dell’impresa e del consumatore. Liber amicorum di Alberto Jorio, Bologna, 2021, 61 ss., ove altri riferimenti, anzitutto al contributo di A. Jorio, La legge fallimentare: pregi e difetti delle nuove regole, in Giur. comm., 2013, I, 697 ss.
[26] Sul tema, anche per riferimenti, M. Aiello, Le proposte concorrenti nel codice della crisi: fattispecie e disciplina, in Dir. fall., 2024, I, 167 ss.
[27] In tal senso, in giurisprudenza, si è espresso recentemente, tra gli altri, Trib. Brescia, 27 maggio 2021, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.
[28] L’ipotesi di cui trattasi – sia detto per inciso – viene giustamente esclusa dall’ambito applicativo del principio di competitività: cfr., da ultimo, l’ampio saggio di M. Aiello, Le nuove proposte e offerte concorrenti, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 15 gennaio 2024, 98 ss.
[29] M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 862.
[30] Trib. Massa, 16 gennaio 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it., confermata da App. Genova, 29 maggio 2024, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.
[31] In luogo di altri v., anche per riferimenti, S. Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 26 maggio 2023.
[32] Sul tema, fra i contributi più recenti, S. Ambrosini, La gestione dell’impresa “in perdita” tra vecchia e nuova sistematica concorsuale”, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 21 marzo 2023. Sul fatto che l’enucleazione delle cause della crisi “serve per dare effettivo fondamento alla previsione che la presente e futura gestione aziendale non produrrà perdite, come avvenuto in passato”, insiste giustamente A. Zuliani, Continuità diretta e continuità indiretta: presupposti, regole, criticità, in dirittodellacrisi.it, 2 marzo 2022, 16.
[33] Così F. Di Marzio, Affitto d’azienda e concordato in continuità, in www.ilfallimentarista.it, 2013, 4; nello stesso senso già D. Galletti, La strana vicenda del concordato in continuità e dell’affitto d’azienda, ivi, 2012, 3; M. Vitiello, Brevi e scettiche considerazioni sul concordato preventivo con continuità aziendale, ivi, 2013, 2.
[34] S. Ambrosini, Appunti in tema di concordato con continuità aziendale, in ilcaso.it, 4 agosto 2013, 9.
[35] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, in ilcaso.it. (sulla quale cfr., all’indomani della sua pubblicazione, S. Ambrosini, Il concordato preventivo con affitto d'azienda rientra, dunque, nel perimetro applicativo dell'art. 186-bis, ivi, 2 gennaio 2019, 7-8).
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Cfr. M. Fabiani, Concordato preventivo, cit., 194, secondo il quale “il debitore, pur se non perde la qualifica di imprenditore si trasforma in «imprenditore quiescente» perché solo al momento della cessazione del contratto di affitto riprenderà, a pieno, il suo ruolo”.
[39] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, cit.
[40] S. Ambrosini, Concordato preventivo: interessi protetti, soddisfacimento dei creditori e continuità aziendale tra vecchia e nuova disciplina, in S. Ambrosini, (a cura di), Le soluzioni negoziate della crisi d’impresa, Torino, 2021, 18.
[41] Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2018, n. 29742, cit.
[42] S. Ambrosini, op. ult. cit., 19.
[43] L’assunto della irragionevole disparità di trattamento è stato condiviso in dottrina da chi ha puntualmente osservato che “la norma rischia di essere viziata anche per irragionevolezza se non per violazione del principio di eguaglianza. Pur nella diversità di fattispecie, infatti, non si ravvisano ragioni per l’adozione di una disciplina che finisce con il premiare la continuità diretta, posto che (anche al netto di qualsiasi valutazione circa il comportamento del debitore e l’eventuale concorso nella causazione o nell’aggravamento della crisi): (i) l’impresa concordataria ha certamente più difficoltà di prosecuzione rispetto ad un terzo acquirente in bonis; (ii) proprio i lavoratori potrebbero essere più favorevoli a soluzioni che prevedano la cessione dell’azienda ad un terzo più “solido”; (iii) il piano di continuità diretta è certamente il più rischioso per i creditori per la intrinseca maggiore aleatorietà dell’attività di impresa rispetto al conseguimento di un prezzo – o di un valore – a fronte della cessione a terzi. Ciò senza considerare, ancora, la disparità – anch’essa priva di qualunque ragione – che si avrebbe a seconda che l’intervento del terzo avvenga attraverso l’ingresso nella compagine sociale e nel capitale, ovvero mediante acquisto dell’azienda”: F. D’Angelo, Il concordato preventivo con continuità aziendale nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in Dir. fall., 2020, I, 41-42.
[44] In argomento, fra gli altri, R. Russo, La circolazione dell’azienda nella composizione negoziata tra nuovo dato legislativo e problemi irrisolti, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, cit., 248 ss.
[45] Cass., 1° marzo 2022, n. 6772, in Fall., 2022, 1049 ss.
[46] Cass., 15 giugno 2023, n. 17092, in Fall., 2023, 886 ss., con commento di G. Minutoli, La continuità indiretta nel concordato preventivo: prosecuzione e riavvio dell’attività tra legge fallimentare e Codice della crisi, in Fall, 2024, 363 ss.
[47] M Greggio, Finalità e tipologie di piano concordatario: prime osservazioni al “nuovo” art. 84 del Codice della crisi, in dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2022, 12; M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 2019, 856.
[48] Questa impostazione, sull’ovvio presupposto della non abusività dell’operazione, è condivisa dalla più recente giurisprudenza di merito: Trib. Spoleto, 4 luglio 2024, est. Trabalza, inedito, ove si legge: “a doversi riscontrare, nello specifico, non è tanto la inerenza temporale rigidamente intesa – il che vale a dire che non occorre necessariamente il riscontro dell’esistenza di un contratto di affitto stipulato nell’imminenza della presentazione della domanda – dovendosi piuttosto appurare, dal punto di vista sostanziale, la funzionalità dell’affitto rispetto alla domanda di concordato. (…)”. Nel caso in esame – viene osservato – “si ritiene come le modifiche apportate al contratto di affitto del 2015, per effetto della intervenuta stipula del 9.01.2024, siano chiaramente funzionali alla presentazione della domanda, non integrando clausole di mero stile e ritenendosi, pertanto, rispettata la ratio dell’art. 84 CCII, potendosi qualificare la proposta formulata in termini di concordato con continuità aziendale indiretta”.
[49] D. Rossi, L’equa stima del canone d’affitto d’azienda, in Soc., 2024, 311 ss.
[50] Cass., 15 giugno 2023, n. 17092, cit.
[51] Laddove del tutto corretto appariva invece l’ulteriore assunto dei giudici di legittimità, in base al quale “il rilievo di “non continuità” (…) nella modificazione di una parte dell’attività produttiva (con la previsione della “esternalizzazione” dell’attività di logistica esterna ad altra società) e nella diminuzione dei dipendenti non rappresenta di per sé circostanza ostativa alla corretta qualificazione del concordato come in continuità”.
[52] G. Minutoli, La continuità indiretta nel concordato preventivo: prosecuzione e riavvio dell’attività tra legge fallimentare e Codice della crisi, in Fall., 2024, 368.
[53] V. Chionna, Società di capitali in liquidazione e concordato preventivo in “continuità aziendale, in Dir. fall., 2023, I, 228. Con riguardo, poi, al caso in cui la società affittuaria versi in stato di scioglimento e il piano contempli il ripristino del patrimonio netto positivo (in ipotesi attraverso il conferimento della stessa azienda oggetto di affitto), quest’ultimo evento ben può costituire un fatto successivo all’omologazione, specie allorquando gli impegni in tal senso siano stati precedentemente assunti (contra, sul discutibile presupposto che la rimozione della causa di scioglimento in capo alla società affittuaria interi una condizione di omologazione del concordato semplificato, Trib. Vicenza, 13 giugno 2024, inedito).
[54] Trib. Vicenza, 24 marzo 2022, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it. Da segnalare anche che della vendita dei beni non ricompresi nel compendio aziendale il tribunale, tenuto anche conto della loro modesta entità e del brevissimo termine per l’esecuzione del piano, ha officiato lo stesso commissario giudiziale e non un diverso liquidatore.
[55] Riferimenti in S. Ambrosini, La composizione negoziata compie un anno: breve itinerario fra le prime applicazioni, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 12 dicembre 2022; M. Spadaro, Composizione negoziata della crisi: gli orientamenti della giurisprudenza ad un anno dall’esordio, in Fall., 2023, 109 ss.
[56] Trib. Arezzo, 16 aprile 2022, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.
[57] In argomento, ex aliis, G. Niccolini, La liquidazione volontaria delle società tra passato e presente, in Giur. comm., 2010, I, 1763; S. Turelli, Gestione dell’impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012, 84 ss.; A. Rossi, Il valore dell’organizzazione nell’esercizio provvisorio dell’impresa, Milano, 2013, 9 ss.
[58] V. Chionna, Società di capitali in liquidazione e concordato preventivo in “continuità aziendale, cit., 214.
[59] V. Chionna, op. cit., 223; cfr. altresì, sul tema N. Rocco Di Torrepadula, Lo stato di insolvenza nella società in liquidazione, in Giur. comm., 2019, I, 448 ss.
[60] Da ultimo, S. Ambrosini, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano: gli interessi protetti e lo “statuto” della continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 10 marzo 2024, 22.
[61] Nello stesso senso A. Audino, Sub art. 84, cit., 594, ad avviso del quale detta estensione applicativa “parrebbe giustificata dall'esigenza, in ogni caso sussistente, di consentire a ciascun creditore di percepire con chiarezza quale bene, diverso dal denaro, o altra utilità gli vengano eventualmente offerti e quale ne sia il valore - non potendosi negare, anche in. questo tipo di concordato, la possibilità di soddisfare i creditori chirografari con le modalità alternative previste· dall'art. 87, co. 1, lett. d)”
[62] Trib. Ravenna, 29 maggio 2020, in Fall., 2021, 83 e Trib. Roma 15 luglio 2020, inedita, entrambe richiamate da M. Arato, Il confine dell’utilità economicamente rilevante: l’attribuzione di azioni e strumenti finanziari partecipativi, in dirittodellacrisi.it, 7 ottobre 2022, 8, il quale spiega che “la ragione del successo degli sfp nel percorso di ristrutturazione consiste fondamentalmente nella patrimonializzazione della società conseguente alla conversione di crediti in sfp (è questa la forma pressoché unanime di utilizzo degli sfp nelle ristrutturazioni) tutte le volte in cui la liquidità a disposizione della società – vuoi perché generatasi in corso di procedura dalla gestione corrente, vuoi perché frutto di dismissioni – non è sufficiente a pagare in denaro i debiti ancorché in percentuale”.
[63] S. Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa: l. 132/15 e prossima riforma organica. Disciplina, problemi, materiali, Bologna, 2016, 108.
[64] M. Aiello, Le nuove proposte e offerte concorrenti, cit., 85.
[65] Così M. Aiello, Le nuove proposte e offerte concorrenti, cit., 115.
[66] Secondo una recente decisione, “l'offerta ricevuta per l'acquisto di un bene costituisse essa stessa il valore di liquidazione di quel bene” (così Trib. Milano, 20 luglio 2023, in dirittodellacrisi.it). L’assunto pare condivisibile non già in via generale, bensì alle specifiche condizioni indicate infra nel testo.
[67] Si è osservato in proposito che deve ritenersi “possibile che chi ha effettuato la proposta suddivida il valore offerto tra il valore di stima (che costituisce quindi il valore della liquidazione) e un surplus a titolo di finanza esterna. In tale ipotesi il surplus può essere destinato ai creditori senza nemmeno il rispetto della regola della RPR perché, appunto, finanza esterna”: così S. Rossetti, Appunti sul classamento dei creditori nel concordato in continuità, in dirittodellacrisi.it, 30 novembre 2023, 9. Nel medesimo senso, in giurisprudenza, si è da ultimo espresso Trib. Spoleto, 4 luglio 2024, est. Trabalza, inedito.