Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

La continuità aziendale e la dimensione strategica degli assetti*


Paolo Bastia

Data pubblicazione
31 ottobre 2024

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Sommario: 1. Gli adeguati assetti e la continuità aziendale. - 2. La natura strategica della novità normativa. - 3. L’esigenza di unitarietà degli assetti. – 4. Conclusioni.


1.       Gli adeguati assetti e la continuità aziendale

Il diritto dell’economia e della crisi ha assunto una dimensione strategica e organizzativa, interessandosi così dei profili più “alti” dell’impresa e delle sue prospettive più lungimiranti, andando a incidere durevolmente, strutturalmente, sull’azienda e sulle sue condizioni di sviluppo.

Si registra anche un deciso orientamento in senso “oggettivo”, virando dalla figura dell’imprenditore verso l’impresa, con una valenza istituzionalistica che premia l’istituto economico e la sua attitudine a perdurare, valorizzando quindi la sua capacità di assicurare un efficiente coordinamento interno, una correlazione con i soggetti esterni, contemperandone i diversi interessi convergenti sull’impresa; nonché una autonoma continuità a valere nel tempo, non direttamente associata alle vicende temporali del soggetto economico.

Se si pensa alla nozione “classica” di azienda, quale “istituto economico destinato a perdurare”[1], appare sorprendente il dato attuale di Unioncamere, che ha calcolato la vita media delle imprese italiane in 13 anni, con un tasso di sopravvivenza che, già al quinto anno di vita, è sceso ad appena il 60%. Appare evidente che il rischio di non continuità della vita delle imprese è particolarmente elevato e che la longevità oltre i 40 anni di vita costituisce un privilegio solo per meno del 13% delle nostre imprese.

Ne emergono quindi diffuse condizioni di precarietà, di fragilità, di limiti allo sviluppo delle imprese, che si traducono, come riflessi, in più ridotti investimenti, sia tecnologici che umani e in concreti vincoli alla continuità aziendale, con effetti amplificati a livello di sistema.

A questo stato delle cose si contrappone il favor del legislatore, fin dalla legge delega n.155/2017 (ribadendo per tre volte il concetto, agli artt. 2 e 14), per la continuità aziendale, anche in forma indiretta, esigendo che “la valutazione di convenienza sia illustrata nel piano” relativo alle proposte finalizzate al superamento della crisi e ad assicurare, per l’appunto, la continuità aziendale (art. 2, primo comma, lettera g). È notevole osservare il fatto che il piano assurge a elemento di identificazione, di scelta e di valutazione della convenienza di una iniziativa, di una proposta, quindi di razionalità imprenditoriale, in perfetta aderenza alla letteratura aziendalistica di pianificazione e controllo, la quale, pur riconoscendo la valenza dei requisiti di visione, di creatività, di capacità innovativa e di assunzione dei rischi nell’agire imprenditoriale, non accoglie però l’idea di una creatività irrazionale.

Il fatto che il legislatore sia intervenuto, imponendo un dovere, un obbligo per gli imprenditori collettivi, di dotarsi adeguati assetti e comunque per gli imprenditori individuali di misure idonee per verificare (anche) la sussistenza delle condizioni di equilibrio e di continuità aziendale, evidenzia un trade off tra i desiderata di legge e i comportamenti effettivi degli imprenditori.

L’assunto di una durata potenzialmente indefinita della vita dell’impresa, “oggettivamente” intesa, rileva anche in un altro trade off, in relazione alle aspettative “soggettive” del soggetto economico, cioè della persona o del gruppo di persone che, per un certo tempo, ne esercitano le prerogative di comando e ne dettano il finalismo[2], secondo peraltro una dialettica interna, non di rado endofamiliare, che si ripercuote anche sulle prospettive di continuità che intende interpretare, peraltro non in modo univoco, relativamente all’impresa.

L’esito sotteso degli adeguati assetti è dunque anche quello di ridurre questo trade off, attraverso un sistema di regole e di comportamenti interni, di segnalazioni esterne, di doveri e di responsabilità degli organi di controllo, a favore della continuità aziendale e per il superamento della crisi, che a sua volta è il percorso necessario per il recupero permanente della stessa continuità, in presenza di avvenuti fenomeni patologici.

È evidente, peraltro, che la continuità aziendale è vista in ottica oggettiva, come continuità dell’impresa e non necessariamente dell’imprenditore, aprendo anche a soluzioni che coinvolgano un “diverso imprenditore”, mediante varie modalità di trasferimento dell’azienda[3]. Ne discende una fondamentale prospettiva, quella cioè che la continuità da perseguire è quella dell’impresa “fine a sé stessa”, prescindendo dal suo soggetto economico, dai suoi fini, dalle sue aspettative: finalismi del soggetto economico che possono essere perseguiti anche in modalità contrastante alla continuità oggettiva: si pensi alla ricerca della massimizzazione del profitto o del valore per l’azionista, che ha una prospettiva necessariamente breve, o di chi ha obiettivi di delocalizzazione, ovvero di chi non ha nemmeno focalizzato, in quanto non pianifica, una qualche idea di durabilità dell’impresa, fino a casi di consapevole priorità, rispetto alla sana e prudente condotta per la conservazione dell’impresa, di interessi privati e personali, anche di natura extraeconomica, per aumentare la propria influenza nel contesto sociale[4].

Nell’impresa minore, dove il carattere personalistico è più diffuso e radicato, il trade off in questione è maggiore ed è più probabile una resistenza al cambiamento, mentre nelle imprese a base familiare la dialettica interna può condizionare a sua volta le priorità e le scelte strategiche o influenzare tali scelte eventualmente rimesse al management, in maniera non direttamente rispondente alla continuità dell’impresa; né mancano nel concreto casi di conflitti che hanno fatto prevalere o persino condizionato la permanenza dell’impresa rispetto ad altre ragioni.

Un’ulteriore importante prospettiva è quella dell’impresa manageriale, a struttura decentrata, nella quale l’iniziativa imprenditoriale è rimessa all’imprenditorialità diffusa, che implica percorsi di ideazione, formazione e formulazione delle strategie aziendali a più livelli, con varie modalità di negoziazione interna e con oggettiva influenza da parte della tecnostruttura, non fosse altro che per la propria superiorità tecnico-professionale specialistica. In tali contesti, il concreto perseguimento della continuità aziendale a valere nel tempo dovrebbe essere declinato proprio attraverso gli adeguati assetti come criterio cardine di coordinazione, vale a dire come presupposto per l’articolazione di un costrutto decisionale coordinato e finalizzato in tal senso, pur nella pluralità di attori coinvolti a più livelli della struttura aziendale.

Il favor del legislatore della riforma del codice della crisi per la continuità aziendale risponde alla prospettiva della Direttiva Insolvency (UE, 2019/1023), nella quale l’accentuazione per la conservazione dell’impresa parrebbe evolverla da tradizionale “valore-mezzo” a “valore-fine” anche per gli strumenti di regolazione della crisi diversi dall’amministrazione straordinaria, cogliendo peraltro maggiori opportunità per gli stakeholders (tra cui i lavoratori, e non soltanto i creditori), sì da far propendere per una sua qualificazione come “valore-fonte”, dal cui perseguimento possono scaturire vantaggi diffusi per diversi soggetti portatori di interessi differenti[5].

Le nuove “regole d’ingaggio” per operare imprenditorialmente, anche a livello minore[6], sono quelle di essere azienda meglio strutturata, con un profilo tendenzialmente manageriale, orientata al futuro e all’esterno, più razionale in quanto pienamente e tempestivamente informata, attrezzata per prevenire e mitigare i rischi e gli imprevisti, da considerare sempre più come variabili di contesto ricorrenti e non meramente eventuali.

L’impatto sul sistema delle imprese italiane è assai rilevante, considerata la dominanza di imprese di minori dimensioni, unitamente alla prevalenza degli assetti proprietari su base familiare e alla mancata separazione di proprietà e controllo.

Si chiede dunque, ex lege, un deciso e incisivo rinnovamento al sistema delle nostre imprese, che oggi si presenta come un sistema in parte fragile, sottodimensionato, poco propenso alla crescita e alla cultura manageriale come leve di sviluppo, di competitività e di continuità generazionale, pur vantando indubbiamente noti pregi in termini di innovazione, flessibilità ed eccellenza produttiva: patrimoni di conoscenze e di fonti di vantaggio competitivo, dunque, meritevoli di tutele.

Va dunque introdotta una cultura del rischio di crisi all’interno dell’impresa, capace di tradursi nei comportamenti e nei valori dei soggetti apicali e quindi del personale, con il supporto di adeguati meccanismi e procedure di controllo, che siano capaci di rilevare, anticipatamente, i segnali di una crisi anche solo potenziale e di possibile origine esterna e repentina, come avviene oramai ripetutamente.

Occorre d’altro canto avere la consapevolezza che i cambiamenti organizzativi e la loro interiorizzazione richiedono tempi non brevi, che necessitano di meccanismi di apprendimento (come ad esempio la formazione), che per le imprese minori la snellezza strutturale e la ridotta complessità vanno considerate come criteri di significativa semplificazione degli strumenti di rilevazione, anche preventiva[7], in concreto occorrenti, valorizzando, insieme agli irrinunciabili dati monetari, anche i dati tecnici e non monetari.

 

2.       La natura strategica della novità normativa

Quando un evento di origine esterna produce un radicale cambiamento nel sistema d’impresa e nelle sue relazioni con l’ambiente, allora esso possiede un carattere strategico, imponendo adattamenti e mutamenti interni e relazionali e proiettando l’impresa verso nuovi comportamenti e approcci, fino anche a intraprendere percorsi innovativi più o meno rapidi.

Questo cambiamento strutturale richiesto dalla normativa può essere “adattivo”, se conseguente e meramente coerente agli obblighi introdotti; ovvero “proattivo”, in quanto implementato verso orizzonti ancora più ampi e lungimiranti di quanto richiesto dalla norma, cogliendo in essa uno stimolo propulsivo per avviare e allargare la scala degli interventi dell’impresa.

Ad esempio, il riassetto organizzativo guidato dall’osservanza della norma potrebbe indurre a ricercare rapidi processi di crescita per via esterna, tramite fusioni o acquisizioni, per realizzare configurazioni organizzative non solo conformi, ma anche più efficienti in termini di economie di scala - diluendo così i costi organizzativi emergenti con l’adeguamento ai nuovi obblighi e favorendo l’inserimento di competenze specialistiche non altrimenti disponibili, specie nell’ambito di controlli interni - e più competitive rispetto al contesto concorrenziale.

Il “salto di qualità” indotto dalla novella normativa, se e in quanto interpretato strategicamente, anziché suscitare delle mere resistenze al cambiamento o addirittura delle inerzie, costituisce certamente un elemento di merito degli organi amministrativi delle società e degli imprenditori individuali, in quanto le imprese più dimensionate possono cogliere l’opportunità di adottare dei “dispositivi di sicurezza” per mantenere il proprio equilibrio, mentre quelle minori, con l’adozione di coerenti misure, possono veramente acquisire dei vantaggi competitivi comparativamente più rilevanti riguardo ai loro concorrenti.

Un valore a tutta evidenza riconosciuto in questo rinnovato contesto normativo, come è stato detto, è quello della continuità aziendale, non solo come mezzo, ma come fine stesso da tutelare e da perseguire, dal momento che non solo il secondo comma dell’art. 2086 c.c., ma anche l’art. 3, comma 3, CCII, ne esplicitano la rilevanza come finalità conoscitiva e condizione aziendale da salvaguardare, ovvero da ripristinare. Con ciò si è dato un deciso impulso al progredire del significato stesso della continuità, già da tempo recepito in ambito bilancistico[8].

L’importanza della novità normativa può essere colta in diversi aspetti: i) l’ampliamento del presupposto soggettivo, che investe la pressoché totalità delle imprese, con un impatto che può essere quantificato in circa 4,5 milioni di aziende; ii) l’introduzione di obblighi che si traducono in forti impegni di cambiamento interno e strutturale delle singole imprese; iii) la mutuazione dalla dottrina economico aziendale di uno dei suoi massimi principi, quello della continuità aziendale, quale fonte, a livello individuale, di vitalità, e a livello aggregato, di tenuta del sistema delle imprese, unitamente alla ricaduta sociale nei confronti degli stakeholders variamente intesi; iv) coerentemente con tale ultimo principio, l’impostazione di una logica di approccio di tipo prospettico e probabilistico (forward looking) a livello conoscitivo e di tipo anticipatorio o di massima prontezza a livello di intervento solutivo, se e in quanto occorrente.

Probabilmente, l’aspetto aziendalmente più rilevante della nuova norma è quello di avere introdotto un preciso finalismo all’imprenditore e quindi all’impresa da lui condotta, imponendo il perseguimento della continuità aziendale, in senso oggettivo s’intende, e condizionando così le stesse scelte strategiche dell’imprenditore o dei soggetti apicali (top management), ponendo quindi se non dei limiti, un orientamento strategico di fondo a scelte fino ad ora allineate al principio della business judgement rule e quindi, come tali, insindacabili a certe condizioni, quali il rispetto di criteri di razionalità, di diligenza e di impiego di idonei supporti decisionali.

Più che di una compressione del principio della business judgement rule pare emergere dunque un obbligo di compatibilità delle scelte strategiche ad essa riconducibili con l’orientamento prioritario della continuità dell’impresa (e non certo quella dell’imprenditore), divenendo la continuità aziendale la “stella polare” dell’agire imprenditoriale.

Sembrano così tramontare definitivamente le opzioni strategiche volte alla massimizzazione del profitto, alla massimizzazione del valore per l’azionista[9], che per loro natura prescindono da una prospettiva di lungo periodo, a meno che non se ne colgano evidenti e concreti raccordi con la continuità aziendale.

Ma anche le metriche cambiano, dovendo virare allora verso misurazioni più di tipo reddituale prospettico che di tipo finanziario, quale la generazione del flusso di cassa letta al servizio di valutazioni solo di breve andare, correttamente recepite al punto b) dell’art. 3, comma 3) del CCII, ma proprio perché preordinate a una vigilanza di immediato impatto: tale rilevazione non è certo sufficiente a supporto di orientamenti verso la continuità aziendale a valere nel tempo.

Va dunque precisato, se mai occorresse, che la continuità aziendale richiamata dall’art. 3, comma 3, lettera b) del CCII possiede significato diverso da quella indicata all’art. 2086, secondo comma, c.c., essendo la prima limitata a un orizzonte (appena) di dodici mesi e quindi riferita ad una durata meramente convenzionale e sostanzialmente quasi priva di significato strategico: una continuità, dunque, che possiamo definire “operativa”, funzionale a rassicurare (o ad allertare anticipatamente, in caso contrario) circa la non imminenza di una situazione esiziale per l’esistenza dell’impresa. Si tratta dunque di una finalità di minimo degli assetti o delle misure richiesti, che potrebbe anche non evolvere in una continuità aziendale di lungo periodo, correttamente intesa come attitudine sine die dell’impresa alla permanenza sul mercato.

Non è da escludere che una continuità rilevata per i soli dodici mesi successivi (una continuità “a durata limitata”) conviva con una situazione patologica che richieda tre o cinque anni di risanamento, per raggiungere finalmente uno stato fisiologico di durabilità dell’equilibrio aziendale e quindi della continuità perdurante.

Tornano utili, per comprendere meglio il complesso fenomeno in esame, le categorie di “equilibrio omeostatico” e di “equilibrio eterostatico”, essendo il primo sostanzialmente riconducibile ad una dinamica meramente evolutiva (o persino inerziale) dell’attuale business dell’impresa e della sua struttura; mentre il secondo corrisponde a un mutamento delle condizioni originarie, ad una discontinuità - pur nella continuità di vita - verso nuovi modelli di business e rinnovate strutture aziendali (si pensi alla transizione digitale, a quella ecologica, alle riconversioni produttive)[10]. Appare chiaro, di conseguenza, che la continuità rilevabile nei successivi dodici mesi è prettamente di tipo omeostatico, mentre quella a valere nel tempo può seguire entrambi gli orientamenti, con prevalere tipicamente di un riequilibrio eterostatico in caso di continuità indiretta.

In fondo, la lettura interpretativa della nuova disciplina suggerisce che gli effetti degli adeguamenti organizzativi, amministrativi e informativi richiesti comportano un rinnovato stile di direzione da parte dell’imprenditore, anche minore, allineato con i profili che la letteratura internazionale di strategia e management ha da tempo indicato, che non va colta tanto in temuti processi di burocratizzazione e di indesiderabile rigidità procedurale - sostanzialmente evitabili mediante idonee progettazioni - quanto invece nell’attenzione ai presidi dei rischi e alla gestione della complessità e del cambiamento, con vigile approccio di tipo prospettico. Ciò naturalmente pone delle implicazioni in ordine ai profili di responsabilità dell’imprenditore e, dove esistente, dell’organo di controllo.

A nostro avviso, un aspetto importante che emerge dal dettato normativo e dai ripetuti rimandi alla Scienza aziendale (anche in ambito giurisprudenziale) è la possibilità di porre gli assetti organizzativo, amministrativo e contabile in ideale raccordo con il collaudato modello della tripartizione del sapere aziendalistico nelle discipline specialistiche dell’ Organizzazione, della Gestione e della Rilevazione o Ragioneria, sulla base di una letteratura aziendalistica assolutamente unitaria in proposito. Questa base epistemologica conferisce ordine e rigore a una materia nuova sul piano normativo e giuridico, favorendo così coerenti soluzioni empiriche, corrette progettazioni concrete degli assetti, funzionamento degli assetti secondo metodi scientificamente robusti e condivisi a livello nazionale, nonché giudizi illuminati e consapevoli in sede giurisprudenziale.

 

3.       L’esigenza di unitarietà degli assetti

Un’evidenza, molto importante e qualificante, nella prospettiva aziendalistica, è quella della mancanza di una esplicita visione unitaria degli assetti, che il legislatore ha indicato distintamente, ma senza un preciso richiamo all’unitarietà organica degli stessi, che forse implicitamente è sottesa, ma la cui vaga o non definita affermazione può portare a soluzioni interpretative e applicative disancorate da questa necessità basilare. Si tratta di un aspetto finora trascurato, sia dalla dottrina, sia dalla giurisprudenza, ma che è decisivo, per evitare che le imprese, pur nella discrezionalità controllata delle proprie soluzioni, progettino e adottino assetti che, individualmente, paiono soddisfare i profili organizzativo, amministrativo e contabile, ma senza alcuna sistematicità, con la conseguenza di porre in atto, anche con onerosi interventi, dei presidi e dei supporti parziali e incompleti, disomogenei, ridondanti, carenti, reciprocamente non interconnessi.

Per fornire una risposta concreta a questi rilievi, manca, nel dettato normativo, senza che ciò costituisca un limite o una carenza, che possono essere colmati in sede interpretativa e applicativa, una “parte generale”, vale a dire una prospettazione comune e unitaria ai tre assetti che la norma prevede, per consentire che i tre assetti siano - come devono essere - non degli autonomi e indipendenti presidi e nemmeno delle parti distinte di una ideale strutturazione aziendale, bensì degli aspetti o profili di un’unica configurazione di un sistema coordinato, nel cui contesto i tre assetti di legge operano come sottosistemi interdipendenti, interconnessi, che fin dalla loro concezione sono interferenti come elementi del medesimo sistema e che i loro sviluppi autonomi si rendano necessari, per esigenze pragmatiche (in considerazione della complessità del sistema azienda)[11], al fine di specificare e specializzare gli interventi nelle concrete realtà aziendali.

Questa parte generale dovrebbe esprimere i “principi di fondo”, l’architrave stessa del “sistema degli assetti”, il punto di riferimento della ideazione, progettazione, realizzazione e valutazione dinamica degli assetti, anche nella loro adeguatezza.

Il parallelismo, utile per comprendere ancora meglio queste considerazioni, è quello tra le richiamate discipline dell’Organizzazione, della Gestione e della Rilevazione rispetto alla Scienza, sistemica e trasversale o ancora meglio, unitaria senza essere totalizzante e quindi senza assorbire le tre articolazioni specialistiche, dell’Economia Aziendale, che venne introdotta proprio come momento unificante.

Questa prospettazione unitaria e quindi questa ”Parte generale” volta a conferire unitarietà ai tre assetti legali, permette anche di soddisfare un’altra esigenza fondamentale degli assetti e cioè quella della loro adeguatezza: che non dovrebbe essere considerata e valutata ex post, come eventualità o come casuale felice convergenza delle soluzioni attuate dall’impresa, ma deve essere individuata, motivata ed esplicitata prioritariamente, come antefatto e come preciso richiamo, faro e riferimento degli assetti stessi.

Quali possono essere gli elementi unificanti e “fondamentali” da richiamare, precisare, rappresentare come “Parte generale” degli assetti?

Una prima proposta che si può avanzare, ma che può essere utilmente arricchita e completata nel dibattito e nelle pronunce giurisprudenziali, può derivare dai seguenti presupposti:

i)         l’unitarietà dell’azienda, della sua organizzazione, della sua gestione (amministrazione dei processi) e delle informazioni e rilevazioni che ne esprimono le risultanze e ne guidano razionalmente le scelte, precisandone gli assetti proprietari e quindi il suo soggetto economico, che detiene effettivamente, in un dato momento, la posizione di leadership strategica, quantomeno precisandone la mission, il finalismo istituzionale, l’orientamento strategico di fondo (che non sono esattamente le strategie e le iniziative variamente formulate nel tempo), la visione lungimirante del business: trattasi, per lo più, del socio o della compagine sociale di maggioranza, mentre nelle public companies si identifica con il top management, ancorché vada considerato il fatto che la formulazione delle strategie può in concreto essere originata anche dal management, secondo indirizzi espressi dal soggetto economico;

ii)      l’assetto di corporate governance, configurato, nelle società di capitali, dal modello prescelto e, tra questi, nel modello tradizionale, dall’organo amministrativo (con la sua composizione qualitativa e quantitativa); dalla eventuale natura familiare dell’assetto proprietario e insieme dell’organo amministrativo; dall’organo di controllo; dalla presenza e dalla solidità del sistema dei controlli interni, dei suoi presidi e di eventuali funzioni specialistiche e indipendenti (internal auditing, compliance, risk management, controlling), unitamente al sistema delle deleghe e dell’ attribuzione dei poteri, alle policies, alle linee guida, alla regolamentazione interna, nonché alle infrastrutture a carattere sistemico e trasversale, quali i sistemi informativi, purché integrati in una completa rete aziendale e strategicamente rilevanti;

iii)   lo stile di leadership effettivamente esistente, tale da esprimere le reali fonti di formazione delle strategie aziendali e i rapporti con il management, passando da una prospettiva verticistica e dirigistica dell’imprenditore (o dell’organo amministrativo) a un approccio aperto e partecipativo di condivisione delle strategie di lungo periodo, ovvero di situazioni in cui l’organo amministrativo si limita a ratificare strategie già (quasi) pienamente formulate dal management;

iv)    l’assetto istituzionale, rappresentato dal sistema delle relazioni con i diversi portatori di interesse esterni (stakeholders), quali soci, lavoratori, creditori, clienti, fornitori, risparmiatori, banche e intermediari finanziari, enti impositori, enti pubblici territoriali, comunità territoriale, collettività: rapporti che possono essere formalmente definiti nell’ambito di una strategia sociale dell’impresa (quando esprime esplicitamente una responsabilità sociale), interpretando l’impresa come istituzione che persegue il suo durevole successo proprio attraverso una composizione e un bilanciamento dei diversi interessi convergenti; ovvero trascurati o addirittura non ricercati, in nome di un unico e solo finalismo (ad esempio la massimizzazione del profitto o del valore dell’impresa per la proprietà)[12];

v)      i rapporti di dipendenza, di direzione e controllo, di interferenza, di dominanza di fatto da società capogruppo, ovvero da grandi clienti o da entità esterne rilevanti (affilianti, proprietari di licenze);

vi)    il modello di business con cui l’impresa intende perseguire le sue condizioni di successo, di sviluppo, di competizione: da intendersi come combinazione, sempre unica e originale, pur nell’ambito dello stesso settore, di prodotti e processi (produttivi e distributivi), tecnologie, funzioni (utilità) della clientela servita, canali di vendita (diretti, indiretti, telematici), mercati di riferimento, partnership industriali e commerciali[13];

vii)infine, come indispensabile fonte di vitalità e di continuità dell’impresa, la sua condizione di vita, vale a dire l’equilibrio generale[14], inteso come concorso delle dinamiche e prospettiche condizioni di equilibrio economica, finanziaria, patrimoniale e qualitativa, definita quest’ultima dall’insieme coerente di elementi non monetari che condizionano l’esistenza dell’azienda stessa: longevità, tradizione, reputazione, accountability (affidabilità), integrità ed eticità, legalità, innovazione, qualità dei prodotti e dei processi, soddisfazione della clientela, presenza di fattori di superiorità competitiva, possesso risorse strategiche distintive e non facilmente appropriabili, anche intangibili (marchi, brevetti, licenze, autorizzazioni amministrative, know how, archivi di disegni e prototipi, prassi evolute).

Quest’ultimo principio unificante, quello dell’equilibrio generale e delle sue componenti delle condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale, con i profili qualitativi, è fondamentale, in quanto ispira e indirizza la definizione degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili, conferendo razionalità e coerenza agli stessi.

Si pensi al grado di propensione di un’impresa al perseguimento del profitto, comunque indispensabile a un certo livello giudicabile “soddisfacente” in base agli orientamenti del soggetto economico e per la stessa autonoma continuità aziendale, per il suo autofinanziamento, per la sua economicità, per la solvibilità indispensabile a salvaguardia degli interessi dei creditori.

Si possono quindi osservare diverse situazioni, ciascuna coerente con una specificità istituzionale di una data impresa: si va dalla società quotata in borsa alla cooperativa di produzione, dall’impresa manageriale a quella familiare, dalla start up all’impresa matura, dalla controllata di un gruppo che svolge solo servizi infragruppo alla holding a vocazione commerciale.

La rappresentazione formale di un tendenziale equilibrio generale, non solo ricondotto alla sintesi delle irrinunciabili condizioni di equilibro economica, finanziaria e patrimoniale, espressioni di un dinamismo interno, ma anche alle convenienti relazioni nell’ambito dell’assetto istituzionale (che ricomprende le relazioni con i diversi portatori di interesse), può trovare concreta espressione nella metodologia della balanced scorecard[15] opportunamente adattata al modello di business della data impresa, di cui si riporta uno schema meramente indicativo.

Balanced Scorecard 

 

Si tratta in sostanza di una mappa informativa di tipo multidimensionale, che integra profili di performance dell’impresa di vario tipo (qualitativi e quantitativi di sintesi), ad ampio spettro, con le correlazioni tra i diversi elementi che la compongono, assolvendo all’esigenza di una rappresentazione generale, organica e sistematica, dell’azienda, a complemento degli assetti “specialistici”. Tale mappa va adattata ai concreti caratteri distintivi dell’impresa (organizzativi e gestionali) e alla rete delle sue relazioni istituzionali rilevanti, tra cui certamente spiccano i creditori: finanziari, commerciali, erariali e previdenziali.

Appare chiaro che configurare degli assetti organizzativi, amministrativo-gestionali e contabili, visti solo come elementi autonomi e indipendenti, ma non riconducibili ad una unitarietà istituzionale, a una visione strategica complessiva, al riferimento a un equilibrio generale, non permette di soddisfare i requisiti di adeguatezza e soprattutto di perseguire pienamente le finalità precisate dal legislatore.

Verso questa esigenza di unitarietà e organicità di visione degli assetti e di premessa di una “Parte generale” sembra essersi incamminato l’orientamento professionale espresso dal CNDCEC e dalla Fondazionale Nazionale dei Commercialisti, nei Documenti sulle “Check List”[16], in cui alle valutazioni degli assetti organizzativo, amministrativo e contabile si antepongono le valutazione del modello di business e del modello gestionale: profilo assai importante, ma che potrebbe, a nostro parere, trovare maggiori sviluppi secondo le linee rappresentate in questa sede.

 

4.       Conclusioni

Queste riflessioni sono partite da un tentativo di saldatura tra la continuità convenzionale (almeno per i successivi dodici mesi) e quella scientificamente più robusta a cui sostanzialmente aderisce la norma civilistica, di durabilità non a termine, in un’ottica finalmente e dichiaratamente “oggettiva”.

La valenza di questa impostazione è notevole, perché distingue l’impresa e le sue prospettive da quelle del solo soggetto economico, ampliando verso un assetto istituzionale articolato i presupposti di quella continuità, che nella nuova disciplina dovrebbe venire a costituire una finalità tutelata.

Ne discende che gli assetti organizzativi, amministrativo-gestionali e contabili, che perderebbero densità logica e utilità pratica in una loro angusta declinazione meramente specialistica e operativa di breve andare, trovano linfa nelle finalità convergenti della gestione del rischio di crisi e di supporto alla continuità a valere nel tempo, ma anche nell’ancoraggio ad una prospettazione sistematica e unitaria dell’azienda, che sul piano pratico potrebbe tradursi in una “parte generale”, dedicata ad una valutazione dei fondamentali dell’impresa. Tale parte generale assolverebbe anche all’esigenza di dare un senso comune e una esplicita chiarezza all’adeguatezza specifica della triade di assetti che si vanno a definire, configurando una rappresentazione plastica del “sistema azienda” di riferimento.

Si tenga presente che, richiamando la finalità fondamentale della rilevazione tempestiva della crisi, le cause sono spesso concatenate, interdipendenti e reciprocamente interferenti, rendendo necessaria una visione olistica delle problematiche.

Ancora, sul piano pratico, con la strumentazione sia qualitativa che quantitativa all’uopo occorrente, si vanno a bilanciare le diverse dimensioni di osservazione e rappresentazione dell’attività aziendale, contenendo i rischi di determinismo e di rigidità degli assetti, specialmente di quelli contabili[17], nelle circostanze in cui le difficoltà non emergano dai bilanci e dai dati aziendali, ovvero, sul piano organizzativo, non si evidenzino eventuali disallineamenti rispetto all’evoluzione del business.



*Il presente contributo anticipa alcuni contenuti di un saggio che sarà pubblicato all’interno dell’Opera collettanea, curata dallo stesso autore, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese, con l’Editore Giuffré Francis Lefebvre.

[1] Questa pregnante nozione è stata formulata dal fondatore dell’economia aziendale, Prof. Gino Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, vol. I, Giuffré, Milano, 1957, pag. 37.

Significative, negli studi economici, sono anche le posizioni di John Kenneth Galbraith, Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino, 1968, pag. 73, il quale ammette la possibilità della durata illimitata delle imprese di maggiori dimensioni; nonché di Franco Momigliano, Economia industriale e teoria dell’impresa, Il Mulino, Bologna, 1975, pag. 151, quando scrive che “all’aumentare della dimensione dell’impresa, diminuisce la probabilità della sua mortalità”.

[2] Si veda al riguardo Umberto Bertini, Il sistema d’azienda. Schema di analisi, Giappichelli, Torino, 1990, pagg. 41-45.

[3] Nella letteratura aziendale e in quella strategica in particolare (nella quale le operazioni straordinarie costituiscono tipiche modalità evolutive dell’impresa), sostanzialmente non esiste nemmeno un dibattito tra ipotetica continuità soggettiva e continuità oggettiva, rilevando solo la seconda (fatti salvi gli studi specialistici sulle imprese di famiglia). In ambito giuridico, in cui invece tale dibattito è acceso, sulla rilevanza della natura oggettiva della continuità aziendale, che aderisce alla prospettiva economica, si veda in particolare Stefano Ambrosini, La continuità aziendale (diretta e indiretta) fra diritto contabile e disciplina della crisi d’impresa. Profili ricostruttivi e sottotipi concordatari, in “Ristrutturazioni Aziendali”, 11 luglio 2024. Sul favor per la continuità in senso oggettivo di legga anche Giorgio Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in “Diritto della Crisi”, 25 febbraio 2022, par. 1.1, laddove scrive: La conservazione dell’impresa in senso oggettivo è il pacifico Leitmotiv delle riforme del diritto commerciale succedutesi a partire dal 2005”.

Ancora, sul riconoscimento della continuità in senso oggettivo nel diritto, si legga Giovanni Battista Nardecchia, La continuità aziendale nelle procedura concorsuali, in “Questione Giustizia”, n. 2, 2019: Il legislatore sembra quindi aver portato a compimento quel processo evolutivo che ha interessato la stessa fisionomia dell’impresa non più considerata come «riflesso dell’imprenditore e quindi come attività da esso esercitata (…), ma come autonoma organizzazione, suscettibile di vicende giuridiche unitarie, non identificantisi né con le vicende dell’azienda, come mero complesso di beni e rapporti giuridici destinati all’attività imprenditrice, né con le vicende giuridiche dell’imprenditore».

Interessante l’evoluzione di pensiero di Massimo Fabiani, che  nel 2016 (La rimodulazione del dogma della responsabilità patrimoniale e la de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in “Crisi d’Impresa e Fallimento”, 9 dicembre 2016) si esprimeva sulla continuità aziendale come “valore-mezzo”, rispetto alla clausola del migliore soddisfacimento dei creditori, diversamente dall’amministrazione straordinaria, in cui invece la continuità aziendale rappresenta un valore-fine, prescindendo dagli interessi dei creditori.

Di continuità aziendale come valore-fine parla anche Salvatore Leuzzi, Il valore della continuità aziendale nelle procedure concorsuali, paper per la SSM, 23-25 marzo 2022, par. 6, mentre Stefano Ambrosini, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano: gli interessi protetti e lo “statuto” della continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 10 marzo 2024, afferma che continua a trattarsi di valore-mezzo.  

[4] Si veda in proposito Umberto Bertini, Il sistema d’azienda, cit., pag. 43, il quale scrive: “E’ quindi la pura logica del potere che guida il soggetto economico nella sua azione di governo.”.

[5] Si veda Paola Vella, La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale, in “Ristrutturazioni Aziendali”, 1° gennaio 2022. Si suggerisce anche l’articolo di Raffaele Marcello, Silvana Revellino e Nicola Lucido, La continuità aziendale da valore-mezzo a valore-fine per il risanamento dell’impresa in crisi, in “Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale”, 2013.

[6] Si parla in proposito di circa 4,5 milioni di imprese secondo i dati ISTAT, con 4,3 milioni di microimprese (fino a 9 addetti) e circa 200.000 piccole imprese (sotto i 50 addetti).

[7] Volendo dare contezza circa la vastissima disponibilità, nella manualistica aziendalistica, di soluzioni accessibili alle imprese minori, si rimanda per tutti (per rigore e al contempo per semplicità di lettura) a Giorgio Brunetti, Vittorio Coda e Francesco Favotto, Analisi, previsioni simulazioni economico-finanziarie d’impresa, Etas, Milano, 1990: testo che contempla anche le possibilità d'impiego del computer e dei pacchetti software di supporto all'analisi e alla simulazione.

[8] Sulla questione di rimanda al saggio di Nicolò Abriani e Paolo Bastia, Valutazione e presidio della continuità aziendale tra scienze economiche e diritto societario della crisi, in “Diritto della crisi”, novembre 2022.

 

[9] Tramonta quindi, senza rimpianti, non solo a livello di dottrina aziendalistica, ma anche dal punto di vista della legittimità, la oramai obsoleta teoria della massimizzazione del valore per l’azionista, affermata, tra altri, da Alfred Rappaport, Creating Shareholders Value. A guide for Managers and Investors, Free Press, New York, 1997; nonché, in Italia, da Luigi Guatri, La teoria di creazione del valore. Una via europea, Egea, Milano, 1991, lavoro nel quale, oltre all’univocità e ristrettezza di riferimento soggettivo (l’azionista e non altri), si poneva in dubbio persino la rilevanza delle risultanze contabili, invero e correttamente riaffermate nell’art. 2086 secondo comma c.c. e nel CCII per la loro significatività diagnostica e al servizio delle elaborazioni prognostiche, al di là degli obblighi civilistici vigenti.

Circa il superamento del finalismo della massimizzazione del profitto, aprendo a temi di responsabilità sociale e ambientale dell’impresa, nella dottrina giuridica, si veda Stefano Ambrosini, Adeguatezza degli assetti, sostenibilità della gestione, crisi d’impresa e responsabilità della banca: alla ricerca di un fil rouge (un’introduzione), in “Ristrutturazioni Aziendali”, 19 maggio 2023. Cfr. anche Stefania Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in” Ristrutturazioni Aziendali”, 3 settembre 2022.

In ambito economico, la gestione virtuosa in termini di responsabilità sociale e ambientale, come impegno strategico, è da tempo affermata: si veda Igor Ansoff, Strategia sociale dell’impresa, Etas, Milano, 1999.

Negli studi aziendali, in particolare, le strategie sociali e ambientali costituiscono una declinazione della più ampia strategia aziendale (corporate strategy), insieme alle irrinunciabili strategie competitive (di business), all’interno di un coerente percorso di sviluppo organico e lungimirante dell’impresa: cfr. Vittorio Coda, Giorgio Invernizzi e Paola Russo, La strategia Aziendale, Mc Graw Hill, Milano, 2017.

[10] Sulla duplice alternativa di sviluppo dell’impresa, nel solco di un equilibrio omeostatico in linea con il passato, ovvero di un equilibrio eterostatico, che presume una trasformazione del modello di business e dell’intero sistema aziendale, si rinvia a Franco Amigoni, I sistemi di controllo direzionale, Giuffré, Milano, 1979. Per approfondimenti, si rimanda a Paolo Bastia, La sostenibilità economica nel concordato in continuità aziendale, in “Ristrutturazioni Aziendali”, 15 giugno 2023.

[11] Secondo Herbert Simon (Nobel Prize per l’Economia nel 1978), la complessità di un sistema può essere ridotta scomponendola in una gerarchia di sottosistemi, The architecture of complexity, “Proceeding in the American Philosophical Society”, 1962, 467-482. Si veda anche Luigi Marengo, Quasi scomponibilità, modularità ed organizzazione economica, in “Sistemi intelligenti”, aprile 2003, n.1.

[12] La rilevanza dell’assetto istituzionale è fortemente presente nell’ambito della “Scuola Bocconi”: si veda in particolare, Giuseppe Airoldi, Giorgio Brunetti e Vittorio Coda, Corso di Economia Aziendale, Il Mulino, Bologna, 2005, cap. IV: opera nella quale si rappresenta “il sistema di interessi convergenti nell’impresa”, come condizione essenziale per la vita duratura dell’istituto.

[13] Il modello di business (business model), la cui coerenza è alla base della capacità dell’impresa di stare sul mercato, va considerato oggi come il punto di partenza dell’analisi per comprendere le reali  prospettive di continuità aziendale e  costituisce il più corretto presupposto logico e metodologico per soddisfare le finalità degli adeguati assetti secondo l’art. 2086, comma 2, c.c., oltreché rappresentare un momento inevitabile del processo di formulazione del piano strategico o del piano di risanamento:  nella sua versione canonica, è stato introdotto da Derek Abell, Defining the Business: the Starting Point of Strategic Planning, Prentice Hall, 1980. Per una aggiornata disamina si veda Alessandro Baroncelli e Luigi Serio Economia e gestione delle imprese, McGraw-Hill, Milano, 2020, cap. 3.

[14] La teoria delle condizioni di equilibrio dell’azienda, in ottica preventiva, a cui l’art. 3, comma 3, lettera a) del CCII fa esplicito riferimento, è stata proposta originariamente da Aldo Amaduzzi, Il sistema dell'impresa nelle condizioni prospettiche del suo equilibrio, Signorelli, Milano, 1949. Per un’analisi recente, si legga, ex multis, Giuseppe Paolone e Luciano D’Amico (a cura di), L' economia aziendale nei suoi principi e nelle sue applicazioni, Giappichelli, Torino, 2022.

 

[15] La notevole letteratura esistente sulla balanced scorecard trae origine dal pioneristico lavoro di Robert S. Kaplan e David Norton, The Balanced Scorecard - Measures that Drive Performance, Harvard Business Review, 1992. Si veda degli stessi autori, in edizione italiana, L'impresa orientata dalla strategia. Balanced Scorecard in azione, Editore ISEDI, Torino, 2002.

Circa l’impiego della balanced scorecard nei piani di risanamento, si rinvia a Paolo Bastia, La composizione negoziata e il piano di risanamento, Eutekne, Torino, 2022, cap. XII.

[16] Cfr. CNDCEC e Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Assetti organizzativi, amministrativi e contabili: Check List operative, 25 luglio 2023; nonché Assetti organizzativi, amministrativi e contabili: Check List operative. Focus cooperative, 10 ottobre 2024.

[17] Si vedano i rilievi formulati da Banca d’Italia sul CCII e sui limiti di un’interpretazione solo algoritmica dei presidi: la Relazione al Senato del 2018, pag. 11 e il paper di Elisa Brodi, Tempestiva emersione e gestione della crisi d’impresa, n. 440, giugno 2018.