, 07 marzo 2025, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. L’incidenza della “variabile fiscale” nella crisi d’impresa; 2. L’ampiezza del perimetro delimitante la tipologia dei debiti tributari e contributivi suscettibili di essere ristrutturati; 2.1. Il principio di indisponibilità dei crediti tributari e contributivi; 2.2. I debiti oggetto di ristrutturazione nella composizione negoziata della crisi; 2.3. I debiti tributari e contributivi oggetto di ristrutturazione nell’accordo di ristrutturazione dei debiti e nel concordato preventivo; 2.4. I debiti tributari e contributivi oggetto di ristrutturazione nel concordato semplificato liquidatorio; 3. La possibilità di imporre all’amministrazione finanziaria e agli enti previdenziali la ristrutturazione dei debiti nonostante il loro diniego, grazie a un provvedimento dell’Autorità giudiziaria (il cosiddetto cram down); 3.1. Il cram down fiscale nel concordato preventivo; 3.2. Il cram down fiscale nell’accordo di ristrutturazione dei debiti; 3.3. L’assenza di cram down nella composizione negoziata della crisi e nel PRO e il diverso regime del concordato semplificato liquidatorio; 4. Le limitazioni del cram down; 5. La responsabilità solidale per il pagamento dei debiti tributari dell’impresa in crisi da parte del soggetto terzo che acquista l’azienda, o un ramo aziendale, da tale impresa; 6. Il regime delle sopravvenienze attive da esdebitazione conseguite dall’impresa debitrice; 6.1. La nozione di perdita di periodo; 6.2. La nozione di perdite pregresse; 7. Il regime delle plusvalenze realizzate dall’impresa debitrice nella crisi d’impresa; 7.1. L’irrilevanza fiscale delle plusvalenze e delle minusvalenze derivanti dalla cessione dei beni ai creditori ex art. 86, comma 5, del Tuir; 8. Gli effetti ai fini dell’IVA delle riduzioni dei debiti; 9. Conclusioni.
1. L’incidenza della “variabile fiscale” nella crisi d’impresa
La “variabile fiscale” costituisce uno dei fattori che l’imprenditore deve considerare nella gestione aziendale, tanto ordinaria quanto straordinaria; ciò, naturalmente, come il più delle volte accade, quando un determinato risultato può essere raggiunto attraverso modalità e percorsi diversi, che consentano un arbitraggio, cioè una comparazione fra le possibili alternative, al fine di individuare quella più conveniente o anche semplicemente più appropriata.
Talvolta la differenza fra gli effetti tributari discendenti da atti, strumenti o percorsi fra loro alternativi non sono significativi e quindi, in questo caso, la “variabile fiscale” assume scarsa rilevanza e finisce per non influenzare le decisioni del management aziendale; in altre circostanze invece il suo peso è maggiore e quindi i suoi effetti devono essere necessariamente considerati.
Le imprese che si trovano in una situazione di crisi presentano spesso considerevoli esposizioni debitorie verso l’amministrazione finanziaria e gli istituti previdenziali (con l’espressione “amministrazione finanziaria” intendiamo le agenzie fiscali, cioè l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane, mentre con l’espressione “enti previdenziali” intendiamo gli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione obbligatorie, cioè principalmente l’Inps e l’Inail), poiché questi creditori sono soliti reagire all’omesso versamento delle somme a essi dovute in ritardo rispetto agli altri creditori (dipendenti, fornitori e banche), a causa delle rigide procedure che disciplinano il recupero dei tributi e dei contributi non versati dalle imprese e delle norme che attribuiscono al contribuente il diritto di avvalersi di varie forme di rateazione che si susseguono nel tempo, sebbene generalmente insufficienti per consentire il superamento di crisi che richiedono interventi più radicali, come la falcidia del debito e non solo la dilazione di pagamento (o la cosiddetta “rottamazione”) dello stesso. Per questo motivo la “variabile fiscale” assume, nell’ambito della gestione delle crisi aziendali, un peso rilevante ogniqualvolta il debito tributario e contributivo non sia marginale, il che, per il suddetto motivo, accade assai spesso.
Si rende pertanto necessario comprendere come tale variabile possa influenzare il percorso di risanamento che l’impresa in crisi deve intraprendere per riacquisire il proprio equilibrio economico-finanziario e patrimoniale, per proseguire l’attività o anche solo per ristrutturare i propri debiti.
Il Codice della crisi e dell’insolvenza (di seguito anche solo “Codice della crisi”) prevede infatti diversi istituti per raggiungere tale obiettivo e la valutazione della “variabile fiscale” si rivela necessaria, perché il trattamento dei debiti tributari e contributivi è tutt’altro che omogeneo in tali istituti; presenta, anzi, significative differenze e determina conseguentemente effetti assai diversi a seconda del percorso utilizzato.
Per apprezzare tali differenze occorre esaminare il diverso trattamento dei debiti di cui trattasi previsto nei vari istituti a cui l’imprenditore può ricorrere per risanare la propria impresa, considerando e comparando, istituti per istituto, diversi fattori, i quali sono essenzialmente i seguenti:
1) l’ampiezza del perimetro delimitante la tipologia dei debiti suscettibili di essere ristrutturati; 2) la possibilità di imporre all’amministrazione finanziaria e agli enti previdenziali la ristrutturazione dei debiti nonostante il loro diniego, grazie a un provvedimento dell’Autorità giudiziaria (cosiddetto cram down);
3) la sussistenza di limitazioni del cram down, ove consentito, quali sono le soglie minime di soddisfacimento dei predetti creditori pubblici;
4) la responsabilità solidale per il pagamento dei debiti tributari dell’impresa in crisi da parte del soggetto terzo che acquista l’azienda, o un ramo aziendale, da tale impresa;
5) il trattamento ai fini delle imposte sui redditi delle sopravvenienze da esdebitazione conseguite dall’impresa debitrice;
6) il regime fiscale delle plusvalenze realizzate dalle imprese che si avvalgono degli istituti previsti dal Codice della crisi;
7) gli effetti ai fini dell’iva della riduzione dei debiti generati dall’accesso agli istituti previsti dal Codice della crisi.
Nelle pagine seguenti verranno distintamente analizzati i differenti effetti che, in base alle norme vigenti, sono prodotti con riguardo a tali profili a seconda dell’istituto utilizzato per il risanamento, considerando i seguenti istituti: la composizione negoziata della crisi, il concordato liquidatorio semplificato, l’accordo di ristrutturazione dei debiti, il concordato preventivo (liquidatorio e in continuità) e il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (il cosiddetto “PRO”).
2. L’ampiezza del perimetro delimitante la tipologia dei debiti tributari e contributivi suscettibili di essere ristrutturati
Sino all’introduzione del D. Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (nel prosieguo “il terzo decreto correttivo”), entrato in vigore il 28 settembre 2024, il campo di applicazione della ristrutturazione (cioè la falcidia e/o la dilazione di pagamento) dei debiti tributari e contributivi è stato notevolmente differenziato nei diversi istituti disciplinati dal Codice della crisi. Grazie a detto decreto legislativo tali differenze sono state opportunamente ridimensionate, anche se permangono elementi di disomogeneità, che in alcuni casi tuttora limitano la suddetta ristrutturazione, per effetto del principio di indisponibilità dei crediti tributari e contributivi.
2.1. Il principio di indisponibilità dei crediti tributari e contributivi
L’amministrazione finanziaria e gli enti previdenziali, infatti, non possono disporre liberamente dei loro crediti, poiché questi sono indisponibili in assenza di norme che, in via specifica o generale, ne consentano la riduzione. Infatti, anche alla luce dell’interpretazione fornita dai giudici di legittimità, si può affermare che il principio di indisponibilità del credito tributario e contributivo è derogabile solo in presenza: i) di specifiche disposizioni, quali sono quelle relative alla cosiddetta “transazione fiscale e contributiva”, introdotte nell’ordinamento con l’art. 182-ter della legge fallimentare ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, e poi trasfuse con modifiche negli articoli 63 e 88 del Codice della crisi; ovvero ii) di disposizioni generali, cioè relative a tutti i crediti, e inerenti quindi anche quelli tributari e contributivi, che nell’ambito della crisi d’impresa ammettono la soddisfazione parziale di detti crediti, assistiti o meno da una causa legittima di prelazione, quali erano, ad esempio, quelle recate, relativamente al concordato preventivo, dall’art. 184 della legge fallimentare e sono ora quelle di cui all’art. 117 del Codice della crisi.
In questo senso si era del resto espressa già nel 2020, con la sentenza 16 ottobre 2020, n. 22456, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, che – nel confermare l’assenza di copertura costituzionale per il principio dell’indisponibilità della pretesa erariale (che perciò assume rilievo solo nella misura in cui la legge non vi deroghi) – ha precisato testualmente quanto segue: “Nella materia concordataria, la deviazione alla regola dell’indisponibilità va identificata nell’art. 184 L. Fall., comma 1, che stabilisce che, una volta omologato, il concordato spiega effetti nei confronti di tutti i creditori anteriori, senza che sia dato ravvisare alcuna esenzione in favore del Fisco, nonché nell’art. 160, comma 2, che prevede la possibilità del pagamento in percentuale dei creditori privilegiati - fra i quali rientra anche l'Erario - a condizione di non sovvertire l’ordine delle cause legittime di prelazione: come si evince dalle citate disposizioni, oltre che dallo stesso art. 182-ter, il legislatore non ha previsto un trattamento preferenziale ed esente dalla regola della par condicio per i crediti tributari, unico limite invalicabile essendo il rispetto del grado di privilegio che ad essi compete, ovvero il rispetto del principio di omogeneità di posizione giuridica altre categorie di creditori”.
Pertanto, la deroga legislativa al principio dell’indisponibilità dei crediti tributari e contributivi è da ricercare, oltre che nelle disposizioni attualmente contenute negli artt. 63 e 88, nelle norme che prevedono la possibilità di soddisfare in misura parziale anche tali crediti nell’ambito della crisi dell’impresa; in assenza delle une o delle altre tali crediti devono essere soddisfatti integralmente.
2.2. I debiti oggetto di ristrutturazione nella composizione negoziata della crisi
L’art. 23, comma 2-bis, del Codice della crisi prevede che nel corso della composizione negoziata della crisi può essere conclusoun accordo transattivo tra il debitore e le agenzie fiscali (Agenzia delle Entrate e Agenzia delle Dogane) e con l’agente della Riscossione.
Tale accordo ha a oggetto il pagamento parziale e/o dilazionato di tutti i debiti tributari, inclusi quelli relativi ai tributi e non solo gli importi dovuti a titolo di sanzioni e interessi, che anteriormente alle modifiche apportate dal terzo decreto correttivo erano i soli di cui l’art. 25-bis, commi da 1 a 3, del Codice della crisi consentiva la riduzione.
L’accordo non può invece riguardare i tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea, poiché lo esclude espressamente il suddetto comma 2-bis. Sin dall’approvazione del correttivo in prima lettura da parte del Consiglio dei ministri, questa disposizione ha generato un vivace, ancorché ingiustificato, dibattito sull’ampiezza di tale esclusione e in particolare sulla possibilità di falcidiare anche l’iva, sul presupposto che questa imposta costituisse una risorsa propria dell’Unione europea. Tuttavia, in base alla decisione UE- Euratom 2020/2053 del Consiglio dell’Unione europea del 14 dicembre 2020 tale tributo non costituisce una delle risorse proprie dell’Unione, tra le quali rientra sono un prelievo dello 0,30 per cento del gettito iva totale riscosso per tutte le forniture imponibili diviso per l’aliquota iva media ponderata calcolata per l’anno civile pertinente (la base imponibile da prendere in considerazione non può superare per ciascun Stato il 50% del reddito nazionale lordo). Conseguentemente anche l’iva può essere oggetto – nella composizione negoziata della crisi - di un accordo che ne preveda il pagamento parziale al pari degli altri tributi erariali.
Rimangono invece non falcidiabili, e non può neppure esserne dilazionato il pagamento (se non nei termini ordinari), i debiti verso gli enti previdenziali e assicurativi. Si tratta di un’esclusione priva di giustificazione, poiché non si comprende per quale motivo, mentre i tributi (il cui pagamento è dovuto in base a uno dei principi costituzionali di maggior rango) possono essere falcidiati, i contributi previdenziali (ferma restando la loro assoluta utilità e tenuto conto dal grado di privilegio da cui sono assistiti) non potrebbero esserlo; così come non si comprende per quale motivo i contributi potrebbero essere falcidiati nell’ambito di altri istituti, e in alcuni di essi anche forzosamente, mentre non potrebbero esserlo in alcun modo, neppure escludendo il cram down, nella composizione negoziata. Tuttavia, ciò è quanto la norma prevede, con esclusione di diversa interpretazione.
Non possono essere inoltre oggetto dell’accordo i crediti relativi ai tributi di cui sono titolari gli enti pubblici territoriali (comuni, province e regioni). La loro esclusione non deriva però dalla volontà del legislatore di escluderne la falcidiabilità, bensì dalla mancanza del tempo necessario per completare i necessari confronti con le parti interessate entro il termine di definitiva approvazione del decreto correttivo, che doveva essere necessariamente approvato entro il 13 settembre 2024, pena la decadenza della delega legislativa di cui costituiva attuazione. L’introduzione della possibilità di falcidiare nella composizione negoziata i tributi di cui sono titolari comuni, province e regioni è peraltro espressamente stabilita da uno dei principi direttivi previsti dall’art. 9, comma 1, lett. a), della Legge n. 111/2023 (legge delega per la revisione del sistema tributario). Si tratta quindi di una misura che potrà essere introdotta mediante il decreto delegato sulla fiscalità della crisi attuativo dei predetti principi. Tuttavia, tale delega riguarda solo la transazione dei tributi locali nella composizione negoziata e non anche negli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi (quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti e il PRO), il che rende necessari ulteriori provvedimenti, per evitare, relativamente alle medesime imposte, trattamenti differenziati da istituto a istituto, privi di giustificazione.
Affinché le agenzie fiscali possano pronunciarsi, in base a informazioni affidabili e provenienti da soggetti indipendenti, sulla proposta di accordo formulata loro dal debitore, valutando quando l’accordo è conveniente per l’Erario rispetto alla liquidazione giudiziale, è previsto che sia predisposta da un professionista indipendente una relazione che ne attesti la convenienza, la quale dovrà essere allegata alla proposta unitamente a una relazione sulla completezza e veridicità dei dati aziendali redatta dal revisore legale del soggetto proponente, se esistente, ovvero, in caso contrario, da un revisore legale a tal fine designato. Tali elaborati hanno lo scopo di fornire oggettivi elementi di giudizio alle agenzie fiscali, di cui queste possano avvalersi per esprimersi sugli accordi proposti loro.
Per espressa previsione normativa, costituiscono infatti oggetto della transazione fiscale “i tributi e i relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali”.
La transazione fiscale attiene, pertanto, solo ai tributi amministrati dall’Agenzia delle Entrate e dall’Agenzia delle Dogane, a prescindere dalla tipologia del gettito che si origina dal tributo. Nel suo campo di applicazione rientrano quindi l’iva, l’irpef, inclusa quella oggetto di ritenute operate e non versate dal sostituto d’imposta, l’ires, l’irap, le imposte indirette quali l’imposta di registro, le imposte ipotecarie e catastali, l’imposta di bollo, le tasse di concessione governativa, la tassa di circolazione delle autovetture, l’imposta sugli intrattenimenti, le tasse automobilistiche, le imposte demaniali, le imposte di fabbricazione e di consumo e anche le addizionali irpef e relative alle accise, in quanto amministrate dall’Agenzia delle Entrate e dall’Agenzia delle Dogane, nonché le imposte sostitutive di tali tributi, così come le imposte già abrogate, quali invim, l’irpeg e l’ilor (qualora ancora dovute).
La proposta di transazione fiscale può concernere altresì gli accessori relativi al tributo, dovendosi intendere per tali non solo gli interessi, le indennità di mora e i compensi di riscossione maturati, ma anche le sanzioni amministrative irrogate a seguito di violazioni tributarie.
Sotto il profilo oggettivo v’è perfetta identità tra i tributi che possono rientrare nella transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 57, inclusi quelli agevolati di cui all’art. 60 ovvero a efficacia estesa di cui all’art. 61 del Codice della crisi.
Nell’ambito oggettivo di applicazione della transazione contributiva rientrano i crediti di cui sono titolari gli istituti previdenziali, assistenziali e assicurativi (principalmente INPS, INAIL, INPDAI, INPGI, ENPALS e Cassa Edile) per contributi, premi e accessori di legge, privilegiati o chirografari, di cui ai sensi del citato art. 63 è possibile convenire la soddisfazione parziale e/o la mera dilazione. In attuazione del comma 6 dell’art. 32 del D.L. 29 novembre 2008 il Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, aveva definito con il decreto 4 agosto 2009 le modalità di applicazione nonché i criteri e le condizioni di accettazione da parte degli enti gestori di forme di previdenza ed assistenza obbligatorie degli accordi sui crediti contributivi, dovendo la proposta prevedere:
-il pagamento integrale dei crediti per contributi ad istituti, enti o fondi speciali - compresi quelli sostitutivi o integrativi - che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, nonché dei contributi per premi;
-il pagamento in misura non inferiore al 40% dei crediti per contributi dovuti a istituti ed enti per forme di tutela previdenziale e assistenziale diversi da quelli che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, nonché del 50% degli accessori;
-il pagamento in misura non inferiore al 30% dei crediti chirografari;
-l’esclusione dalla transazione dei crediti oggetto di cartolarizzazione e i crediti dovuti in esecuzione delle decisioni assunte dagli organi comunitari in materia di aiuti di stato.
Con la formulazione dell’art. 182-ter entrata in vigore dal 1° gennaio 2017 le suddette limitazioni erano peraltro venute meno, in quanto incompatibili con la nuova struttura della norma vigente da detta data. Tuttavia, a causa della resistenza opposta al riguardo dagli istituti previdenziali e assicurativi, si è reso necessario un apposito intervento normativo, per affermare esplicitamente l’inapplicabilità del menzionato decreto interministeriale. A questo fine, infatti, con l’art. 3, comma 1-ter, del D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 (convertito con modificazioni dalla citata Legge n. 159/2020, dalla data del 4 dicembre 2020) è stato stabilito che, con riferimento ai contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazione obbligatorie, “cessa di avere applicazione il provvedimento adottato ai sensi dell’art. 32, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185”, vale a dire il citato Decreto interministeriale del 4 agosto 2009. La medesima abrogazione rimane chiaramente ferma anche successivamente all’entrata in vigore del Codice della crisi.
Dal campo di applicazione della transazione fiscale restano invece esclusi i tributi locali (intendendo sinteticamente con questa espressione i tributi di cui sono titolari gli enti pubblici territoriali), quali ad esempio IMU, TASI, TARI, TOSAP, imposta di soggiorno, qualora, come normalmente accade, le relative attività di controllo e accertamento, oltre eventualmente a quelle di riscossione, e dunque le attività di amministrazione del tributo, sono espletate direttamente dagli enti che ne sono titolari (e non dalle agenzie fiscali). Infatti, le norme che disciplinano il trattamento dei crediti tributari contenute nell’art. 63 e nell’art. 88 del Codice sono qualificabili come regole speciali e possono pertanto essere applicate solo ai crediti tributari e contributivi che sono in esse espressamente indicati. Tuttavia, la mancata inclusione di questi ultimi nel campo di applicazione della transazione fiscale non ne impedisce la falcidia, come peraltro nella composizione negoziata, ma comporta esclusivamente che essa è disciplinata, nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, dalle norme generali previste dall’art. 57, anziché da quelle speciali dell’art. 63, ovvero, per quanto attiene al concordato preventivo, il Pro e la composizione negoziata, dalle regole che disciplinano il trattamento della generalità dei crediti in tali istituti.
Infatti, dalla circostanza che, attraverso l’introduzione della transazione fiscale, il legislatore abbia ritenuto necessario prevedere un procedimento speciale, per derogare al principio di indisponibilità dei crediti tributari, può farsi discendere solo che tale procedimento è indispensabile per falcidiare i debiti tributari e contributivi e non anche per falcidiare quelli relativi ai tributi locali.
2.4. I debiti tributari e contributivi oggetto di ristrutturazione nel concordato semplificato liquidatorio
La transazione fiscale non è prevista nell’ambito del concordato semplificato liquidatorio di cui all’art. 25-sexies del Codice in considerazione della diversa struttura di tale istituto, che non richiede un accordo con i creditori né l’espressione di un voto da parte di questi ultimi, ma solo la possibilità di opporsi alla omologazione del concordato da parte del tribunale, il quale, eseguite le necessarie verifiche, ha in ogni caso il potere di omologare il concordato.
La transazione fiscale e contributiva è stata invece estesa dal terzo decreto correttivo al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (Pro). All’art. 64-bis del Codice, infatti, è stato aggiunto il comma 1-bis, grazie al quale, prima della domanda di omologazione di detto piano, il debitore può proporre il pagamento parziale e/o dilazionato dei tributi e dei contributi, nonché di sanzioni e interessi, depositando agli uffici territorialmente competenti delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali un’apposita proposta, a cui deve essere allegata la relazione di un professionista indipendente che attesta, oltre alla veridicità dei dati aziendali, anche la sussistenza di un trattamento non deteriore di tali crediti rispetto all’alternativa liquidatoria. Significa che tale proposta deve prevedere un trattamento dei crediti tributari e contributivi non inferiore a quello che questi riceverebbero in caso di liquidazione giudiziale e questa circostanza rileva come condizione di efficacia della proposta (che sarebbe altrimenti inammissibile), e non solo in caso di opposizione del creditore dissenziente, come prevede il comma 8 del citato art. 64-bis con riguardo alla generalità di creditori.
3. La possibilità di imporre all’amministrazione finanziaria e agli enti previdenziali la ristrutturazione dei debiti nonostante il loro diniego, grazie a un provvedimento dell’Autorità giudiziaria (il cosiddetto cram down)
Per superare queste criticità, con l’approvazione del Codice della crisi è stato attribuito al tribunale il potere di omologare forzosamente la transazione fiscale (e contributiva), cioè il cosiddetto cram down, al precipuo “fine di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate, spesso registrate nella prassi”, come si legge nella relazione illustrativa che accompagnò l’approvazione del D. Lgs. 12 gennaio 2019, n 14 (tale misura entrò peraltro in vigore ancor prima del Codice della crisi, il 4 dicembre 2020, grazie a una modifica della legge fallimentare con cui il legislatore volle anticiparne i benefici).
Tale previsione, inizialmente contenuta nel comma 5 dell’art. 48 del Codice della crisi, attribuiva al tribunale il potere di omologare gli accordi di ristrutturazione dei debiti (e non i concordati) anche in mancanza di adesione dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali alle proposte di transazione connesse a tali accordi, quando: a) tale adesione fosse risultata decisiva al fine del raggiungimento delle percentuali dei crediti previste per la omologazione degli accordi stessi e b) il soddisfacimento dei crediti fiscali offerto dall’impresa debitrice fosse risultata, anche sulla base delle risultanze dell’attestazione resa dal professionista indipendente, più conveniente di quello derivante dall’alternativa liquidazione.
Il cram down fiscale è stato poi esteso al concordato preventivo dall’art. 7, comma 7, del D. Lgs. n. 147/2020, con cui è stato ampliato l’oggetto del citato art. 48, comma 5, e, infine, la previsione concernente la omologazione forzosa è stata trasferita nell’art. comma 2-bis dell’art. 63 e nel comma 2-bis dell’art. 88 del Codice della crisi, relativi rispettivamente agli accordi di ristrutturazione e al concordato preventivo.
Dopo alcune incertezze interpretative iniziali, è stato chiarito – prima dalla giurisprudenza e poi dallo stesso legislatore, che con l’espressione “in mancanza di adesione” si doveva intendere sia il caso in cui le agenzie fiscali e/o gli enti previdenziali non si pronunciano sulla proposta di transazione entro novanta giorni dal ricevimento della stessa, ma anche quello in cui i creditori pubblici rigettano espressamente la proposta, poiché pure in questa circostanza “manca” l’adesione e sussiste quindi l’esigenza di porre rimedio a un diniego che, ogniqualvolta la proposta di transazione sia conveniente per l’Erario, è da considerare ingiustificato e illegittimo.
3.1. Il cram down fiscale nel concordato preventivo
Come si è anticipato, la transazione fiscale è disciplinata, con riguardo al concordato preventivo, dall’art. 88 del Codice della crisi, il quale, prima del terzo decreto correttivo, così iniziava: “Fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2, ………………..”. Questo incipit ha originato interpretazioni contrastanti in merito alla possibilità di applicare il cram down fiscale nel concordato in continuità aziendale, che, infatti, è stata esclusa inizialmente dal Tribunale di Lucca 18 luglio 2023 (la cui posizione è stata condivisa dalla Corte d’Appello di Firenze 31 ottobre 2023) e poi da altri diversi giudici di merito, principalmente per due motivi: 1) in base al predetto incipit, che in tale forma di concordato avrebbe sottratto la disciplina della omologazione forzosa all’art. 88, per attribuirla esclusivamente all’art. 112; 2) perché il comma 2-bis dell’art. 88 richiamava testualmente solo il comma 1 dell’art. 109 del Codice, il quale dispone in merito al concordato liquidatorio, mentre nessun rinvio era diretto al comma 5 dell’art. 109, che attiene invece al concordato in continuità.
Contro tale prevalente orientamento si era peraltro espresso (condivisibilmente ad avviso di chi scrive) il Tribunale di Napoli con sentenza del 24 aprile 2024 (seguita poi da altre pronunce di analogo tenore), che invece ha attribuito rilevanza alla disposizione contenuta nella seconda parte del previgente comma 2 dell’art. 88, in forza della quale l’attestazione del professionista indipendente deve avere ad oggetto - anche - la convenienza del trattamento proposto con il concordato rispetto alla liquidazione giudiziale e, nel concordato in continuità aziendale, la sussistenza di un trattamento non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria. Infatti, il concetto di convenienza è tipico del concordato liquidatorio, mentre quello della non deteriorità è tipico del concordato in continuità: menzionando il comma 2-bis, che disciplinava il cram down nel concordato, anche il carattere non deteriore della proposta, esso intendeva evidentemente - secondo il Tribunale di Napoli – far riferimento anche il concordato in continuità.
Al fine di scongiurare incertezze, su un tema così rilevante è intervenuto il legislatore con il terzo decreto correttivo, risolvendo in senso positivo la questione interpretativa concernente la possibilità di omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva nel concordato in continuità. In particolare, il legislatore (che ha peraltro utilizzato l’occasione per chiarire ulteriormente in maniera esplicita che la locuzione “in mancanza di adesione” comprende anche il diniego espresso dai creditori pubblici) ha abrogato il comma 2-bis dell’art. 88 e ha disciplinato l’omologazione forzosa della transazione fiscale nel concordato preventivo in due distinti commi.
Il comma 3 è ora dedicato esclusivamente al concordato liquidatorio e stabilisce (in sostanziale corrispondenza con il previgente comma 2-bis) che in tale ambito il tribunale omologa il concordato anche in mancanza di adesione delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, quando l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui all’art. 109, comma 1, e il soddisfacimento di detti creditori è conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale.
Il comma 4 è dedicato, invece, esclusivamente al concordato in continuità e stabilisce che il tribunale omologa il concordato anche in mancanza di adesione delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali, se il soddisfacimento di detti creditori risulta non deteriore rispetto all’alternativa liquidatoria. Ricorrendo questa ipotesi (cioè quella della non deteriorità della proposta) – prosegue la norma – “il tribunale omologa se tale adesione (n. d. a.: quella del Fisco o degli enti) è determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza delle classi prevista, ai fini della omologazione, dal primo periodo dell’art. 112, comma 2, lett. d), oppure se la stessa maggioranza è raggiunta escludendo dal computo le classi dei creditori di cui al comma 1” (cioè quelle dei creditori pubblici).
Attesa la natura del contrasto interpretativo che si è inteso risolvere, la nuova disposizione certamente afferma che il tribunale può disporre l’omologazione forzosa anche nel concordato in continuità. Tuttavia, l’uso della congiunzione (con valore disgiuntivo) “oppure” rischia di generare nuove incertezze sugli effetti del provvedimento del tribunale sul voto. Così scritta, infatti, la norma sembra porre in alternativa la prima parte del secondo periodo del comma 4 con la seconda parte del medesimo periodo, posto che, in assenza di una specifica previsione, potrebbe ritenersi che l’effetto del cram down fiscale sia costituito dalla conversione del voto negativo dei creditori pubblici in un voto positivo, oppure dalla sterilizzazione di tale voto (cioè dal suo scomputo nel calcolo della maggioranza). La differenza non è di poco conto, perché in presenza di una situazione in cui, ad esempio, su cinque classi due hanno espresso un voto favorevole e tre, tra le quali quella relativa ai crediti tributari, un voto contrario, se si applica il criterio della conversione, il voto della classe del Fisco è da intendersi favorevole e quindi la maggioranza risulta raggiunta con il voto positivo di tre classi su due; con il criterio della sterilizzazione, invece, la maggioranza non risulta raggiunta poiché, a fronte di due voti negativi, solo due sono da intendersi positivi. In ogni caso, in base alla lettera della norma pare difficile escludere la possibilità di utilizzazione di entrambi i criteri, anche se la previsione del secondo (quello della sterilizzazione) si rivela inutile, non essendo mai necessario farvi ricorso, attesa la sufficienza del primo a permettere tutte le omologazioni consentite dal secondo (come già i semplici esempi che precedono dimostrano).
3.2. Il cram down fiscale nell’accordo di ristrutturazione dei debiti
Analogamente a quanto previsto con riferimento al concordato preventivo, il previgente comma 2-bis dell’art. 63, che disciplina la transazione nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, ha attribuito al tribunale il potere di omologare la transazione fiscale e contributiva anche qualora, entro novanta giorni dal deposito della proposta di transazione, non sia intervenuta l’adesione dell’Amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali, quando: a) l’adesione sia determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di adesione dei creditori previste per la omologazione degli accordi stessi e b) il soddisfacimento dei crediti tributari o contributivi offerto dall’impresa debitrice sia, anche sulla base delle risultanze dell’attestazione resa dal professionista indipendente, più conveniente di quello derivante dall’alternativa liquidazione giudiziale.
Ciò comporta che la domanda di omologazione forzosa della transazione non può essere presentata prima che sia decorso il suddetto termine di novanta giorni, appositamente stabilito dall’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 63, come confermato dal terzo decreto correttivo. Infatti, l’art. 40, comma 4, del Codice prevede che gli accordi di ristrutturazione, contestualmente alla presentazione della domanda con cui ne viene richiesta l’omologazione, sono pubblicati nel registro delle imprese; ne discende quindi che, nel momento di tale richiesta, questi ultimi, tra i quali rientra la transazione fiscale, devono essere stati già sottoscritti dai rispettivi creditori, poiché in caso contrario non esisterebbero e non potrebbero quindi essere pubblicati. È vero che, ai sensi dell’art. 63 del Codice, il Tribunale omologa forzosamente la transazione fiscale anche in mancanza di un accordo con l’agenzia delle Entrate, se ne ricorrono i presupposti sopra indicati; tuttavia, l’assolvimento di tale funzione sostitutiva da parte del Tribunale presuppone che il debitore abbia precedentemente e tempestivamente dato all’Amministrazione finanziaria la possibilità di esprimersi sulla proposta di transazione che le ha formulato e l’ultimo periodo del comma 2 del citato art. 63 dispone al riguardo che, ai fini della omologazione forzosa della transazione, l’eventuale adesione dei creditori pubblici deve intervenire entro novanta giorni dal deposito della proposta di transazione. Ciò significa che l’adesione può considerarsi “mancante” solo dopo che sia inutilmente decorso tale termine e, poiché la domanda di omologazione forzosa può essere presentata solo in caso di “mancanza” dell’adesione del Fisco, essa non può essere depositata se il suddetto termine di novanta giorni non è ancora spirato, non potendo l’accordo essere ancora considerato “mancante”. Inoltre, le agenzie fiscali devono essere messe in condizione di potersi opporre alla omologazione forzosa e ciò è loro consentito solo se possono disporre di un congruo periodo per esaminare la proposta di transazione formulata, periodo che il legislatore ha individuato in quello di novanta giorni. Ciò posto, occorre considerare che, a norma del comma 4 dell’art. 48 del Codice, l’opposizione deve intervenire entro trenta giorni dall’iscrizione della domanda di omologazione nel registro delle imprese, che è eseguita contestualmente al deposito di tale domanda; pertanto, se quest’ultima è coeva alla proposta di transazione fiscale, il diritto di opposizione delle agenzie fiscali verrebbe sostanzialmente escluso, perché l’opposizione dovrebbe essere proposta in trenta giorni e tale periodo non è mai sufficiente per valutare una proposta di transazione fiscale.
La disciplina che deriva dalle disposizioni richiamate è quindi la seguente:
1) a seguito dell’adesione dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali il debitore può richiedere la omologazione ordinaria della transazione fiscale e contributiva, depositando l’accordo di ristrutturazione sottoscritto (o gli accordi sottoscritti), senza dover attendere alcun termine;
2) l’omologazione forzosa della transazione può essere richiesta solo a seguito del rigetto della proposta senza dover attendere alcun termine ovvero, in mancanza di un provvedimento dell’amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali, trascorsi inutilmente novanta giorni dalla data di deposito della proposta, dovendo in entrambi casi depositare il debitore, non un accordo sottoscritto, ma il testo dell’accordo proposto ai creditori pubblici oggetto di mancata adesione.
3.3. L’assenza di cram down nella composizione negoziata della crisi e nel PRO e il diverso regime del concordato semplificato liquidatorio
Nella composizione negoziata della crisi la possibilità di cram down fiscale è esclusa, anche quando l’accordo dei debiti tributari proposto alle agenzie fiscali sia per conveniente per l’amministrazione finanziaria. Ciò non deve tuttavia stupire, attesa la natura della composizione negoziata, che è stragiudiziale e quindi incompatibile con adesioni forzose dei creditori che non intendano aderire alle proposte formulate loro dall’impresa debitrice.
La possibilità di cram down è inoltre esclusa nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO), in considerazione della natura di questo strumento, che è anch’esso fondato sull’adesione dei creditori. Per di più il piano di ristrutturazione non può essere omologato se manca il voto favorevole di tutte le classi di creditori e, dovendo le classi essere omogenee, i crediti delle agenzie fiscali e degli enti previdenziali devono necessariamente costituire una classe distinta da quelle relative agli crediti. Ne discende che, ove fosse consentito il cram down, verrebbe violato il principio della unanimità delle adesioni delle classi che costituisce una delle regole essenziali di questo istituto (rappresentando un contrappeso rispetto alla possibilità di non applicare l’ordine delle legittime cause di prelazione).
Come si è già esposto, nel concordato semplificato liquidatorio non è previsto un accordo tra l’impresa debitrice e i creditori pubblici né l’espressione di un voto da parte di questi ultimi, ma solo la loro possibilità di opporsi alla omologazione. Conseguentemente non è previsto nemmeno il cram down; tuttavia, le regole di omologazione di tale concordato sono tali da dar luogo nella sostanza a un “cram down generale” nei confronti di tutti i creditori, poiché ai sensi del comma 5 dell’art. 25-sexies del Codice della crisi il tribunale omologa il concordato, verificata la regolarità del procedimento, il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione e la fattibilità del piano, se la proposta non arreca pregiudizio ai creditori rispetto alla liquidazione giudiziale e comunque assicura un’utilità a ciascun creditore.
4. Le limitazioni del cram down
Il cram down, vale a dirsi l’omologazione forzosa della transazione fiscale e contributiva è dunque consentito nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo. Tuttavia, mentre in quest’ultima procedura esso è disposto in base alle regole generali esposte nel precedente paragrafo 3.1. (convenienza della proposta e carattere determinante dell’adesione dei creditori pubblici ai fini del raggiungimento delle maggioranze di legge), nel contesto degli accordi di ristrutturazione esso è consentito solo se, oltre a essere rispettate le corrispondenti regole generali, non ricorrono specifiche preclusioni e se il soddisfacimento dei crediti tributari e contributivi non è inferiore a soglie determinate dal legislatore.
Infatti, allo scopo di porre un freno alle proposte sostanzialmente abusive, in quanto non conformi alla ratio della transazione fiscale e contributiva, a causa dell’elevato peso dei debiti fiscali e previdenziali oggetto di transazione rispetto all’esposizione debitoria complessiva dell’impresa debitrice, del valore irrisorio del soddisfacimento offerto ai creditori pubblici o della presenza di condotte fraudolente da parte dei proponenti, l’originario assetto normativo dell’art. 63 del Codice della crisi è stato modificato, dapprima con l’art. 1-bis del D.L. 13 giugno 2023, n. 69, e infine con il terzo decreto correttivo, i cui comma 4 e 5 prevedono quanto segue:
i) il tribunale omologa gli accordi di ristrutturazione anche in mancanza di adesione, che comprende il voto contrario, da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazioni obbligatorie quando, anche sulla base delle risultanze della relazione del professionista indipendente, l’adesione è determinante ai fini del raggiungimento delle percentuali di cui agli articoli 57, comma 1, e 60, comma 1, del Codice della crisi e ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni, oggetto di specifica valutazione da parte del tribunale:
a) l’accordo non ha carattere liquidatorio;
b) il credito complessivo vantato dagli altri creditori aderenti agli accordi di ristrutturazione è pari ad almeno un quarto dell’importo complessivo dei crediti;
c) il soddisfacimento dell’amministrazione finanziaria o dei predetti enti è non deteriore rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale alla data della proposta;
d) il soddisfacimento dei crediti dell’amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è almeno pari al 60 per cento dell’ammontare dei crediti di ciascun ente creditore, esclusi sanzioni e interessi, fermo restando il pagamento degli interessi di dilazione al tasso legale vigente nel corso di tale periodo.
ii) se l'ammontare complessivo dei crediti vantati dagli altri creditori aderenti agli accordi di ristrutturazione è inferiore a un quarto dell’importo complessivo dei crediti, oppure non vi sono altri creditori aderenti, la disposizione di cui al comma 4 trova applicazione, fatto salvo il rispetto delle condizioni di cui alle lettere a) e c) del medesimo comma 4, se la percentuale di soddisfacimento dei crediti.
iii) le disposizioni di cui ai precedenti punti i) e ii) non trovano applicazione se si verifica una delle seguenti ipotesi:
a) se, fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 58 del Codice della crisi (concernente la rinegoziazione degli accordi e le modifiche del piano), nei cinque anni precedenti il deposito della proposta il debitore ha concluso una transazione nell’ambito degli accordi regolati dal presente articolo avente a oggetto debiti della stessa natura, risolta di diritto;
b) se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:
1) il debito nei confronti dell’amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di previdenza, assistenza e assicurazioni obbligatorie maturato sino al giorno anteriore a quello del deposito della proposta di transazione fiscale è pari o superiore all’ottanta per cento dell’importo
complessivo dei debiti maturati dall’impresa alla medesima data;
2) il debito, tributario o previdenziale, deriva prevalentemente da omessi versamenti, anche solo parziali, di imposte dichiarate o contributi nel corso di almeno cinque periodi d’imposta, anche non consecutivi, oppure deriva, per almeno un terzo del complessivo debito oggetto di transazione con i creditori pubblici dall’accertamento di violazioni realizzate mediante l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici.
A seguito della riformulazione delle predette norme, nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti l’omologazione forzosa è quindi innanzitutto preclusa, quando il debito tributario e contributivo, maturato sino al giorno anteriore a quello di presentazione della proposta di transazione, non è inferiore all’80% dell’intera esposizione debitoria dell’impresa che ha formulato la proposta di transazione e al tempo stesso:
a) il debito tributario o contributivo deriva prevalentemente (cioè in misura superiore al 50%) da omissioni di versamenti relativi a imposte o contributi commesse nel corso di almeno cinque anni: ne discende che tale presupposto sussiste anche ove siano stati, per assurdo, omessi solo cinque versamenti e di qualunque importo, purché in cinque periodi d’imposta differenti, oltre che non consecutivi;
b) oppure nel caso in cui il debito tributario o previdenziale derivi, per almeno un terzo del complessivo debito oggetto di transazione, dall’accertamento di violazioni realizzate mediante l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici o raggiri, condotte simulatorie o fraudolente (tra queste violazioni rientrano, ad esempio, quelle relative all’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o di crediti d’imposta discendenti da agevolazioni fiscali in realtà inesistenti).
Le fattispecie di cui alle lettere a) e b) sono quindi fra loro alternative e, per precludere l’omologazione forzosa, almeno una di esse deve ricorrere congiuntamente al raggiungimento della soglia debitoria del 80% di debito tributario e contributivo, il quale, precisando la norma che si tratta del debito “maturato sino al giorno anteriore a quello di deposito della proposta di transazione fiscale”, deve essere determinato considerando, oltre alle imposte e ai relativi interessi, le sanzioni irrogate a tale data e non quelle, di maggiore entità, che si rendono dovute a seguito dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute discendente dalla presentazione della proposta di transazione (è, infatti, per questo specifico motivo che la norma fa riferimento al debito “maturato sino al giorno anteriore a quello di deposito” di detta proposta).
La disposizione di cui trattasi ha lo scopo di contrastare la condotta di quelle imprese che omettono sistematicamente il versamento di imposte e contributi, magari reperendo in tal modo le risorse finanziarie necessarie per pagare altri creditori come banche e fornitori, confidando poi di ottenere una falcidia dei loro debiti tributari e contributivi semplicemente presentando una proposta di transazione che, alla luce della situazione patrimoniale ormai deterioratasi, risulti conveniente per tali creditori rispetto alla liquidazione giudiziale, realizzando il presupposto principale del (e rendendo quindi possibile il) cram down.
Pare eccessivo che la preclusione possa essere provocata anche solo da contestazioni prive del benché minimo vaglio giudiziario, a seguito del quale potrebbero rivelarsi poi prive di fondamento ed essere pertanto annullate. Per evitare tale effetto, sarebbe stato infatti preferibile prevedere la rilevanza, ai fini di cui trattasi, di tali contestazioni solo ove siano state confermate almeno in un grado di giudizio. Tuttavia, per precludere l’omologazione forzosa è necessario che l’importo delle violazioni contestate ecceda un terzo dell’ammontare del debito tributario e contributivo e, inoltre, che quest’ultimo rappresenti almeno l’ottanta per cento dell’esposizione debitoria complessiva: pertanto, nonostante la lacuna testé rilevata, i casi ai quali la norma di cui trattasi potrà essere applicata non saranno molti e quando ricorreranno presenteranno profili patologici tali da giustificare il maggior rigore introdotto dal correttivo.
Gli omessi versamenti che rilevano ai fini della preclusione del cram down devono essere relativi, in base alla lettera della norma, a “imposte dichiarate” e pertanto si dovrebbe trarne la conseguenza che, ove riguardino imposte non dichiarate, la preclusione non si verifichi; sarebbe tuttavia una conclusione errata, perché, se così fosse, la condotta più grave (costituita dal mancato versamento di imposte nemmeno dichiarate, del quale l’Agenzia delle Entrate non ha conoscenza) non genererebbe alcuna preclusione, al contrario di quella meno grave, costituita dal mancato versamento di tributi la cui omissione è stata dichiarata al Fisco, che invece la genererebbe. Una diversa formulazione della norma, peraltro espressamente suggerita prima dell’approvazione del decreto correttivo, avrebbe evitato il rischio di interpretazioni non razionali.
Le omissioni rilevano in quanto siano state commesse in cinque periodi e ineriscano a tributi e/o contributi oggetto della proposta di transazione fiscale, la quale, dovendo includere tutti i debiti tributari e contributivi esistenti, li deve necessariamente comprendere: significa che non è possibile eludere la preclusione del cram down escludendo dalla transazione alcuni debiti al fine di ridurre al di sotto della soglia temporale stabilita dalla norma (cioè quella dei cinque anni) il numero dei periodi entro i quali sono stati omessi i versamenti dei tributi e contributi oggetto dell’accordo. È precisato che tali periodi possono anche non essere consecutivi e ciò significa che le omissioni possono produrre la preclusione della omologazione forzosa anche se sono state commesse in un periodo più ampio di un quinquennio (ad esempio, nel caso in cui i versamenti siano stati omessi nell’arco di sette anni, ma solo in cinque di tali anni). Non essendo, infine, prevista una soglia di rilevanza minima dell’importo oggetto degli omessi versamenti, questi ultimi rilevano in ogni caso e dunque anche se in un periodo d’imposta l’ammontare dei tributi non versati sia marginale. L’introduzione di una soglia minima (ad esempio del 20% dell’importo dei tributi dovuti per l’intera annualità) avrebbe evitato applicazioni della norma eccessivamente penalizzanti.
Ciò nonostante, al di fuori del caso in cui siano state elevate dal Fisco contestazioni aventi a oggetto condotte fraudolente, come si è rilevato, la preclusione dell’omologazione forzosa opera solo se il debito tributario e contributivo deriva da omissioni di versamenti commesse nel corso di cinque periodi d’imposta; pertanto, per impedirne l’applicazione, è sufficiente che l’impresa debitrice, dopo quattro anni in cui ha omesso il pagamento di qualche tributo, presenti la proposta di transazione fiscale, evitando un’ulteriore omissione di versamento in un altro (cioè nel quinto) anno. La norma assolverebbe comunque anche in questo caso la propria funzione, che è proprio quella di evitare la formazione del debito oggetto di transazione in un periodo troppo ampio e conseguentemente che esso assuma una dimensione ingiustificata.
Le altre limitazioni del cram down introdotte dal decreto correttivo sono le seguenti:
1)l’omologazione forzosa viene esclusa se, al di fuori della modifica sostanziale del piano di risanamento disciplinata dall’all’articolo 58 del Codice dopo la omologazione dell’accordo, nei cinque anni anteriori al deposito della proposta di transazione il debitore ha concluso una precedente transazione avente a oggetto debiti della stessa natura, risolta di diritto per inadempimento. Per evitare aggiramenti di tale regola, è stato espressamente previsto, mediante l’introduzione di una norma antiabuso (comma 7), che l’esclusione troverà applicazione anche quando il proponente ha proseguito, a seguito di fusione o scissione ovvero di cessione, conferimento o affitto di azienda, anche di fatto o mediante negozi equipollenti, l’attività precedentemente esercitata da un soggetto che, nel corso dei cinque anni precedenti, ha concluso una transazione
2) non sarà pari almeno: a) al 60% di tali crediti, esclusi interessi e sanzioni (il che significa che il soddisfacimento del debito tributario complessivo deve generalmente essere pari a circa il 45% del suo ammontare complessivo, comprensivo di sanzioni e interessi), qualora i creditori diversi da quelli pubblici che hanno aderito alla ristrutturazione rappresentino meno del 25% dell’intera esposizione debitoria del contribuente, ovvero b) al 50% di tali crediti, esclusi interessi e sanzioni (il che significa che il soddisfacimento del debito tributario complessivo deve generalmente essere pari a circa il 37% del suo ammontare complessivo, comprensivo di sanzioni e interessi), qualora i creditori diversi da quelli pubblici che hanno aderito alla ristrutturazione rappresentino il 25% o più dell’intera esposizione debitoria.
5. La responsabilità solidale per il pagamento dei debiti tributari dell’impresa in crisi da parte del soggetto terzo che acquista l’azienda, o un ramo aziendale, da tale impresa.
La responsabilità dell’acquirente di un’azienda (o di un ramo aziendale) per i debiti del cedente è disciplinata da due norme: a) relativamente alla generalità dei debiti (fiscali inclusi), dall’art. 2560, comma 2, del codice civile, ai sensi del quale a seguito del trasferimento di un’azienda commerciale risponde dei debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anche l’acquirente dell’azienda, se essi risultano dai libri contabili obbligatori; b) relativamente, in via specifica, ai debiti tributari, dall’art. 14 del D. Lgs. n. 472/1997, il quale anteriormente alle modifiche apportate dal decreto correttivo del Codice della crisi e dal D. Lgs. n. 87/2024 (avente a oggetto la riforma delle sanzioni tributarie non penali), dopo aver stabilito con il comma 1 che il cessionario di un’azienda risponde solidalmente (entro certi limiti quantitativi e temporali, fatto salvo il caso di frode) del pagamento dell’imposta e delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse dal cedente, con il comma 5-bis escludeva detta responsabilità se il trasferimento d’azienda avveniva nell’ambito di una procedura concorsuale, di un accordo di ristrutturazione dei debiti, di un piano attestato di risanamento, di un procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento o di liquidazione del patrimonio. Tale esclusione rispondeva e risponde a una evidente finalità agevolativa, ovverosia quella di facilitare la soluzione negoziale della crisi in cui si trova l’impresa cedente, attraverso l’eliminazione dei rischi fiscali che altrimenti graverebbero sull’acquirente, costituendo un ostacolo al trasferimento dell’azienda e quindi al risanamento dell’impresa in crisi.
A detta esclusione oggettiva non corrispondeva però - relativamente agli istituti sopra richiamati - un’analoga esclusione della responsabilità per i debiti del cedente che l’art. 2560, comma 2, cod. civ. fa ricadere su chi acquista un’azienda per i debiti tributari risultanti dai libri contabili obbligatori del cedente.
Infatti, tale responsabilità era ed è esclusa nella composizione negoziata (previa autorizzazione del tribunale ex art. 22 del Codice) sin dalla sua introduzione e inoltre nel concordato preventivo, al concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, nel concordato minore e nalla liquidazione giudiziale, per effetto rispettivamente degli articoli 118, comma 8, 25-sexies, comma 8, 74, ultimo comma, e 214, comma 3; peraltro, in virtù del comma 9-bis aggiunto all’art.64-bis dal terzo decreto correttivo, l’esclusione è stata estesa al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (Pro).
Quella disciplinata dal citato comma 5-bis rilevava, invece, solo per la liquidazione giudiziale, per il concordato preventivo, per il concordato semplificato liquidatorio ex art. 25-sexies, per il concordato minore ex art. 74, per l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 del Codice, per il piano attestato di risanamento ex art. 56 del Codice, per “il procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento” (cioè la ristrutturazione dei debiti del consumatore di cui all’art. 67 del Codice) e per quello di “liquidazione del patrimonio”.
Da un assetto normativo siffatto discendeva, per esempio, che relativamente alle cessioni di complessi aziendali autorizzate dal tribunale nella composizione negoziata della crisi era esclusa la responsabilità civilistica dell’acquirente, ma sussisteva quella tributaria; del pari, relativamente alle cessioni di complessi aziendali perfezionate in attuazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, di un piano attestato di risanamento o nell’ambito di un piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, era ed è tuttora esclusa la solidarietà dell’acquirente, prevista dal citato art. 14, ma permaneva e permane quella prevista dal codice civile.
La responsabilità solidale del cessionario non dovrebbe per sua natura attenere alle cessioni attuate nell’ambito di procedimenti che presentano profili pubblicistici o assolvono la funzione di consentire il risanamento di un’impresa che ha fatto ricorso a strumenti di regolazione della crisi d’impresa in cui è previsto l’intervento dell’Autorità giudiziaria; pertanto, la differenziata regolamentazione della responsabilità dell’acquirente si rivela illogica e del tutto asistematica, non essendo rinvenibili argomentazioni atte a giustificare l’applicazione di regole diverse a seconda dell’istituto cui ha fatto ricorso l’impresa in crisi che cede l’azienda.
Alla soluzione di questa incoerente situazione ha inteso porre rimedio l’art. 9 della già citata Legge n. 111/2023, avente a oggetto la revisione del sistema tributario, con cui il Governo è stato delegato a estendere a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi l’esclusione delle responsabilità previste tanto dall’art. 14 del D. Lgs. n. 472/1997 quanto dall’art. 2560 cod. civ. e, con l’art. 3, comma 1, lett. h), del D. Lgs. 14 giugno 2024, n. 87, contenente la revisione della disciplina delle sanzioni tributarie, ha modificato il comma 5-bis del citato art. 14 del D. Lgs. n. 472/1997, il quale dispone ora quanto segue: “Salva l’applicazione del comma 4 (n.d.a.: che concerne il caso di cessione in frode), la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione quando la cessione avviene nell’ambito della composizione negoziata della crisi o di uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale di cui al Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14”.
Pertanto, a decorrere dal 29 giugno 2024 (data di entrata in vigore del menzionato decreto legislativo) la responsabilità solidale del cessionario per i debiti tributari relativi all’azienda ceduta prevista dall’art. 14 del D. Lgs. n. 472/1997 è esclusa ogniqualvolta l’azienda venga trasferita nell’ambito di uno degli strumenti di regolazione della crisi dell’insolvenza disciplinati dal Codice della crisi, nonché nell’ambito della composizione negoziata (distintamente menzionata, non costituendo propriamente essa uno degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza giudiziale disciplinati dal Codice della crisi). Tuttavia, in occasione di un incontro con la stampa specializzata tenutosi il 19 settembre 2024, l’Agenzia delle Entrate ha tenuto a precisare come “l’estensione dell’esclusione dalla responsabilità alle cessioni di azienda o di ramo di azienda riguardi le operazioni effettuate a decorrere dal 29 giugno 2024 (data di entrata in vigore del Dlgs 87 del 2024)”, ma “concerne solamente le violazioni commesse a partire dal 1° settembre 2024”; ciò perché, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 87/2024, le disposizioni ivi contenute si applicano alle violazioni commesse a partire da quest’ultima data e la responsabilità solidale sancita dal comma 5-bis dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997 opera per le “violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti”. Da questa interpretazione discende una limitazione - nei primi tre anni - dell’ambito dell’esonero della suddetta responsabilità per un periodo temporale di circa tre anni, divenendo tale esonero completo solo relativamente alle cessioni di azienda eseguite dal 1° gennaio 2027. In questo modo viene tuttavia tradita la ratio della norma, perché, come si legge nella relazione illustrativa al D.Lgs. n. 87/2024, la finalità della modifica è quella di adeguare le ipotesi di esclusione della responsabilità solidale del cessionario ai nuovi strumenti di regolazione della crisi via via introdotti nell’ordinamento giuridico. A differenza delle finalità della complessiva rimodulazione delle sanzioni tributarie operata con il D.Lgs. n. 87/2024, dunque, quella di cui trattasi costituisce una modifica normativa “adeguatrice”, diretta a colmare una lacuna presente nell’ordinamento tributario per coordinarne le disposizioni con le novità medio tempore apportate al “diritto della crisi” e rimuovere così l’irragionevole discriminazione sussistente in proposito tra i diversi istituti disciplinati dal Codice della crisi. In forza dell’interpretazione fornita dall’Agenzia, invece, l’adeguamento normativo resta in sostanza “sospeso” per il periodo temporale contemplato dal comma 5-bis dell’art. 14 del D.Lgs. n. 472/1997, durante il quale l’esonero dalla responsabilità solidale continuerà perciò a valere solo per gli strumenti annoverati da detta norma prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 87/2024.
Ad ogni modo, dopo le modifiche recate dal D.Lgs. n. 87/2024 e dal terzo decreto correttivo del Codice della crisi, l’esclusione della responsabilità per l’acquirente è allo stato differenziata sul piano civilistico e tributario, così come emerge dal prospetto di sintesi che segue:
Come si legge nella relazione illustrativa che ha accompagnato l’iter di approvazione del decreto sulle sanzioni tributarie, con la modifica all’art. 14, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 472/1997 il legislatore ha inteso “recepire la specifica previsione contemplata dall’art. 20, comma 1, lettera c, numero 1) della Legge delega, laddove è chiesto di ‘migliorare la proporzionalità delle sanzioni tributarie, attenuandone il carico e riconducendolo ai livelli esistenti in altri Stati europei”‘ e, nello specifico, il suddetto comma 5-bis è stato sostituito “al fine di escludere, nel rispetto del principio di proporzionalità, la responsabilità solidale del cessionario quando la cessione di azienda sia avvenuta nell’ambito di procedure concorsuali affidate all’Autorità Giudiziaria Ordinaria”. In realtà la modifica normativa testé menzionata ha dato attuazione anche al criterio direttivo sancito dall’art. 9, comma 1, n. 3), della Legge delega n. 111/2023 con riguardo all’ambito oggettivo di esonero dalla responsabilità solidale per i debiti tributari, sostituendo l’elencazione limitata dapprima presente nel comma 5-bis con un rinvio a tutti gli istituti disciplinati dal Codice della crisi.
In quanto riferito alla revisione delle sanzioni tributarie, con il medesimo provvedimento normativo non si è invece potuto dare attuazione all’altro criterio direttivo prescritto dall’art. 9, comma 1, n. 3), della Legge n. 111/2023, concernente l’estensione delle deroghe all’art. 2560, comma 2, c.c. ai nuovi istituti disciplinati dal Codice della crisi. Pertanto, come emerge anche dal prospetto che precede, al momento l’esclusione della responsabilità del cessionario per i debiti tributari del cedente, indipendentemente da quale sia la norma – tributaria e civilistica - che la dispone, riguarda unicamente le cessioni d’azienda che avvengono in sede di: a) composizione negoziata della crisi; b) concordato preventivo; c) concordato semplificato liquidatorio; d) concordato minore; e) liquidazione giudiziale.
6. Il regime delle sopravvenienze attive da esdebitazione conseguite dall’impresa debitrice
È del tutto naturale uno degli effetti (anzi: il principale effetto) discendente dal ricorso agli istituti disciplinati dal Codice della crisi sia costituito, per l’impresa debitrice che vi accede, da una riduzione dell’importo dei debiti. Questa riduzione genera in capo al debitore un’insussistenza di passivo costituente, ai fini delle imposte sui redditi, una sopravvenienza attiva che, in base ai principi generali stabiliti dall’art. 88 del Tuir (testo unico delle imposte sui redditi), dovrebbe concorrere a formare il reddito imponibile del soggetto che beneficia dell’esdebitazione.
Tuttavia, al fine di agevolare il risanamento delle imprese in crisi il legislatore ha sottoposto tali sopravvenienze a regime speciale, introducendo nell’art. 88, il comma 4-ter, il cui primo periodo stabilisce che “Non si considerano, altresì, sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’imprese in sede di concordato fallimentare o preventivo liquidatorio o di procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni...”. Il secondo periodo del medesimo comma, invece, sancisce che, in caso di concordato di risanamento, di accordi di ristrutturazione dei debiti omologati, di piani attestati di risanamento o di procedure estere a queste equivalenti, “la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento”[1], gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati di cui all’art. 96 del TUIR[2] nonché la deduzione relativa all’aiuto alla crescita economica (“ACE”) disciplinata dall’art. 1 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201[3].
Il citato comma 4-ter dispone quindi la detassazione delle suddette sopravvenienze da esdebitazione, però distinguendo tra (i) riduzioni dei debiti originate da procedure concorsuali con finalità liquidatorie, che sono disciplinate dal primo periodo, e (ii) riduzioni dei debiti derivanti da procedure di risanamento (ovverosia da procedure finalizzate alla prosecuzione dell’attività aziendale), distintamente regolate dal secondo, terzo e quarto periodo dello stesso comma.
Le riduzioni dei debiti dell’impresa in sede di concordato “fallimentare” e di concordato preventivo “non di risanamento” (che sotto il profilo fiscale è quello da cui deriva l’estinzione dell’impresa debitrice, indipendentemente dalla qualificazione rilevante ai fini della disciplina prevista dal Codice della crisi) sono integralmente e incondizionatamente escluse da imposizione. Alle riduzioni dei debiti derivanti da “concordati di risanamento”, da accordi di ristrutturazione dei debiti e da piani attestati, invece, è applicabile la limitazione costituita dalla detassazione della sopravvenienza solo per la parte della stessa che eccede le perdite utilizzabili (che direttamente e autonomamente escludono la tassazione di tale parte, essendo con essa algebricamente compensabili): ciò allo scopo di impedire che, per effetto della detassazione della sopravvenienza attiva, possa emergere una perdita fiscale utilizzabile per compensare redditi futuri realizzati grazie alla prosecuzione dell’attività.
Com’è agevole rilevare, il comma 4-ter dell’art. 88 del Tuir non menziona tutti gli istituti previsti dal Codice della crisi; occorre quindi chiedersi se il regime stabilito da tale norma trovi o meno applicazione anche in relazione alle sopravvenienze attive conseguite nell’ambito degli istituti ivi non citati, che sono la composizione negoziata della crisi, il concordato semplificato e il PRO.
Per quanto attiene alla composizione negoziata, tuttavia, è lo stesso comma 5 dell’art. 25-bis del Codice della crisi a prevedere la detassazione delle sopravvenienze di cui trattasi, disponendo che dalla pubblicazione nel registro delle imprese del contratto e dell’accordo di cui all’articolo 23, comma 1, lettere a) e c), o degli accordi di cui all’articolo 23, comma 2, lettera b), si applica l’articolo 88, comma 4-ter, del Tuir.
Tale norma non precisa peraltro se il rinvio al menzionato comma 4-ter dell’art. 88 del Tuir è da intendersi riferito al primo o al secondo periodo di questo comma; tuttavia, non è difficile comprendere che nella composizione negoziata è destinato a trovare applicazione solo il secondo di tali periodi. Infatti, come si è visto, il primo ha a oggetto le sopravvenienze conseguite dalle imprese che si estinguono e cioè una fattispecie incompatibile sia con quella connessa al contratto di cui alla lett. a) del comma 1 dell’art. 23, che deve necessariamente prevedere la continuazione dell’attività dell’impresa debitrice per almeno due anni, sia con quella dell’accordo di cui alla lett. c) del medesimo comma 1, la quale presuppone comunque un’operazione “di risanamento” che, secondo l’indirizzo prevalente non può consistere semplicemente nella ristrutturazione dei debiti ma deve sfociare nel riequilibrio economico e finanziario dell’impresa debitrice e nella prosecuzione dell’attività da parte di quest’ultima. Ciononostante, qualora la composizione negoziata comportasse l’estinzione del debitore, non sussisterebbero sul piano fiscale ostacoli all’applicazione del primo periodo del citato comma 4-ter dell’art. 88 del Tuir.
Per quanto attiene al concordato semplificato liquidatorio e al PRO, occorre considerare che la loro mancata menzione nell’art. 88 è dovuta, non alla volontà di far concorrere alla formazione del reddito d’impresa le riduzioni dei debiti conseguite nell’ambito di tali procedure, ma al fatto che il legislatore tributario non ha ancora trovato il modo di adeguare il testo del comma 4-ter di tale articolo alle diverse novità introdotte con il Codice della crisi, alcune delle quali (tra cui la disciplina del “PRO”) per di più ivi inserite solo in un secondo momento a seguito dell’emanazione del D.Lgs. n. 83/2022. Lo dimostra il fatto che l’integrazione del testo del citato comma 4-ter è stata già contemplata dal legislatore tributario e dovrebbe intervenire a seguito dell’esercizio, da parte del Governo, della delega conferita dall’art. 9 della L. 9 agosto 2023, n. 111, che prevede di estendere l’applicazione delle disposizioni del comma 4-ter dell’art. 88 a tutti gli istituti di composizione della crisi disciplinati dal Codice (e quindi sia al concordato semplificato sia al “PRO”).
Va da sé che se il concordato semplificato liquidatorio e il PRO potessero - quest’ultimo anche in ragione della sua collocazione – essere considerati, il primo come una tipologia di concordato e, il secondo, come una fattispecie speciale di accordo di ristrutturazione o di concordato preventivo con continuità aziendale, in un rapporto da genus a species, non vi sarebbe la necessità di ricorrere a un’interpretazione estensiva del comma 4-ter dell’art. 88 (vietata dall’ordinamento tributario, data la finalità, almeno per i concordati di risanamento, agevolativa della norma), perché le sopravvenienze attive derivanti da tali istituti risulterebbero automaticamente comprese tra quelle contemplate dall’art. 88.
Tuttavia, il concordato semplificato non costituisce una tipologia di concordato preventivo, da cui si distanzia in maniera esiziale anche il PRO per l’assenza di una regola distributiva e dunque perché non si tratta di una procedura concorsuale in senso stretto[4], tant’è che gli artt. 64-ter e 64-quater del Codice della crisi prevedono la possibilità di convertirlo in concordato preventivo e viceversa. In questa prospettiva il legislatore ha sentito la necessità di dare un nome specifico alla disciplina, parlando di “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” e non di “concordato preventivo”, proprio perché nel concordato in continuità aziendale la regola del rispetto delle cause di prelazione è stata mantenuta nei termini di cui all’art. 84, comma 6, e dunque per “evitare che un piano privo di vincoli di distribuzione rappresentasse la base di un concordato (…). Al tempo stesso si è doverosamente escluso che si trattasse di un accordo di ristrutturazione, dato che, diversamente da questo, il piano in questione non è basato sulla volontà negoziale vera e propria, ma su una volontà comunque raggiunta in base a regole di maggioranza. Per queste ragioni il piano di ristrutturazione è stato tenuto separato dal concordato e dagli accordi, dando però, nella logica della fluidità tra strumenti impressa dalla Direttiva, la possibilità di conversione dal piano al concordato contemplata dall’art. 64-ter CCII anche nel caso inverso, quando il debitore che ha presentato la domanda di concordato preventivo, finché non siano iniziate le operazioni di voto, chieda l’omologazione del piano di ristrutturazione”[5]. Pertanto, nonostante la sua natura ibrida, in realtà il “PRO” non può che configurarsi come istituto autonomo le cui regole richiamano di volta in volta altri istituti previsti dal Codice, con il ricorso al quale il debitore non subisce alcuno spossessamento e mantiene su di sé la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa.
Stando così le cose, e non essendo altresì ammessa un’interpretazione estensiva della disposizione contenuta nel comma 4-ter dell’art. 88 del T.U.I.R., occorre però evidenziare che sia il concordato semplificato liquidatorio e il “PRO” condividono con gli altri istituti disciplinati dal Codice della crisi la medesima funzione, ovverosia consentire il superamento della crisi e quanto meno evitare la liquidazione giudiziale.
In considerazione della funzione e della ratio delle due procedure di cui trattasi, non v’è ragione per escludere dalla detassazione prevista dal citato comma 4-ter le riduzioni dei debiti derivanti dal concordato semplificato e dal “PRO”, non sussistendo alcuna differenza rispetto a quelle derivanti dalla conclusione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, dagli accordi che sono alla base dei piani attestati di risanamento ovvero ancora rispetto al concordato preventivo: in tutti queste i ipotesi, infatti, la riduzione dei debiti è la misura necessaria per consentire all’impresa debitrice di uscire dalle crisi in cui si trova o di ristrutturare i propri debiti anche nell’interesse dei suoi creditori. La suddetta esclusione si rivelerebbe perciò illegittima sotto il profilo costituzionale, visto che il concordato semplificato, il “PRO” e gli istituti attualmente menzionati dal comma 4-ter appaiono effettivamente rispondere a una medesima ratio e presentano l’elemento oggettivo comune costituito dalla risoluzione della crisi, sebbene disciplinati da regole parzialmente diverse. Inoltre, essa si potrebbe rivelare foriera di effetti distorsivi della libera concorrenza, con conseguente violazione dell’art. 41 Cost., attribuendo un regime fiscale più favorevole alle imprese che hanno fatto ricorso agli istituti al momento espressamente elencati dall’art. 88, comma 4-ter, del Tuir.
L’esclusione della detassazione delle riduzioni dei debiti derivanti dal concordato semplificato e dal “PRO”, dunque, integrerebbe una irragionevole e ingiustificata discriminazione rispetto al regime fiscale accordato a quelle derivanti dagli altri istituti contemplati dal comma 4-ter, che il giudice delle leggi sarebbe sicuramente chiamato a rimuovere dichiarandone l’illegittimità qualora - come risulta - gli uffici territoriali dell’Agenzia dovessero ritenere non applicabile tale norma al “PRO”.
Ciò precisato, occorre considerare che il terzo e quarto periodo del medesimo comma 4-ter definiscono, non senza creare difficoltà interpretative, il meccanismo di calcolo della quota imponibile (e/o di quella non imponibile) della sopravvenienza attiva discendente da “procedure di risanamento”. La restrizione della detassazione della sopravvenienza attiva in presenza di perdite pregresse utilizzabili in misura piena e di “eccedenza ACE” non comporta particolari problemi applicativi, poiché l’utilizzo di tali posizioni soggettive (ad abbattimento della quota imponibile della sopravvenienza attiva da esdebitazione) interviene dopo la determinazione del reddito di periodo e senza limitazioni.
La formulazione della norma, invece, non ne rende invece intuitiva e immediata l’interpretazione in presenza di una perdita di periodo, di perdite pregresse utilizzabili in misura limitata e di eccedenze di interessi passivi riportati da esercizi precedenti.
6.1. La nozione di perdita di periodo
Il procedimento di computo della “perdita di periodo” è stato fonte di incertezze interpretative in quanto la sopravvenienza attiva, per la quota non esclusa da imposizione, concorre a propria volta alla formazione del risultato fiscale (e quindi alla perdita) del periodo d’imposta nel corso del quale viene realizzata, generandosi così un “corto circuito”. In base alla formulazione letterale della norma, la “perdita di periodo” potrebbe in astratto essere determinata senza tenere conto della stessa sopravvenienza attiva oppure considerando anche questa nel computo. Facendo leva sulla ratio della norma, tuttavia, è sempre parso a chi scrive che l’impostazione corretta fosse quella di calcolare la “perdita di periodo” senza considerare l’intera sopravvenienza attiva, così evitando, da un lato, l’emersione di un imponibile fiscale generato da tale componente e, dall’altro, l’emersione di una perdita fiscale di ammontare superiore a quella che risulta dalla contrapposizione dei costi deducibili con i ricavi imponibili diversi dalla sopravvenienza attiva da esdebitazione. Infatti, calcolando la quota imponibile della sopravvenienza attiva come differenza fra la sopravvenienza stessa e la perdita fiscale determinata escludendo dal risultato di periodo l’intera sopravvenienza, si evita, da un lato, l’emersione di un reddito imponibile generato da tale componente e, dall’altro, l’emersione di una perdita fiscale (suscettibile di essere riportata in avanti) di ammontare superiore a quella che risulta dalla contrapposizione dei costi deducibili con i ricavi imponibili diversi dalla sopravvenienza.
Effetti diversi (e perversi) si produrrebbero, invece, qualora il risultato di periodo venisse determinato assumendo - ai soli fini del computo suddetto - la sopravvenienza attiva imponibile per intero. In tale ipotesi, infatti, l’effetto prodotto dall’esenzione non sarebbe soltanto quello di evitare che la sopravvenienza origini l’insorgenza di un reddito imponibile, perché, anche quando il risultato fiscale sarebbe di per sé non positivo nonostante la tassazione della sopravvenienza, quest’ultima risulta parzialmente esentata, generando così non solo l’annullamento del reddito fiscale eventualmente esistente, bensì anche l’incremento dell’eventuale perdita oppure l’emersione di una perdita fiscale in luogo di un pareggio.
Lo scopo della limitazione posta dal legislatore desumibile dalla suddetta norma, quindi, è direttamente raggiunto solo se non si computa nel risultato di periodo la sopravvenienza attiva, perché così la detassazione della sopravvenienza viene concessa (favorendo la ristrutturazione dei debiti in via negoziale) unicamente per evitare l’insorgere di oneri fiscali a causa dell’esdebitazione conseguita, ma senza attribuire all’impresa debitrice un duplice vantaggio, rappresentato, da un lato, dalla detassazione integrale della sopravvenienza e, dall’altro, dalla formazione di una perdita fiscale (“coeva”) riportabile in avanti. In altri termini, come osservato da Assonime[6], “in coerenza con l’obiettivo di accordare la detassazione nei soli limiti in cui la rilevanza fiscale della sopravvenienza potrebbe determinare un onere impositivo, a carico del debitore, occorre semplicemente confrontare l’entità della sopravvenienza attiva con il risultato di periodo che si sarebbe prodotto in assenza di questa componente”[7]. Con la risposta a interpello n. 85 del 23 novembre 2018 l’Agenzia delle Entrate ha confermato questa interpretazione.
6.2. La nozione di perdite pregresse
Le disposizioni dell’art. 88 previgente all’attuale testo di tale articolo (secondo cui la riduzione dei debiti non costituiva sopravvenienza attiva per la parte che eccedeva le perdite pregresse di cui all’art. 84 del TUIR, senza alcuna ulteriore precisazione) erano state fonte di incertezze interpretative circa la rilevanza del limite dell’80% di cui all’art. 84 anche ai fini della determinazione delle sopravvenienze da detassare. Pertanto, attraverso le integrazioni di detta norma apportate introdotte con il D. Lgs. n. 147/2015, il legislatore ha cercato di dare una risposta a tali dubbi, stabilendo nel secondo periodo del comma 4-ter che, in caso di concordato di risanamento, di accordo di ristrutturazione dei debiti soggetti a omologazione o di piano attestato di risanamento, “la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84, senza considerare il limite dell’ottanta per cento”. È stato così chiarito che, ai fini del confronto tra la sopravvenienza attiva e le perdite pregresse, previsto allo scopo di individuare l’eventuale eccedenza detassabile, il secondo termine del raffronto (le perdite) deve essere considerato senza tenere conto di tale limite.
L’aggiunta di quest’ultima locuzione non ha tuttavia risolto in maniera definitiva la questione, non avendo il legislatore precisato se, una volta determinata la suddetta eccedenza, le perdite pregresse disponibili dovessero essere utilizzate in compensazione della stessa considerando, o meno, il limite dell’80% di cui all’art. 84 del TUIR. Infatti, in presenza di perdite pregresse utilizzabili in misura limitata, il secondo periodo del comma 4-ter dell’art. 88 continua a prestarsi a diverse possibili interpretazioni, in quanto letteralmente:
1) l’ammontare delle perdite utilizzabili per ridurre il reddito formato dalla sopravvenienza attiva potrebbe corrispondere all’ammontare delle perdite pregresse disponibili nella misura dell’80% del reddito imponibile oggetto di compensazione, secondo la lettera dell’art. 84 del TUIR;
2) l’ammontare delle perdite utilizzabili per ridurre il reddito formato dalla sopravvenienza attiva potrebbe corrispondere all’ammontare integrale delle perdite pregresse disponibili, utilizzando anche la quota delle stesse che eccede l’80% del reddito d’impresa oggetto di compensazione, fino a concorrenza dell’intero ammontare della sopravvenienza attiva imponibile;
3) la riduzione dei debiti eccedente la perdita di periodo potrebbe non costituire sopravvenienza attiva in presenza di perdite pregresse disponibili e nei limiti delle stesse, fino a loro concorrenza, ma considerando queste ultime previamente consumate fino a concorrenza della sopravvenienza attiva eccedente la perdita di periodo.
Atteso che la ratio della disposizione in commento è quella di non penalizzare l’attuazione delle procedure di risanamento, impedendo la tassazione delle sopravvenienze da esse generate ed evitando al contempo l’utilizzabilità futura di perdite fiscali atte a neutralizzare di per sé la sopravvenienza attiva, questo scopo non sarebbe soddisfatto con la soluzione indicata sub 1), ma solo con quelle indicate sub 2) e 3). Soltanto in queste due ultime ipotesi, infatti, si evita l’emersione di un reddito tassabile dovuto esclusivamente alle sopravvenienze da esdebitazione, limitandone tuttavia la detassazione in presenza di capienti perdite pregresse, analogamente a quanto accade nel caso della contestuale sussistenza di una sopravvenienza e di una perdita di periodo.
Più precisamente, a chi scrive l’interpretazione corretta (in quanto maggiormente aderente alla lettera della norma) è da tempo apparsa quella indicata sub 2), dovendosi intendere la locuzione “senza considerare il limite dell’ottanta per cento” quale deroga implicita alla limitazione nell’utilizzo delle perdite pregresse imposta in via generale dall’art. 84. In base a questa interpretazione, la sopravvenienza da esdebitazione che concorre alla formazione del reddito d’impresa sarebbe comunque interamente compensabile con le perdite pregresse disponibili, non trovando applicazione il limite dell’80% previsto dalla norma da ultimo citata, con il risultato che il reddito imponibile sarebbe sempre pari a zero e le perdite pregresse riportabili in avanti sarebbero consumate (ad eccezione della parte eccedente la sopravvenienza attiva detassata).
Secondo autorevole dottrina, peraltro, poiché “la disapplicazione del limite quantitativo che caratterizza la consumazione delle perdite conferma la volontà del legislatore di voler far scattare la detassazione in parola solo dopo aver consumato le poste che potrebbero dar luogo ad una riduzione degli imponibili dei successivi periodi d’imposta”[8], anche la soluzione indicata sub 3) sarebbe potuta apparire percorribile, tanto più che il software e le istruzioni per la compilazione della dichiarazione dei redditi non contemplano per questi casi modalità particolari per la gestione delle perdite fiscali pregresse ordinariamente utilizzabili in misura limitata.
Con le risposte n. 85 del 23 novembre 2018 e n. 120 del 19 dicembre 2018, l’Agenzia delle Entrate, facendo leva sulla ratio della restrizione in commento (che - come detto - è quella di “evitare che alcune poste sorte in capo al soggetto in stato di crisi finanziaria possano dar luogo a una riduzione degli imponibili dei successivi periodi d’imposta”), ha ritenuto corretta l’interpretazione dapprima indicata sub 2), perché in forza “di tale logica il legislatore con riferimento alle perdite pregresse ha previsto, novellando il precedente testo normativo, che le stesse sono utilizzabili oltre il limite dell’80 per cento al fine di individuare la quota di sopravvenienza attiva detassata”.
Ne discende che la sopravvenienza attiva da esdebitazione non genera mai reddito imponibile, ma, in presenza di perdite pregresse (utilizzabili in misura piena e/o limitata), comporta l’esaurimento (ovvero la consumazione) delle stesse fino a concorrenza dell’ammontare della suddetta sopravvenienza, la quale (ed essa sola) beneficia, per l’eccedenza rispetto alle perdite, della detassazione stabilita dal comma 4-ter del citato art. 88.
7. Il regime delle plusvalenze realizzate dall’impresa debitrice nella crisi d’impresa
I soggetti che accedono agli istituti a cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti continuano, ciononostante, a determinare il reddito d’impresa imponibile secondo le regole sancite dagli artt. 83 ss. del Tuir, ovverosia apportando all’utile o alla perdita risultante dal conto economico di ciascun esercizio le variazioni in aumento e in diminuzione conseguenti all’applicazione dei criteri fiscali stabiliti dalle norme di tale Testo unico; tra queste quella recata dall’art. 86 del Tuir, che al comma 1 considera suscettibili di dare luogo a plusvalenze fiscalmente rilevanti l’alienazione (lett. a), la perdita e il danneggiamento totale o parziale (lett. b) nonché la destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa (lett. c) dei beni diversi da quelli che concorrono a formare i ricavi ai sensi del comma 1 dell’art. 85 del Tuir (diversi cioè dai c.d. beni merce). I beni suscettibili di generare plusvalenze sono dunque i beni strumentali (immateriali e materiali), le partecipazioni in altre imprese, i titoli e le attività finanziarie (che non siano oggetto di trading), i beni meramente patrimoniali (quali gli immobili non strumentali non utilizzati per l’esercizio dell’impresa), nonché lo stesso complesso aziendale in caso di cessione d’azienda o di ramo d’azienda. Per distinguerle da quelle derivanti dalla mera rivalutazione del valore iscritto in bilancio (cosiddette “plusvalenze iscritte”, prive di rilevanza fiscale), le plusvalenze generate dagli eventi sopra indicati sono comunemente denominate “plusvalenze da realizzo”, in quanto correlate alla fuoriuscita dei beni dal regime del reddito d’impresa.
A seconda della fattispecie realizzativa intervenuta, l’art. 86 del Tuir disciplina la quantificazione della plusvalenza in termini di differenza tra il corrispettivo o l’indennizzo al netto degli oneri di diretta imputazione (comma 2), ovvero del valore normale del bene oggetto di autoconsumo, assegnato ai soci o destinato a finalità extra-imprenditoriali (comma 3), da un lato, ed il valore fiscalmente riconosciuto del bene oggetto di realizzo, al netto degli ammortamenti dedotti per i beni ammortizzabili, dall’altro[9].
In particolare, in caso di alienazione a terzi, la misurazione della plusvalenza fiscale avviene attraverso il raffronto tra il corrispettivo monetario o in natura contrattualmente pattuito, computato, al netto dei costi accessori di diretta imputazione, e il costo fiscalmente riconosciuto del bene alienato, la quale concorrere per tale ammontare “netto” alla formazione del reddito d’impresa[10].
7.1. L’irrilevanza fiscale delle plusvalenze e delle minusvalenze derivanti dalla cessione dei beni ai creditori ex art. 86, comma 5, del Tuir
Alla regola sancita in via generale dal citato comma 1 dell’art. 86 deroga espressamente la disposizione speciale prevista nel comma 5 del medesimo articolo, ai sensi della quale “la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”.
Dottrina e giurisprudenza, in linea di principio, sono concordi nel ritenere che la finalità di questa norma può essere astrattamente individuata nella volontà del legislatore:
· di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che altrimenti secondo l’Amministrazione finanziaria[11] dovrebbe gravare sulla procedura stessa;
· di impedire altresì che, in capo ad un soggetto che subisce lo “spossessamento” dell’intero patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo a causa del predetto spossessamento (questa seconda ratio pare a chi scrive più convincente della prima e in ogni caso di per sé sufficiente per giustificare la detassazione di cui trattasi, che rappresenta pertanto più un’esclusione che un’agevolazione).
La ratio di tale disposizione è, quindi, da ritenersi coincidente con quella che sorregge la previsione contenuta nell’art. 88, comma 4-ter, del TUIR che dispone la detassazione delle sopravvenienze attive da esdebitazione nel concordato liquidatorio, sussistendo la comune esigenza che il reddito d’impresa venga determinato, nell’ambito di questo strumento di regolazione della crisi, in modo da considerare la sostanziale “incapacità contributiva” che caratterizza l’impresa in stato di dissesto che destina tutto il suo patrimonio al soddisfacimento dei suoi creditori senza realizzare alcun incremento patrimoniale per se stessa (se non in presenza di un residuo attivo, una volta che siano stati soddisfatti integralmente tutti i creditori). Alla luce di questo principio si comprende come, per espressa previsione normativa, l’esclusione dalla tassazione di cui al comma 5 del citato art. 86 si applichi non solo ai beni strumentali, ma anche alle rimanenze di magazzino e all’avviamento, presupponendo - il trasferimento di quest’ultimo - la cessione in blocco dell’intero complesso aziendale (che dà luogo all’emersione di un’unica plusvalenza o minusvalenza, a prescindere dalla presenza nel complesso aziendale di beni da cui originano ricavi).
L’esclusione della rilevanza delle plusvalenze da realizzo ai fini delle imposte sui redditi è prevista dal citato art. 86, comma 5, solo con riguardo al concordato preventivo con cessione dei beni, non essendo tale disposizione ancora stata adeguata ai nuovi istituti introdotti con il Codice della crisi e ciò potrebbe indurre l’interprete ad escluderne l’estensione a strumenti diversi da tale tipo di concordato. Tuttavia, si tratta, come si è precisato, di un’esclusione, discendente dalla normale applicazione delle norme che disciplinano l’insorgenza del presupposto impositivo, e non di un’esenzione, derivante da una norma che fa eccezione alla regola generale; pertanto, attesa la comune ratio, è da ritenersi che tale esclusione trovi applicazione anche nel concordato semplificato liquidatorio e, ove sia ritenuto ammissibile, anche nel PRO liquidatorio, indipendentemente dall’attuazione del principio direttivo previsto dalla legge n. 111/2023, per effetto del quale il principio affermato dal comma 5 dell’art. 86 del Tuir è destinato a informare il regime tributario di tutte le procedure aventi natura liquidatoria.
8. Gli effetti ai fini dell’IVA delle riduzioni dei debiti
Il comma 2 dell’art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 consente al creditore di recuperare l’Iva applicata e non riscossa in caso di riduzione in tutto in parte dell’operazione per la quale abbia precedentemente emesso fattura in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente. Il medesimo diritto è previsto, dai commi 3-bis e 10-bis del medesimo art. 26 in caso di mancata riscossione del credito a seguito: a) dell’assoggettamento del debitore a liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria; b) dell’ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo; c) all’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti proposto dal debitore; d) della pubblicazione nel registro delle imprese del piano attestato di risanamento del debitore.
Per contro, mentre da un lato - come si è esposto - il creditore che non riscuote integralmente il proprio credito può recuperare l’iva fatturata al proprio cliente/debitore e da questi non corrispostagli, dall’altro lato, in base alle regole generali l’impresa debitrice (cioè il cessionario dei beni o il committente dei servizi fornitigli dal creditore) deve specularmente registrare a debito l’iva recuperata dal creditore, facendola concorrere alla liquidazione dell’imposta che periodicamente deve versare all’Erario, per il quale, quindi, l’operazione è nella sostanza “a saldo zero”.
Tuttavia, per effetto della disposizione recata dall’ultimo periodo del comma 5 del citato art. 26, l’obbligo dell’impresa debitrice di rilevare l’iva a debito (specularmente al recupero della stessa da parte del creditore) non sussiste a seguito dell’assoggettamento del debitore alle “procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lett. a)”. Ciò allo scopo, sebbene di dubbia legittimità rispetto ai principi unionali, di evitare all’impresa debitrice il sostenimento di un onere, costituito dall’emersione di un debito (o di un minor credito) verso l’Erario, che potrebbe renderne più gravoso il risanamento.
Sin qui le norme citate, che costituiscono l’approdo di plurimi interventi legislativi succedutisi nel corso del tempo, delineano con sufficiente chiarezza il regime applicabile al creditore a seguito del mancato incasso del proprio credito.
Tuttavia, qualche incertezza rimane relativamente al regime applicabile al debitore, quando questi dà corso a un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal Tribunale, poiché, come si è precisato, l’obbligo del debitore di rilevare l’iva a debito è escluso solo a seguito dell’assoggettamento dello stesso alle “procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lett. a)”. Significa che tale obbligo è escluso certamente, oltre che in caso di liquidazione giudiziale, liquidazione coatta e amministrazione straordinaria, a seguito dell’ammissione del debitore alla procedura di concordato preventivo, ma non è chiaro se tale esclusione opera anche in caso di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti. Infatti, l’Agenzia delle Entrate ritiene che in quest’ultima ipotesi non venga meno l’obbligo del debitore di rilevare specularmente l’iva a debito che viene recuperata dal creditore, poiché l’accordo di ristrutturazione dei debiti non sarebbe una procedura concorsuale e pertanto troverebbe applicazione la regola generale stabilita dal primo periodo del comma 3 dell’art. 26 e non l’ultimo periodo del comma 5, che limita l’esclusione di cui trattasi solo alle procedure concorsuali. Ciononostante, l’accordo di ristrutturazione è qualificato dalla giurisprudenza e dalla prevalente dottrina come una procedura concorsuale e del resto l’ultimo periodo del citato comma 5 richiama le “procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lett. a)”, non semplicemente le procedure concorsuali, e nella lettera a) del comma 3-bis è indicato anche l’accordo di ristrutturazione dei debiti: la predetta esclusione dovrebbe rilevare anche a seguito della omologazione dell’accordo di ristrutturazione.
Le norme citate presentano inoltre un’ulteriore lacuna, costituita dal fatto che esse non menzionano il recupero dell’iva (da parte del creditore) a seguito della mancata riscossione del credito per effetto di contratti e accordi stipulati all’esito della composizione negoziata della crisi ai sensi dell’art. 23, comma 1, del Codice della crisi ovvero in dipendenza del concordato semplificato liquidatorio o del PRO.
Atteso il tenore delle disposizioni sopra menzionate, infatti, in assenza di norme speciali, quali sono quelle recate dai citati commi 3-bis, 10-bis e dall’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 26, il diritto del creditore di recuperare il tributo dovrebbe soggiacere alle regole ordinariamente previste dal comma 2 del citato art. 26 (richiamate all’inizio di questo paragrafo), le quali sono però sotto il profilo pratico ben poco utili; ciò in quanto ai sensi del comma 3 del medesimo art. 26 il diritto di rettifica della fattura emessa di cui al comma 2 non è più esercitabile qualora sia decorso oltre un anno dall’effettuazione dell’operazione e la riduzione sia avvenuta “in dipendenza di sopravvenuto accordo fra le parti”.
Per quanto attiene alla composizione negoziata a questa lacuna è stato opportunamente posto rimedio con il comma 2 dell’art. 38 del D.L. n. 24 febbraio 2023, n. 13, consentendo al creditore (cedente beni o servizi) di recuperare l’imposta addebitata al proprio cliente e non riscossa, qualora quest’ultimo abbia avuto accesso alla composizione negoziata. Detta norma stabilisce infatti che “Dalla data della pubblicazione nel registro delle imprese dei contratti o degli accordi di cui all’articolo 23, comma 1, lettere a) e c) e comma 2, lettera b), del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, si applica l’articolo 26, comma 3-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.
Per effetto di questa disposizione, pertanto, la pattuizione dello stralcio del credito vantato nei confronti del debitore in crisi risultante dal contratto o dall’accordo sottoscritto tra le due parti ai sensi delle citate lettere a) e c) dà automaticamente diritto a recuperare l’imposta non più riscuotibile, al pari di quanto accade in presenza della pubblicazione del piano attestato di risanamento di cui all’art. 56 del Codice della crisi o della omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, venendo così tali istituti equiparati anche sotto il profilo dell’iva (oltre che, come si è visto nel precedente paragrafo, in ordine al trattamento delle sopravvenienze attive da esdebitazione ai fini delle imposte sui redditi).
Il terzo decreto correttivo, con maggior sistematicità, ha infine introdotto tale disposizione nell’ultimo periodo del comma 5 dell’art. 25-bis del Codice della crisi, fornendole una collocazione più adeguata (anche se quella più appropriata è nello stesso art. 26 del D.P.R. n. 633/1972, ove tutta la materia è organicamente disciplinata). Ne discende che anche nella composizione negoziata il creditore (cedente del bene o prestatore del servizio) ha diritto di recuperare l’iva non riscossa (mediante l’emissione - nei confronti del cessionario/committente insolvente - di un’apposita nota di variazione da registrare in diminuzione del proprio debito iva) a partire dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese dei contratti o degli accordi stipulati nell’ambito della composizione negoziata ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a) e c), e comma 2, lett. b), del Codice della crisi.
Tuttavia, il comma 5 dell’art. 25-bis del Codice della crisi dispone l’applicabilità alla composizione negoziata delle norme previste “dal comma 3-bis del citato art. 26”, che attengono al diritto del creditore di recuperare l’iva, ma non quelle recate dall’ultimo periodo del comma 5 del medesimo articolo, che escludono l’obbligo del debitore di rilevare, specularmente al recupero dell’iva da parte del creditore, un debito verso l’Erario di pari importo; tale esclusione, infatti, è consentita dall’ultimo periodo del comma 5, e non dal comma 3-bis, dell’art. 26. Conseguentemente, e ciò è peraltro da considerare conforme ai principi del tributo di cui trattasi, l’impresa che ha avuto accesso alla composizione negoziata non beneficia di tale agevolazione, essendo questa agevolazione prevista solo in caso di “procedure concorsuali di cui al comma 3-bis, lett. a)”.
Con riguardo al concordato semplificato liquidatorio le disposizioni recate dai commi 3-bis, 10-bis e 5, ultimo periodo, sarebbero invece da ritenere irrilevanti in base al principio affermato dall’Agenzia delle Entrate con la risposta a interpello 9 maggio 2023, n. 324, poiché ai fini di cui trattasi dovrebbero essere considerate procedure concorsuali solo quelle menzionate nel comma 10-bis dell’art. 26 (cioè la liquidazione giudiziale, la liquidazione coatta, il concordato preventivo e l’amministrazione straordinaria) Tuttavia, a ben vedere, anche il concordato semplificato costituisce una procedura concorsuale e conseguentemente le disposizioni previste dai citati commi 3-bis, 10-bis e 5, ultimo periodo, dovrebbero trovare applicazione anche a seguito dell’ammissione del debitore a questa procedura, sia per quanto attiene il diritto del creditore a recuperare l’iva non percepita, sia relativamente all’esclusione dell’obbligo - a favore del debitore - di rilevare una corrispondente iva a debito. Inoltre, pare assai poco logico escludere la natura di procedura concorsuale del concordato semplificato solo perché sarebbero da considerare procedure concorsuali esclusivamente quelle richiamate nel citato art. 10-bis, atteso che il concordato semplificato è stato introdotto nell’ordinamento successivamente all’entrata in vigore dell’art. 10-bis. Dovrebbe rilevare invece se lo strumento di regolazione della crisi è o non è tale.
Poiché anche il PRO è una procedura concorsuale, conclusioni del tutto analoghe devono ulteriormente rilevare in merito a questo istituto.
In ogni caso, la disciplina di cui trattasi è destinata a essere a breve riformata in modo chiaro, completo e coerente, mediante il decreto legislativo con cui deve essere data attuazione al principio direttivo previsto dall’art. 9, comma 1, lett. a), della legge n. 311/2023, avente a oggetto la revisione organica del regime della fiscalità della crisi nell’ambito della riforma fiscale in corso di completamento.
9. Conclusioni
Dalle considerazioni esposte emerge il peso esercitato da ciascuno dei fattori esaminati nei paragrafi precedenti sulla individuazione dell’istituto più appropriato per la ristrutturazione dei debiti tributari e contributivi nell’ambito degli istituti disciplinati dal Codice della crisi.
Per quanto attiene al primo, cioè l’ampiezza del perimetro delimitante la tipologia dei debiti suscettibili di essere ristrutturati, emerge che, in base alle norme speciali appositamente introdotte, negli accordi di ristrutturazione dei debiti, nel concordato preventivo, nel concordato semplificato liquidatorio e nel PRO, tutti i debiti tributari erariali e contributivi possono essere falcidiati e può esserne dilazionato il pagamento in un arco temporale più ampio di quello consentito dalle disposizioni di legge applicabili in via ordinaria. Nella composizione negoziata, invece, non sono suscettibili di alcuna ristrutturazione i debiti contributivi né quelli relativi a risorse proprie dell’Unione Europea, tra le quali non è in ogni caso da includere l’iva. I tributi locali possono essere ristrutturati in tutti gli istituti in base alle regole generali che disciplinano in ciascun istituto il regime della generalità dei debiti.
Per quanto attiene al secondo fattore esaminato, cioè la possibilità di imporre all’amministrazione finanziaria e agli enti previdenziali la ristrutturazione dei debiti nonostante il loro diniego, grazie a un provvedimento dell’Autorità giudiziaria (il cosiddetto cram down), emerge che essa sussiste solo nell’accordo di ristrutturazione dei debiti non liquidatorio (intendendosi per tale anche quello che prevede la continuità indiretta dell’attività) e nel concordato preventivo (tanto in continuità aziendale, diretta e indiretta, quanto liquidatorio). Il cram down relativo ai debiti tributari e contributivi non è invece consentito nella composizione negoziata e nel PRO e, pur non essendo previsto con una disposizione specificamente dedicata a tali debiti, è nella sostanza attuabile nel concordato semplificato liquidatorio in base alle regole generali di questa procedura, così come per tutti gli altri debiti.
Per quanto attiene al terzo fattore esaminato, cioè la sussistenza di limitazioni del cram down, ove consentito, emerge che l’omologazione forzosa è limitata, sia mediante vere e proprie preclusioni sia mediante la previsione di soglie di soddisfacimento minimo dei creditori pubblici, solo nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Nessuna limitazione è invece prevista nel concordato semplificato liquidatorio e nel concordato preventivo. Tuttavia, con riguardo al concordato preventivo liquidatorio occorre tener conto della disposizione di cui al comma 4 dell’art. 84 del Codice della crisi, peraltro applicabile alla generalità dei debiti, per effetto della quale il soddisfacimento dei creditori non può essere inferiore al venti per cento dell’importo dei relativi crediti, fatto salvo l’utilizzo di risorse esterne; va inoltre considerato che in questo tipo di concordato, ai sensi della medesima norma, la proposta deve prevedere un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il dieci per cento l’attivo disponibile al momento di presentazione della domanda di accesso alla procedura.
Per quanto attiene al quarto fattore esaminato, cioè quello relativo alla responsabilità solidale per il pagamento dei debiti tributari dell’impresa in crisi da parte del soggetto che acquista l’azienda, o un ramo aziendale, da tale impresa, emerge che al momento l’esclusione di tale responsabilità, tenuto conto al tempo stesso del comma 2 dell’art. 2560 cod. civ. e dell’art. 14 del D. Lgs. n. 472/1997, riguarda unicamente le cessioni d’azienda che avvengono in sede di: a) composizione negoziata della crisi (previa autorizzazione del Tribunale); b) concordato preventivo (liquidatorio e in continuità); c) concordato semplificato liquidatorio; d) piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (oltre che nel concordato minore e nella liquidazione giudiziale).
Il quinto fattore, concernente il trattamento delle sopravvenienze attive da esdebitazione, pare sostanzialmente irrilevante rispetto alla individuazione dello strumento utilizzabile ai fini del risanamento aziendale, perché - almeno ad avviso di chi scrive – la detassazione prevista dall’art. 88 del Tuir dovrebbe operare in tutti gli istituti. Tuttavia, allo stato, deve essere valutato il rischio che l’Agenzia delle Entrate sostenga una diversa tesi relativamente alle sopravvenienze conseguite nell’ambito di istituti, come il concordato semplificato e il PRO, che non per il momento non sono menzionati nel citato art. 88, a cui non sono inoltre dedicate norme apposite, qual è quella recata dal comma 5 dell’art. 25-bis del Codice relativamente alla composizione negoziata.
In merito al sesto fattore, riguardante la tassazione delle plusvalenze realizzate dall’impresa in crisi, si deve rilevare un regime più favorevole al contribuente (che si riflette positivamente sul soddisfacimento dei creditori) nel concordato preventivo con cessione dei beni e - almeno ad avviso di chi scrive – nelle altre procedure liquidatorie in cui il debitore subisca uno spossessamento del proprio patrimonio.
Per quanto attiene, infine, alla disciplina iva delle riduzioni dei debiti generati dagli istituti previsti dal Codice della crisi, allo stato emerge un regime più favorevole per creditori e debitori in caso di ammissione dell’impresa debitrice a una procedura concorsuale vera e propria.
In estrema sintesi si potrebbe pertanto affermare che il concordato preventivo (liquidatorio, se si prevede il realizzo di plusvalenze particolarmente significative, e in continuità aziendale, se si considera il soddisfacimento minimo del venti per cento previsto per la generalità dei crediti richiesto in caso di concordato liquidatorio) è l’istituto che presenta la disciplina più favorevole circa il trattamento dei debiti tributari e contributivi, così come per certi versi il concordato semplificato liquidatorio, ancorché per effetto disposizioni di diversa natura. Tuttavia, la “variabile fiscale” costituisce solo una delle variabili da considerare quando si è chiamati a decidere qual è l’istituto più appropriato per affrontare una crisi d’impresa, rendendone possibile il superamento, e deve quindi essere a tal fine adeguatamente ponderata per tener conto anche delle altre. A ben vedere, però, in non pochi casi si rivela una variabile decisiva.
Bibliografia essenziale:
Per un approfondimento dei temi trattati si veda: Alessandro Musaio (a cura di), Crisi d’impresa e piani di risanamento, Giappichelli.
[1]Ai sensi dell’art. 84 del TUIR le perdite fiscali maturate successivamente ai primi tre periodi d’imposta dell’impresa possono essere computate in diminuzione del reddito in misura non superiore all’80% del reddito stesso e per l’intero importo che trova capienza in tale ammontare: queste perdite sono perciò denominate “perdite utilizzabili in misura limitata”. Le perdite maturate nei primi tre periodi d’imposta dalla data di costituzione possono essere invece computate in diminuzione del reddito senza questa limitazione e sono perciò dette “perdite utilizzabili in misura piena”.
[2]L’art. 96, comma 2, del TUIR stabilisce che l’ammontare degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati (per la parte eccedente gli interessi attivi e i proventi finanziari assimilati) è deducibile nel limite dell’ammontare corrispondente al 30% del risultato operativo lordo della gestione caratteristica (aumentato dell’eventuale eccedenza di risultato operativo lordo riportato da periodi d’imposta precedenti). In base al successivo comma 5, l’ammontare indeducibile degli interessi passivi e oneri finanziari assimilati è riportabile nei periodi d’imposta successivi ed è deducibile nel periodo d’imposta in cui il 30% del risultato operativo lordo è superiore all’ammontare netto degli interessi passivi e oneri assimilati di competenza dello stesso, fino a concorrenza della suddetta eccedenza.
[3]Con l’art. 1 del D.L. n. 201/2011 è stato infatti concesso un beneficio fiscale alle imprese che investono, consistente nello scomputo dal reddito d’impresa del “rendimento virtuale” del nuovo capitale investito, calcolato applicando una determinata percentuale di rendimento nozionale (variata più volte negli ultimi anni) all’ammontare complessivo degli apporti di capitale in denaro (comprese le rinunce ai crediti) e degli utili destinati alle riserve disponibili a decorrere dall’anno 2011, computato al netto dell’ammontare complessive delle riserve distribuite a partire dal medesimo anno. La parte del rendimento maturata in ciascun periodo d’imposta, che non trova capienza nel relativo reddito d’impresa, è denominata “eccedenza ACE” ed è riportabile in avanti per essere scomputata dal reddito d’impresa dei periodi d’imposta successivi a quello di maturazione.
[4] Cfr. M. Fabiani, I. Pagni, cit., pagg. 1029 e 1030.
[5] Cfr. E. Ricciardiello, “Il piano di ristrutturazione omologato: un caso di ‘concorrenza sleale’ tra istituti?”, in ilcaso.it 12 settembre 2023, pagg. 5 e 6; L. Panzani, “Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in ilcaso.it, 26 agosto 2022, pagg. 3 e 4; G. Bozza, “Il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione”, in dirittodellacrisi.it, 7 giugno 2022, pag. 7; S. Bonfatti, “Il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, in dirittodellacrisi.it, 15 agosto 2022, par. 17.
[6]Cfr. circolare n. 15 del 15 maggio 2013, pagg. 17 e 18.
[7] Dubbi in proposito sono stati però espressi da A. Carinci - V. Vita, cit., pagg. 715-717, soprattutto con riguardo alla configurazione del “risultato di periodo” in presenza di “altri redditi” (su tale questione si avrà modo di tornare nel prosieguo), che comunque censurano il fatto che la laconica formulazione della norma ha in sostanza finito per rimetterne la concreta applicazione agli interpreti e, in particolare, all’Agenzia delle Entrate.
[9]Ai sensi dell’art. 101, comma 1, del TUIR l’alienazione e la perdita (totale o parziale) dei beni diversi dai “beni merce” danno dunque origine a minusvalenze quando il prezzo di vendita o l’indennizzo ricevuto è inferiore al valore fiscalmente riconosciuto del bene.
[10]Il comma 4 dell’art. 86 TUIR consente, in presenza di plusvalenze realizzatesi a seguito di atti di cessione a titolo oneroso o indennizzi risarcitori, e sempreché i beni trasferiti siano stati posseduti per un periodo non inferiore a 3 anni, di ripartire l’imputazione della plusvalenza realizzata, per quote costanti, nell’esercizio stesso dell’avvenuto realizzo e nei successivi non oltre il quarto. Le ragioni che hanno indotto a prevedere una simile disposizione sono rinvenibili nel fatto che le variazioni di valore del bene trasferito si sono formate in un ampio arco temporale.
[11]Cfr. ex multis risoluzione ministeriale 22 maggio 1980, n. 9/916.