, 07 aprile 2025, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. La necessaria attenzione per la corretta gestione finanziaria dell’impresa in situazione di crisi; 2. La gestione finanziaria dell’impresa in bonis; 3. La gestione finanziaria dell’impresa in crisi; 4. Le condotte illecite; 4.1. La pratica dell’autofinanziamento realizzato mediante l’inadempimento degli obblighi tributari e contributivi; 4.2. Il ricorso abusivo al credito e la concessione abusiva di credito; 4.3. I pagamenti preferenziali; 4.4. Rispetto della par condicio creditorum in fase di liquidazione.
1. La necessaria attenzione per la corretta gestione finanziaria dell’impresa in situazione di crisi
Ancora oggi, la maggior parte delle azioni di responsabilità promosse nei confronti degli organi di amministrazione e controllo delle società di capitali - soprattutto se promosse da procedure concorsuali - vede quale principale censura mossa agli amministratori e ai sindaci quella relativa alla mancata tempestiva rilevazione della perdita del capitale sociale, mancata adozione dei rimedi di legge e prosecuzione indebita dell’attività di impresa, caratterizzata da risultati economici negativi, con conseguente aggravio del deficit.
Molte delle azioni di responsabilità promosse dagli organi delle procedure di fallimento, liquidazione giudiziale, concordato preventivo per cessione dei beni, ecc. ruotano difatti attorno a tale contestazione fondamentale, aggiungendosi - solo eventualmente - ad essa, ulteriori contestazioni relative a specifici atti di mala gestio.
La circostanza trova giustificazione – almeno in parte – nella tradizionale impostazione del codice civile del 1942, che vede nella perdita del capitale sociale la massima patologia della vita della società di capitali.
Le perdite economiche maturate dall’impresa erodono progressivamente il capitale sociale in misura superiore a 1/3, sino a renderlo insufficiente (ossia inferiore al minimo di legge), con conseguente obbligo per gli amministratori di adottare, senza indugio, i rimedi previsti dall’art. 2447 c.c.
La mancata adozione di uno di detti rimedi (ricapitalizzazione o trasformazione della società) apre la fase di liquidazione e fa scattare, nell’originario impianto del codice, il divieto generale di compiere nuove operazioni contemplato dall’art. 2449 c.c. (vecchio testo); gli amministratori che violino tale divieto divengono solidalmente responsabili per le (nuove) obbligazioni assunte.
Le nuove norme introdotte dalla riforma del diritto societario sostanziale del 2003 modificano solo in parte gli obblighi posti a carico degli organi delle società di capitali.
La perdita superiore a 1/3 che riduca il capitale sociale al di sotto dei limiti di legge comporta ancora la necessaria adozione, senza indugio, dei rimedi di cui all’art. 2447 c.c. (2482 ter c.c., quanto alle s.r.l.) e, in difetto di ricapitalizzazione o trasformazione della società, la stessa va posta in liquidazione.
Viene meno, tuttavia, il vecchio divieto generale di compiere nuove operazioni e la nuova disciplina dettata dall’art. 2486 c.c. stabilisce che “gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale”.
Il compimento di nuove operazioni sarà quindi consentito qualora funzionale alla conservazione dell’integrità e del valore patrimonio sociale e perciò diretto ad assicurare, in definitiva, la migliore fruttuosità della stessa attività di liquidazione.
A tale impostazione codicistica, che privilegia gli aspetti di natura economico-patrimoniale di gestione dell’impresa, si contrappone la nozione di “stato di insolvenza” disegnata dalla legge fallimentare del 1942 che, a norma dell’art. 5 l. fall., “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, attribuendo quindi rilevanza anche a situazioni di impotenza finanziaria (purché irreversibile).
Con particolare riferimento alle imprese collettive (o entificate), si dovrà quindi ritenere insolvente anche la società dotata di patrimonio netto positivo, che versi tuttavia in uno stato di definitiva (irrecuperabile) illiquidità, che non le consenta di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, soprattutto pecuniarie[1].
Allo stato di insolvenza descritto dall’art. 5 l. fall., che costituisce il presupposto oggettivo per l’assoggettamento dell’imprenditore a fallimento (o per l’accesso al concordato preventivo), si contrappone lo stato di temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni contemplato dall’art. 187 l. fall., condizione reversibile che, in presenza di comprovate possibilità di risanare l’impresa, consente l’accesso alla procedura di amministrazione controllata.
Ne deriva un quadro in cui all’obbligo civilistico di conservazione dell’integrità del capitale sociale, in misura – quantomeno - non inferiore al minimo di legge, si aggiunge quello di adeguata dotazione finanziaria della società che deve essere in grado “di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni” o di recuperare rapidamente tale condizione di regolare solvibilità.
La disciplina codicistica - poco attenta, in origine, agli aspetti più propriamente finanziari di gestione dell’impresa - evolve nel tempo e introduce nuove norme che si occupano di tale aspetto; costituiscono indice della nuova attenzione del legislatore – fra le altre - norme quale quella introdotta dall’art. 6, 2° comma, lettera a), d.lg. 139/2015, che ha integrato l’art. 2423 c.c., prevedendo il rendiconto finanziario quale ulteriore documento che compone il bilancio.
Su un piano più generale, il nuovo testo dell’art. 2086 c.c. (come modificato dal d.lgs. 14/2019) impone, come noto, all’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di istituire adeguati assetti organizzativi, ammnistrativi e contabili “anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale”, adottando una formula assai ampia, che va ben oltre l’ipotesi “tradizionale” della mera perdita del capitale sociale.
2. La gestione finanziaria dell’impresa in bonis
Il tema, pur di grande interesse, non può essere affrontato in questa sede per ovvie ragioni di spazio e, soprattutto, perché richiede specifiche competenze di natura, soprattutto, economico-aziendale.
Sul piano squisitamente giuridico, sembra tuttavia opportuno evidenziare come, in un contesto di continuità aziendale, la regola principale è, in definitiva, quella del regolare pagamento dei debiti alle relative scadenze, senza che assuma rilievo la natura del credito, chirografario o assistito da prelazione.
Gli amministratori dovranno, in altre parole, provvedere al pagamento dei debiti che via via divengono esigibili e non potranno opporre al creditore chirografario di non poter provvedere al pagamento del debito, pur scaduto, perché vi sono altri crediti di grado poziore di imminente scadenza.
L’impresa che opera in regime di piena continuità aziendale (e che non versa in uno stato anche di mera “pre-crisi”) dovrebbe d’altronde disporre di risorse sufficienti al regolare pagamento di tutti i creditori, con la conseguente insussistenza di peculiari obblighi di condotta degli amministratori idonei ad assicurare il rispetto della par condicio creditorum.
Si osserva in particolare che “quando non esiste una situazione di patologia, i criteri di esecuzione dei pagamenti sono tutt’affatto diversi da quelli ispirati al principio di parità. A tale conclusione si perviene quando si esamina la norma in tema di imputazione dei pagamenti. Nell’ambito del rapporto bilaterale creditore-debitore, se vi sono più obbligazioni, il criterio di soddisfacimento non è più quello della distribuzione paritaria percentuale (fra più ragioni di credito) ma quello della scadenza del debito e poi quello della protezione del debito meno garantito; la descrizione scalare contenuta nell’art. 1193 c.c. ne è un esempio” e che pertanto “l’imputazione del pagamento va fatta in modo proporzionale solo quando non soccorrono gli altri (e precedenti) criteri”[2].
Ne deriva che, in difetto di concorso di più creditori su un patrimonio insufficiente: i) il credito meno garantito riceve, addirittura, maggiore tutela rispetto a quello più garantito; ii) il criterio di imputazione del pagamento non è quello della distribuzione paritaria fra i creditori.
3. La gestione finanziaria dell’impresa in crisi
Il quadro cambia radicalmente nel contesto di crisi, ove “eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico finanziario” possono costituire una seria minaccia alla prospettiva di regolare pagamento dei creditori.
Diviene pertanto più delicato il ruolo degli amministratori, chiamati a una gestione maggiormente prudente (e responsabile) delle risorse finanziarie dell’impresa[3].
Opera tuttavia, anche in questo caso la c.d. business judgement rule e, in difetto di specifici obblighi di legge (quali quelli sopra richiamati che conseguono alla perdita del capitale sociale), deve riconoscersi agli amministratori il necessario margine di discrezionalità anche nell’impiego delle risorse finanziarie dell’impresa.
Resta fermo, in ogni caso, che l’attività gestoria deve rispettare le note regole dell’“agire informato” e di coerenza delle scelte operate alle risultanze delle informazioni diligentemente assunte.
Il mancato successo delle iniziative adottate dagli amministratori non comporterà quindi la necessaria responsabilità degli stessi (e dei sindaci, quanto all’omesso o inadeguato controllo), responsabilità che sussisterà solo quando l’esito negativo delle scelte gestorie sia conseguenza della loro manifesta inavvedutezza o imprudenza.
Le censure mosse agli amministratori (e, come accennato, ai sindaci quanto all’omesso o inadeguato controllo) sono assai eterogenee; per ragioni di spazio mi limiterò ad alcune brevi riflessioni su quelle che, nella partica, ricorrono più di frequente.
4. Le condotte illecite
4.1. La pratica dell’autofinanziamento realizzato mediante l’inadempimento degli obblighi tributari e contributivi
Le curatele dei fallimenti (o liquidazioni giudiziali) contestano di frequente agli amministratori convenuti nei giudizi di responsabilità l’omesso tempestivo pagamento di tributi e contributi e reclamano il risarcimento di una specifica voce di danno al patrimonio della società corrispondente all’aggravio del debito conseguente alla maturazione di sanzioni, interessi, ecc.
Analoga contestazione è poi mossa ai sindaci della società poi fallita/assoggettata a liquidazione giudiziale, cui è addebitato l’omesso controllo su tale condotta illecita.
Le difese dei convenuti replicano a tali censure, a volte negando che la condotta possa ritenersi illegittima quando lo stato di totale illiquidità in cui versa la società renda materialmente impossibile il pagamento.
Altre difese sottolineano come tale condotta, pur illegittima, non risulti, in concreto, idonea a produrre un effettivo danno; e ciò perché l’omesso pagamento dei debiti tributari/contributivi può comportare, in taluni casi, addirittura un risparmio per le casse della società.
Si evidenzia infatti che l’amministratore che omette il tempestivo pagamento di tali debiti può avvalersi dei noti istituti premiali contemplati dalle leggi fiscali e previdenziali, contenendo la maturazione di sanzioni e interessi; tale condotta può quindi procurare alla società – sia pure in modo improprio - la disponibilità di risorse finanziarie a condizioni più favorevoli di quelle praticate dai canali di finanziamento “ufficiale”.
Il Tribunale di Brescia ha esaminato più volte simili casi.
Riporto, di seguito, parte della motivazione di una recente sentenza del nostro tribunale (n. 3032 in data 15.12.2022)[4], che si è pronunciata sull’argomento.
“3. Omesso pagamento dei debiti tributari e contributivi.
La censura è fondata.
Le risultanze della c.t.u. espletata confermano difatti che la società poi fallita ha sistematicamente omesso il tempestivo versamento degli importi dovuti all’Erario e agli enti previdenziali.
In particolare, dall’esame delle tabelle riportate alle pagg. 5, 6 e 7 della c.t.u. emerge che [A] in bonis ha lasciato inadempiuti debiti di natura tributaria e contributiva, per importi significativi, in tutti gli esercizi del periodo 2010/2018 (escluso il solo anno 2011, per il quale non si registrano inadempimenti) e tale modo di operare non può ritenersi in alcun modo compatibile con gli obblighi di corretta gestione gravanti sugli amministratori.
I convenuti difendono il loro operato, evidenziando che “[A], al pari di molte altre aziende, specie nel settore della vendita al dettaglio di capi di abbigliamento ed accessori, si è sempre avvalsa, ove possibile, dell’istituto della rateazione dell’avviso bonario, privilegiando i dipendenti. Il settore ha patito pesantemente la nota crisi congiunturale del 2008, proseguita per molti anni. La rateazione è divenuta uno strumento usuale e utile per gestire le risorse. I debiti sono giunti al passivo fallimentare perché non saldati, ma erano in pagamento. La situazione della società non ha destato negli anni alcuna preoccupazione e [A] ha generato importanti volumi, pagando i propri debiti e rispettando i piani”, ma tale assunto non può essere condiviso.
[A] ha difatti omesso, a partire dall’esercizio 2010, il tempestivo pagamento di una rilevante parte dei debiti tributari e contribuitivi maturati in quasi tutti gli esercizi in cui ha operato (con esclusione, come ricordato, del solo 2011) e tale omissione – di carattere sistematico - rivela, contrariamente a quanto assume la difesa dei convenuti, la radicale incapacità dell’organo amministrativo di provvedere alla corretta gestione delle risorse finanziarie della società amministrata ed anzi, a monte, il palese difetto di un adeguato controllo sulle dinamiche (e quindi sulle risorse) finanziarie della società.
Condotta questa idonea a recare un rilevante pregiudizio al patrimonio sociale, come ricavabile dal sensibile aggravio del debito maturato nei confronti dell’Erario e degli altri enti creditori, lievitato dall’importo di € 1.198.703,00= (importo netto dei tributi e contributi rimasti impagati) alla maggior somma di € 1.706.792,00= (comprensivi di accessori per sanzioni, interessi, somme aggiuntive, ecc. …); con un aggravio pari, quindi, alla rilevante somma di € 508.089,00=.
In punto di diritto, la Corte di Cassazione ha anche di recente ribadito che “l'azione di responsabilità sociale promossa contro amministratori e sindaci di società di capitali ha natura contrattuale, dovendo di conseguenza l'attore provare la sussistenza delle violazioni contestate e il nesso di causalità tra queste e il danno verificatosi, mentre sul convenuto incombe l'onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso alla sua condotta, fornendo la prova positiva dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi imposti […]” (Cass. 2975/2020, da cui è tratta la massima).
L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.f. cumula di norma, come noto, entrambe le azioni di responsabilità, sociale e dei creditori sociali e tale situazione ricorre nel caso in esame, in cui il curatore ha esercitato l’azione senza provvedere a specifiche limitazioni.
Ciò posto, va rilevato che, con riferimento all’azione sociale esercitata dal curatore, gli amministratori convenuti non hanno fornito “la prova positiva dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi imposti”, limitandosi alle non condivisibili considerazioni già ricordate.
Ribadito, in particolare, che la sistematica omissione del regolare pagamento dei debiti tributari e contributivi non rientra, all’evidenza, fra quelle che possono ritenersi modalità di gestione dell’impresa “virtuose”, va affermata la responsabilità risarcitoria della [B] e del [L] per il danno arrecato al patrimonio della società.
Danno che, sulla scorta degli elementi indicati, va quantificato in misura pari all’aggravio del debito tributario e contributivo cagionato dagli inadempimenti e perciò in complessivi € 508.089,00=”.
La sentenza del tribunale suggerisce, a mio avviso, alcune opportune precisazioni.
L’omesso tempestivo pagamento dei debiti tributari e contributivi non costituisce, necessariamente, fonte di responsabilità degli amministratori (e dei sindaci).
Va difatti rilevato che anche società correttamente gestite possono incappare (del tutto incolpevolmente) in fenomeni di mera illiquidità temporanea e si deve riconoscere in tali casi agli amministratori la necessaria discrezionalità nella scelta delle modalità di impiego delle risorse finanziarie della società, temporaneamente insufficienti.
Riterrei pertanto poco condivisibili quelle pronunce della giurisprudenza di merito che ritengono illegittima tout court (e perciò fonte di necessaria responsabilità risarcitoria) la condotta degli amministratori che omettano il pagamento di tributi e contributi, facendo leva su elementi quali: i) la peculiare natura pubblicistica del credito tributario e previdenziale inadempiuto (in gran parte privilegiato), ii) il rango addirittura costituzionale del credito tributario; iii) la connotazione di illiceità penale di inadempimenti tributari o contributivi di particolare consistenza.
E ciò perché, come accennato, anche imprese “sane” possono incappare in situazioni di temporanea illiquidità e va riconosciuta in questi casi agli amministratori la necessaria discrezionalità nell’affrontare tali situazioni critiche nel modo ritenuto più opportuno (e conveniente per la società).
Si pensi, ad esempio, al caso degli amministratori che, in una situazione di illiquidità meramente temporanea dell’impresa, omettano il pagamento di imposte o contributi per provvedere al pagamento degli stipendi dei dipendenti o di fornitori strategici, indispensabili per la prosecuzione dell’attività.
Gli stessi amministratori, superata la fase di temporanea illiquidità, si avvarranno poi degli strumenti approntati dall’ordinamento per provvedere al pagamento dei debiti tributari e contributivi rimasti impagati alle scadenze, contenendo, in tal modo, la maturazione degli oneri accessori.
Credo che, in questo caso, la condotta degli amministratori andrà valutata con opportuna prudenza, senza che le circostanze sopra ricordate, relative alla natura dei crediti inadempiuti, valga ad affermare la necessaria responsabilità degli organi sociali.
Diverso, di contro, il caso esaminato dalla sentenza citata, ove gli inadempimenti fiscali e contributivi della società presentavano carattere di assoluta sistematicità, rivelando, in definitiva, un deficit finanziario strutturale della società, che aveva accumulato inadempimenti rilevanti in otto (su nove) degli esercizi antecedenti la dichiarazione di fallimento.
Riterrei poi corretta la soluzione adottata dal tribunale in punto di distribuzione degli oneri di allegazione e prova nel contesto di un’azione esercitata anche quale azione sociale di responsabilità.
Il tribunale ha difatti ritenuto, in modo a mio avviso del tutto corretto, da un lato assolto l’onere - gravante sulla curatela - di allegazione dello specifico inadempimento contestato agli amministratori; dall’altro, non assolto da questi ultimi l’onere - gravante su di loro - di provare di aver adempiuto diligentemente (in modo esatto) all’obbligazione dedotta.
Ed ha perciò affermato la responsabilità risarcitoria degli amministratori[5], ritenendo censurabile la condotta di gestione dell’impresa in condizioni di costante e grave insufficienza delle sue risorse finanziarie, del tutto ingiustificata.
4.2. Il ricorso abusivo al credito e la concessione abusiva di credito
L’art. 325 c.c.i.i. (che ripete, in sostanza, il tenore del “vecchio” art. 218 l. fall.) contempla, come noto, il reato di “Ricorso abusivo al credito” (è questa la rubrica della norma) e sanziona penalmente gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che “ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli 322 e 323, dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza”.
Segue alla responsabilità penale dei soggetti indicati la responsabilità civile per i danni arrecati al patrimonio della società o di soggetti terzi.
Rispondono poi del reato (o, eventualmente, del solo illecito civile) i soggetti concorrenti nell’illecito, responsabili, in sostanza, di aver concesso abusivamente credito ad un soggetto privo, in realtà, del c.d. “merito creditizio”.
La riflessione civilistica si concentra, soprattutto, sul secondo aspetto del fenomeno (ossia quello della concessione abusiva di credito da parte del finanziatore) e indaga particolarmente sul tema della responsabilità delle banche per tale condotta illecita.
I contributi in materia sono veramente numerosi e non è possibile approfondire in questa sede questioni di sicuro interesse quali quelle relative alla legittimazione attiva del curatore, alla natura di norma concorrente (e perciò solidale) della responsabilità della banca, alla individuazione del soggetto - o dei soggetti - danneggiati, alla natura e al quantum del danno risarcibile, ecc.[6]
Mi limito perciò a segnalare come, su tali questioni, a fianco dei numerosissimi ed eterogenei contributi della dottrina si stia consolidando un orientamento giurisprudenziale piuttosto univoco, ben illustrato dalle note ordinanze “gemelle” (nn. 18610 e 24725) del 2021, ribadito di recente da Cass. 29840/2023.
È interessante rilevare come le due ordinanze del 2021 individuino (al par. 3.3.) quale tipica ipotesi di concessione abusiva di credito, fonte di responsabilità degli organi sociali e, eventualmente, della banca concorrente nell’illecito, quella del credito erogato alla società che, perduto il capitale sociale, prosegua indebitamente nell’attività, maturando risultati economici pesantemente negativi, con conseguente aggravio del deficit patrimoniale.
L’illecito contestato agli amministratori (oltre che alla banca) è quindi quello di aver ignorato la necessità di conformare l’attività della società allo stato di liquidazione “virtuale” in cui la stessa versa e di aver “bruciato” risorse finanziarie illegittimamente acquisite per sostenere un’attività indebita, fortemente deficitaria.
Anche in questo caso, in definitiva, si pone un problema di uso appropriato delle risorse finanziarie della società, impiegate, in violazione dei doveri di legge, in un’attività distruttiva di ricchezza.
Da segnalare, in ogni caso, un importante passaggio delle due ordinanze, che affermano, sulla scorta di convincente motivazione, che le banche: i) possono supportare finanziariamente anche imprese in crisi; ii) possono farlo anche al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa; iii) e ciò “sino al limite, tuttavia, in cui tali condotte finiscano per alterare – con colpa o dolo – la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto”.
Affermazioni tutte che inducono a ribadire la necessità di valutare la condotta tenuta dagli organi sociali in situazione di crisi con opportuna prudenza (e in un’ottica rigorosamente ex ante).
4.3. I pagamenti preferenziali
Merita un breve cenno anche il tema della responsabilità degli amministratori per l’esecuzione di pagamenti “preferenziali”, ossia in favore di creditori illegittimamente anteposti ad altri.
Il tema è stato affrontato, come noto, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1641/2017.
La sentenza richiama, nelle premesse, alcuni principi che possono ritenersi consolidati nella giurisprudenza di legittimità.
Ribadisce, in particolare, la natura unitaria e inscindibile dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento ai sensi dell’art. 146 l.f., che promuove - di norma congiuntamente - l’azione sociale di responsabilità, di natura contrattuale, e l’azione dei creditori sociali, di natura extracontrattuale (azioni che restano tuttavia assoggettate alla disciplina loro propria quanto a presupposti, natura, regime della prescrizione, entità del danno risarcibile, ecc.) e conferma la legittimazione all’esercizio dell’azione dei creditori sociali anche del curatore del fallimento di società a responsabilità limitata (questione definitivamente chiarita a seguito delle modifiche apportate al testo originario dell’art. 146 l.f. e del chiaro tenore dell’art. 255 c.c.i.i.).
La sentenza afferma poi che “il curatore fallimentare è legittimato, tanto in sede penale, quanto in sede civile, all'esercizio di qualsiasi azione di responsabilità sia ammessa contro gli amministratori di società, anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti in violazione della “par condicio creditorum” (questa la massima ufficiale), mediante richiamo alla nota categoria delle “azioni di massa” (riconoscendole tale natura).
L’affermazione, pur autorevole, suscita, a mio avviso, alcune perplessità.
Le azioni di massa sono, in sostanza, quelle azioni dirette a ricostruire il patrimonio della società fallita/liquidata, quale garanzia generica per i creditori e perciò destinate a realizzare un risultato utile da destinare alla platea indistinta del ceto creditorio.
Di qui la possibilità, affermata dalla sentenza in esame, di accedere ad una nozione allargata di tale categoria di azioni, comprensiva, non solo delle azioni dirette alla ricostruzione del patrimonio della società fallita/liquidata nella sua consistenza essenzialmente quantitativa, ma anche di quelle dirette a recuperare all’attivo della procedura risorse liquide, impiegate dagli amministratori per provvedere a pagamenti preferenziali, al fine di procedere alla loro redistribuzione nell’ambito dei riparti, nel rispetto delle regole della par condicio creditorum.
La sentenza esclude, in particolare, che il pagamento del debito possa essere ritenuto atto patrimonialmente neutro, inidoneo a provocare un’effettiva diminuzione del patrimonio della società, osservando che “venendo dunque alla questione prospettata dalla terza sezione civile, si rileva che in definitiva il disconoscimento della legittimazione attiva del curatore fallimentare da parte dei giudici del merito si fonda sull'assunto che il pagamento preferenziale possa arrecare un danno solo ai singoli creditori rimasti insoddisfatti, ma non alla società, perché si tratta di operazione neutra per il patrimonio sociale, che vede diminuire l'attivo in misura esattamente pari alla diminuzione del passivo conseguente all'estinzione del debito.
Si tratta tuttavia di assunto palesemente erroneo, perché il pagamento preferenziale in una situazione di dissesto può comportare una riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori. Infatti la destinazione del patrimonio sociale alla garanzia dei creditori va considerata nella prospettiva della prevedibile procedura concorsuale, che espone i creditori alla falcidia fallimentare”.
La sentenza non chiarisce tuttavia quale sia quella “riduzione del patrimonio sociale in misura anche di molto superiore a quella che si determinerebbe nel rispetto del principio del pari concorso dei creditori” che il pagamento preferenziale “può comportare” e che appare, a mio avviso, difficilmente condivisibile sul piano squisitamente contabile.
Il pagamento (anche) preferenziale determina difatti, come detto, una eguale diminuzione dell’attivo e del passivo sociale (la diminuzione dell’attivo in misura pari al denaro impiegato per il pagamento coincide, in altre parole, con la corrispondente diminuzione del passivo conseguente all’estinzione del debito) e risulta perciò inidoneo a provocare una reale diminuzione del patrimonio della società.
Il principio enunciato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione appare perciò in deciso contrasto con quelle ulteriori pronunce della corte che evidenziano come il danno al patrimonio sociale consista, in sostanza, nel suo depauperamento, quale conseguenza della dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale o della assunzione ingiustificata di nuovi debiti (così, di recente, Cass. 21730/2020, secondo cui: “In tema di azione di responsabilità promossa dal curatore ai sensi dell'art. 146, comma 2, l.fall., il danno può essere quantificato avendo riguardo all'accertata colpevole dispersione di elementi dell'attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che al colpevole protrarsi di un'attività produttiva implicante l'assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando […]”).
Non convince poi appieno il richiamo – operato dalla sentenza – ai principi che regolano l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, avendo la corte di legittimità da tempo optato per la natura redistributiva e non indennitaria dell’azione.[7]
La tesi della necessaria legittimazione attiva del curatore del fallimento o della liquidazione giudiziale “anche per i fatti di bancarotta preferenziale commessi mediante pagamenti eseguiti in violazione della par condicio creditorum” non può poi trovare giustificazione nel mero richiamo al disposto dell’art. 240 l. fall. (ora art. 347 c.c.i.i.), che, come noto, consente agli organi delle procedure concorsuali di costituirsi parte civile “nel procedimento penale per i reati preveduti nel presente titolo”.
La costituzione di parte civile comporta difatti l’esercizio dell’azione risarcitoria civile nella peculiare sede del processo penale, azione che resta tuttavia soggetta alla disciplina che le è propria, anche per quel che riguarda la legittimazione attiva.
Di qui la necessità di riconoscere al curatore la legittimazione all’esercizio delle sole azioni preesistenti nel patrimonio della società fallita/liquidata (ex artt. 43 l. fall. e 143 c.c.i.i.) o che rientrino effettivamente nel novero delle azioni cosiddette “di massa”.
La sentenza delle Sezioni Unite mi sembra meriti, di contro, conferma nella parte in cui afferma che la condotta censurata (ossia l’impego di risorse finanziarie insufficienti per l’esecuzione di pagamenti preferenziali) possa riguardare, non solo i liquidatori, ma anche gli amministratori della società, gravando anche su questi ultimi l’obbligo di disporre in modo oculato delle risorse della società nel contesto dell’insufficienza del suo patrimonio.
4.4. Rispetto della par condicio creditorum in fase di liquidazione
In tema di responsabilità del liquidatore di società di capitali per pagamenti eseguiti in favore dei creditori, merita d’essere segnalata la recente sentenza della Corte di cassazione n. 521/2020.
La sentenza presta espressa adesione a “una linea comune di pensiero giurisprudenziale e dottrinale che nel corso degli anni si è sviluppata intorno al tema della responsabilità degli organi liquidatori nei confronti della società, dei creditori sociali e dei soci, sull'assunto che essi sono tenuti al precipuo obbligo di liquidare al meglio - in modo utile - l'attivo patrimoniale, per ripartirlo equamente tra i soci solo una volta effettuato il pagamento dei debiti sociali, secondo l'ordine legale di priorità dei corrispondenti crediti sancito nel piano di liquidazione” e, sulla scorta di tale premessa, enuncia alcuni importanti principi, ben riepilogati nelle tre massime che riporto di seguito.
La prima massima afferma che “il liquidatore di società di capitali ha il dovere di procedere a un'ordinata liquidazione del patrimonio sociale, pagando i debiti secondo il principio della par condicio creditorum, pur nel rispetto dei diritti di precedenza dei creditori aventi una causa di prelazione. Egli ha, in particolare, l'obbligo di accertare la composizione dei debiti sociali e di riparare eventuali errori od omissioni commessi dagli amministratori cessati dalla carica nel rappresentare la situazione contabile e patrimoniale della società, riconoscendo debiti eventualmente non appostati nei bilanci e graduando l'insieme dei debiti sociali, dopo averli verificati, in base ai privilegi legali che li assistono, il pagamento dei quali deve avvenire prima di quello dei crediti non garantiti da cause di prelazione. Ne consegue che il danno da risarcire al creditore che sia stato soddisfatto in percentuale inferiore a quella di altri creditori di pari grado equivale all'importo che egli avrebbe avuto diritto di ricevere ove il liquidatore avesse correttamente applicato il principio della par condicio creditorum".
I principi enunciati dalla massima meritano, a mio avviso, piena condivisione.
Da condividere, in particolare, l’affermazione di indubbio rigore che sancisce l’obbligo del liquidatore di ricostruire l’effettiva consistenza della massa debitoria della società, rimediando agli eventuali errori o omissioni degli amministratori che lo hanno preceduto; obbligo che potrà risultare particolarmente gravoso qualora la documentazione contabile e sociale risulti gravemente lacunosa, non consentendo al liquidatore un’adeguata ricostruzione dei conti (su cui vedi però infra).
In tema di distribuzione degli oneri di allegazione e prova, la seconda massima stabilisce che “in tema di liquidazione di società di capitali, la responsabilità verso i creditori sociali prevista dall'art. 2495 c.c. ha natura aquiliana, gravando sul creditore rimasto insoddisfatto di dedurre ed allegare che la fase di pagamento dei debiti sociali non si è svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum. In particolare, quanto alla dimostrazione della lesione patita, il medesimo creditore, qualora faccia valere la responsabilità "illimitata" del liquidatore, affermando di essere stato pretermesso nella detta fase a vantaggio di altri creditori, deve dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito, provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell'apertura della fase di liquidazione, e il conseguente danno determinato dall'inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocarne la lesione, con riferimento alla natura del credito e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti; grava, invece, sul liquidatore l'onere di dimostrare l'adempimento dell'obbligo di procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali e di averli pagati nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all'epoca esistenti. Diversamente, ove vi sia stata una ripartizione dell'attivo a favore dei soci […]”.
La massima consente, nella sua seconda parte, di contenere (a mio avviso ragionevolmente) la responsabilità del liquidatore in quei casi in cui le carenze della documentazione a sua disposizione non gli abbiano consentito un’adeguata ricostruzione della situazione debitoria della società, richiedendo all’organo liquidatorio, in definitiva, di conformare la propria condotta alla mera diligenza professionale esigibile (nel diverso contesto della responsabilità contrattuale) ex art. 1176, comma 2, c.c.
Da rilevare, in ogni caso, come la sentenza in esame faccia gravare sul liquidatore “l'onere di dimostrare l'adempimento dell'obbligo di procedere a una corretta e fedele ricognizione dei debiti sociali e di averli pagati nel rispetto della par condicio creditorum, secondo il loro ordine di preferenza, senza alcuna pretermissione di crediti all'epoca esistenti”, adottando una soluzione che appare scarsamente compatibile con la ricordata natura extracontrattuale della responsabilità del liquidatore, giustificata tuttavia dal (condivisibile) richiamo al principio di vicinanza alla prova.
Il creditore insoddisfatto che invochi la responsabilità del liquidatore non dispone difatti – di norma – di informazioni adeguate in ordine al concreto svolgimento della liquidazione, né dispone di strumenti realmente incisivi per ottenerle; e ciò, soprattutto, quando la condotta del liquidatore sia caratterizzata da scarsa trasparenza.
Ben diversa, come accennato, la vicinanza alla prova del liquidatore, cui è affidato il compimento delle attività necessarie per la liquidazione del patrimonio sociale, di cui ha perciò perfetta conoscenza (con conseguente agevole possibilità di provare la diligenza del proprio operato).
Con specifico riferimento al tema della responsabilità del liquidatore per l’esecuzione di pagamenti “preferenziali” la terza massima afferma infine che “in tema di responsabilità del liquidatore nei confronti dei creditori sociali rimasti insoddisfatti dopo la cancellazione della società ex art. 2495, comma 2, c.c., il conseguimento, nel bilancio finale di liquidazione, di un azzeramento della massa attiva non in grado di soddisfare un credito non appostato nel bilancio finale di liquidazione, ma, comunque, provato, quanto alla sua sussistenza, già nella fase di liquidazione, è fonte di responsabilità illimitata del liquidatore verso il creditore pretermesso, qualora sia allegato e dimostrato che la gestione operata dal liquidatore evidenzi l'esecuzione di pagamenti in spregio del principio della par condicio creditorum, applicato nel rispetto delle cause legittime di prelazione ex art. 2741, comma 2, c.c. Pertanto, ove il patrimonio si sia rivelato insufficiente per soddisfare alcuni creditori sociali, il liquidatore, per liberarsi dalla responsabilità su di lui gravante in riferimento al dovere di svolgere un'ordinata gestione liquidatoria, ha l'onere di allegare e dimostrare che l'intervenuto azzeramento della massa attiva tramite il soddisfacimento dei debiti sociali non è riferibile a una condotta assunta in danno del diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione”.
La sentenza sancisce pertanto l’obbligo del liquidatore di operare nel rispetto della par condicio creditorum, affermando un principio che ritengo, anche in questo caso, condivisibile: nel peculiare contesto della insufficienza del patrimonio della società in liquidazione (incapace, per definizione, di provvedere al pagamento integrale di tutti i debiti) il liquidatore dovrà effettuare i pagamenti in favore dei creditori nel pieno rispetto del “diritto del singolo creditore di ricevere uguale trattamento rispetto ad altri creditori, salve le cause legittime di prelazione”, pena la responsabilità risarcitoria - personale e illimitata – nei confronti del creditore pretermesso.
Ne deriva, fra le ipotesi che più di frequente ricorrono nella pratica, la sicura responsabilità del liquidatore che, in situazione di insufficienza del patrimonio, provveda alla restituzione di crediti postergati ex art. 2467 o 2497 quinquies c.c., senza provvedere alla preventiva estinzione dei debiti sociali di grado poziore.
Richiamate le considerazioni svolte sub 4.3., va infine ribadito che i medesimi obblighi gravano sugli amministratori che, in violazione degli obblighi sanciti dall’art. 2486 c.c., omettano di accertare tempestivamente la verificazione di una causa di scioglimento e provvedere ai conseguenti adempimenti di legge.
[1] Esula dalla presente indagine il tema dell’insolvenza della società in liquidazione, insolvenza che coincide, di norma, con il mero deficit patrimoniale: in giurisprudenza, fra le altre, Cass. 28193/2020 e 24660/2020.
[2] Così M. Fabiani, La regola della par condicio creditorum all’esterno di una procedura di concorso, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2020, pag. 333 ss.
[3] Su questa rivista cfr., in luogo di altri, S. Ambrosini, La gestione dell’impresa “in perdita” tra vecchia e nuova sistematica concorsuale, 21 marzo 2023; S. Pacchi, I canoni per la gestione dell’impresa nel codice della crisi e dell’insolvenza, 26 aprile 2023.
[4] La sentenza è consultabile sul sito dell’Osservatorio della giurisprudenza commerciale bresciana.
[5] La sentenza non affronta il tema della responsabilità dei sindaci, risultando la società priva dell’organo di controllo.
[6] Sia consentito richiamare R. Del Porto, Brevi note in tema di concessione abusiva di credito, in S. Ambrosini (a cura di), Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, Pisa, 2023, 333 ss., oltre agli altri contributi sullo stesso tema nel medesimo volume.
[7] In tal senso Cass. SS.UU. 7028/2006 e le numerose successive conformi.