Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Riparlando di amministrazione straordinaria: ingresso e collocazione dell’istituto nel sistema, finalità della procedura e (cenni ai) rapporti con la disciplina di diritto comune*


Stefano Ambrosini
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La storia del cram-down fiscale


Michele Monteleone

Data pubblicazione
01 ottobre 2024

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Come ogni storia e come ogni momento storico che si rispetti, inevitabilmente, si dovrà guardare agli atti dell'ultimo decennio, perché il cram-down fiscale è uno dei tanti argomenti, ma non il principale, che da oltre dieci anni affascina la dottrina e la giurisprudenza.

Nella teorizzazione storica di questo percorso della ricostruzione, sufficientemente analitica, dell'istituto del cram-down fiscale, si partirà dall’affrontare una tematica molto cara a chi scrive[1]: ci si riferisce all'infalcidiabilità del credito I.V.A., passaggio quest’ultimo, necessario per comprendere che il tempo non è trascorso invano, se è vero che la bontà interpretativa delle norme, in relazione alla prospettiva di continuità aziendale, si muoveva già verso una gestione “evolutiva” della crisi, intesa anche quale tutela del debitore e dei valori aziendali nell’ambito del rapporto negoziale.

Punctum pruriens di molti dei piani concordatari sottoposti al vaglio dei tribunali – in primo luogo, in sede di ammissione della proposta concordataria ovvero, successivamente, anche in sede di giudizio di omologazione – era, infatti, da ritenersi il previsto soddisfacimento non integrale dei crediti muniti di prelazione mobiliare generale e, in particolare, dei crediti erariali. Sovente, appunto, in ossequio all’orientamento, pur non consolidato, assunto dalla giurisprudenza di merito[2], le società ricorrenti richiedevano ai tribunali aditi di affrontare la questione che involgeva l’ammissibilità e/o l’omologazione di una proposta concordataria nella quale il debitore, senza fare ricorso alla transazione fiscale, prevedendo che l’Erario, in qualità di creditore per tributi relativi ad I.V.A. e ritenute fiscali operate e non versate, potesse non essere soddisfatto per intero in relazione a questi tributi.

Prima della riforma operata con la L. n. 232/2016, la questione della falcidiabilità del credito I.V.A. rispetto alle procedure concorsuali ed, in particolar modo, al concordato preventivo, era stata protagonista di un acceso dibattito giurisprudenziale. Anzitutto, la giurisprudenza nazionale di merito era orientata verso l’esclusione di tale divieto al di fuori delle ipotesi contemplate dall’art. 182-ter l. fall. e, quindi, per la sua inapplicabilità al concordato preventivo senza transazione fiscale.

La Suprema Corte, con due pronunce del 2011 (cfr. Cass., 4 novembre 2011, nn. 22931 e 22932), il cui orientamento è stato peraltro ribadito successivamente (cfr. Cass., 16 maggio 2012, n. 7667; Cass., 30 aprile 2014, n. 9541; Cass., 22 settembre 2016 n. 18561), aveva definitivamente sancito il divieto della falcidiabilità del credito I.V.A. e delle ritenute fiscali non versate, applicabile ad ogni forma di concordato preventivo – non accompagnato da transazione fiscale - in applicazione del principio di matrice europeista di intangibilità delle risorse dell’UE, qualificando la previsione dell’art. 182-ter l. fall., come norma “sostanziale” attinente al “trattamento dei crediti nell’ambito dell’esecuzione concorsuale, dettata da motivazioni che attengono alla peculiarità del credito e prescindono dalle particolari modalità con cui si svolge la procedura di crisi”[3].

Tuttavia si era, così, ritenuto che la richiamata interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità potesse essere rivalutata e l’orientamento critico - formatosi, sul punto, in dottrina e nella giurisprudenza di merito – registrava un sempre crescente consenso.

Partendo dal principio cardine secondo cui, in tema di soddisfacimento dei creditori privilegiati, quindi, una volta accertata l’incapienza del patrimonio del debitore, non potesse procedersi al pagamento di un credito privilegiato, se prima non fosse stato soddisfatto il creditore poziore, si riteneva che la disposizione di cui all’art. 182-ter l. fall. (nel prevedere che il credito, pur munito di prelazione, potesse non essere soddisfatto per intero, purché in modo non deteriore rispetto a quello del grado successivo, presupponendo che si potesse passare alla soddisfazione del grado successivo anche senza il totale soddisfacimento del credito anteriore) non alterasse l’ordine dei privilegi in senso stretto, ma rappresentasse una deroga al principio per il quale, finché vi sono beni sui quali soddisfare il credito di rango più elevato, non è possibile procedere al soddisfacimento dei creditori successivi[4].

L'inserimento della disposizione normativa relativa alla inalterabilità dell'ordine delle cause legittime di prelazione trovava giustificazione, allora, nella circostanza che, avendo previsto il legislatore la frazionabilità dei creditori in classi (il divieto di alterare l’ordine delle prelazioni fosse espressamente stabilito solo nel concordato con classi), non si poteva ritenere, successivamente, che la stessa potesse consentire anche un ribaltamento dei privilegi[5].

Orbene, in linea generale, innanzi all’interrogativo di ordine sistematico circa l’ambito di operatività del vincolo da ultimo ricordato (ossia, nel domandarsi se il pagamento necessariamente integrale di I.V.A. e ritenute non versate rappresentasse una limitazione di carattere generale o fosse, invece, confinata a quanto previsto dallo stesso art. 182-ter l. fall.), si sosteneva che fosse più ragionevole reputare che tutte le previsioni sui privilegi contenute nell'art. 182-ter l. fall. si dovessero intendere riferite solo al caso in cui nel concordato venisse inclusa la proposta di transazione fiscale[6].

Dunque, ritenuta l’autonomia delle ragioni che giustificavano il ricorso alla transazione fiscale, tutte attinenti all’accertamento dei crediti tributari, la transazione fiscale ben poteva qualificarsi come “istituto di natura tanto eccezionale (Cass. Civ. 22 marzo 2010, n. 6901) che procedimentale”, essendovi associati sia aspetti relativi alla determinazione del credito, sia conseguenze in tema di estinzione dei giudizi pendenti.

L’orientamento giurisprudenziale della Suprema Cassazione è stato invero ritenuto affetto da illegittimità costituzionale, tant’è che il Tribunale di Verona, con ordinanza del 10 aprile 2013, in relazione agli artt. 160 e 182-ter l. fall. ha sollevato la questione nella parte in cui si stabiliva che la proposta di concordato con transazione fiscale, con riguardo all' I.V.A., potesse prevedere esclusivamente la dilazione di pagamento e non la falcidia, evidenziando che, in tal modo, era impedito all’amministrazione finanziaria di valutare autonomamente la convenienza di una proposta concordataria con transazione fiscale e di aderirvi tutte le volte in cui questa consentisse un grado di soddisfacimento non inferiore rispetto all’alternativa liquidatoria fallimentare, ciò in palese violazione degli articoli 3 e 97 Cost.

Nondimeno, la questione è stata ritenuta infondata dalla Consulta (Corte Cost., 25 luglio 2014, n. 225), la quale ha ribadito che il divieto dell’art. 182-ter l. fall. è conseguenza del divieto comunitario, per ogni Stato membro, di disporre una rinuncia generale, indiscriminata e preventiva al diritto di procedere ad accertamento e verifica del tributo in questione, principio che trova fonte nella direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, 2006/112/CE.

Più precisamente la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione, principalmente sulla base della normativa UE e della giurisprudenza della Corte di Giustizia, in considerazione degli obblighi assunti dallo Stato Italiano verso tale ordinamento sovranazionale.

Ha così, sostenuto che la possibilità di una dilazione, che costituisce il limite massimo di espansione della procedura, non è irragionevole sotto il profilo del buon andamento, giustificandosi, sul piano prognostico, “proprio per il persistere, in capo all'amministrazione finanziaria, della possibilità di riscuotere il tributo in futuro, con la contestuale approvazione di un piano di concordato idoneo a consentire il graduale superamento dello stato di crisi dell'impresa”.

Quanto all'art. 3 Cost., il giudice a quo aveva sostenuto che l'impossibilità, per l'Amministrazione Finanziaria, di pervenire ad una soluzione concordata che prevedesse la falcidia dell'I.V.A. avrebbe posto la stessa in una posizione di svantaggio nei confronti degli altri creditori: essi, infatti, anche se privilegiati, avrebbero potuto evitare la liquidazione fallimentare, ottenendo una somma comunque non inferiore a quanto avrebbero ottenuto in caso di fallimento (art. 160, comma 2, l. fall.).

La Corte Costituzionale, facendo propria l'interpretazione della Cassazione del 2011, ha ritenuto che la natura eccezionale della norma fosse il riflesso di un trattamento peculiare attribuito dal legislatore al credito I.V.A., sulla base del quale veniva apportata una deroga all'ordine legale delle prelazioni ex art. 2778 c.c..

In conclusione, il Giudice delle Leggi ha statuito che: “oltre che sull'inammissibile raffronto tra fattispecie normative eterogenee - che riflette, come si è detto, un'opzione del legislatore interno necessitata dalla peculiare disciplina dell'IVA derivante dalle regole comunitarie - la non fondatezza della questione riposa, altresì, sul rilievo che la norma interna in materia di transigibilità del credito IVA è, di per sé, disciplina eccezionale rispetto al principio dell'indisponibilità della pretesa erariale[7].

Il tema non è andato declinando, tant’è che Tribunale di Udine, con ordinanza 30 ottobre 2014, ha portato la questione avanti alla Corte di Giustizia Europea che, con la famosa sentenza 7 aprile 2016, dopo aver ribadito il concetto della non falcidiabilità dell’IVA, ne ha ammesso la ragionevole deroga allorquando l'Erario, nel caso concreto, avrebbe incassato meno dal fallimento che dal concordato con I.V.A. falcidiata.

Invero “in tal senso, anzitutto, la procedura di concordato preventivo comporta che l'imprenditore in stato di insolvenza liquidi il suo intero patrimonio per saldare i propri debiti. Se tale patrimonio non è sufficiente a rimborsare tutti i crediti, il pagamento parziale di un credito privilegiato può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire di accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell'imprenditore, lo Stato membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore (…). Tenuto conto di tali presupposti, l'ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell'ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell'IVA, non è contraria all'obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell'IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell'Unione”.

In definitiva, le norme europee non ostano ad una normativa dello Stato membro che preveda l’adempimento solamente parziale del debito I.V.A., qualora si provi che tale debito non avrebbe ricevuto un trattamento migliore nel caso di fallimento del soggetto. La Corte di Giustizia Europea, pertanto, se da una parte confermava il principio dell’intangibilità dell’I.V.A., dall’altra consentiva comunque la falcidia di questa qualora, a determinate condizioni, la proposta avesse assicurato un realizzo maggiore rispetto alle alternative liquidatorie.

Infatti, in tal caso, la suddetta falcidia non avrebbe costituito una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’I.V.A., ma ne avrebbe assicurato, anche se parzialmente, il suo pagamento.

Stante le argomentazioni innovative di tale pronuncia (che di fatto hanno recepivano l’orientamento giurisprudenziale, inizialmente minoritario, di molti tribunali di merito tra cui primo fra tutti il Tribunale di Benevento[8]), si è subito affermato come questi principi fossero applicabili non solo alla procedura di concordato preventivo, con o senza transazione fiscale, ma altresì alle procedure di composizione della crisi da sovra-indebitamento di cui alla L. n. 3/2012, ed in particolare all’accordo di cui agli artt. 6 – 12 L. n. 3/2012, pur in assenza di un espresso richiamo nella L. n. 3/2012 all’istituto della transazione fiscale. L’accordo di composizione della crisi, infatti, risultava sorretto, all’evidenza, dai medesimi cardini ermeneutici sottesi al concordato preventivo.

Tuttavia, l'art. 1, comma 81, della Legge 31 dicembre 2016, n. 232, prendendo spunto, seppur parzialmente, dai principi desumibili dalla citata sentenza della Corte di Giustizia, ha riscritto l’art. 182-ter l. fall. che testualmente, così, ha previsto al primo comma: “con il piano di cui all'articolo 160 il debitore, esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo, può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonchè dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d)…”.

Veniva , così, (re)introdotto il divieto (generale) della falcidia del credito I.V.A. e delle risorse dell’Unione Europea, ad esclusione dell’ipotesi della presentazione di un concordato preventivo con transazione fiscale.

All’indomani della novella legislativa, la stessa Suprema Corte (Cass. SS.UU., 27 dicembre 2016 n. 26998), con un apprezzabile revirement, traendo argomento “a contrario” dalla espressa riproduzione del medesimo divieto all’art. 7, comma 3, L. n. 3/2012, giungeva ad affermare che il divieto di falcidia del credito I.V.A., previsto dall’art. 182-ter l. fall., rappresentava un’eccezione alla regola della falcidiabilità del crediti privilegiati e, come tale, non poteva essere automaticamente estesa al di fuori della disciplina speciale in cui fosse inserita, ossia del concordato preventivo con transazione fiscale (cfr. Cass. SS.UU., 13 gennaio 2017 n. 760).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione premettevano che la proposta di concordato preventivo “ai sensi dell’art. 160 l. fall. può prevedere che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, non vengano soddisfatti integralmente, purché il piano ne preveda la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile”. L’art. 182-ter l. fall. contemplava, invece, la possibilità che con il piano di cui all’articolo 160 l. fall. il debitore potesse prevedere il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e contributi e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea, mentre “per quanto concerne l’imposta sul valore aggiunto e le ritenute operate e non versate, la proposta può prevedere esclusivamente la dilazione del pagamento”.

In entrambe le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, si legge, in motivazione che la transazione fiscale costituisce una mera facoltà, avendo il debitore in tale ipotesi la possibilità di scegliere due forme di concordato preventivo: una principale, e cioè quella di cui all’art. 160 l. fall., che prescinde da un previo accordo con il Fisco e l’altra speciale, che include la transazione fiscale, regolata dall’art. 182-ter l. fall..

La scelta tra l’uno e l’altro procedimento sarebbe dipesa “dall’eventuale esigenza imprescindibile di ottenere il voto favorevole dell’Amministrazione Finanziaria, in ragione delle dimensioni del suo credito, oltre che di offrire certezza ai creditori circa l’effettiva consistenza del debito tributario e di conseguenza circa le concrete prospettive di attuabilità del piano concordatario”. Infatti, una proposta di concordato preventivo ai sensi dell’art. 160 l. fall. avrebbe potuto ottenere il consenso della maggioranza dei creditori anche senza il voto favorevole del fisco e le prospettive di attuabilità del piano concordatario sarebbero potute essere ben chiare anche senza transazione fiscale, quando l’entità del credito tributario fosse risultata incontestata e ben definita.

Per le SS.UU., il concordato con transazione fiscale ex art. 182-ter l. fall è dunque una speciale fattispecie di concordato preventivo, sia perché viene ovviamente in rilievo solo quando vi siano debiti tributari, sia perché, anche in presenza di debiti tributari, è possibile un concordato preventivo ai sensi dell’art. 160 l. fall., senza transazione fiscale. Tuttavia, “se tra le due fattispecie di concordato preventivo v’è, com’è evidente, un rapporto di specialità, non è possibile estendere alla fattispecie generale del concordato senza transazione fiscale, la disciplina della fattispecie speciale, del concordato con transazione fiscale. Solo se si ipotizzasse l’obbligatorietà della transazione fiscale, si potrebbe riconoscere l’infalcidiabilità del credito IVA in qualsiasi concordato”. Dunque, la regola dell’infalcidiabilità del credito I.V.A. era inclusa nella disciplina speciale del concordato preventivo con transazione fiscale, di talché non poteva essere estesa ai casi regolati dalla disciplina generale del concordato preventivo senza transazione.

Come si vede i tempi erano maturi perché il legislatore intervenisse nell’introdurre il tema del cram down fiscale e previdenziale.

Infatti, nel pieno dilagare della pandemia, il legislatore con il D.L. n. 125/2020, convertito con la Legge n. 159 del 27 novembre 2020, ha inserito importanti modifiche in materia di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione dei debiti, con riguardo al trattamento dei debiti tributari e contributivi, riscrivendo, sul punto, la legge fallimentare ( cfr. artt. 180, 182-bis e 182-ter) e, di fatto, anticipando l'applicabilità di disposizioni contenute nel CCII, altrimenti destinate ad entrare in vigore il 15 luglio 2022.

Si deve convenire che al cospetto di un momento di crisi non solo sanitaria, il legislatore, in tema di riforme di diritto fallimentare, si è significativamente attivato, cercando di offrire un apparato normativo idoneo a fronteggiare le difficoltà delle aziende[9].

Si è approdati ad una legislazione non più inquisitoriale - quella di cui al Regio Decreto, obiettivamente incentrata sulla tutela del ceto creditorio - con il contestuale varo di un sistema di norme volte a tutelare la parte più debole della relazione contrattuale e salvare le aziende tutte, con i relativi livelli occupazionali.

Come espressamente chiarito dal legislatore, l’intervento di cui alla legge n. 159/2020 di conversione del D.L. 125/2020 “risponde all’esigenza di far fronte alla situazione di crisi economica determinata dall'emergenza legata all’epidemia da Covid-19, agevolando, ove possibile, l’accesso delle imprese a procedure concorsuali minori al fine di scongiurarne il dissesto”. Evidente l’intento premiale, volto a semplificare, con qualche cautela di “expertise” collaudata, tutti i tentativi drammatici del periodo di superamento della crisi, così creando un corridoio in cui lo Stato – tra i maggiori creditori delle imprese in difficoltà – non avrebbe dovuto erigere la propria posizione ad un ruolo di veto[10].

 Il nuovo cram down fiscale e contributivo, così, muove dalla consapevolezza che spesso l’inerzia del creditore istituzionale costituisca un ostacolo ai piani e ai progetti delle soluzioni alternative alla liquidazione, quand’anche foriere di scenari più convenienti per i creditori pubblici.

La modifica in commento ha avuto, naturalmente, un notevole impatto sui concordati e sugli accordi di ristrutturazione dei debiti, in quanto ha consentito di ottenere la omologazione degli stessi, anche senza il voto dell’Erario.

Uno dei maggiori problemi che, nelle applicazioni pratiche, è stato incontrato quando si depositava una domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti, era rappresentato dalla circostanza che gli enti impositori, difficilmente prendevano posizione di fronte alla proposta del debitore, oppure si limitano ad esprimere un parere negativo.

Quale la genesi di tale condotta? Normalmente il funzionario di turno evitava di prendere decisioni che potessero essere considerate svantaggiose per l’ente, con il rischio di vedersi coinvolto in un giudizio di danno erariale. Era molto più semplice e sicuro non esprimersi o dare un voto negativo, senza (il più delle volte) motivare. In questo modo spesso si creava, però, un duplice danno: da una parte si rendeva impraticabile il concordato o l’accordo, visto che lo Stato era un creditore decisivo (di fatto, “strategico” per il buon esito dell’operazione) e le varie procedure richiedevano una esplicita adesione, nuocendo all’impresa che voleva ristrutturarsi; dall’altro lato si danneggiava lo stesso Ente, il quale avrebbe potuto ricevere un utile, che con l’alternativa del fallimento non avrebbe visto quasi certamente[11].

Per cercare di dare una risposta a questo problema, il legislatore con la legge 159/2020, ha emanato una norma che ha modificato i tre articoli della legge fallimentare. In realtà gli istituti del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, avuto riguardo alle pretese pubblicistiche spettanti alla amministrazione finanziaria ovvero agli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie, sono stati dotati di uno “strumento inedito”, che ha riscritto a regime gli artt. 180, 182-bis e 182-ter l. fall..

La modifica normativa in commento asseconda un graduale processo di semplificazione della tradizionale transazione fiscale e contributiva già iniziato nel nostro ordinamento, come si è visto in precedenza, nella ricostruzione storica dell’infalcidiabilità del credito I.V.A..

Con la nuova transazione fiscale e contributiva, il ruolo dell'attestatore professionista indipendente (che è sempre esposto a responsabilità penale ex art. 236-bis l. fall. per “informazioni false od omissioni circa informazioni rilevanti in sede di relazione o attestazione”), è divenuto così ancor più determinante, essendo costui chiamato ad attestare, nella propria relazione, che i beni, su cui possono essere fatti valere i privilegi dall'amministrazione finanziaria o dagli altri enti, non sarebbero stati sufficienti al pagamento integrale dei crediti, come garantiti, se venduti nel contesto fallimentare. Il professionista avrebbe dovuto, altresì, dimostrare, secondo una valutazione coerente e motivata, basata anche sulle possibili ipotesi di liquidazione dell'attivo in tale scenario, che la proposta transazione fiscale e contributiva fosse dunque più conveniente rispettivo all'alternativa fallimentare, in modo tale che la parte incapiente potesse degradare da privilegiata a chirografo e, per l’effetto, potesse essere oggetto di stralcio, con conseguente esdebitazione[12].

E’ restato fermo il sindacato del Tribunale sulla fattibilità del piano, entro i limiti individuati dalla giurisprudenza e, specificamente, sulla convenienza del trattamento proposto dall'imprenditore, con la transazione fiscale e contributiva, rispetto alla liquidazione fallimentare.

Tali nuove disposizioni, invero, accolte con favore dalla dottrina e nella sperimentazione delle prime applicazioni giurisprudenziali, sono state esaminate con attenzione sia per comprenderne l'esatto ambito applicativo, sia per segnalarne eventuali carenze che avrebbero potuto generare incertezze o applicazioni difformi da parte dei tribunali interessati.

Uno dei profili che ha suscitato numerose perplessità operative sulla originaria applicazione del cram down fiscale e previdenziale ha riguardato il significato delle espressioni in “mancanza di voto” e in “mancanza di adesione” dell’Erario e degli enti di previdenza obbligatoria inserite, rispettivamente, nel comma 4 dell’art. 180, l. fall., per il concordato preventivo, e nel comma 5 dell’art. 182 bis, l. fall., per gli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Sul punto si sono registrate due differenti posizioni dottrinali:

-       una interpretazione più “estensiva”, secondo cui, fermi tutti gli altri requisiti richiesti dalla norma, il cram down fiscale e previdenziale sarebbe stato ammissibile non solo in caso di silenzio, bensì anche nell’ipotesi di diniego espresso da parte dei creditori pubblici. 

-       una interpretazione più “restrittiva”, secondo la quale l’omologazione “coattiva” da parte del tribunale avrebbe potuto essere disposta unicamente quando l’amministrazione finanziaria e gli enti previdenziali non si fossero pronunciati sulla proposta formulata dal debitore/contribuente. 

 La dottrina “avanguardista” si è orientata verso una sorta di equiparazione tra il silenzio -rappresentato dal comportamento omissivo della P.A. - e il voto negativo espresso, poiché entrambi i comportamenti produrrebbero, quale effetto finale, la “mancanza di voto” o la “mancanza di adesione”, così da ritenere che le fattispecie disciplinate siano tanto il silenzio che il rigetto. Tale indirizzo ha argomentato la tesi attraverso spunti di riflessione desunti anche dalla relazione illustrativa, a commento dell’articolo 48, comma 5 del CCII (D. lgs. 14/2019). Tale norma (opportunamente integrata dal decreto correttivo, di cui D. Lgs. 147/2020, con l’estensione della previsione anche al concordato preventivo) ha inteso “superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi” e non vi è dubbio che tali resistenze possono concretizzarsi, sia qualora l'ente creditore dilazioni oltre misura la risposta alla proposta di transazione, sia qualora esso rigetti espressamente tale proposta. A tale conclusione, sempre secondo questo orientamento, si perverrebbe anche grazie alla lettera della nuova norma, atteso che sia l'espressione “anche in mancanza di adesione” (utilizzata sia nel comma 2 dell'art. 63 del CCII, sia nel novellato comma 4 dell'art. 182-bis l. fall., con riguardo all'accordo di ristrutturazione), quanto l'espressione “anche in mancanza di voto” (utilizzata sia nel decreto correttivo al CCII, sia nel novellato comma 4 dell'art. 180 l. fall., a proposito del concordato preventivo) possono essere intese non solo come assenza di risposta da parte dell'Erario o degli enti previdenziali ma, anche, come risposta negativa. Infatti, anche il rigetto della proposta, dà luogo alla “mancanza di adesione”, così come il voto negativo corrisponde alla “mancanza di voto”, cioè alla mancanza di un voto che consenta l'approvazione della proposta di concordato, giungendo alla conclusione che se proprio si volesse far derivare da tali espressioni un'incertezza interpretativa, questa dovrebbe essere superata sulla base della ratio delle norme di cui trattasi, che conduce, appunto, alla conclusione testé esposta[13].

Secondo l’interpretazione restrittiva, invece, il voto negativo non potrebbe configurare una “mancanza di voto” e non potrebbe, pertanto, trovare applicazione l’omologazione forzata da parte del tribunale. Le principali argomentazioni a sostegno della tesi restrittiva possono riassumersi come di seguito.

Deporrebbe, invero, in tal senso proprio il combinato disposto di cui agli artt. 177 e 178 l. fall., non incisi dalla novella, con la necessità di un consenso espresso della maggioranza per addivenire all’approvazione della proposta, come previsto dall’art. 178 l. fall.

Con l’intervento modificativo del 2015 dell’art. 178 l. fall., infatti, si è posto fine alla questione che più di altre ha “tenuto banco” nel dibattito degli ultimi anni: quella del significato da attribuire all’inerzia dei creditori, essendosi passati, con moto classicamente pendolare, dal silenzio-dissenso della legge del 1942 (a differenza di quanto stabilito a proposito del concordato fallimentare), al silenzio-assenso della riforma del 2012, fino al ripristino della regola “tradizionale” ad opera della riforma del 2015, che richiedeva il consenso espresso della maggioranza per addivenire all’approvazione della proposta; così, si sono sgravati i creditori dissenzienti dall’onere di manifestare, esplicitamente, la propria contrarietà alla soluzione concordataria; conseguentemente, il silenzio, di per sé neutro, in applicazione del principio, avente portata generale, di non significatività, icasticamente espresso nel broccardo qui tacet neque dicit, neque negat, neque utique fatetur, concorre, in maniera determinante, nel computo delle maggioranze, con l’effetto, in concreto, di rendere ancora più arduo il conseguimento del risultato[14].

Del resto, l'intervento suppletivo del tribunale avrebbe trovato una sua plausibile giustificazione di fronte all'inerzia del creditore, ma non, di certo, in presenza di una manifestazione di voto negativa, laddove il creditore aveva effettuato il suo apprezzamento in ordine alle valutazioni esposte dal professionista attestatore, anche circa la maggiore convenienza della procedura così come proposta, rispetto all'alternativa fallimentare. Infatti, se così non fosse, si sarebbe arrivati a ipotizzare una sorta di “ammissione di ufficio” (pur sempre nel rispetto della ricorrenza dei requisiti previsti dalla norma), della proposta concordataria, seppur priva del requisito del raggiungimento della maggioranza.

Dunque, l’omologa del concordato anche in presenza di un diniego espresso da parte dei creditori pubblici qualificati, sarebbe stata incompatibile con il principio di negoziabilità che governa il concordato preventivo, con la conseguenza che il tribunale non avrebbe potuto sostituirsi, attraverso l’omologazione forzata, laddove la maggioranza dei creditori avesse espresso il relativo diniego. 

Ulteriore addentellato a favore dell’interpretazione restrittiva era dato dal tenore letterale dell’art. 179 l. fall., non modificato dal legislatore riformista, che, di fatto, “costringeva” il commissario giudiziale e, per l'effetto, il tribunale all’accertamento e alla declaratoria di inammissibilità nel caso di mancato raggiungimento delle maggioranze. Tanto era ancor più vero, ove si fosse considerato che, avveduta dottrina, aveva ritenuto necessario un intervento del legislatore per consentire la fissazione di un'udienza di omologa anche in caso di mancato raggiungimento delle maggioranze prescritte ex lege, in caso di equiparazione del voto espresso contrario alla mancata espressione del voto del creditore Erariale, rimasto silente.

Ha deposto a favore della tesi in commento l’adozione della circolare n. 34/E del 29 dicembre 2020 dell’Agenzia delle Entrate, con la quale sono state fissate le regole per la valutazione delle proposte di trattamento del credito tributario presentate dai contribuenti, offrendo, ai propri uffici, un ausilio per una tempestiva gestione delle procedure di composizione delle crisi di impresa e fornito un supporto agli operatori che si trovano ad affrontare una sfavorevole congiuntura economica.

In particolare, si è inteso delineare le regole per la valutazione delle proposte di trattamento del credito tributario presentate dai contribuenti, nell’ottica di favorire la ripresa produttiva e la conservazione dei posti di lavoro[15]. Nella circolare è stato chiarito, proprio in relazione alla manifestazione del voto e con riferimento alle valutazioni da svolgere nell'ambito del concordato preventivo (analogamente gli accordi di ristrutturazione), che “l’eventuale diniego da parte dell’Ufficio dovrà necessariamente essere corredato da una puntuale motivazione, idonea a confutare analiticamente, in base ad elementi chiari, oggettivi e verificabili, le argomentazioni e le conclusioni del Commissario medesimo...”. L’atto di indirizzo interpretativo in esame ha fornito l’approdo, certo, nel ritenere fondata la tesi che ha visto l'intervento del tribunale solo ed esclusivamente nel caso di inerzia (mancanza di voto) della P.A. Infatti, argomentando a contrariis, si sarebbe ottenuto, l'effetto distonico di una sostituzione, di fatto, del tribunale alla volontà del creditore Erario, che aveva votato negativamente, consapevolmente e in maniera informata sulla proposta del debitore.

A fortiori altra dottrina, all’epoca della discussione, ha argomentato la tesi restrittiva, con particolare riferimento agli accordi di ristrutturazione, focalizzando l'attenzione della incompatibilità dell'applicazione della novella, in via estensiva, riferita al dissenso manifestato dall'amministrazione finanziaria, con le previsioni che la Direttiva (Ue) 2019/1023 del 20 giugno 2019, c.d. Insolvency, stabilisce quali limiti per l’omologa dei piani di ristrutturazione. In particolare, viene evidenziato come l'interpretazione estensiva consentirebbe al Tribunale di omologare malgrado l’eventuale insussistenza dei presupposti richiesti dalla direttiva fra cui spiccano la necessità di rispettare la cd. relative priority rule, oltre che quella di consentire, comunque, all’autorità giudiziaria di non procedere all’omologa, quando la ristrutturazione proposta non si profili realmente in grado di superare lo stato di insolvenza[16].

L’interpretazione estensiva, però, oltre che essere stata maggioritaria in giurisprudenza, è stata avvalorata anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con ordinanza del 25 marzo 2021, n. 8504, chiamata a pronunciarsi sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto dall’Agenzia delle Entrate alla Suprema Corte, in ordine ad una causa originata dal rigetto della domanda di transazione fiscale, impugnata dalla società istante dinanzi alla Commissione Tributaria. Nella stessa si evince, infatti, che la novella “indirizza in modo marcato la questione della mancata adesione alla proposta di transazione da parte dell’agenzia fiscale verso la competenza giurisdizionale di merito del tribunale fallimentare, collocando ancor più chiaramente l’istituto de quo all’interno delle procedure concorsuali ed alle loro, peculiari, finalità, piuttosto che nell’ambito delle procedure di attuazione dei tributi”.

Opportunamente, il Decreto Legge n. 118 del 24 agosto 2021 nel prevedere, all’art. 20, primo comma, lett. a), che le parole “il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di voto” siano sostituite con “il tribunale omologa il concordato preventivo anche in mancanza di adesione”, ha posto fine all’acceso dibattito circa l’applicazione del nuovo istituto soltanto in caso di mancanza di voto ovvero anche in caso di diniego espresso da parte del creditore pubblico, derivante dalla differente formulazione della norma prevista per il concordato preventivo (“mancanza di voto”) rispetto agli accordi di ristrutturazione dei debiti (“mancanza di adesione”).

L’interpretazione sopra esposta è stata confermata, del resto, oltre che dalle prime pronunce[17] di merito anche dalla Commissione Giustizia della Camera che, nel parere reso sul disegno di legge di conversione del D.L. n. 125/2020, non pareva affatto distinguere le locuzioni “in mancanza di voto” e “in mancanza di adesione”.

Si legge, infatti, nel documento in commento che l’intervento sulla disciplina delle procedure di concordato preventivo e di accordi di ristrutturazione dei debiti “consente ai tribunali di omologare il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione dei debiti anche se la mancata adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali o assistenziali determini il mancato raggiungimento delle relative percentuali minime”. 

Tra gli ulteriori aspetti che sono stati oggetto di approfondimento in fase di prima applicazione della normativa va evidenziata, con riferimento al concordato preventivo, la circostanza che la norma, è sembrata riferirsi a quei creditori pubblici i quali, in condizione di poter votare, fossero titolari di crediti di per sé originariamente chirografari ovvero anche privilegiati, ma assistiti da cause di prelazione incapienti in tutto o in parte che, tuttavia, si astenessero dal voto.

Per quanto, dunque, non espressamente richiamato, secondo una scuola di pensiero, l’art. 160 comma 2 l. fall., troverebbe, per il creditore prelatizio incapiente, necessaria applicazione, continuando, in ogni caso, a gravare sul debitore proponente l’onere di stima del bene oggetto di garanzia, mediante il ricorso alla relazione giurata del professionista di cui all’art. 67 comma 3 lett. d) l. fall., senza interferenze – sul punto – con le attività dell’attestatore[18]. La suddetta relazione giurata di stima, ex art 160 comma 2 l. fall., si è ritenuto debba essere, quindi, parte integrante dell’attestazione specifica dal parte del professionista (circostanza meglio precisata solo nella modifica dell’art. 182-ter l. fall., che si può ritenere di leggere, necessariamente, in combinato disposto con gli articoli 160 e ss. e 182-bis l. fall.), in quanto il giudizio di convenienza deve essere, necessariamente, riferito estensivamente anche a questo aspetto, giustificandosi, così, il richiamo alle “risultanze della relazione” senza, per converso, vincolare lo stesso tribunale, pienamente abilitato ad una valutazione estesa anche al merito, deponendo in tal senso proprio il dato letterale della novella “anche sulla base delle risultanze della relazione” che ne evidenzia la non vincolatività.

In relazione, poi, allo specifico riferimento “alle maggioranze di cui all’articolo 177” l. fall., contenuto nella novella, è stato ritenuto trattarsi di crediti ammessi al voto che, ove fossero previste diverse classi di creditori, devono essere conseguite anche nel maggior numero di classi. Conseguentemente, l’omologazione forzata da parte del tribunale sarebbe idonea a intervenire, in via suppletiva, nel caso in cui, stante la forza determinante del voto degli enti impositori, una o entrambe delle maggioranze non fossero state raggiunte. In altri termini, conseguita, comunque ed indipendentemente, la maggioranza dei crediti ammessi al voto, l’omologa “forzosa” sarebbe intervenuta solo al fine di sanare il mancato raggiungimento della maggioranza per classi, ovvero, gli stessi effetti si sarebbero avuti anche quando fosse la maggioranza per crediti a non essere stata raggiunta, mentre, fosse stata raggiunta la maggioranza per classi. Quanto poi al requisito della convenienza, ulteriore elemento indispensabile per l’omologa “forzosa” del tribunale, è stato evidenziato che, nell’assenza di riferimenti contenuti nei lavori preparatori, il generico rinvio alla sola convenienza senza l’indicazione di ulteriori termini di paragone, rispetto all’alternativa della liquidazione in sede fallimentare, dovesse essere inteso non solo nel senso di un trattamento non deteriore (quindi in sintesi anche identico a quello riservato in sede fallimentare) quanto, piuttosto, ad un diverso vantaggio satisfattivo (sebbene non quantificato) per il creditore[19] .

A suffragio di tale lettura, è stata utilizzata la richiamata circolare dell'Agenzia delle Entrate, che ha evidenziato come il fulcro del procedimento argomentativo, che porta a ritenere accoglibile una proposta di trattamento del credito tributario deve essere incentrato sulla maggiore, o minore, convenienza economica della stessa rispetto all’alternativa liquidatoria. In tal senso depone l’azione del Legislatore che, come anticipato, ha previsto che il Tribunale possa omologare il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione pur in mancanza, rispettivamente, del voto o dell’adesione dell’Amministrazione Finanziaria, allorquando ritenga, anche in base alle risultanze della relazione del professionista attestatore, che la proposta dell’imprenditore sia migliorativa rispetto all’ipotesi del fallimento. Gli uffici, quindi, ai fini dell’accoglibilità di una proposta di trattamento del credito tributario, sono chiamati a esaminare il requisito della maggiore, o minore, convenienza economica della proposta stessa rispetto all’alternativa liquidatoria, onde poter esprimere, consapevolmente, il consenso ovvero il diniego. È, quindi, necessario confrontare l’importo che l’erario potrebbe percepire sulla base della proposta con quello realizzabile, alternativamente, mediante la liquidazione giudiziale dell'impresa, tenendo conto dei valori degli assets aziendali e dell’ammontare conseguibile, in forza delle legittime cause di prelazione, in sede di assegnazione ai creditori delle somme realizzate mediante la liquidazione stessa. Gli uffici nel loro convincimento dovranno fare riferimento, quindi, agli elementi esposti nel piano attestato dal professionista indipendente, dal quale possono discostarsi solo se lo ritengono manifestamente non attendibile o non sostenibile, anche alla luce del contesto economico e competitivo di riferimento, nonché della situazione economico-patrimoniale dell'impresa. Dalla relazione del professionista, previamente attestata, dovrà, quindi, emergere che la proposta concordataria sia maggiormente satisfattiva dei crediti tributari e previdenziali, all’esito della comparazione tra il pagamento proposto con la domanda di concordato e quanto ritraibile dalla alternativa liquidatoria. Ai fini di tale confronto, l’attestazione dovrà contenere tutti gli elementi che tengano conto, anche, del maggiore apporto patrimoniale, rappresentato esemplificativamente: dai flussi o dagli investimenti generati dalla eventuale continuità aziendale; dalla eventuale presenza di finanza esterna (assente in caso di successiva liquidazione fallimentare); oppure, infine, dall’esito dell’attività liquidatoria gestita in sede concordataria. Tale apporto, secondo quanto espressamente dettato dal tenore letterale della circolare in commento, non costituisce una risorsa economica nuova, ma deve essere considerato come finanza endogena, in quanto, ai sensi dell’articolo 2740 c.c., il proponente è chiamato a rispondere dei debiti assunti con tutti i propri beni, presenti e futuri.

La proposta così formulata è oggetto di valutazione da parte del Commissario Giudiziale, organo del Tribunale Fallimentare e pubblico ufficiale, attraverso la relazione redatta ex art. 172, l. fall. Con tale relazione, il Commissario procede alla valutazione della fattibilità giuridica ed economica della proposta e del piano, nonché della loro convenienza rispetto all’ipotesi liquidatoria (fallimentare). Pertanto, laddove il Commissario Giudiziale renda un parere favorevole alla proposta di concordato e, conseguentemente, alla connessa proposta di trattamento del credito, l’eventuale diniego da parte dell’Ufficio dovrà necessariamente essere corredato da una ancor più puntuale motivazione, idonea a confutare, analiticamente, in base ad elementi chiari, oggettivi e verificabili, le argomentazioni e le conclusioni del Commissario medesimo[20].

Analoghe considerazioni (in punto di qualità e quantità della pretesa pubblica, asseverazione del professionista attestatore e giudizio di convenienza da parte del tribunale) valgono per gli accordi di ristrutturazione.

Anche in merito alla convenienza la Circolare n. 34/E del 29 dicembre 2020 ha chiarito che l’attestazione (relativamente ai crediti tributari o contributivi, e relativi accessori) avrà ad oggetto il trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale[21].

Ultimo profilo da esaminare, di non poco momento nella storicizzazione della vicenda, ha riguardato l’applicabilità della normativa ai procedimenti in corso. Nonostante l’invito dell’Ufficio studi del Senato, che aveva sollecitato il Parlamento a valutare “l’opportunità di chiarire se le novelle in esame riguardino anche le procedure già pendenti alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, nessuna specifica norma sui termini di efficacia della novella è stata adottata[22]. Nell'assenza di disposizioni transitorie, che avrebbero dovuto stabilire se una novità normativa si sarebbe dovuta applicare anche alle fattispecie sorte anteriormente (e, quindi, in assenza di una deroga espressa al principio di irretroattività della legge), è stata valutata, ai fini dell'efficacia, se la modifica rivestisse carattere sostanziale o processuale. Una questione non solo teorica in quanto, dall’esatta individuazione della natura della norma sarebbe dipesa l’applicazione del principio di successione delle leggi nel tempo, ex art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale del Codice Civile. Infatti, nel caso si fosse ritenuto la norma di natura sostanziale essa non si sarebbe potuta applicare alle fattispecie già pendenti, mentre, in caso contrario (di rilievo processuale), la modifica si sarebbe dovuta ritenere immediatamente operativa per tutte le fattispecie vigenti, in forza del principio di stretta legalità tempus regit actum. Ci si è chiesto, allora, se le norme che disciplinano il procedimento concorsuale, quali quelle che attengono all’espressione e al conteggio del voto o alle maggioranze richieste per l’approvazione del piano o dell'accordo, si dovessero considerare considerarsi norme processuali o meno. Molteplici considerazioni hanno portato a ritenere tali norme come processuali e, pertanto, applicabili anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della novella normativa. Anzitutto, la considerazione che la giurisprudenza riferisce il principio tempus regit actum ad ogni assetto regolatorio, definibile come procedimentale in senso lato. Infatti, in materia concorsuale si è ritenuta la fase esecutiva del concordato fallimentare, una fase processuale autonoma a sé stante rispetto a quella giurisdizionale, conclusasi con l’omologa, con la conseguenza di ritenere applicabile anche ai concordati già omologati il nuovo regime di iniziativa per la risoluzione, con esclusione della legittimazione d’ufficio della procedura (cfr. Ord. Cass. Civ. Sez. VI, 22/02/2012, n. 2674).

Un’importante precisazione è stata poi fornita dalla S. Corte di Cassazione (Sez. I Civ., 24/6/2016, n. 13165), la quale, nell’interpretare la norma transitoria del D. Lgs. n. 169/2007 (primo correttivo della riforma delle procedure concorsuali del 2006, con la quale si stabiliva che le novità normative si applicassero “alle procedure concorsuali aperte successivamente alla sua entrata in vigore”), ha chiarito che l’espressione “procedure concorsuali” andasse riferita alla disciplina interna propria di tali procedure, con esclusione dei procedimenti di rilievo esterno come le azioni da proporsi contro terzi da parte del curatore. Tale precisazione, indirettamente, costituisce una conferma del fatto che, in assenza di una specifica norma transitoria, che ne differisca l’entrata in vigore o che riferisca l’efficacia solo alle procedure aperte successivamente, le norme che disciplinano le procedure concorsuali vanno intese come norme procedimentali rette dal principio “tempus regit actum[23].

Ulteriore conferma della rilevanza processuale delle norme in materia concorsuale la si è trovata nei termini di efficacia delle novelle più recenti. Quella del 2006 (D.Lgs. 5/2006), in vigore dal 16 luglio 2006, non dettava alcuna disciplina transitoria per le rilevanti modifiche apportate in materia di concordato preventivo, limitandosi a statuire solo in merito ai fallimenti e ai concordati fallimentari pendenti, oltre che sui procedimenti per la dichiarazione di fallimento. Sicché, da quella data, si è fatta applicazione della regola tempus regit actum e si è ritenuto, ad esempio, che i concordati in corso non potessero più convertirsi automaticamente in fallimento, stante l’intervenuta abolizione della dichiarazione d’ufficio, prevista dall’abrogato articolo 8 l. fall.[24]. Pertanto, proprio in assenza di una norma transitoria che ne stabilisca l’efficacia esclusivamente alle nuove procedure concorsuali instaurate, le disposizioni dell’art. 3, comma 1-bis della legge 27/11/2020, n. 159 sono state ritenute applicabili anche alle procedure pendenti, salvo, naturalmente, il caso in cui fosse già esaurita la fase procedimentale oggetto della novella normativa.

L’esigenza di non pregiudicare l’aspettativa che gli enti impositori (ma anche degli altri creditori) potessero aver riposto nel meccanismo di raccolta del voto nel concordato, ovvero dell’adesione nell’accordo sinora vigente, ha consentito di escludere che la nuova disciplina potesse dirsi applicabile ai procedimenti in cui fosse già stata avviata la fase della raccolta del voto o dell’adesione, in modo da non pregiudicare la facoltà dell’amministrazione finanziaria di esprimere, consapevolmente, le proprie determinazioni e trarne le relative conseguenze[25]. Per contro, pacificamente, applicabile è stata ritenuta la disciplina nel caso di mancata apertura delle operazioni di voto: infatti, ai sensi dell’art 162 l.fall., l’iter procedimentale doveva regredire alla fase di integrazione della documentazione (nella specie, relazione del professionista circa la convenienza) da portare a conoscenza degli Uffici Finanziari, ex art. 182-ter l.fall., onde consentirne una consapevole espressione di voto e del Commissario Giudiziale, per la compiuta redazione della relazione ex art. 172 l.fall.

Per le ragioni esposte, è stata ritenuta convincente la tesi che consentiva l'applicazione della norma anche oltre la fase della raccolta del voto, argomentando il convincimento sul presupposto che le novità dovessero essere riferite al giudizio di omologazione e non alla fase di raccolta ed espressione del voto; le nuove norme sono state ritenute, così, applicabili in tutti quei casi in cui fosse pendente il giudizio di omologa, ex art. 180 l. fall., ovvero a quei casi in cui il collegio avesse trattenuto a sé la decisione sulla inammissibilità della proposta, ai sensi dell’art. 179 l. fall. e il mancato raggiungimento delle maggioranze previste fosse dipeso, esclusivamente, dalla mancata espressione del voto da parte degli enti impositori e non, invece, dalla manifestazione di aperto dissenso.

Premesso l’excursus storico innanzi tratteggiato, oggi “la finestra sul cortile” che si apre in relazione al trattamento dei debiti erariali, lascia intravedere una chance per l’imprenditore di consentire la transazione con il fisco anche nell’ambito della composizione negoziata, alla luce dell’introduzione all’art. 23 del CCII, del comma 2 bis, da parte del decreto correttivo di cui al D. Lgs 13 settembre 2024 n 136.

Tuttavia, sempre in base alla novella introdotta l’accordo transattivo in commento tra il debitore e le Agenzie Fiscali non potrà riguardare i tributi costituenti risorse proprie dell’UE e i crediti relativi ai tributi di cui sono titolari gli Enti Pubblici territoriali.

Siamo, quindi, in presenza dell’ennesimo caso di “ritorno dal futuro” con …”tanto rumore per nulla”, impregiudicata qualsivoglia valutazione sulle modifiche apportate dal decreto correttivo alla disciplina dell’omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva sia nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, che del concordato preventivo.

 

 (*) Si ringrazia per il prezioso contributo scientifico la dott.ssa Patrizia De Nunzio, Direttore presso il Tribunale di Benevento.



[1] MONTELEONE “C’era una volta l’infalcidialbità del credito iva”, in www.osservatorio-oci.org. 2016

[2] Cfr., ex plurimis, Tribunale Varese 30.03.2012; Tribunale Perugia 16.07.2012; Tribunale Como 29.01.2013; Tribunale Milano 28.05.2013; Tribunale Cosenza 29.05.2013; Corte d’Appello Genova 27.07.2013; Tribunale Campobasso 31.07.2013.

[3] Per una puntuale ed analitica disamina della tematica, si rimanda a FERRO, La legge Fallimentare, Commento teorico-pratico, CEDAM, 2014, sub art. 182-ter l.fall., 2563 ss.

[4] FABIANI, Dai principi generali alla falcidiabilità di tutti i crediti tributari, 23 luglio 2013, in www.ilcaso.it, 2.

[5] BOZZA, Il trattamento dei crediti privilegiati nel concordato preventivo, in Fallimento, 2012, 377 ss.; “… la nuova norma dell’art. 160 richiede per la formazione delle classi in modo congiunto, e non alternativo, la omogeneità giuridica ed economica, il fermo posto dal legislatore all’autonomia privata dall’ult. parte del secondo comma dell’art. 160 riprende un principio di base del sistema, in forza del quale il trattamento giuridico dei creditori non può essere svincolato dall’ordine dato dallo stesso legislatore, che ha già provveduto a creare varie categorie (o classi) di creditori o in ragione della libertà data alle parti di costituire garanzie tipiche (quali pegno e ipoteca) o in ragione della causa del credito (come i privilegi), con la categoria residuale dei chirografari; con la ovvia conseguenza che, in linea di principio (vi sono poi alcune eccezioni), la formazione delle classi può interessare soltanto la categoria dei creditori chirografari, tra i quali possono essere favoriti determinati gruppi rispetto ad altri in ragione della omogeneità economica intercorrente tra i partecipanti. Di conseguenza, la possibilità di suddividere i chirografari in classi con trattamenti differenziati non entra in conflitto con il principio della inalterabilità della graduazione, proprio perché in questa categoria non sono stabilite priorità tra i creditori che si trovano tutti sullo stesso piano, di modo che il legislatore, quando consente al debitore concordatario di formare classi con trattamento differenziato, ammette che possa essere alterato il principio di parità, ma non il principio della graduazione, che è concetto estraneo alla categoria dei chirografari. Rispetto a questa facoltà concessa al debitore, il tribunale può esercitare una verifica soltanto della correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi, come chiarisce il primo comma dell’art. 163, ma non un controllo sulla coerenza nel trattamento, o, per meglio dire, sulle ragioni giustificatrici del trattamento economico riservato a ciascuna classe e della anteposizione di una di essa rispetto ad altre; questi, infatti, sono dati contingenti e variabili lasciati alla libertà del debitore, tant’è che l’art. 163 non richiede, a differenza dell’art. 124 lett. b), che chi propone il concordato debba indicare le ragioni del trattamento differenziato dei creditori. Se questo è il compito del tribunale, appare evidente che il debitore ha piena libertà di fissare i criteri economici di omogeneità in base ai quali compone le classi, differenziando il trattamento tra le stesse; il che è pienamente coerente con la funzione del classamento - teso a dare al debitore in crisi l’autonomia di trovare la giusta composizione fra gli interessi di cui sono portatori i diversi creditori - ma, in tal modo, la formazione delle classi diventa anche lo strumento per differenziare, con una ampia dose di discrezionalità, il trattamento tra gruppi di creditori o addirittura di differenziare la posizione di ciascun singolo creditore, non essendo vietata la formazione di classi unipersonali, con buona pace della par condicio; anzi, proprio l’esasperazione della ricerca tesa ad assicurare la tenuta del principio della massima omogeneità tra i creditori appartenenti alla stessa classe spinge alla moltiplicazione delle classi e, quindi, alla alterazione del principio della par condicio”, BOZZA, Il rispetto della par condicio creditorum nelle soluzioni della crisi dell’impresa, cit., 13-14.

[6] Per una panoramica delle pronunce giurisprudenziali che hanno sostenuto la tesi della transazione fiscale come istituto interno al concordato ed agli accordi di ristrutturazione, v. D’ORAZIO, Le procedure di negoziazione della crisi dell’impresa, in Itinerari nel Processo Civile - Guide coordinate da F. Lazzaro, Giuffrè Editore, 2013, 590 ss.; ivi, tra le altre, Trib. Piacenza, 1 luglio 2008, “La transazione fiscale, in quanto costituente parte integrante del piano concordatario produrrà o meno i suoi effetti se la proposta di concordato sarà o meno omologata”.

[7] POSTACCHINI, L’infalcidiabilità del credito I.V.A. fra concordato preventivo e transazione fiscale. La giurisprudenza di merito dopo la sentenza della Corte Costituzionale, n. 225/2014 (nota ad App. Ancona, 1.06.2015, n. 625, in www.ilcaso.it, 13-14)

[8] Tribunale di Benevento, decreto del 23 aprile 2014, in www.osservatorio-oci.org; Tribunale di Benevento, decreto del 24-25 settembre 2014 (cron. n. 755/2014, rep. n. 3311/2014), in www.osservatorio-oci.org; Tribunale di Benevento, decreto di omologa del 31 marzo-1° aprile 2015, con richiamo al provvedimento del 25 settembre 2014, inedito; Tribunale di Benevento, decreto del 24 settembre 2015.

[9] COCCO, Concordato preventivo e accordi di ristrutturazione: le principali novità del Decreto Liquidità, in Crisi di impresa, 04/12/2020.

[10] FERRO, L. 159/2020: il giudizio di convenienza supplisce nei concordati al mancato voto dell’ente pubblico per debiti tributari e previdenziali, in www.quotidianogiuridico.it, Wolters Kluwer, 07/12/2020.

[11] BALIANI, Più facile stralciare i debiti con l'erario con la legge 159/2020, in www.baliani.it, 07/12/2020.

[12] Sul punto merita evidenziare quanto riportato dalla recente circolare dell'Agenzia delle Entrate siglata il 29 dicembre 2020, con la quale sono state riepilogate le istruzioni operative sulla valutazione delle proposte transattive del debito tributario nell'ambito dei procedimenti per la gestione della crisi di impresa, che a proposito del professionista attestatore precisa “Gli interventi legislativi in materia di composizione della crisi di impresa hanno, progressivamente, assegnato ai professionisti che attestano la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo (nel prosieguo anche “attestatori”) un ruolo sempre più rilevante, precisandone le richieste competenze tecniche ed i requisiti personali, nonché chiarendo quali contenuti devono essere necessariamente riportati nella relazione di attestazione. La scelta adottata dal Legislatore di propendere verso soluzioni simil-“privatistiche” della crisi aziendale ha, infatti, enfatizzato la necessità di adottare adeguati presidi a tutela dei terzi e dei creditori. Proprio in ciò risiede la ratio dell’attestazione, che assume la funzione di strumento di garanzia a favore dei terzi e dei creditori, soprattutto se estranei al piano di risanamento, volto a consentire che le scelte e le rinunce di fronte alle quali sono posti siano ponderate ed assunte in base a informazioni corrette, attendibili e sufficientemente complete. Il lavoro dell’attestatore, quindi, è determinante in quanto deputato a rafforzare la credibilità degli impegni assunti dal debitore mediante il piano, che devono essere finalizzati al riequilibrio della situazione economico-finanziaria e, sostanzialmente, al risanamento dell’impresa. Inoltre, la relazione di attestazione, in esito alle modifiche recate dal decreto legge 7 ottobre 2020, n. 125, è espressamente indicata (artt. 180 e 182-bis della LF) come uno degli elementi di cui può avvalersi il Tribunale per omologare il concordato preventivo o l’accordo di ristrutturazione, anche in mancanza, rispettivamente, del voto o dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria In ragione della rilevanza degli interessi tutelati, il Legislatore, come predetto, ha subordinato l’esercizio della funzione attestativa al possesso di una serie di requisiti, tra cui spicca quello dell’indipendenza, atti ad assicurare che gli accertamenti condotti, le analisi economico-finanziarie e patrimoniali elaborate, le valutazioni prospettiche di convenienza e di sostenibilità del piano industriale o di risanamento, la garanzia sulla veridicità dei dati e il giudizio finale siano effettuati da soggetti in possesso di particolari competenze professionali. Si tratta, quindi, di un ruolo centrale, da assolvere con rigore, competenza e trasparenza per assicurare la corretta riuscita della procedura di composizione della crisi”.

[13] In tal senso ANGELINI e DAN, Nuova transazione fiscale: applicazione da uniformare, in Norme & Tributi Diritto dell’economia in Il Sole 24 Ore, 28/12/2020.

ANDREANI, Le novità del codice della crisi sulla transazione fiscale, in www.ilfallimentarista.it, 30/11/2020

[14] AMBROSINI, Problemi in tema di voto nel concordato preventivo, in www.fallimentiesocieta.it 12/12/2017

[15] Così è dato leggere in Normativa e Prassi, Istituto della transazione fiscale, le istruzioni operative per gli uffici, in www.fiscooggi.it, rivista online dell'Agenzia delle Entrate, 29/12/2020.

[16] DE BERNARDIN, Brevi note a prima lettura sull’omologa dei piani di ristrutturazione con trattamento dei crediti tributari e contributivi (o anche: “del cram down del tribunale nella transazione fiscale”), in www.ilcaso.it, 02/01/2021.

[17] decreto del 22 settembre 2021 Tribunale di Venezia; decreto del 1° dicembre 2021 Tribunale di Como

[18] Cfr. in tal senso FERRO, op. cit.

[19] In tal senso ANGELINI e DAN, Nuova transazione fiscale: applicazione da uniformare, in Norme & Tributi Diritto dell’economia, in Il Sole 24 Ore, 28/12/2020.

[20] Cfr. Circolare Agenzia delle Entrate, cit., nonché MONTELEONE “Il Commissario e Liquidatore Giudiziale” manuali per la professione, Gruppo Walters Kluwer 2018.

[21] Nel caso degli accordi di ristrutturazione il professionista effettua, quindi, una valutazione comparativa oramai del tutto assimilabile a quella richiestagli in caso di concordato preventivo (cfr. tenore Circolare Agenzia delle Entrate cit.)

[22] CECCHINATO, L’immediata applicabilità delle nuove disposizioni su concordato preventivo e accordi di ristrutturazione dei debiti, in www.dirittobancario.it, 07/12/2020.

[23] Cfr. CECCHINATO, op. cit.

[24] Cfr. LUCARELLI, Procedure concorsuali: l’adesione d’ufficio in tempo di Covid-19, in www.altalex, 28/12/2020

[25] Cfr. in tal senso DE BERNARDIN, op.cit