Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Domanda prenotativa e autorizzazione alla cessione d’azienda


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Articolo

Note minime sul controllo giudiziale nel concordato preventivo*


Paolo Felice Censoni

Data pubblicazione
06 novembre 2024

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Il tema relativo al controllo giudiziale sul concordato preventivo è stato ed è certamente uno dei più dibattuti in dottrina e in giurisprudenza, tanto con riferimento alla legge fallimentare (soprattutto dopo le riforme successive al 2005), quanto ora con riferimento al Codice della crisi, in relazione al quale occorre dare risposta ad un interrogativo ricorrente1: se cioè l’intensità del controllo giudiziale nella nuova disciplina costituisca, rispetto al passato, un incremento o un decremento; ciò che potrebbe tradursi in un altro interrogativo: se l’attuale disciplina del controllo giudiziale finisca per ostacolare o, al contrario, per agevolare l’utilizzazione in concreto dello strumento concordatario; non prima però di aver ricordato che il punto di partenza di qualsiasi conclusione è costituito dall’art. 10 della Direttiva Insolvency del 2019 sulle condizioni per l’omologazione di un piano di ristrutturazione; e, in particolare (per quanto qui interessa), dai punti 2 e 3, secondo i quali quel piano deve superare la verifica del “migliore soddisfacimento dei creditori”, ma solo se vi sono creditori dissenzienti che l’abbiano contestato “per tale motivo” (art. 10.2, 1° comma, lett. d e 2° comma); o solo se il piano “risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa” (art. 10.3), restando quindi da verificare se il Codice della crisi si sia conformato o meno a tale dettato.

Quando si parla di controlli giudiziali nel concordato preventivo, occorre innanzitutto distinguere quelli meramente formali (quale ad esempio il controllo relativo alla completezza della documentazione di cui all’art. 39 CCI o quello relativo al contenuto del piano concordatario di cui all’art. 87, 1° comma CCI), e i controlli più propriamente sostanziali, che a loro volta occorre ulteriormente distinguere secondo le varie fasi del procedimento, cioè secondo che siano antecedenti all’ammissione o successivi a questa fino all’omologazione o in sede di esecuzione.

E’ soprattutto per ciò che riguarda i controlli sostanziali (ai fini dell’ammissione o dell’eventuale cessazione dell’esperimento concordatario o della sua risoluzione) che l’estensione della discrezionalità del giudice è molto ampia, sia quanto a taluni profili giuridici (ma questa è la sua funzione istituzionale), sia quanto a taluni profili economici (qui in generale avvalendosi delle informazioni o delle indicazioni del commissario giudiziale, ma non solo); fra i primi è sufficiente ricordare, sempre a titolo di esempio, il potere di interrompere il procedimento (compresa la fase “con riserva”), laddove il tribunale sia chiamato a giudicare i comportamenti del debitore, anche anteriori alla presentazione della domanda, qualora considerati dal tribunale medesimo “atti di frode” (non dichiarati nella domanda o comunque occultati ai creditori) (v. l’art. 44, 1° comma, lett. b e 2° comma CCI e soprattutto l’art. 106, 1° e 2° comma CCI), su cui non è possibile qui avventurarsi, anche se qualche considerazione di compatibilità con la Direttiva Insolvency potrebbe farsi2.

Molto più incisivo (ai fini di una risposta agli interrogativi posti all’inizio) è invece il controllo giudiziale relativo a taluni profili economici, emergenti dalla nuova disciplina concordataria e fra i quali meritano particolare attenzione tutti quelli che finiscono per trasformare una valutazione prettamente economica in requisiti giuridici di ammissibilità o di proseguibilità del procedimento o quelli che finiscono per attribuire, di fatto, al giudice il potere di decidere della “convenienza” del concordato, in generale parametrata alla liquidazione giudiziale, né più né meno di come avveniva in passato rispetto al fallimento.

Qualche esempio anche qui.

Già nella fase preconcordataria (o “con riserva”) di cui all’art. 44 CCI il tribunale, su informazione del commissario giudiziale, è chiamato fra l’altro a verificare se la condotta del debitore (a parte l’eventuale compimento di atti di frode, che comporta valutazioni di natura giuridica) sia tale “da pregiudicare una soluzione efficace della crisi” (che comporta valutazioni di natura essenzialmente economica) (1° comma, lett. b), con la facoltà di revocare il provvedimento di concessione dei termini e di dichiarare l’apertura della liquidazione giudiziale, naturalmente se chiesta da uno dei soggetti legittimati (artt. 44, 2° comma e 49, 2° comma CCI).

Valutazioni di natura economica (e non solo giuridica) il tribunale deve compiere anche nel caso in cui il debitore, nella menzionata fase, chieda l’autorizzazione a compiere un atto urgente di straordinaria amministrazione, a condizione che lo stesso abbia fornito “idonee informazioni sul contenuto del piano” (art. 46, 1° e 2° comma CCI), che dunque deve essere stato già previamente elaborato o almeno abbozzato dal debitore, non solo nei suoi contenuti giuridici, ma anche in quelli economici, meticolosamente elencati nell’art. 87 CCI (ciò che peraltro mal si concilia con il requisito dell’urgenza dell’intervento).

Qui poi sarebbe legittimo porsi un ulteriore interrogativo: se cioè il tribunale debba altresì verificare la sussistenza di quell’ulteriore requisito che è stato posto dall’art. 94, 3° comma CCI (dopo l’ammissione) alla concessione dell’autorizzazione del giudice delegato al compimento di un atto di straordinaria amministrazione e consistente nella funzionalità “al miglior soddisfacimento dei creditori” (poi ripreso dal 5° e 6° comma per l’esonero da procedure competitive di taluni atti), requisito che è presente in numerose altre disposizioni e che comporta evidentemente una valutazione prettamente economica, grosso modo parametrata ancora una volta a ciò che i creditori potrebbero ricevere dai riparti nella liquidazione giudiziale.

Ma è soprattutto dopo che il debitore ha depositato proposta, documentazione e piano, in sede di ammissione al concordato preventivo e poi anche successivamente all’ammissione, che il giudice è chiamato ad effettuare una serie di complesse valutazioni di natura economico-aziendale: prima sulla semplice scorta della relazione del professionista indipendente, che deve attestare la “fattibilità” (soprattutto in senso economico) del piano e, in caso di continuità aziendale, che questo è atto anche a “garantire la sostenibilità economica dell’impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento economico non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale” (art. 87, 3° comma CCI); poi sulla scorta degli accertamenti e delle valutazioni del commissario giudiziale, che comunque è il principale ausiliario del giudice e le cui relazioni (da quella iniziale di cui all’art. 105 CCI a quelle integrative) non possono che riguardare prevalentemente i profili economici della proposta e del piano del debitore.

D’altra parte è precisamente in relazione al piano che il legislatore, con la lunga elencazione del primo comma dell’art. 87 CCI, ha preteso una serie di valutazioni essenzialmente economiche, fra le quali innanzitutto il valore di liquidazione (non più del patrimonio, ma) dei beni e dei diritti del debitore, da determinarsi con riferimento all’eventuale liquidazione giudiziale, cui aggiungere per detta ipotesi (magari ricorrendo ad una magica sfera di cristallo) “le prospettive di realizzo” delle “azioni esperibili, al netto delle spese” (innanzitutto azioni di responsabilità e azioni revocatorie): valore di liquidazione, che il recente decreto correttivo n. 136 del 2024, risolvendo i dubbi sorti a seguito di talune interpretazioni giurisprudenziali divergenti3, ha stabilito che debba essere comprensivo dell’eventuale maggior valore economico realizzabile nella medesima sede della liquidazione giudiziale dalla cessione dell’azienda in esercizio (art. 87, 1° comma, lett. c CCI).

Ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa il piano deve indicare – e il tribunale è chiamato a verificare – sia gli effetti di quello industriale sul piano finanziario (oltre che i “tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione economico-finanziaria”); sia, per l’ipotesi di prosecuzione “in forma diretta e in tutti i casi in cui le risorse per i creditori sono, in tutto o in parte, realizzate nel tempo attraverso la prosecuzione dell’attività in capo al cessionario dell’azienda”, “l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura” (art. 87, 1° comma, lett. f CCI); il tutto sempre nell’ottica comparativa consistente nel principio in base al quale il soddisfacimento dei creditori in sede concordataria deve avvenire “in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale”, quale che sia la tipologia di concordato (art. 84, 1° comma CCI).

A tutto ciò va poi aggiunta la verifica della “fattibilità” del piano, che non potrebbe non essere anche “economica” (come precisato nella legge delega), sia se intesa (nel concordato liquidatorio) come “non manifesta inattitudine” dello stesso a raggiungere gli obiettivi prefissati, sia se intesa (nel concordato in continuità aziendale) come manifesta inidoneità alla soddisfazione dei creditori e alla conservazione dei valori aziendali (art. 47, 1° comma CCI): distinzione talmente evanescente4 da giustificarne in concreto qualunque applicazione creativa (se non discrezionale) per concedere o per negare l’accesso allo strumento concordatario.

Ora è chiaro che in sede di apertura il principale oggetto di controllo (di natura economico-aziendale) riservato al tribunale non può che essere la relazione dell’attestatore5 e quindi, ancora una volta (come in passato) la ragionevolezza, la correttezza metodologica, la logicità, la comprensibilità e la coerenza dei criteri valutativi adottati dall’esperto, anche sotto il profilo della completezza argomentativa della sua relazione, al fine di assicurare ai creditori, prima della votazione, una corretta informazione e un consenso informato: problema al quale in passato avevano tentato di dare risposta le Sezioni unite della Corte di cassazione (con la nota sentenza del 23 gennaio 2013, n. 1521)6, pur con qualche residua ambiguità, ma comunque sulla base (in sintesi) della condivisibile distinzione fra fattibilità “giuridica” da un lato e fattibilità “economica” dall’altro, le cui valutazioni dovevano spettare, quanto alla seconda, ai creditori, essendo “legata ad un giudizio prognostico, che fisiologicamente presenta margini di opinabilità ed implica possibilità di errore, che a sua volta si traduce in un fattore di rischio per gli interessati”: rischio che non poteva non far “esclusivo carico” ai creditori, “una volta che vi sia stata corretta informazione sul punto”.

Naturalmente, in questa fase, non può ritenersi preclusa una interlocuzione fra il proponente (o i professionisti che lo assistono) e il tribunale anche al fine di giungere ad eventuali modificazioni o integrazioni alla proposta e al piano, come peraltro suggerisce anche il quarto comma dell’art. 47 CCI, secondo cui il tribunale, proprio a tal fine, può concedere al debitore un termine non superiore a quindici giorni.

Successivamente a quel momento e fino al giudizio di omologazione – nel quale l’oggetto del controllo del tribunale è perimetrato dall’art. 112 CCI (che vi comprende anche i profili di “ammissibilità della proposta”) – entra in gioco la già menzionata norma dell’art. 106, 2° comma CCI, secondo cui, su relazione del commissario giudiziale dalla quale risulti che “mancano le condizioni prescritte per l’apertura del concordato”, ivi comprese quelle di natura economico-aziendale, fra le quali – ancora una volta – la non deteriorità del soddisfacimento dei creditori rispetto all’ipotesi di liquidazione giudiziale, il tribunale ha il potere di revocare il concordato ed eventualmente, su istanza di un soggetto legittimato, di aprire la procedura di liquidazione giudiziale, salvo stabilire se tutto ciò accada solo se l’iniziativa informativa parta dal commissario giudiziale (come sembra) o se la stessa possa provenire anche da altri o se l’informazione possa essere acquisita dal tribunale anche d’ufficio.

Certo è che, normalmente, dopo l’ammissione ed anche successivamente in relazione alla particolare disciplina dell’esecuzione c.d. “coattiva” prevista dall’art. 118 CCI, il tribunale può giudicare in base a tutti i riscontri, le informazioni e i chiarimenti acquisiti nel corso della procedura e comunque all’esito di un contraddittorio con il proponente7.

Fra le ipotesi nelle quali il controllo giudiziale non può non avere connotati economico-aziendali vanno comprese quelle nelle quali al tribunale è espressamente conferito il potere di giudicare della “convenienza” del concordato, come accade per il cram down fiscale e previdenziale o assistenziale nel concordato liquidatorio, qui in alternativa con la “non deteriorità”, che invece deve sussistere nel concordato in continuità aziendale (art. 88, ora 3° e 4° comma CCI) o per il cram down previsto nei giudizi di opposizione all’omologazione di cui all’art. 112, dal 3° al 5° comma CCI; ma con una differenza: che nel primo caso il tribunale può omologare, anche in mancanza di adesione (che ora espressamente comprende anche il voto contrario) da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali e assistenziali, ma senza che occorra la loro opposizione all’omologazione; nel secondo caso occorre invece l’opposizione di un creditore dissenziente o, secondo i casi, di una massa qualificata di creditori dissenzienti, che eccepiscano espressamente il difetto di convenienza della proposta.

Ebbene, se per un verso il giudizio di convenienza comporta evidentemente il bilanciamento fra ciò che a quei creditori è promesso nel concordato e ciò che gli stessi potrebbero o avrebbero potuto ricevere in caso di apertura della liquidazione giudiziale, è altrettanto vero che il medesimo bilanciamento in fondo costituisce oggetto fondante dello stesso giudizio di ammissione, posto che il concordato deve realizzare “il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale” (art. 84, 1° comma CCI) ed anche nel corso del procedimento, almeno fino alla fase di omologazione, stante la disposizione dell’art. 106.

Ma allora come coordinare l’apparente sovrapponibilità dei due giudizi: quello di “convenienza” e quello di “non deteriorità”, irragionevolmente equiparati ai fini del cram down fiscale e previdenziale o assistenziale nel concordato liquidatorio e il cui confine è talmente sottile da risultare impercettibile, ancorché il primo sembri caratterizzato rispetto al secondo dalla previsione di un miglior trattamento per i creditori, dal momento che una cosa è un trattamento più conveniente ed un’altra un trattamento “non deteriore”?

Per dare un senso alla menzionata distinzione, è forse possibile ritenere che il principio di non deteriorità prevalga fino al momento dell’omologazione, trattandosi di requisito di ammissibilità della proposta; ma, giunti a quella fase, una volta approvato il concordato dai creditori, perché il tribunale possa valutarne la convenienza, occorre che sia stata proposta una opposizione qualificata all’omologazione stessa, con l’unica eccezione del caso prima segnalato del trattamento dei crediti tributari e contributivi in presenza dei presupposti per il cram down di cui al novellato art. 88 CCI.

E a questo punto è possibile anche dare risposta all’interrogativo da cui siamo partiti: non credo che nella nuova disciplina, in concreto, l’intensità del controllo giudiziale nel concordato preventivo sia cambiata rispetto al passato; sono cambiate (forse) alcune parole, ma non la sostanza della relativa disciplina, che comunque anziché agevolare il ricorso al concordato, come sembra risultare anche dai recenti dati di Unioncamere, lo ha di fatto scoraggiato, ma per altri motivi, non certamente per il controllo giudiziale e comunque qui il giudice è incolpevole: la colpa, se c’è, è del legislatore, che con il Codice della crisi è andato alquanto in confusione.



1 Ben sottolineato fra gli altri da S. AMBROSINI, Concordato preventivo e controllo giudiziale: spigolature sui concetti di “fattibilità”, “non manifesta inidoneità” e “ragionevoli prospettive” (con una proposta de iure condendo), in Ristrutturazioni Aziendali del 13 maggio 2024, p. 17 ss.

2 In effetti a norma dell’art. 4 della Direttiva, se nel primo comma si riafferma che, qualora sussista una probabilità di insolvenza, il debitore deve poter avere “accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurare la loro sostenibilità economica, fatte salve altre soluzioni volte a evitare l'insolvenza, così da tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale”, nel secondo comma detta possibilità di accesso parrebbe esclusa solo per i debitori che sono stati condannati per gravi violazioni degli obblighi di contabilità o di tenuta dei libri ai sensi del diritto nazionale”, a meno che “tali debitori abbiano adottato opportuni provvedimenti per rettificare i problemi che hanno portato alla condanna, al fine di fornire ai creditori le informazioni necessarie per consentire loro di prendere una decisione durante le trattative sulla ristrutturazione”; dunque non qualunque “atto di frode” potrebbe impedire il ricorso ad un quadro di ristrutturazione preventiva (fra cui indubbiamente anche il concordato preventivo) diretto al fine di “tutelare i posti di lavoro e preservare l'attività imprenditoriale”, considerati obiettivi assolutamente prioritari; insomma un ripensamento da parte del legislatore anche a proposito della (eccessivamente) generica categoria degli “atti di frode” sarebbe forse opportuno, magari con qualche correttivo a disposizione anche dei giudici per situazioni particolari, prendendo atto una buona volta che una cosa è sanzionare un imprenditore inaffidabile ed un’altra è salvare un’azienda oggettivamente risanabile.

3 Ad esempio Trib. Roma, 24 ottobre 2023, in Ilcaso.it, Sez. Giurisprudenza, n. 30167 del 23 novembre 2023 e Trib. Milano, 5 febbraio 2024, in Ilcaso.it, Sez. Giurisprudenza, n. 30725 del 27 febbraio 2024.

4 Che Trib. Milano, 11 maggio 2023, in Fallimento, 2023, p. 1141 s., ha voluto declinare in questo modo: non manifesta presenza (quindi assenza) di elementi indicativi di inattitudine nel primo caso; presenza manifesta di elementi di idoneità nel secondo caso.

5 Così Trib. Bologna, 14 maggio 2024, in Ilcaso.it, Sez. Giurisprudenza, n. 31380 del 12 giugno 2024.

6 Fra i tanti commenti apparsi sulle Riviste giuridiche più qualificate anche il mio dal titolo I limiti del controllo giudiziale sulla “fattibilità” del concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, II, p. 343 ss.

7 Così ad esempio App. Bologna, 23 febbraio 2024, in Ilcaso.it, Sez. Giurisprudenza, n. 30982 del 5 aprile 2024.