Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Concessione abusiva di credito e risarcimento del danno da violazione di norme di condotta


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Articolo

L’applicazione delle norme sulla crisi d’impresa suggerisce l’analisi interdisciplinare: i concetti di “costo” e di “ricavo” secondo la Cassazione


Gianfranco Capodaglio, Vanina Stoilova Dangarska, Andrea Fazi, Alessandro Ricci,
Lauretta Semproni, Ivanoe Tozzi

Data pubblicazione
21 settembre 2021

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Sommario: 1. Premessa; 2. Cosa s’intende per “ricavi”: una definizione incompleta; 3. Cosa s’intende per “costi d’acquisto” e “costi di produzione”.


1. Premessa

Due recenti pronunzie della Suprema Corte[1] hanno reso attuali discussioni che sembravano ormai superate da decenni e rinvigorito l’opinione scientifica sulla costante attualità e necessità di solidi fondamenti concettuali a sostegno delle più disparate necessità operative. La prima riguarda la definizione dell’ammontare dei ricavi, quale requisito dimensionale di esonero dalla fallibilità di cui all’art. 1, lettera b della legge fallimentare[2]; la questione risulta di estrema attualità, dato che influisce sulla possibilità di accedere agli strumenti previsti dalle recenti disposizioni in tema di crisi d’impresa[3].

La seconda “resuscita” una questione veramente antica: come è noto, il decreto legislativo 127 del 1991 ha modificato gli articoli del codice civile riguardanti il bilancio, per renderli in linea con la IV direttiva CEE. Tale formulazione ha decisamente modificato la struttura del conto economico, scegliendo – fra le diverse previste dalla direttiva - quella a costi e ricavi della produzione attuata di origine tedesca. La Commissione che ha elaborato il disegno di legge, della quale faceva parte il Maestro di ragioneria prof. Ferdinando Superti Furga[4], ha formulato, per la prima volta nell’ordinamento giuridico civilistico italiano, la definizione di “costo d’acquisto” e di “costo di produzione”. In precedenza, tali definizioni erano contenute soltanto nella normativa tributaria, che, dopo l’entrata in vigore del decreto 127/91, ha aggiornato la definizione, mantenendo, però, alcune difformità, che già allora crearono talune difficoltà interpretative.

 

2. Cosa s’intende per “ricavi”: una definizione incompleta

Il termine “ricavi” è contenuto nell’art. 1 della legge fallimentare[1] per determinare uno dei limiti dimensionali delle imprese soggette alle disposizioni sul fallimento. Come detto, questa disposizione incide sulla possibilità di accedere agli strumenti previsti dalla normativa sulla crisi d’impresa; l’art. 17 del DL 24 agosto 2021, n. 118, infatti, prevede che l’imprenditore commerciale e agricolo che possiede congiuntamente i requisiti di cui all’articolo 1, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e che si trova in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza, può chiedere la nomina dell’esperto indipendente quando risulta ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa.

La voce “ricavi”, priva di ulteriori specificazioni, può essere oggetto di diverse interpretazioni; il documento OIC 12 analizza il contenuto dell’art. 2425 del codice, relativo alla struttura (obbligatoria) del conto economico, che confronta il “valore della produzione” (A) con i “costi della produzione” (B). Il primo elemento è costituito dalla somma algebrica dei ricavi delle vendite e delle prestazioni, più o meno le variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, di semilavorati, di prodotti finiti e di lavori in corso su ordinazione, più gli incrementi di immobilizzazioni per lavori interni, più gli altri ricavi e proventi.

I “costi della produzione” si ottengono, invece, sommando algebricamente i costi sostenuti per gli acquisti dei beni a fecondità semplice e dei servizi, più il costo del lavoro, più gli ammortamenti e le svalutazioni, più o meno le variazioni delle rimanenze di materie prime e sussidiarie, di consumo e di merci, più gli accantonamenti, più gli oneri diversi di gestione.

La differenza tra i primi due aggregati (A e B) viene interpretata, “approssimandola”, come espressione del risultato operativo, in quanto al loro interno vi sono elementi non riconducibili alla gestione caratteristica, ma legati alla gestione accessoria (o patrimoniale). Si deve rilevare, però, che i due concetti di differenza fra valore e costi della produzione prima e dopo le modifiche apportate dal D.lgs. 139/2015, che ha obbligato ad “inquinare” questo risultato con la presenza di oneri e proventi straordinari, prima inseriti in una classe a sé stante, ormai non sono più coincidenti[2].

Ciò posto, secondo la sentenza in oggetto[3] la valutazione dell’ammontare dei ricavi, in quanto mirante a far emergere la realtà economica dell’impresa, deve prescindere dalla pedissequa applicazione dei principi contabili e della normativa in tema di redazione dei bilanci ogni qualvolta il loro rigoroso rispetto venga a determinare una divergenza tra il dato formale e la reale dimensione dell’impresa.

È stato, in particolare, precisato, che:

-          il legislatore della riforma fallimentare, nella previsione del requisito in esame, ha fatto riferimento allo schema obbligatorio del conto economico, di cui all’art. 2425 c.c., e, in particolare, al suo primo raggruppamento, sub lett. A;

-          il legislatore, nel riferirsi ai “ricavi”, ha considerato gli stessi in senso tecnico, con la conseguenza che deve farsi riferimento sia ai “ricavi delle vendite e delle prestazioni” sub n. 1, sia alla voce sub n. 5, “altri ricavi e proventi”, perché voce assimilabile alla prima, trattandosi di componenti positive, quali “ricavi accessori, dividendi, royalties, canoni attivi”; bisogna però escludere i proventi relativi a componenti straordinarie di reddito, in quanto non riconducibili in alcun modo al concetto di dimensione aziendale;

-          non possono, invece, sommarsi le voci sub n. 2, “variazioni delle rimanenze di prodotti in corso di lavorazione, semilavorati e finiti”, e sub n. 3, “variazioni dei lavori in corso su ordinazione”, che non possono essere considerate ricavi, nemmeno concettualmente assimilabili alla più ampia nozione di “proventi”;

-          come rilevato da attenta dottrina, queste ultime voci rappresentano invece costi comuni a più esercizi, che vengono sospesi in conformità al principio di competenza economica, ex art. 2423 bis c.c., per essere rinviati ai successivi esercizi, in cui si conseguiranno i correlativi ricavi.

Invero, come rappresentato nella Relazione illustrativa al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, relativamente alle soglie di non fallibilità[4], “l’unica reale modifica (rispetto alla Legge fallimentare, n.d.r.) consiste nell’eliminazione dell’espressione “ricavi lordi”, che, per la sua ambiguità, aveva suscitato qualche dubbio interpretativo. La nuova disposizione parla semplicemente di ricavi, sicché è chiaro il rinvio alla disciplina civilistica e, in particolare, agli articoli 2425 e 2425-bis del codice civile, che disciplinano le modalità di iscrizione di tale voce nel bilancio delle società di capitali”. Pertanto, secondo tale esplicito richiamo normativo, per l’individuazione dell’ammontare dei ricavi, con l’introduzione del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, si conferma comunque il rinvio ai sub. 1 e 5 lett. A del conto economico.

Su queste ultime affermazioni è opportuno svolgere alcune importanti considerazioni. L’interpretazione non prende in considerazione alcuni settori economici, che rappresentano una più che rilevante quota del prodotto nazionale interno lordo: grandi e piccole imprese, che producono “su commessa” nel settore delle costruzioni edilizie, navali, aeronautiche, ferroviarie ecc., presentano nei loro conti economici componenti rilevanti nella voce A 3) Variazioni dei lavori in corso su ordinazione, talora corrispondenti a gran parte del valore della produzione. Si osserva, inoltre, che la valutazione delle rimanenze di lavori in corso su ordinazione si basa frequentemente sul corrispettivo pattuito, maturato con ragionevole certezza.

Escludendo tali importi dall’ammontare dei ricavi, si rischia di commettere gravi errori nella stima della dimensione aziendale delle suddette imprese.

Come detto, il legislatore del ’91 ha scelto per il conto economico una struttura che si richiama alla matrice culturale contabile di tradizione tedesca, melius: germanica, per estendersi anche alla Svizzera e all’Austria. Nella dottrina ragioneristica di questo contesto politico-economico, quello che in Italia è restituito con il termine “valore della produzione” dovrebbe dirsi, con traduzione più accorta: “ricavi di produzione”. Tale concetto quantitativo si riferisce all’attività svolta nel periodo amministrativo standard di dodici mesi, ovvero alle quantità di beni fabbricate o prodotte; ebbene, proprio “le quantità prodotte” rappresentano la “vera” misura della dimensione aziendale. Espresse con metro monetario, tali “quantità prodotte” rappresentano i “ricavi (o il valore) della produzione”. La base teorica di questa visione è che per ricavo si intende ciò che l’impresa aggiunge alla complessiva economia: tutti (e soli) i prodotti iniziati e completati o non completati nel periodo, nonché la porzione completata di ciò che era rimasto sospeso in precedenza; anche prodotti non destinati alla vendita rientrano tra i ricavi, come beni aggiunti al sistema economico a prescindere dal futuro utilizzo interno; è evidente una concezione dell’economia come fenomeno “reale” prima che finanziario, il che non può sorprendere se si considera il milieu tedesco.

Una questione analoga è stata affrontata e risolta dall’Agenzia delle Entrate, che ha risposto ad un interpello nel 2008, che, seppur in un contesto fiscale, affrontava il medesimo tema della corretta definizione del termine “ricavi” di una società che produceva “su commessa”.

L’Agenzia delle Entrate, rispondendo[5] all’istanza, ha chiarito che per le imprese che producono “su commessa”, ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 172, comma 7, del TUIR, possono essere ricompresi “tra i ricavi e i proventi dell’attività caratteristica” anche gli incrementi delle opere e dei servizi realizzati su ordinazione.

L’affermazione, al di là dell’improprio riferimento soltanto agli “incrementi” delle rimanenze (sarebbe stato, infatti, più corretto far riferimento alla “variazione” delle rimanenze), sembra del tutto condivisibile e mostra come forse l’Agenzia delle Entrate abbia adottato un approccio meno formalistico e più sostanziale dei Giudici di legittimità.

Per comprendere come, per talune imprese, l’esclusione della variazione dei lavori in corso su ordinazione dal novero dei ricavi possa portare a risultati del tutto fuorvianti al fine di stimare la dimensione aziendale, si pensi ad una società che si costituisce per l’esecuzione di un grande appalto di costruzioni meccaniche o edilizie. Essa avrà un notevole numero di dipendenti, investirà ingenti capitali, ma quasi sicuramente nei primi anni non conseguirà ricavi di vendita, o li avrà d’importo assai modesto. Malgrado ciò, i suoi bilanci chiuderanno in attivo, dato che, in questi casi, è normale che i lavori in corso di esecuzione siano valutati in bilancio con il criterio della percentuale di completamento, cioè al corrispettivo maturato con ragionevole certezza.

Considerare questa società una piccola impresa non fallibile sembra davvero paradossale. 

 

3. Cosa s’intende per “costi d’acquisto” e “costi di produzione”

Abbiamo in precedenza osservato come sia importante lo studio interdisciplinare nell’interpretazione delle norme riguardanti la crisi d’impresa e le ristrutturazioni aziendali; una delle maggiori esigenze di tale modalità di analisi si nota nell’accertamento dell’esistenza dell’equilibrio economico e finanziario prospettico, ai fini della valutazione dei presupposti per la continuità aziendale. A questo scopo, la corretta applicazione dei criteri di valutazione degli elementi del bilancio risulta indispensabile; ciò riguarda sicuramente anche la stima del valore attribuibile alle rimanenze, per cui riteniamo interessante, a tale scopo, analizzare l’altra recente pronunzia della Corte di Cassazione, già ricordata.

La questione sottoposta alla Suprema Corte riguarda una controversia tributaria, ma investe anche aspetti civilistici. Viene presa in esame la decisione di una Commissione tributaria regionale, secondo la quale “nella valutazione delle rimanenze di esercizio, la società aveva la mera facoltà di computare i costi indiretti di produzione e non già l’obbligo di considerarli (a differenza degli oneri accessori di diretta imputazione”. La decisione è stata impugnata dall’Agenzia delle entrate, sostenendo che detti costi sono invece necessariamente da ricomprendere nel costo dei beni, ai sensi dell’art. 110, comma 1, lett. b), T.U.I.R. e art. 2426 c.c.

L’art.110, comma 1, lett. b), T.U.I.R. stabilisce che “b) si comprendono nel costo anche gli oneri accessori di diretta imputazione, esclusi gli interessi passivi e le spese generali. Tuttavia per i beni materiali e immateriali strumentali per l’esercizio dell’impresa si comprendono nel costo gli interessi passivi iscritti in bilancio ad aumento del costo stesso per effetto di disposizioni di legge. Nel costo di fabbricazione si possono aggiungere con gli stessi criteri anche i costi diversi da quelli direttamente imputabili al prodotto; per gli immobili alla cui produzione è diretta l’attività dell'impresa si comprendono nel costo gli interessi passivi sui prestiti contratti per la loro costruzione o ristrutturazione;”.

L’art. 2426 c.c., nel dettare i “Criteri di valutazioni”, prevede che: “... le immobilizzazioni sono iscritte al costo di acquisto o di produzione. Nel costo di acquisto si computano anche i costi accessori. Il costo di produzione comprende tutti i costi direttamente imputabili al prodotto. Può comprendere anche altri costi, per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto, relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato; con gli stessi criteri possono essere aggiunti gli oneri relativi al finanziamento della fabbricazione, interna o presso terzi”.

Dal confronto fra i due testi, appare chiaramente in entrambe l’utilizzo del verbo “potere” (possono essere aggiunti; può comprendere), del quale si dirà in seguito, ma risultano anche alcune differenze per quanto riguarda la definizione di “costo d’acquisto”: la norma fiscale prevede esclusivamente l’aggiunta al prezzo degli oneri accessori diretti, mentre il codice volutamente include tutti i costi accessori, siano essi diretti, che indiretti. Anche per il costo di produzione le due definizioni divergono, almeno formalmente, proprio su di una questione che ha formato oggetto di contrastanti interpretazioni all’interno dei principi contabili, sino all’emanazione della versione 2014 dell’OIC 13: la possibilità d’imputare alle rimanenze gli interessi passivi. La norma tributaria esclude in via generale l’imputazione di oneri finanziari al costo d’acquisto dei beni, salvo per quelli strumentali, mentre il codice esclude tale possibilità per qualsiasi bene acquistato, ma la consente per tutti quelli prodotti in economia, sia destinati alla vendita, che all’utilizzo interno. Per i beni prodotti internamente la norma fiscale consente l’imputazione dei costi indiretti.

La Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate con la seguente motivazione.

Da tali disposizioni la C.T.R. ha tratto la conclusione della mera facoltatività, per l'imprenditore, di considerare i costi indiretti di produzione, poiché, secondo la sentenza impugnata, l'obbligo normativo concerne, invece, i soli oneri accessori di diretta imputazione. L'argomentazione suesposta è errata. La distinzione tra costi diretti e indiretti di produzione è già stata recepita dalla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 27334 del 30/11/2020, in motivazione, ha statuito che “secondo la disciplina civilistica, le rimanenze finali sono dunque valutate con il criterio del costo che, in base alle modalità di reperimento del bene, si distingue in costo di acquisto e in costo di produzione. Lo stesso art. 2426 c.c., al n. 1), definisce il costo d'acquisto e il costo di produzione; nel primo si computano, oltre al prezzo effettivo di acquisto, anche i costi accessori, ossia quelli direttamente imputabili al contratto di acquisto, nonché quelli di diretta imputazione (tra i quali rientrano oneri fiscali e doganali, spese di imballaggio, trasporto e spese di assicurazione, costi di intermediazione). Il costo di produzione, invece, comprende tutti i costi direttamente imputabili al prodotto (cd. costi diretti), attraverso la tecnica del cd. costo base (direct costing), costituiti dai costi dei materiali utilizzati, dagli imballaggi e dalla manodopera diretta impiegata, e può anche comprendere altri costi di indiretta imputazione (cd. costi indiretti), per la quota ragionevolmente imputabile al prodotto in base a determinati parametri (cost drivers) (quali le ore di mano d'opera, le ore macchina), relativi al periodo di fabbricazione e fino al momento dal quale il bene può essere utilizzato, rappresentati da spese generali di produzione comuni a più prodotti (manodopera indiretta, ammortamenti, manutenzioni e riparazioni, materiali di consumo utilizzati, consumi di energia)”.

Il dispositivo dell’ordinanza è da condividere, ma si allontana dal tenore letterale delle norme e le motivazioni appaiono imprecise ed incomplete.

In primo luogo, dobbiamo osservare che non viene preso in considerazione l’elemento di base delle difformità interpretative, ovvero l’utilizzo, sia da parte del codice civile che del legislatore fiscale, del verbo “può comprendere”, anziché “deve comprendere”. La mancanza di qualsiasi spiegazione è particolarmente sorprendente, dato che sarebbe stato sufficiente leggere la relazione accompagnatoria al decreto legislativo 127/91, nella quale viene chiarito il “mistero”: l’uso del termine “può” non lascia libero il redattore del bilancio nella scelta riguardante l’imputazione o meno dei costi indiretti nel costo di produzione, ma è un implicito riferimento alla discrezionalità tecnica del redattore nella scelta della “quota ragionevole” da imputare. In definitiva, non si può confondere l’an con il quantum: il primo è obbligatorio, il secondo è lasciato alla competenza dei tecnici e non a quella dei giuristi.

Sul punto, l’ordinanza così prosegue: “Lungi dall'affermare che l'imprenditore è libero di valutare le rimanenze includendo nel costo di produzione i costi indiretti o escludendoli, la stessa pronuncia sopra menzionata ha statuito che “la iscrizione in bilancio al costo di produzione, prescritta per i prodotti in corso di lavorazione ed i semilavorati, non costituisce una mera facoltà, ma rappresenta piuttosto applicazione del principio civilistico della rappresentazione veritiera e corretta.

In altre parole, le disposizioni sopra citate non attribuiscono una mera facoltà di considerare i costi indiretti (come invece ritiene la C.T.R.), ma devono essere lette in base ai “Principi di redazione del bilancio” ex art.2423-bis c.c. che, nella formulazione all’epoca vigente, stabiliva che “la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell'attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell'elemento dell'attivo o del passivo considerato” (a tale disposizione si aggiunge oggi in maniera esplicita il principio generale, sopravvenuto alla fattispecie in esame, del “quadro fedele” – true and fair view previsto dalla Direttiva 2013/34/UE, quale criterio guida nella predisposizione del bilancio, recepito dal legislatore italiano nell'art. 2423 c.c., comma 2, secondo il quale “il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio”.

La spiegazione appare alquanto confusa: in primo luogo, la clausola generale della rappresentazione veritiera e corretta non deriva affatto dal recepimento della direttiva UE del 2013, essendo presente in modo identico nell’art. 2423 dal 1991, sino al 2013, quando ad essa è stata aggiunta la deroga per la “irrilevanza”; altrettanto improprio è il riferimento al principio di prudenza nella prospettiva di continuazione dell’attività di cui all’art. 2432-bis: sicuramente non contribuisce all’obbligo di includere nel valore delle rimanenze alcuni componenti di costo, al limite potrebbe suggerire di escluderli … In definitiva, l’unico motivo che suggerisce un’interpretazione non letterale delle due norme in precedenza indicate è il contenuto della relazione accompagnatoria riferita al decreto legislativo 127/91, non presa in considerazione dalle ordinanze.

Anche da un punto di vista tecnico, le motivazioni appaiono imprecise: la richiamata definizione data dall’ordinanza del 2020 secondo la quale nel costo d’acquisto “si computano, oltre al prezzo effettivo di acquisto, anche i costi accessori, ossia quelli direttamente imputabili al contratto di acquisto, nonché quelli di diretta imputazione” non contribuisce a chiarire la disposizione. I costi direttamente imputabili al contratto e quelli di diretta imputazione (s’immagina al bene acquistato) rientrano tutti nel concetto di “costo diretto”, scelto dalla norma fiscale, mentre il legislatore civile ha previsto l’obbligo d’imputare i costi accessori, sia diretti, che indiretti, come meglio si dirà in seguito. È anche improprio il riferimento alla tecnica del direct costing, che, come è noto, non riguarda la distinzione fra costi diretti ed indiretti, ma quella fra costi fissi e costi variabili. Anche il richiamo ai cost drivers è poco opportuno, poiché potrebbe dare l’impressione che l’imputazione debba farsi con modelli predefiniti, mentre il redattore del bilancio è libero di applicare le soluzioni che in ragioneria sono ritenute “ragionevoli” anche in relazione alle varie fattispecie di contesti aziendali: meglio sarebbe stato accennare a “basi di ripartizione”.

L’imputazione dei costi indiretti ai beni in giacenza a fine esercizio rientra nel più vasto processo di determinazione della competenza economica dei componenti positivi e negativi di reddito, che, nel sistema contabile comunemente in uso in Italia, prevede l’affiancamento alla contabilità generale della contabilità analitica. O più semplicemente, di una contabilità o una rielaborazione dei costi. L’argomento ha formato oggetto di completa ed esaustiva trattazione da parte della dottrina economico aziendale italiana da circa un secolo ed ha visto in Teodoro d’Ippolito la fonte primaria, i cui insegnamenti sono ancora di piena attualità.

Le modalità tecniche di stima del costo delle rimanenze non sono di semplice applicazione ed i principi contabili italiani hanno proposto nel documento OIC 13 dettagliate istruzioni. In alcuni casi, però, il loro intervento non ha fugato tutti i dubbi interpretativi: un esempio particolarmente rilevante a causa della vastità del fenomeno riguarda l’imputazione dei costi di trasporto alle materie ed alle merci: trattasi, evidentemente, di un tipico costo accessorio all’acquisto, passibile di ripartizione sia diretta che indiretta, malgrado il tenore letterale della normativa tributaria.

In merito alla voce B6) (Per materie prime, sussidiarie, di consumo e merci), l’OIC 12 al par. 53 così si esprime: «I costi indicati alla voce B6 sono comprensivi dei costi accessori di acquisto (trasporti, assicurazioni, carico e scarico, ecc.) se inclusi dal fornitore nel prezzo di acquisto delle materie e merci. In caso contrario, sono iscritti alla voce seguente B7

Per quanto riguarda le spese di trasporto, si riporta anche quanto indicato nel successivo par. 63 riguardante i costi per servizi: «Sono imputati a questa voce tutti i costi, certi o stimati derivanti dall’acquisizione di servizi. A titolo esemplificativo e non esaustivo, si indicano i seguenti costi:

-          trasporti (se non addebitati in fattura dai fornitori di materie e merci); […]».

Dato che nel conto economico i costi devono essere classificati per natura, quanto riportato dall’OIC si dovrebbe interpretare nel senso che, se il fornitore di una materia o merce con trasporto a carico del destinatario non distingue in fattura i due importi, ovviamente nel costo di acquisto dei beni sarà compreso anche quello del trasporto (e va inserito interamente in B6). Se, invece, il trasporto a carico del destinatario è fatturato da altro soggetto, oppure se è distintamente indicato in fattura dal fornitore, andrà iscritto nella voce B7 classificato per natura. Una diversa interpretazione, ovvero registrare come costo delle materie le spese di trasporto anche quando sono indicate separatamente nella fattura del fornitore sarebbe assolutamente contraddittoria, in quanto farebbe dipendere la classificazione in bilancio degli oneri di trasporto dal soggetto che effettua e/o fattura il trasporto medesimo. È ovvio che in tutti i casi, però, i costi di trasporto, considerati oneri accessori all’acquisto, dovranno essere considerati ai fini della valutazione delle relative rimanenze.

È appena il caso di notare che anche i trasporti eseguiti direttamente dall’acquirente – e che pertanto non figurano sotto la voce trasporti nel conto economico, ma sotto le varie voci relative alla gestione degli automezzi propri – trattandosi di costi accessori all’acquisto, devono essere tenuti in considerazione nella valutazione delle rimanenze. L’equivoco può dipendere dalla confusione fra la rilevazione contabile e le valutazioni di bilancio. Infatti, l’aggiunta al costo di acquisto degli oneri accessori rientra nel processo di valutazione delle rimanenze e non in quello di rilevazione dei costi.



[1] R.D. 16 marzo 1942, n. 267, tutt’ora in vigore poiché il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di cui al D.lgs. n. 14/2019 è stato, con il D.L. 118/2021, ulteriormente rinviato al 16 maggio 2022:

Art. 1 Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo.

Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.

Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.

[2] Nel tentativo, forse, di limitare i “danni informativi” generati dalla soppressione dell’area straordinaria del CE, il provvedimento citato dispose che in Nota integrativa, al n. 13, sia indicato “l'importo e la natura dei singoli elementi di ricavo o di costo di entità o incidenza eccezionali” non meglio precisati, aumentando la già rilevante babele terminologica.

[3] Si veda l’articolo citato in nota 2.

[4] Art. 2, c. 1, lett. d), del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, come richiamato all’art. 121 dello stesso.

[5] La risposta non è stata pubblicata sul sito dell’Agenzia delle Entrate.