Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Concessione abusiva di credito e risarcimento del danno da violazione di norme di condotta


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Articolo

Le azioni di responsabilità nei confronti degli organi di amministrazione e controllo delle società di capitali nella giurisprudenza di legittimità più recente


Raffaele Del Porto

Data pubblicazione
28 ottobre 2024

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Sommario: 1. Questioni preliminari; 2. Legittimazione; 3. Natura dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore; 4. Prescrizione; 5. La natura delle azioni - sociale e dei creditori sociali - di responsabilità; 6. Gli elementi dell’azione; 7. Il danno; 8. Il nesso causale.


1. Questioni preliminari.

1.1. Competenza.

1.1.1. Competenza territoriale.

Per giurisprudenza costante, le azioni di responsabilità nei confronti degli organi di società di capitali sono soggette alle ordinarie regole di competenza.

Come difatti ribadito da Cass. 17197/2016: “L'azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l. fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali. Ne consegue che, trattandosi di causa relativa ad obbligazioni risarcitorie, siano esse di natura contrattuale o extracontrattuale, ai sensi dell'art. 20 c.p.c. la competenza territoriale si determina, facoltativamente, anche in base al luogo in cui è stato posto in essere l'illecito su cui si fonda la domanda”.

Conforme Cass. 19340/2016, che esclude, in particolare, che l’azione sia attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art 24 l.f.: “L'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, comma 2, l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma - quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali - implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti, sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l. fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse”.

Affermazione questa sicuramente condivisibile, atteso che entrambe le azioni (sociale e dei creditori sociali) preesistono nel patrimonio (della società fallita/liquidata e dei singoli creditori) e risultano quindi solo attribuite, a seguito dell’apertura della procedura concorsuale, al curatore in via esclusiva.

La competenza della sezione specializzata vale poi, come ovvio, anche per l’amministratore di fatto, come precisato da Cass. 20441/2028, secondo cui “Appartengono alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di impresa, le azioni di responsabilità, da chiunque promosse, nei confronti degli amministratori di fatto di una società di capitali, dal momento che, da un lato, non vi sono ragioni per discriminare il caso della gestione di fatto di una società ai fini della definizione della competenza delle dette sezioni specializzate e, dall'altro, depone in tal senso la formulazione letterale dell'art. 3, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 168 del 2003, che, richiamando tutti i "rapporti societari", va intesa come formula indicativa di una nozione generale e non quale espressione meramente riassuntiva delle peculiari ipotesi citate nel testo della medesima norma”.

1.1.2. Clausola compromissoria.

In linea generale, appare indubbio che l’azione sociale di responsabilità sia affidata alla cognizione arbitrale, qualora il tenore della clausola compromissoria la ricomprenda - come accade di norma - nel suo ambito soggettivo e oggettivo.

Altrettanto indubbio che la competenza arbitrale non si estende alla azione dei creditori sociali, pacificamente terzi rispetto alla clausola statutaria.

Alcuni autori e giudici di merito hanno perciò sostenuto la necessità di mantenere distinta la competenza a conoscere delle due azioni (sociale e dei creditori sociali) anche in caso di esercizio delle stesse da parte del curatore del fallimento.

La Corte di cassazione ha tuttavia optato per la soluzione opposta, affermando la necessaria competenza del giudice ordinario, anche in presenza di clausola compromissoria, nel caso di esercizio congiunto delle due azioni da parte del curatore.

Fra le altre, nella materia a questi fini analoga dei consorzi, Cass. 28533/2018, secondo cui “La clausola compromissoria contenuta nello statuto di un consorzio dichiarato fallito è applicabile ai giudizi iniziati dal curatore per far valere diritti preesistenti alla procedura concorsuale, a differenza di quanto accade per l'azione di responsabilità proposta dallo stesso curatore verso gli amministratori del consorzio, trattandosi di azione volta alla reintegrazione del patrimonio sociale nell'interesse dei soci e dei creditori per i quali la clausola non può operare trattandosi di soggetti terzi rispetto alla società. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione del tribunale che aveva declinato la propria competenza in favore dell'arbitro in quanto il curatore aveva fatto valere, nei confronti di alcuni enti consorziati, il diritto al pagamento di una somma di denaro preesistente alla data della dichiarazione di fallimento)”.

Conforme la precedente Cass. 19308/2014, che afferma - in motivazione - che “Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell'ente confluiscono nell'unica azione di responsabilità, esercitabile da parte del curatore ai sensi della L. Fall., art. 146, la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime - attesa la "ratio" ad essa sottostante, identificabile nella destinazione, impressa all'azione, di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale, unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali - implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti. Da tale principio, non consegue affatto la vincolatività della clausola arbitrale prevista nello statuto, come sostenuto dai ricorrenti, atteso che rispetto all'azione dei creditori sociali, che il Commissario straordinario ha esercitato, non può essere fatta valere la clausola statutaria, per l'evidente rilievo che i creditori sono terzi rispetto alla società”.

E ciò sulla scorta del principio di diritto costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, che sottolinea la natura “unitaria ed inscindibile” dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento/liquidazione giudiziale: ex multis, Cass. 10378/2012 secondo cui “Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 cod. civ., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell'ente confluiscono nell'unica azione di responsabilità, esercitabile da parte del curatore ai sensi dell'art. 146 legge fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime - attesa la "ratio" ad essa sottostante, identificabile nella destinazione, impressa all'azione, di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale, unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali - implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti. Ne consegue […]”.

Deve tuttavia ritenersi che, in quelle particolari ipotesi in cui il curatore potrà esercitare solo una delle due azioni (per ragioni, ad esempio, di prescrizione di una di esse), opereranno i criteri di competenza della sola azione concretamente esercitata.



2. Legittimazione.

2.1. Legittimazione attiva.

Nulla quaestio quanto alla legittimazione attiva del curatore del fallimento/liquidazione giudiziale all’esercizio delle azioni di responsabilità – sociale e dei creditori sociali – nei confronti di amministratori, liquidatori, sindaci e direttori generali, sulla scorta del disposto degli artt. 2394 bis c.c., 146 l.f. e 255 c.c.i.i.

Da sottolineare quindi, unicamente, la nuova formulazione – più specifica - dell’art. 255 c.c.i.i., che, a differenza del “vecchio” art. 146 l.f., provvede all’indicazione analitica delle azioni affidate alla curatela – elencate alle lettere da a) a d) dell’articolo in esame - e conclude affidando alla medesima curatela - lettera e) del medesimo articolo - “tutte le altre azioni di responsabilità che gli sono attribuite da singole disposizioni di legge”, adottando una formula che potrebbe costituire un elemento a sostegno della tesi della tassatività delle ipotesi di legittimazione attiva (sostitutiva) del curatore.

Il recente decreto correttivo ha poi aggiunto all’art. 255 c.c.i.i. il comma 1 bis, che estende espressamente la legittimazione del curatore “nelle ipotesi di cui al comma 1 […] anche alle azioni nei confronti degli eventuali coobbligati”.

La norma si presta ad una duplice interpretazione: da un lato, le si potrebbe attribuire valore di implicita conferma della necessità di una espressa previsione di legge per il “trasferimento” al curatore della legittimazione all’esercizio di azioni spettanti, in origine, ad altri soggetti.

Dall’altro, potrebbe costituire espressione di un principio generale, che attribuisce al curatore la legittimazione esclusiva all’esercizio delle azioni “di massa”, ossia quelle azioni dirette alla ricostruzione del patrimonio del debitore fallito/liquidato, in funzione di garanzia generica dei creditori (sull’argomento, si vedano, fra le altre, le note ordinanze della Corte di cassazione nn. 18610/2021 e 24725/2021, in tema di concessione abusiva di credito).

Da rimarcare la nuova norma in tema di concordato preventivo per cessione dei beni di cui all’art. 115 c.c.i.i., che reca la disciplina delle “azioni del liquidatore giudiziale in caso di cessione dei beni”.

L’articolo prevede, al primo comma, la legittimazione attiva del liquidatore giudiziale con riferimento ad “ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore e ogni azione diretta al recupero dei crediti”.

In coerenza con tale disposizione, il secondo comma dell’articolo in esame affida poi al liquidatore giudiziale l’esercizio (o la prosecuzione) dell’azione sociale di responsabilità, sancendo inoltre l’inopponibilità al liquidatore di “ogni patto contrario o ogni diversa previsione contenuti nella proposta o nel piano”.

La legittimazione del liquidatore giudiziale è, di contro, esclusa con riferimento all’azione dei creditori sociali (il terzo comma dell’art. 115 c.c.i.i. contempla la sola azione di cui all’art. 2394 c.c., ma deve ritenersi che il mancato richiamo all’analoga azione disciplinata, quanto alle s.r.l., dall’art. 2476, 6° comma, c.c. sia frutto di una mera svista del legislatore), azione che è attribuita, espressamente, ai creditori sociali.

Soluzione che desta qualche perplessità, prevedendo, implicitamente, la possibile proposizione contemporanea dell’azione sociale di responsabilità, esercitata dal liquidatore giudiziale, e dei creditori sociali, esercitata da uno - o più - creditori.

Merita infine un breve cenno la peculiare soluzione adottata dal c.c.i.i. quanto alla legittimazione all’esercizio delle azioni contemplate dall’art. 2497 c.c.

I primi tre commi dell’art. 2497 c.c. disciplinano, come noto, la responsabilità, nei confronti dei soci e dei creditori, delle società e degli enti che esercitino attività di direzione e coordinamento, nonché di chi abbia preso parte al fatto lesivo o ne abbia consapevolmente tratto beneficio, accordando l’azione risarcitoria al socio o al creditore che non siano stati soddisfatti dalla società soggetta alla attività di direzione e coordinamento.

Il quarto comma dell’articolo prevede poi che, in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria, l’azione (già) spettante ai creditori sia affidata al curatore/commissario.

Soluzione che trova conferma nella previsione dell’art. 255, 1° comma, lettera d), c.c.i.i., che espressamente affida al curatore la sola azione prevista dall’art. 2497, 4° comma, c.c.

Diversa la soluzione adottata dall’art. 291 c.c.i.i. per l’ipotesi di azioni di responsabilità (e denuncia di gravi irregolarità di gestione) nei confronti di imprese del gruppo, ove, in caso di apertura di una procedura unitaria o di apertura di una pluralità di procedure, è affidato al curatore (o al commissario) l’esercizio delle “azioni di responsabilità previste dall’articolo 2497 del codice civile”, adottando quindi una formula più ampia, che sembra comprendere le azioni sia dei soci, sia dei creditori.

2.2. Legittimazione passiva.

L’orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di legittimità afferma la natura solidale della responsabilità dei soggetti che, a vario titolo, sono convenuti nelle azioni di responsabilità.

Ne deriva l’insussistenza, di norma, di situazioni di litisconsorzio necessario, potendo quindi il curatore esercitare la propria azione nei confronti solo di alcuni dei soggetti ritenuti responsabili (di norma i più solvibili).

Principio ribadito, fra le altre, di recente, da Cass. 25593/2023, secondo cui “La proposizione dell'azione di responsabilità nei confronti di una pluralità di amministratori di società dà luogo ad una fattispecie di litisconsorzio facoltativo e non già necessario, cui consegue comunque l'applicabilità dell'art. 1310 c.c., sicché l'atto interruttivo della prescrizione contro uno di essi ha effetto anche nei confronti degli altri”.

Conforme, con particolare riferimento alla responsabilità dei sindaci, Cass. 25178/2015, che afferma che “La responsabilità dei sindaci di una società, prevista dall'art. 2407, comma 2, c.c., per omessa vigilanza sull'operato degli amministratori, ha carattere solidale tanto nei rapporti con questi ultimi, quanto in quelli fra i primi, sicché l'azione rivolta a farla valere non va proposta necessariamente contro tutti i sindaci e gli amministratori, ma può essere intrapresa contro uno solo od alcuni di essi, senza che insorga l'esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell'autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido”.

Tale principio trova poi applicazione anche in ipotesi di responsabilità di terzi eventualmente concorrenti nell’illecito, quale quella della banca per concessione abusiva di credito, come precisato dalle citate ordinanze della Corte nn. 18610/2021 e 24725/2021, concordi nel ritenere che “La responsabilità della banca, in caso di abusiva concessione del credito all'impresa in stato di difficoltà economico-finanziaria, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all'art. 146 l.fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell'art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l'esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo”.

Sugli effetti della transazione stipulata dal curatore con alcuni dei coobbligati responsabili, vedi infra, sub 7.4.



3. Natura dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore.

L’insegnamento tradizionale della Corte di cassazione afferma, come accennato, la natura unitaria e inscindibile dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento, che coniuga le diverse azioni, sociale e dei creditori sociali, come precisato, fra le altre, da Cass. 24715/2015: “L’azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, tant'è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell'azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale. Tali azioni, peraltro, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell'onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione”; conforme Cass. 10378/2012: “Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 cod. civ., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento dell'ente confluiscono nell'unica azione di responsabilità, esercitabile da parte del curatore ai sensi dell'art. 146 legge fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime - attesa la "ratio" ad essa sottostante, identificabile nella destinazione, impressa all'azione, di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale, unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali - implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti. Ne consegue che i fatti addotti a fondamento della domanda identificano l'azione in concreto esercitata dal curatore, ed, in particolare, la disciplina in materia di prova e di prescrizione, quest'ultima in ogni caso quinquennale, ma, se fondata sulle circostanze idonee ad attivare l'azione sociale, con decorrenza non dal momento in cui l'insufficienza patrimoniale si è manifestata come rilevante per l'azione esperibile dai creditori, bensì dalla data del fatto dannoso e con applicazione della sospensione prevista dall'art. 2941, n. 7, cod. civ., in ragione del rapporto fiduciario intercorrente tra l'ente ed il suo organo gestorio. (Fattispecie anteriore all'entrata in vigore dei d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, e 9 gennaio 2006, n. 5)”.

Le due azioni restano tuttavia, sul piano sostanziale, nettamente distinte, con rilevanti conseguenze in tema di natura della responsabilità (e conseguente diversa distribuzione degli oneri di allegazione e prova), disciplina della prescrizione, criteri di liquidazionedel danno risarcibile, ecc. …, come si vedrà in seguito.

La natura unitaria e inscindibile dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore potrebbe essere ora messa in dubbio, come accennato sub 2.1., alla luce del disposto dell’art. 255 c.c.i.i., che attribuisce alla legittimazione esclusiva del curatore le azioni di responsabilità, sociale e dei creditori sociali, individuate separatamente, alle lettere a) e b) dell’articolo.



4. Prescrizione.

La disciplina della prescrizione si atteggia diversamente a seconda che si tratti di azione di responsabilità sociale o dei creditori sociali.

In particolare, quanto all’azione sociale, l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità afferma che “L’azione sociale di responsabilità, pur quando sia esercitata dal curatore del fallimento, si prescrive nel termine di cinque anni, con decorrenza dal momento in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all'esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società; termine il cui decorso rimane, peraltro, sospeso, a norma dell'art. 2941, n. 7, c.c., fino alla cessazione dell'amministratore dalla carica” (Cass. 24715/2015 citata).

Il termine di prescrizione dell’azione sociale decorre pertanto dal momento “in cui il danno diventa oggettivamente percepibile all'esterno, manifestandosi nella sfera patrimoniale della società”, senza che assuma rilevanza l’insufficienza del patrimonio sociale; con specifico riferimento alla responsabilità degli amministratori (e non dei sindaci), opera poi, come ricordato dalla sentenza citata, la causa di sospensione della prescrizione di cui all’art. 2941, n. 7, c.c.

Diverso è il caso dell’azione dei creditori sociali, il cui esercizio presuppone, come noto, l’insufficienza del patrimonio sociale.

Con riferimento a tale ultimo elemento, è principio consolidato che “L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., pur quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell'art. 146 l.fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell'oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall'effettiva conoscenza di tale situazione), che, a sua volta, dipendendo dall'insufficienza della garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.), non corrisponde allo stato d'insolvenza di cui all'art. 5 della l.fall., derivante, "in primis", dall'impossibilità di ottenere ulteriore credito. In ragione della onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione "iuris tantum" di coincidenza tra il "dies a quo" di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull'amministratore la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto congruamente motivata la sentenza con cui il giudice di merito ha escluso che la prescrizione potesse decorrere dalla pubblicazione, in epoca anteriore al fallimento, di un bilancio di esercizio sul rilievo che l'incapienza patrimoniale non era oggettivamente percepibile in quanto verosimilmente occultata)” (così, Cass. 24715/2015 citata; conforme, anche di recente, Cass. 3552/2023, secondo cui “L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c., esercitata dal curatore fallimentare a norma dell'art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell'oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell'insufficienza dell'attivo a soddisfare i debiti; pertanto, in ragione dell'onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione "iuris tantum" di coincidenza tra il "dies a quo" di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull'amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti di cui all'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.”.

Dal diverso regime di prescrizione deriva che in talune ipotesi potrà risultare prescritta una delle due azioni astrattamente spettanti al curatore, che potrà quindi esercitare - con possibilità di successo - la sola azione non prescritta.



5. La natura delle azioni - sociale e dei creditori sociali - di responsabilità.

L’opinione del tutto consolidata di dottrina e giurisprudenza afferma la natura contrattuale dell’azione sociale di responsabilità (che trova il suo fondamento nel rapporto, per l’appunto contrattuale, che lega la società al proprio amministratore o sindaco).

Si riconosce, di contro, natura pacificamente extracontrattuale all’azione dei creditori sociali, terzi rispetto al rapporto contrattuale che lega la società ai suoi organi.

Tali principi sono ribaditi di recente dalla già citata Cass. 24715/2015, secondo cui “L’azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall'art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, tant'è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell'azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale. Tali azioni, peraltro, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell'onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione”.

5.1. Conseguenze in tema di distribuzione degli oneri di allegazione e prova.

La natura contrattuale dell’azione sociale di responsabilità è ribadita, fra le altre, da Cass. 17441/2016, secondo cui “La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale sicché la società (o il curatore nel caso in cui l’azione sia promossa ex art. 146 l. fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dal nuovo testo dell’art. 2392 c.c., modificato a seguito della riforma del 2003, con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cd. operativi) – ferma l’applicazione della “business judgement rule”, secondo cui le loro scelte sono insindacabili, a meno che, se valutate “ex ante”, risultino manifestamente avventate ed imprudenti – rispondono non già con la diligenza del mandatario, come nel caso del vecchio testo dell’art. 2392 c.c., ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, comma 2, c.c.”.

Il principio affermato dalla sentenza in esame costituisce puntuale applicazione del pacifico orientamento giurisprudenziale che, anche al di fuori della materia della responsabilità degli organi sociali, ribadisce che “In tema di prova dell'inadempimento di un'obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della dimostrazione del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, o dall'eccezione d'inadempimento del creditore ex art. 1460 c.c. […]” (Cass. 25584/2018, da cui è tratta la massima).

Ulteriori pronunce della Corte di cassazione richiedono poi la necessaria specificità delle allegazioni dell’attore che eserciti un’azione (di adempimento, risoluzione o risarcimento dei danni) fondata sul (lamentato) inadempimento contrattuale della controparte.

Fra le altre, Cass. 6618/2018, secondo cui “Chi agisce in giudizio, non può proporre la sua domanda in modo generico, ma deve consentire che il suo contenuto sia compiutamente identificato e percepito, affinché possa essere oggetto di accertamento, sia in fatto, che in diritto. Ne deriva che, ove l'azione esercitata concerna l'inadempimento contrattuale, l'attore è onerato di allegare non solo l'inadempimento in quanto tale, ma anche le specifiche circostanze che lo integrano, in caso contrario incorrendo nella violazione dell'onere di allegazione”; nello stesso senso, la recente Cass. 10141/2021, secondo cui “Nel caso di proposizione di una domanda di risoluzione del contratto per inadempimento contrattuale, l'attore ha l'onere di indicare le specifiche circostanze materiali lesive del proprio diritto e di allegare le specifiche circostanze integranti l'inadempimento, in quanto l'allegazione costituisce l'imprescindibile presupposto che circoscrive i fatti cui si correla il diritto di difesa, a presidio del contraddittorio; la deduzione, nel corso del giudizio, di un fatto diverso da quello originario non costituisce una mera "emendatio libelli", ma configura un mutamento della "causa petendi", indipendentemente dal fatto che il comportamento successivamente dedotto costituisca, a sua volta, violazione degli obblighi contrattuali […]”.

Diverso il caso dell’azione dei creditori sociali, ove la natura (ormai pacificamente) extracontrattuale dell’azione fa sì che gravino, in sostanza, sul solo curatore tutti gli oneri di allegazione e prova sopra menzionati.



6. Gli elementi dell’azione.

6.1. Premessa.

L’azione di responsabilità è un’azione di risarcimento del danno e, come tutte le azioni risarcitorie, si compone di tre elementi: i) condotta illecita; ii) danno; iii) nesso di causalità fra condotta e danno.

L’azione di responsabilità potrà quindi essere esercitata vittoriosamente solo laddove sussistano tutti e tre gli elementi citati e perciò in presenza di una condotta contra legem, idonea a cagionare un danno che ne costituisca conseguenza immediata e diretta.

6.2. La condotta.

È necessaria, in primo luogo, una condotta, come accennato, contra legem; condotta che, a seconda del tipo di azione esercitata - azione sociale o dei creditori sociali - deve integrare, nel primo caso, un inadempimento contrattuale e, nel secondo, un illecito extracontrattuale.

La condotta censurata deve essere individuata, come ricordato, in modo sufficientemente specifico.

L’insegnamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità rammenta infatti che “Per l'esercizio dell'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore di una società di capitali non è sufficiente invocare genericamente il compimento di atti di "mala gestio" e riservare una più specifica descrizione di tali comportamenti nel corso del giudizio, atteso che per consentire alla controparte l'approntamento di adeguata difesa, nel rispetto del principio processuale del contraddittorio, la "causa petendi" deve sin dall'inizio sostanziarsi nell'indicazione dei comportamenti asseritamente contrari ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto sociale. Ciò vale tanto che venga esercitata un'azione sociale di responsabilità quanto un'azione dei creditori sociali, perché anche la mancata conservazione del patrimonio sociale può generare responsabilità non già in conseguenza dell'alea insita nell'attività di impresa, ma in relazione alla violazione di doveri legali o statutari che devono essere identificati nella domanda nei loro estremi fattuali” (Cass. 23180/2006).

Costituiscono puntuale applicazione di tale principio le pronunce già richiamate sub 5.1. in tema di necessaria specificità delle censure sollevate nei confronti degli organi sociali.

6.2.1. L’azione sociale di responsabilità.

L’azione sociale di responsabilità ha, come più volte ricordato, natura contrattuale; quanto all’elemento della condotta, incombe pertanto all’attore che invochi il risarcimento del danno la mera allegazione, necessariamente specifica, dell’inadempimento fonte di responsabilità e, a fronte di tale allegazione specifica, incombe sul convenuto (preteso responsabile) l’onere di provare di avere adempiuto in modo esatto.

Numerose pronunce della Corte di cassazione fanno puntuale applicazione di tale principio con riferimento a peculiari ipotesi di responsabilità degli amministratori, fra le quali meritano particolare menzione quelle relative a: i) l’uso improprio delle risorse finanziarie della società; ii) la violazione degli obblighi stabiliti dall’art. 2486 c.c.

Quanto alle prime, si può richiamare la recente ordinanza n. 25631/2023, che afferma che “La responsabilità degli amministratori sociali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società stessa (o il curatore, nel caso in cui l'azione sia proposta ex art. 146 L. Fall.) è tenuta ad allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri, come pure a provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l'osservanza dei predetti doveri. In conseguenza, a fronte di disponibilità patrimoniali pacificamente fuoriuscite senza apparente giustificazione dall'attivo della società, questa, nell'agire per il risarcimento del danno nei confronti dell'amministratore, può limitarsi ad allegare l'inadempimento, consistente nella distrazione o dispersione delle dette risorse, mentre compete allo stesso amministratore la prova del suo adempimento, consistente nella destinazione delle attività patrimoniali in questione all'estinzione di debiti sociali o il loro impiego per lo svolgimento dell'attività sociale, in conformità della disciplina normativa e statutaria”, conforme alla precedente ordinanza n. 12567/2021, secondo cui “a fronte di somme fuoriuscite dall'attivo della società, quest'ultima, nell'agire per il risarcimento del danno, può limitarsi ad allegare l'inadempimento consistente nella distrazione di dette risorse, mentre compete all'amministratore la prova del corretto adempimento e dunque della destinazione del patrimonio all'estinzione di debiti sociali oppure allo svolgimento dell'attività sociale”.

Quanto poi alla violazione degli obblighi stabiliti dall’art. 2486 c.c., merita di essere richiamata la recente sentenza n. 198/2022, secondo cui “colui che agisce in giudizio con azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ai sensi dell'art. 2486 c.c., ha l'onere di allegare e provare l'esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d'impresa e non abbiano una finalità liquidatoria; spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d'impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari” (conforme la recente Cass. 8069/2024).

6.2.2. L’azione di responsabilità dei creditori sociali.

Tale azione ha, di contro, natura extracontrattuale; incombe pertanto sul creditore che intenda ottenere il risarcimento del danno l’onere non solo di allegare ma, altresì, di provare la sussistenza di una condotta contra legem idonea a cagionare un danno alla società.

Ne deriva, quanto all’elemento della condotta, un onere probatorio decisamente più consistente gravante sulla curatela.

6.3. Censure all’attività gestoria e business judgement rule.

È frequente, nelle difese dei convenuti in azioni di responsabilità, il richiamo al principio di insindacabilità per ragioni di merito (di mera convenienza, opportunità, remuneratività, ecc. …) delle scelte gestorie (c.d. business judgement rule).

In termini generali, l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità ribadisce la piena operatività della regola, evidenziando che la responsabilità dell’amministratore può essere affermata solo quando, in sostanza, il cattivo esito dell’affare sia conseguenza di scelte effettuate in violazione della regola del c.d. “agire informato” o caratterizzate da intrinseca irragionevolezza (fra le altre, Cass. 15470/2017: “In tema di responsabilità dell'amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l'insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (cd. "business judgement rule") trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia "ex ante", secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c., - nel testo, applicabile "ratione temporis", anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 6 del 2003 - sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto l’amministratore di una società per azioni responsabile per la conclusione di taluni contratti, in cui quest’ultima aveva corrisposto integralmente alle controparti i compensi pattuiti nonostante la mancata esecuzione delle prestazioni)”, conforme a Cass. 12108/2020, che si pone nel solco di Cass. 3409/2013, secondo cui “All'amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di sua revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, e quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità”).

Nello stesso senso anche la recente Cass. 10742/2024, secondo cui “In tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l'insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse, da valutarsi ex ante secondo i parametri della diligenza del mandatario, tenendo conto dell'eventuale mancata adozione da parte degli amministratori delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per quel tipo di scelta e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, di talché, una volta verificatane l'irragionevolezza, gli amministratori rispondono dei danni conseguenti alla cagionata insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare le ragioni del ceto creditorio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, come atto irragionevole e fonte di danno risarcibile, la decisione degli amministratori di ottenere il controllo di altra società, acquisendone un ramo d'azienda gravemente indebitato)”.

Richiamate le (note) regole in tema di distribuzione degli oneri di allegazione e prova già illustrate sub 6.2., nel contesto dell’azione sociale di responsabilità incomberà pertanto: i) sul curatore l’onere di allegare lo specifico profilo di inadempimento oggetto di censura; ii) sull’amministratore convenuto quello di provare di avere adempiuto esattamente e, perciò, di avere agito “in modo informato”, adottando in ogni caso scelte coerenti alle informazioni acquisite.

Incomberà, di contro, sul curatore che eserciti l’azione dei creditori sociali l’onere di allegare e provare le circostanze di fatto idonee ad integrare l’elemento di illegittimità della condotta, per palese contrasto con le regole di avvedutezza e ragionevolezza.

Resta fermo che il mancato successo delle operazioni intraprese dagli amministratori non comporta la necessaria responsabilità degli stessi (e dei sindaci, quanto all’omesso o inadeguato controllo); responsabilità che sussisterà solo quando l’esito negativo di una iniziativa economica sia conseguenza della sua manifesta inavvedutezza o imprudenza.

6.3.1. Business judgement rule e crisi aziendale irreversibile.

Con particolare riferimento all’entrata in vigore del c.c.i.i., si è molto discusso, a partire dal 2019, della applicabilità del principio in esame con riferimento a: i) l’obbligo di istituire adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili; ii) la scelta degli strumenti con cui affrontare eventuali situazioni di crisi.

Quanto al primo profilo, limitando l’indagine al contesto dell’esercizio dell’azione di responsabilità, va ribadito che non ci può essere esercizio vittorioso di un’azione risarcitoria in difetto del requisito del danno: la mera violazione dell’obbligo di istituire assetti adeguati non può quindi costituire, da sola, fonte di responsabilità; responsabilità che potrà essere ravvisata solo quando sarà accertata, da un lato, la violazione dell’obbligo di istituire assetti adeguati e, dall’altro, la sussistenza di un danno causalmente collegato a tale violazione.

Resta poi fermo il tenore elastico della norma di cui all’art. 2086 c.c., che stabilisce, come noto, che gli assetti devono essere adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa, accordando quindi agli amministratori un indubbio margine di discrezionalità.

Quanto alla seconda questione (applicabilità del principio della business judgement rule alla scelta degli strumenti con cui fronteggiare la crisi) la regola deve trovare – a mio avviso - piena applicazione: l’azione di contrasto alla crisi comporta la necessaria adozione di scelte gestorie, insindacabili sotto il profilo della mera convenienza economica.

Ciò non vuol dire, come ovvio, che in presenza di crisi aziendale irreversibile non sia configurabile la responsabilità degli amministratori e dei sindaci della società, ma piuttosto che tale responsabilità potrà essere affermata, sulla scorta dei principi sopra richiamati, solo quando il mancato superamento dello stato di crisi (divenuta, come detto, irreversibile) costituisca la conseguenza della violazione di obblighi – specificamente individuati - gravanti sugli amministratori e sindaci della società in crisi.

Situazione questa che ricorrerà di frequente, poiché il verificarsi della crisi aziendale irreversibile risulterà – nella gran parte dei casi - verosimile conseguenza de: i) la mancata intercettazione tempestiva dei segnali di crisi; ii) l’inadeguata o intempestiva reazione alla situazione di crisi.

Riepilogando:

a) “la mancata conservazione del patrimonio sociale” può costituirenaturale conseguenza della “alea insita nell’attività di impresa” e non comporta quindi la necessaria responsabilità degli amministratori (e sindaci) della società;

b) considerazioni di tenore analogo valgono quanto al mancato superamento di situazioni di crisi, che non costituisce quindi - da solo - elemento sufficiente ad affermare la (inevitabile) responsabilità degli amministratori dei sindaci;

c) in ogni caso, incombe sull’attore (e quindi sul curatore) che invochi la responsabilità degli organi di amministrazione e controllo della società poi assoggettata al fallimento/liquidazione giudiziale l’onere – quantomeno - di allegare gli specifici profili di illiceità della condotta/inadempimento contestati.

Onere quest’ultimo che non potrà ritenersi assolto, allegando, unicamente, la circostanza degli esiti negativi dell’attività gestoria.

6.3.2. La perdita del capitale sociale e l’illegittima prosecuzione dell’attività di impresa.

In tema di azioni di responsabilità proposte dal curatore del fallimento/liquidazione giudiziale, ancora oggi l’ipotesi più frequente di condotta oggetto di censura è, indubbiamente, quella relativa alla mancata tempestiva rilevazione della perdita del capitale sociale, mancata adozione dei rimedi di legge e prosecuzione indebita dell’attività di impresa (caratterizzata da risultati economici negativi) con conseguente aggravio del deficit.

La maggior parte delle azioni di responsabilità promosse dal curatore del fallimento/liquidazione giudiziale ruota infatti attorno a tale contestazione fondamentale, aggiungendosi ad essa, solo eventualmente, ulteriori contestazioni relative a specifici atti di mala gestio.

L’intervenuta perdita del capitale sociale a volte è palese (rivelata dallo stesso bilancio predisposto dagli amministratori e approvato dalla assemblea); più spesso è occultata e le curatele muovono quindi specifiche censure ai bilanci della società poi fallita/liquidata, proponendo la riclassificazione di alcune voci di essi, onde evidenziare l’effettivo risultato economico – negativo - conseguito dalla società nei vari esercizi, con le conseguenti ricadute anche sul piano patrimoniale.

I contributi di dottrina e giurisprudenza su tale argomento sono davvero numerosi e sicuramente noti; ci si può perciò limitare a segnalare alcune questioni di particolare interesse.

In punto di condotta richiesta agli amministratori e sindaci, è sufficiente il richiamo alle regole dettate dagli artt. 2447 c.c. (per le s.p.a.) e 2482 ter c.c. (per le s.r.l.), che stabiliscono chiaramente gli obblighi gravanti su tali soggetti.

Ricorrendo i presupposti contemplati dalle norme citate, gli amministratori devono, come noto, convocare l’assemblea della società “senza indugio” affinché questa deliberi la “ricapitalizzazione” della società o la sua trasformazione, verificandosi, in caso contrario, la causa di scioglimento della società di cui all’art. 2484, 1° comma, n. 4, c.c.

Importante sottolineare che, in caso di omissione degli amministratori, grava sui sindaci, a norma dell’art. 2406 c.c., l’obbligo di convocare l’assemblea prescritta dalla legge (è questa un’ipotesi di c.d. controllo sostitutivo dei sindaci).

Laddove poi l’assemblea non adotti alcuno dei rimedi contemplati dagli artt. 2447 c.c. e 2482 ter c.c., e gli amministratori omettano di iscrivere al registro delle imprese la dichiarazione di accertamento della causa di scioglimento, i sindaci, fra gli altri, dovranno richiedere l’iscrizione in esame al tribunale ai sensi dell’art. 2485, 2° comma, c.c.

Verificata la causa di scioglimento, gli obblighi a carico degli amministratori sono – essenzialmente - quelli dettati dagli artt. 2485 c.c. e, soprattutto, 2486 c.c.

Venuto meno l’antico divieto di compiere nuove operazioni sancito dall’art. 2449 c.c. vecchio testo (anteriore alla riforma del 2003), gli amministratori conservano ora “il potere di gestire la società” (l’impresa?) “ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”.

Gli amministratori potranno quindi compiere anche nuove operazioni, ed – eventualmente -proseguire in una attività anche caratterizzata da risultati negativi, quando tali operazioni siano comunque utili a salvaguardare l’integrità e il valore del patrimonio sociale.

È da ritenere poi che l’operato degli amministratori (e dei sindaci investiti del relativo controllo) in tale fase assai delicata della vita della società dovrà essere valutato alla stregua del canone – già ricordato - della business judgement rule; agli amministratori non potrà quindi essere contestato il mero esito negativo delle iniziative adottate e la loro condotta risulterà censurabile solo qualora risulti in contrasto con norme di legge o di statuto, ovvero con le già ricordate regole dell’agire informato o caratterizzata da manifesta imprudenza o irragionevolezza.

Da ricordare, in ogni caso, come l’obbligo di tempestiva adozione dei rimedi di cui agli artt. 2447 c.c. e 2482 ter c.c. risulti in talune ipotesi sospeso, come previsto da alcune norme del c.c.i.i. (fra gli altri, artt. 20 e 89).

La necessità di intervento tempestivo dell’organo amministrativo (o, in sua vece, dei sindaci) caratterizza poi anche quelle ulteriori situazioni di crisi alle quali non si accompagni la perdita del capitale sociale.

Gli amministratori dovranno, anche in questo caso, intervenire “senza indugio” e, verificata – eventualmente - la sussistenza di una situazione di crisi aziendale irreversibile, dovranno accedere ad uno degli strumenti di regolazione della crisi di natura “preventiva” - qualora praticabili -, dovendo, in caso negativo, richiedere la liquidazione giudiziale della società (ricorrendone i presupposti).

Sono sempre più numerose le azioni di responsabilità intentate nei confronti di amministratori e sindaci di società di capitali, in cui si contesta a tali soggetti d’aver reagito in modo inappropriato alla situazione di crisi che ha investito la società, contestandosi, in particolare, di aver bruciato inutilmente risorse della società per accedere – senza successo - a strumenti di regolazione della crisi.

Opera tuttavia anche in questo caso, come accennato, la regola della business judgement rule; l’operato degli amministratori andrà difatti valutato in una necessaria prospettiva ex ante e potrà essere oggetto di censura solo quando risulterà, in tale prospettiva, manifestamente inavveduto o irragionevole e senza che, in ogni caso, possa risultare di per sé decisivo l’insuccesso dell’azione intrapresa dagli amministratori.



7. Il danno.

7.1.1 Breva premessa.

Il tema del danno non è, per molto tempo, centrale nella riflessione – dottrinaria e giurisprudenziale – nell’ambito del nostro diritto civile, verosimilmente anche perché la nozione di danno risarcibile è elaborata, in origine, in termini assai restrittivi.

Esemplare, fra gli altri, è la evoluzione della nozione di danno ingiusto, risarcibile ex art. 2043 c.c.

Sino alla fine degli anni sessanta, difatti, la nozione di danno ingiusto, risarcibile ex art. 2043 c.c., coincideva, in sostanza, con la lesione di un diritto assoluto e solo in casi particolari con la lesione di un diritto di credito, che doveva avere ad oggetto, in sostanza, un fare infungibile.

Lo scenario è poi cambiato negli anni successivi ed è oggi pacifico che possa integrare “danno ingiusto” anche la lesione di un mero diritto di credito avente ad oggetto un bene fungibile (su tutti il denaro).

Sono numerose le applicazioni di tale, più ampia, nozione di danno risarcibile proprio nell’ambito del diritto societario, ove la lesione del mero credito pecuniario costituisce, in sostanza, il presupposto quasi naturale dell’azione di responsabilità dei creditori sociali disciplinata dagli artt. 2394 e 2476, 6° comma, c.c. e di una buona parte delle azioni di c.d. danno diretto (artt. 2395 e 2476, 7° comma, c.c.), esercitate nei confronti degli organi di gestione e controllo delle società di capitali.

L’importante ampliamento dell’area dei danni risarcibili ha sollecitato, come ovvio, una maggiore attenzione al tema del danno, con importanti riflessi anche in tema di azioni di responsabilità.

Oggi, sembra quasi superfluo sottolinearlo, sembrano passati secoli da quando si riteneva che il danno coincidesse, di norma, con il c.d. sbilancio fallimentare in quelle azioni di responsabilità promosse da curatele di fallimenti privi di contabilità dell’impresa e perciò impossibilitate a ricostruire l’andamento degli affari nel periodo di crisi dell’impresa poi sfociata in vera e propria insolvenza.

7.2. Il danno come elemento imprescindibile nelle azioni risarcitorie.

Come già ricordato sub 6.1., l’azione di responsabilità è un’azione di risarcimento del danno e, al pari di tutte le altre azioni risarcitorie, si compone di tre elementi: i) condotta illecita; ii) danno; iii) nesso di causalità fra condotta e danno.

L’azione di responsabilità potrà quindi essere esercitata vittoriosamente solo laddove sussistano tutti i tre elementi e perciò in presenza di una condotta contra legem, idonea a cagionare un danno che ne costituisca conseguenza immediata e diretta.

Il danno consiste, in definitiva, nel depauperamento del patrimonio della società, quale conseguenza della dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale o della assunzione ingiustificata di nuovi debiti, come ben evidenziato, anche di recente, da Cass. 21730/2020, secondo cui: “In tema di azione di responsabilità promossa dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., il danno può essere quantificato avendo riguardo all'accertata colpevole dispersione di elementi dell'attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che al colpevole protrarsi di un'attività produttiva implicante l'assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l'importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia ridotto ad una minor somma (nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere)”.

Nulla quaestio, quindi, quando la tenuta sostanzialmente corretta delle scritture contabili consenta la puntuale ricostruzione delle conseguenze economiche dell’operato degli amministratori, potendo il curatore quantificare adeguatamente il danno conseguente alla(e) condotta(e) censurata(e); l’indagine diviene, di contro, più complessa quando la mancata o irregolare tenuta delle scritture non consenta la puntuale ricostruzione dell’andamento degli affari dell’impresa poi fallita/liquidata.

Sulla questione, oggetto di vivace dibattito - anche dottrinario - per molti anni, è intervenuta la nota pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 9100/2015, che, in coerenza ai principi generali operanti in tema di oneri di allegazione e prova in ordine agli elementi del danno e, soprattutto, del nesso causale, ha affermato che “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, secondo comma, legge fall., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo”.

Numerose sentenze della corte di legittimità successive si uniformano al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

Fra le più recenti merita di essere segnalata, in primo luogo, Cass. 198/2022 citata, che afferma, in termini generali, che “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, l. fall., ove la mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili renda difficile per la curatela una quantificazione ed una prova precisa del danno che sia riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all'amministratore della società fallita, non trova applicazione il principio dell'inversione dell'onere della prova, ma il curatore può invocare a proprio vantaggio la disposizione dell'art. 1226 c.c. e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa”.

Nello stesso senso, più specificamente, Cass. 13220/2021 osserva che “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, l. fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo.(Nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la decisione impugnata che aveva liquidato in via equitativa il danno ascritto all'organo di amministrazione di una società di capitali, poi fallita, pur in presenza di specifici inadempimenti che, ove provati e causalmente collegabili al pregiudizio indotto dalla "mala gestio", avrebbero consentito l'esatta quantificazione del danno patito dalla società, senza necessità di ricorrere alla liquidazione equitativa)”.

Conforme la precedente Cass. 2500/2018, secondo cui “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, l. fall., il giudice può ricorrere alla liquidazione equitativa del danno, nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, qualora il ricorso a tale parametro si palesi, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile, in quanto l'attore abbia allegato inadempimenti dell'amministratore – nella specie consistiti nella cessione a sé stesso, a prezzo vile, di rami d'azienda e nella pluriennale mancata tenuta delle scritture contabili – astrattamente idonei a porsi quali cause del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo”.

In termini generali, numerose pronunce della Corte di cassazione hanno chiarito quali siano i presupposti per poter provvedere alla liquidazione del danno mediante ricorso al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c.

Fra le altre, si può ricordare Cass. 20889/2016, secondo cui “l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare, ciò che non esime, però, la parte interessata - per consentire al giudice il concreto esercizio di tale potere, la cui sola funzione è di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso - dall'onere di dimostrare non solo l'"an debeatur" del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi "in re ipsa", ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui, nonostante la riconosciuta difficoltà, possa ragionevolmente disporre. (Così statuendo, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, reiettiva della domanda risarcitoria per difetto di prova del "quantum", non avendo il danneggiato prodotto in giudizio la documentazione fiscale e contabile, successiva all'evento dannoso, che attestasse la lamentata riduzione dei ricavi conseguenza dello stesso)”.

Conforme la recente Cass. 9744/2023, secondo cui “La liquidazione in via equitativa del danno postula, in primo luogo, il concreto accertamento dell'ontologica esistenza di un pregiudizio risarcibile, il cui onere probatorio ricade sul danneggiato e non può essere assolto dimostrando semplicemente che l'illecito ha soppresso una cosa determinata, se non si provi, altresì, che essa fosse suscettibile di sfruttamento economico, e, in secondo luogo, il preventivo accertamento che l'impossibilità o l'estrema difficoltà di una stima esatta del danno stesso dipenda da fattori oggettivi e non dalla negligenza della parte danneggiata nell'allegarne e dimostrarne gli elementi dai quali desumerne l'entità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la liquidazione in via equitativa del danno patito dal conduttore di un locale cantinato, ove erano allocati articoli da regalo deteriorati in conseguenza di un allagamento ascrivibile al condominio, in assenza di prova di tale pregiudizio)”.

Ne deriva che, in tema di azioni di responsabilità, il ricorso al criterio equitativo di liquidazione del danno ex art. 1226 c.c. e la liquidazione del danno in misura pari al c.d. sbilancio fallimentare potranno ritenersi consentiti solo quando, provata la sussistenza di un danno, il curatore abbia anche: i) allegato “un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato”; ii) indicato “le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo”.

Oneri entrambi che si potranno ritenere sicuramente assolti nell’ipotesi in cui, da un lato, risulti perso il capitale sociale e, ciò nonostante, proseguita indebitamente un’attività di impresa caratterizzata da risultati economici negativi; dall’altro, la mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili non consenta la ricostruzione puntuale dell’effettivo aggravio del deficit.

7.3. Le nuove regole di liquidazione del danno dettate dall’art. 2486, 3° comma, c.c.

In tale contesto, meritano particolare attenzione le nuove regole di liquidazione del danno dettate dall’art. 2486, 3° comma, c.c.

Sul piano processuale, Cass. 5254/2024 ha, di recente, opportunamente precisato che le nuove regole di liquidazione del danno dettate dall’art. 2486, 3° comma, c.c. trovano applicazione anche con riferimento ad azioni risarcitorie fondate su fatti anteriori alla data di entrata in vigore della norma (come noto, marzo 2019).

E ciò perché “in tema di risarcimento del danno da responsabilità promossa dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. nei confronti dell'amministratore, il meccanismo di liquidazione del "differenziale dei netti patrimoniali", di cui all'art. 2486, comma 3, c.c., come modificato dall'art. 378, comma 2, del d.lgs. n. 14 del 2019, c.d. codice dell'impresa (CCII), è applicabile, in quanto latamente processuale, anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore di detta norma, atteso che essa stabilisce non già un nuovo criterio di riparto di oneri probatori, ma un criterio, rivolto al giudice, di valutazione del danno rispetto a fattispecie integrate dall'accertata responsabilità degli amministratori per atti gestori non conservativi dell'integrità e del valore del capitale dopo il verificarsi di una causa di scioglimento della società, salva la deduzione e individuazione di elementi di fatto legittimanti l'uso di un diverso criterio liquidatorio più aderente alla realtà del caso concreto

In tema di distribuzione degli oneri di allegazione e prova in caso di esercizio di azioni di responsabilità per violazione degli obblighi di cui all’art. 2486 c.c., ulteriori recenti pronunce hanno poi, come ricordato, precisato che “colui che agisce in giudizio con azione di risarcimento nei confronti degli amministratori di una società di capitali che abbiano compiuto, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento, attività gestoria non avente finalità meramente conservativa del patrimonio sociale, ai sensi dell'art. 2486 c.c., ha l'onere di allegare e provare l'esistenza dei fatti costitutivi della domanda, cioè la ricorrenza delle condizioni per lo scioglimento della società e il successivo compimento di atti negoziali da parte degli amministratori, ma non è tenuto a dimostrare che tali atti siano anche espressione della normale attività d'impresa e non abbiano una finalità liquidatoria; spetta, infatti, agli amministratori convenuti di dimostrare che tali atti, benché effettuati in epoca successiva allo scioglimento, non comportino un nuovo rischio d'impresa (come tale idoneo a pregiudicare il diritto dei creditori e dei soci) e siano giustificati dalla finalità liquidatoria o necessari” (cfr. Cass. 198/2022 citata, da cui è tratta la massima; conforme Cass. 8069/2024).

Principio quest’ultimo che riterrei pienamente condivisibile, costituendo corretta applicazione dei - ben consolidati - orientamenti giurisprudenziali più volte richiamati.

È bene poi ricordare che si potrà fare ricorso alle nuove regole di liquidazione del danno solo “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo” e non anche quando la condotta oggetto di censura abbia natura del tutto eterogenea.

In caso di mancanza o irregolarità delle scritture contabili della società non si potrà quindi, in caso di censure eterogenee, ricorrere al criterio residuale – sicuramente favorevole alla curatela - dello “sbilancio fallimentare”.

Sul piano pratico, è poi da segnalare che le azioni di responsabilità promosse dalle curatele cumulano, di frequente, censure all’operato degli amministratori di tenore assai vario.

Si è già ricordato (par. 6.3.2.) che nella maggior parte delle azioni di responsabilità proposte dal curatore del fallimento/liquidazione giudiziale, l’ipotesi più frequente di condotta censurata è quella relativa alla mancata tempestiva rilevazione della perdita del capitale sociale, mancata adozione dei rimedi di legge e prosecuzione indebita dell’attività di impresa (caratterizzata da risultati economici negativi) con conseguente aggravio del deficit.

Si aggiungono tuttavia, di frequente, ulteriori censure di tenore più specifico, aventi ad oggetto singole operazioni poste in essere dagli amministratori.

Tali operazioni potranno poi risultare anteriori o successive alla perdita del capitale sociale.

Il danno conseguente alla prosecuzione indebita dell’attività d’impresa in violazione degli obblighi di cui all’art. 2486 c.c. è liquidato, di norma, ai sensi del terzo comma dell’articolo citato e perciò in misura pari all’aggravio del deficit, al netto dei costi normali di liquidazione.

Concorreranno pertanto alla formazione di tale deficit anche quelle specifiche operazioni oggetto di censura che siano temporalmente successive alla perdita del capitale sociale.

Di qui la necessità di “sterilizzare” le conseguenze lesive di tali operazioni successive ai fini della liquidazione del danno, onde evitare una indebita duplicazione in sede di determinazione del quantum risarcibile.

7.3.1. Questioni particolari in tema d’applicazione dell’art. 2486, 3° comma, c.c.

Le regole dettate dall’art. 2486, 3° comma, c.c., come noto, fanno in ogni caso “salva la prova di un diverso ammontare”; va registrata sul punto una sorta di “pigrizia” delle difese di tutte le parti coinvolte (in veste di attore, di convenuto o di terzo chiamato) nelle azioni di responsabilità, che si avvalgono, ad oggi, assai raramente di tale facoltà di superamento della presunzione - solo relativa - stabilita dalla norma.

Un ultimo cenno merita infine la necessità di detrarre, in sede di calcolo dell’aggravio del deficit, “i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al completamento della liquidazione”.

Operazione che, alla stregua del tenore letterale della norma sembra abbia natura officiosa, ma che deve, a mio avviso, restare circoscritta nell’ambito del perimetro dei fatti – quantomeno - ritualmente allegati dalle parti.

La soluzione opposta accorderebbe difatti al giudice (o più spesso al c.t.u.) un’eccessiva libertà nel ricostruire lo scenario alternativo della liquidazione “virtuosa”, senza tener conto del necessario limite rappresentato dal perimetro dei fatti ritualmente acquisiti al processo.

7.4. La transazione conclusa con uno, o più, coobbligati.

Gli effetti della transazione conclusa dalla curatela con uno o più coobbligati meritano un breve cenno.

Le azioni di responsabilità promosse dalle curatele sono rivolte – nella maggior parte dei casi – nei confronti di più soggetti ed è frequente che alcuni di essi definiscano transattivamente le proprie posizioni.

Tali transazioni non hanno poi ad oggetto - di norma - l’intero debito, ma, unicamente, la posizione del singolo coobbligato, e non possono essere perciò invocate dagli altri coobbligati quale fatto (integralmente) estintivo ai sensi dell’art. 1304, 1° comma, c.c.

Il contenuto economico di tali transazioni è poi fortemente influenzato dalla consistenza patrimoniale del singolo coobbligato, che spesso definisce la propria posizione offrendo una somma assai modesta, commisurata alla scarsa capienza del suo patrimonio.

Numerose pronunce della Corte di cassazione hanno chiarito la portata della transazione con la quale il singolo coobbligato definisce la propria quota di debito, affermando che “L'art. 1304, comma 1, c.c., si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata, poiché è la comunanza dell'oggetto della transazione che comporta, in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetti solo tra le parti, la possibilità per il condebitore solidale di avvalersene pur non avendo partecipato alla sua stipulazione. Se, invece, la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali ha avuto ad oggetto la sola quota del condebitore che l'ha stipulata, occorre distinguere: nel caso in cui il condebitore che ha transatto ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all'importo pagato; nel caso in cui, invece, il pagamento è stato inferiore, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto.” (fra le altre, Cass. 23418/2016, da cui è tratta la massima; conformi Cass. 13877/2020 e 20107/2015).

Nello stesso senso, Cass. 16050/2009, che, ribadita la natura solidale della responsabilità degli organi di società di capitali, afferma che “La responsabilità degli amministratori e dei sindaci di società ha natura solidale, ai sensi dell'art. 1292 cod. civ., e tale vincolo sussiste - tanto quando la responsabilità sia contrattuale, quanto ove essa sia extracontrattuale - anche se l'evento dannoso sia collegato da nesso eziologico a più condotte distinte, ciascuna delle quali abbia concorso a determinarlo, restando irrilevante, nel rapporto col danneggiato, la diversa valenza causale. Pertanto, in caso di transazione fra uno dei coobbligati ed il danneggiato, l'art. 1304, primo comma, cod. civ. si applica soltanto se la transazione abbia riguardato l'intero debito solidale, mentre, laddove l'oggetto del negozio transattivo sia limitato alla sola quota del debitore solidale stipulante, la norma resta inapplicabile, così che, per effetto della transazione, il debito solidale viene ridotto dell'importo corrispondente alla quota transatta, producendosi lo scioglimento del vincolo solidale tra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali, di conseguenza, rimangono obbligati nei limiti della loro quota”.

La soluzione giurisprudenziale in esame, che si ispira ai principi enunciati da Cass. SS.UU. 30174/2011, desta, già sul piano teorico, alcune perplessità.

La soluzione comporta poi conseguenze assai rilevanti sul piano pratico, costituendo un serio ostacolo alla stipula di transazioni (di contenuto economico modesto) con quei soggetti che, da un lato, risultino i principali responsabili del dissesto e, dall’altro, rivelino capacità patrimoniale assai limitata.

A fronte della stipula della transazione, gli altri coobbligati potranno infatti opporre alla curatela, non solo l’esiguo pagamento da questa ricevuto in forza della transazione, ma l’intera quota di responsabilità astrattamente imputabile al singolo responsabile che ha definito transattivamente la propria posizione, da portare in detrazione ai fini del calcolo del residuo debito degli altri coobbligati.

Ne deriva, assai di frequente, la sostanziale impossibilità di concludere transazioni che pure presentino contenuto economico adeguato a fronte della modesta capacità patrimoniale del singolo coobbligato, con inevitabili conseguenze negative sulla ragionevole durata del processo promosso dalla curatela (la sollecita definizione transattiva raggiunta con uno, o più, coobbligati garantirebbe difatti un iter processuale sicuramente più snello).

In difetto di una norma espressa (quale quella di cui all’art. 1304, 1° comma, c.c.), sembrerebbe perciò auspicabile un ripensamento della giurisprudenza, diretto ad escludere possibili effetti riflessi della transazione “individuale”, conclusa con uno dei coobbligati, anche sul solo quantum della responsabilità degli altri coobbligati, estranei, come detto, a detta transazione.



8. Il nesso causale.

Il danno risarcibile deve essere infine, come anticipato, conseguenza della condotta illecita e perciò causalmente collegato a quest’ultima.

Chiarissimo, in tal senso, il disposto dell’art. 2407 c.c., in tema di responsabilità dell’organo di controllo, che conferma la necessità, non solo di una condotta illecita di tale organo, ma anche del ricordato nesso causale fra condotta e conseguenza lesiva.

La responsabilità dei sindaci può essere difatti affermata, a norma dell’art. 2407 c.c., solo “quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica”.

Dottrina e giurisprudenza che si sono occupate di responsabilità dei sindaci affermano che tale responsabilità può essere affermata solo quando, ipotizzando uno “scenario controfattuale ipotetico” caratterizzato dalla condotta diligente dei sindaci, risulti che quel danno non si sarebbe verificato.

Fra le altre, Cass. 28357/2020 osserva che “L'accertamento della responsabilità del sindaco per omessa vigilanza sull'operato degli amministratori di società di capitali richiede, non solo la prova dell'inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo e del danno conseguente alla condotta dell'amministratore, ma anche che l'attore dimostri il nesso causale tra inerzia e danno, poiché l'omessa vigilanza rileva solo quando l'attivazione del controllo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato il pregiudizio. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato con rinvio la decisione di merito che aveva ritenuto sussistente la responsabilità ex art. 2407 c.c., in un caso in cui, fallita la società, non erano state rinvenute nel conto sociale le somme incassate dal liquidatore e ivi versate, pochi giorni prima delle dimissioni del sindaco)”.

Nello stesso senso Cass. 18770/2019, secondo cui “Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l'illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi - secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale - se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l'attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l'illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere esercitando i poteri-doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all'assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l'impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell'assemblea ai sensi dell'art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446-2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell'art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile”.

Conforme anche Cass. 23233/2013, che afferma che “Sussiste il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei sindaci, che non abbiano formulato rilievi critici su poste di bilancio palesemente ingiustificate e non abbiano esercitato poteri sostitutivi, che secondo l'"id quod plerumque accidit" avrebbero condotto ad una più sollecita dichiarazione di fallimento, ed il danno, consistente nell'aggravamento del dissesto, determinato dal ritardo con cui il fallimento è stato dichiarato”.

L’art. 2407 c.c. costituisce quindi espressa conferma dell’insufficienza di una mera condotta illecita a determinare la responsabilità dell’organo di gestione o controllo, potendo tale responsabilità essere affermata, come ricordato, solo quando a detta condotta è conseguito un danno altrimenti evitabile.

Le considerazioni appena svolte in tema di responsabilità dei sindaci (conseguente, di norma, a condotte di tipo omissivo) valgono anche in tema di responsabilità degli amministratori, che dovrà quindi essere ritenuta sussistente solo quando lo “scenario controfattuale” ipotizzato quale condotta diligente dei medesimi condurrà al risultato di ritenere che il danno verificatosi in concreto non si sarebbe, in quello scenario, verificato.