Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Sostenibilità e crisi di impresa tra opzioni ideologiche e finalità delle procedure*


Giuseppe Fauceglia
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Sostenibilità e crisi di impresa tra opzioni ideologiche e finalità delle procedure*


Giuseppe Fauceglia

Data pubblicazione
05 settembre 2025

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Sommario: 1. Introduzione alla problematica. 2. Le procedure liquidatorie e le procedure in continuità aziendale. 3. Qualche considerazione conclusiva.


1.     Introduzione alla problematica.

Queste riflessioni, proprio per l’ampiezza che involge la problematica della sostenibilità in un campo così peculiare come la crisi dell’impresa, si limitano ad indicare un quadro generale di riferimento. Si muove da una notazione condivisibile: posto che la normativa della crisi e dell’insolvenza è ormai considerata come la disciplina di una fase o di un momento particolare dell’impresa, non può disconoscersi che il quadro dei valori operanti in condizioni di normale esercizio[1] può essere evocato anche per la fase della crisi[2]. Ciò posto, però, si tratta, più concretamente, di verificare se, anche in questo contesto, l’obiettivo della sostenibilità corra il rischio di “una certa vaghezza contenutistica” o di “furore abrasivo di altre posizioni giuridiche tutelate”[3],  sì da trasformarsi solo in uno slogan, oppure, diversamente, se allo stesso possa attribuirsi, e con quale gradualità o intensità, una certa funzione[4]. E’ evidente che il presupposto di questa valutazione è che gli interessi coinvolti nelle procedure di superamento della crisi non possono più ritenersi limitati a quelli dei soli creditori[5], specie allorquando questi interferiscono con interessi diversi ed eterogenei (l’interesse dei lavoratori, all’integrità dei complessi produttivi, alla stabilità del mercato, ecc.).

Si tratta, allora, di scindere la stessa nozione di sostenibilità, assumendo la rilevanza in questa sede della sostenibilità economica, che per sue stesse caratteristiche accede alla tutela dei creditori nell’ottica della continuità aziendale[6], rispetto ad altre accezioni, come quella della sostenibilità ambientale e della tutela degli interessi delle comunità in cui l’impresa svolge la propria attività. In una prospettiva di più ampio respiro, deve ricordarsi come il termine sostenibilità è stato di frequente connesso all’attributo “democratico”, sì da ritenere che lo sviluppo sostenibile è di per sé sviluppo democratico[7].  Anche in tal caso, pare opportuno una necessaria perimetrazione della nozione: nessun problema si pone allorquando per sostenibilità si intende far riferimento al complesso degli obblighi normativi di ogni tipo (anche discendenti da atti amministrativi) che impongono all’imprenditore un comportamento positivo (ad esempio, la tutela della sicurezza sul lavoro o l’utilizzo obbligato di impianti non inquinanti) o un comportamento negativo (ad esempio, non ricorrere a fattori produttivi inquinanti), mentre resta di più incerta identificazione una finalità tendenzialmente ritenuta sostenibile, caratterizzante della stessa attività produttiva. Se la prima nozione non è in grado di modificare, incidere o piegare le categorie concettuali tradizionali dell’attività di impresa (anche nel paradigma dell’art. 41 Cost.), molto più incerta resta la concreta realizzazione di una tendenza genericamente orientata alla sostenibilità. In tal caso, resta evidente il pericolo insito nel maneggiare con una certa disinvoltura categorie eccessivamente ideologiche allo scopo di delineare una nuova configurazione dello scopo dell’impresa e della società. Ad esempio, è noto il dibattito che in Francia ha seguito nel 2019 la c.d. Loi Pacte (che ha modificato L. 225-35, all. 1, del Code de commerce), richiedendo questa che gli amministratori devono operare in conformità dell’oggetto e dell’interesse sociale, prendendo in considerazione, in una sostanziale equiparazione, oltre che l’interesse dei soci, anche i più ampi scopi sociali, quali quelli dei lavoratori, dei consumatori, dell’ambiente e dello Stato, laddove non sono mancate autorevoli voci critiche, che ritengono meramente propagandistica la novella. In sostanza, anche nel dibattito italiano, si ritiene che una opzione di tal fatta finisca per conseguire una sostanziale svalutazione tassonomica dell’art. 2247 c.c., posto che se nella causa della società si inseriscono interessi “altri” (rispetto a quello dei soci) da perseguire obbligatoriamente, si realizza un totale scollamento tra i soggetti che assumono il rischio dell’attività e le finalità sociali in senso lato. Né pare sufficiente far riferimento al novellato art. 2086 c.c., che caratterizza la integrazione, in termini di adeguatezza, degli obblighi degli amministratori di tutte le società, che imporrebbe l’adozione di assetti organizzativi in grado di cogliere tempestivamente i rischi dell’attività, indirizzando le imprese verso un’opera di prevenzione e di contenimento dei rischi derivanti da danni socio-ambientali, posto che anche in tale ipotesi il criterio di riferimento resta quello degli obblighi normativi. Ciò pare discendere anche dalla Direttiva UE 2024/1760, che menziona l’adozione di misure idonee a identificare, prevenire, mitigare e porre rimedio agli impatti negativi; dunque un obbligo che non può che realizzarsi in una prospettiva di conformità a norme. Del resto, in una prospettiva di più ampio respiro, che non può essere oggetto di queste riflessioni, la stessa Unione Europea ha disposto con la Direttiva 2025/794, un vero e proprio stop the clook degli obblighi di diligenza e di rendicontazione, rinviando, in attesa di un loro adeguamento, la data di applicazione e di recepimento per gli Stati membri delle Direttive CRSD e CSDDD [8].

Il tema, prescindendo dalle chiavi di lettura “ideologica”, si sposta sul delicato equilibrio tra la posizione dei creditori dell’impresa in crisi e quello dei “creditori involontari” o “creditori senza affidamento”, rispetto ai quali la dottrina della CSR potrebbe portare a risultati di qualche interesse, senza con questo accedere a “posizioni emulative” del dibattito che si è sviluppato specie con riferimento alla grande impresa azionaria, i cui risultati e la cui stessa ispirazione teorica risultano non proponibili nel contesto della crisi, specie laddove questa coinvolga piccole e medie imprese[9].

Se dovesse muoversi da una prospettiva di “politeismo dei valori”, in assenza di una gerarchia di “valori” predefinita, si finirebbe per offrire pari dignità al criterio del soddisfo dei creditori e alla tutela del “bene” (nelle sue varie declinazioni ontologiche) di altri soggetti, con ciò imponendo una distribuzione asimmetrica della “ricchezza”, a danno proprio dei creditori, finanche in contraddizione con la prospettiva “proprietaria” loro riconosciuta [10]. Del resto, se pure volesse attribuirsi un qualche rilievo a “principi non espressi” nel Codice  della crisi e dell’insolvenza, dovrebbe poi adeguatamente spiegarsi il perché detti principi dovrebbero prevalere su “principi espressi” (tra i quali, va collocato proprio il  “soddisfo dei creditori” [11], di particolare rilievo proprio nella liquidazione giudiziale, nonché, sia pure con diverse graduazioni, nel concordato preventivo). In una concezione che vuole dare prevalenza all’interesse dei creditori in ragione della crisi (idoneo a conformare lo stesso interesse sociale), la trasformazione genetica, come dipendente da ulteriori interessi collettivi, propri dello shareholderismo sociale, in realtà finirebbe per realizzare un ulteriore fenomeno di vero e proprio stakeholderismo, attribuibile ai creditori come “proprietari”, con l’ovvia conseguenza che i portatori degli interessi alla sostenibilità finirebbero per assumere posizione rilevante rispetto ai primi (la cui posizione finirebbe, in sostanza, per essere indirettamente parificata a quella dei soci). La conseguenza inevitabile è che anche lo scopo-fine delle procedure di risoluzione della crisi, normativamente indirizzate al soddisfo dei creditori, finirebbe per essere inciso o condizionato da interessi “altri”, neppure perimetrabili, ai quali potrebbero, nello sviluppo estremo della tesi qui criticata, riconoscersi diritti processuali, come quelli di opposizione o di intervento.

Così delineato il contesto in cui si è sviluppato il dibattito sulla sostenibilità nella crisi dell’impresa, vanno designati i confini entro cui lo stesso può svolgersi. Se si fa riferimento alla Direttiva UE 2019/1023, può riscontrarsi la prevalenza della sostenibilità economica, così l’art. 8 comma 1° lett. h) in relazione al contenuto del piano di ristrutturazione, laddove si richiede una “dichiarazione circa i motivi per cui il piano di ristrutturazione ha prospettive ragionevoli di impedire l’insolvenza del debitore e di garantire la sostenibilità economica dell’impresa, comprese le necessarie condizioni preliminari per il successo del piano”; e nel contesto di altre posizioni interessate ai piani di ristrutturazione emerge la individuazione di “interessi altri” rispetto ai tradizionali interessi dei creditori, così come per le tutele informative dei lavoratori (art. 13). Del resto, lo stesso art. 4.3, prevede che “Gli Stati membri possono mantenere o introdurre una verifica di sostenibilità economica a norma del diritto nazionale, purché tale verifica abbia la finalità di escludere il debitore che non ha prospettive di sostenibilità economica e possa essere effettuata senza pregiudicare gli attivi del debitore” (dunque, con riferimento alla sola “sostenibilità economica”, non prevedendo la sostenibilità ambientale). Invero, anche nei considerando, come nel n. 10, viene confermato che “tutte le operazioni di ristrutturazione, in particolare quelle di grandi dimensioni che generano un impatto significativo, dovrebbero basarsi su un dialogo con i portatori di interessi, tale dialogo dovrebbe riguardare la scelta delle misure previste in relazione agli obiettivi dell’operazione di ristrutturazione, come pure sulle opzioni alternative, e dovrebbero garantire l’adeguata partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori come previsto dal diritto dell’Unione e nazionale”. Non è dato, però, nella selezione degli “interessi delle parti”, con riferimento alla individuazione della tutela degli stakeholders, rinvenire alcun elemento riferibile alla sostenibilità ambientale, che in quanto tale resta estranea alle prospettive della Direttiva (se mai affidata ad altre indicazioni normative anche unionali, dovendo poi, però, scrutinarsi se queste siano immediatamente applicabili anche nel contesto della crisi dell’impresa, fermo il richiamo di norme imperative).

 

2. Le procedure liquidatorie e le procedure in
continuità aziendale.

Per quanto riguarda il Codice della crisi e dell’insolvenza, è opportuno distinguere tra procedure con finalità liquidatorie e procedure con finalità conservative dell’attività di impresa nella prospettiva della sua continuità (diretta o indiretta). Più coerente con le finalità della liquidazione giudiziale, resta rilevante l’argomento, secondo il quale la procedura, innestata su una situazione di insolvenza irreversibile, è proiettata tassativamente al soddisfacimento dei creditori, non lasciando così spazio ad una apertura per un possibile suo utilizzo in chiave di sostenibilità economica e sociale[12], con ciò prendendo in qualche modo atto della possibilità di non “piegare” le finalità proprie dell’esecuzione collettiva a “interessi-altri”, se non nel caso in cui sia la stessa legge a richiedere una certa comparazione tra il soddisfo dei creditori ed altri interessi[13].

Invece, una norma di particolare rilievo sul tema, si rinviene, per quanto riguarda il concordato in continuità, nell’art. 87, comma 1°, lett. f), a mente del quale il piano deve contenere: “ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, l’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza del lavoro e di tutela dell’ambiente”. La norma, sia nell’ipotesi di continuità diretta che indiretta, espressamente richiede la indicazione dei costi necessari per la tutela dell’ambiente, dando così (apparente) rilievo alla questione della sostenibilità come connessa all’esito della ristrutturazione, assumendo che la stessa non possa realizzarsi prescindendone. La norma, menzionando “i costi”, sembra far riferimento alle conseguenze cui l’impresa resterebbe esposta in caso di non ancora accertate responsabilità ambientali in ragione dello svolgimento di attività “pericolose”, potendo le eventuali sanzioni compromettere il piano concordatario e le stesse prospettive di ristrutturazione (resterebbero, invece, escluse le sanzioni già irrogate prima dell’accesso alla procedura, che sarebbero trattate come “debiti concordatari”, perché antecedenti ed attratti dalla regola dell’art. 117) ovvero i costi necessari per adeguare gli impianti a norme di legge. Da ciò si ricaverebbe non solo l’esigibilità di un comportamento richiedibile agli organi gestori, finalizzato alla creazione dei migliori preventivi presidi possibili a fronte di dette attività “pericolose”, ma, soprattutto per quello che qui riguarda, la indicazione nel piano concordatario dei costi connessi alle migliori tecniche disponibili, così consentendo ai creditori e al tribunale di valutare la soglia del rischio accettabile (sia in termini di minor realizzo dei crediti nell’ambito concordatario, sia in ragione di eventi sopravvenuti che potrebbero compromettere l’esito della ristrutturazione, anche in termini di continuazione dell’attività dell’impresa). 

Si tratta di un elemento che contraddistingue il piano industriale in continuità aziendale, e che può essere oggetto di opportuna valutazione sia nella fase ammissiva  sia, in maniera più determinante, nella successiva omologazione, in una prospettiva che parrebbe prescindere dalla realizzazione del soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale. In questa prospettiva, il Codice sembrerebbe dare rilievo alle caratteristiche dell’attività dell’impresa, e al suo esercizio nel paradigma offerto anche dal nuovo articolo 41, 2° comma, Cost., in una logica in cui il dovere di solidarietà viene a qualificarsi come “limite superiore all’esercizio dei diritti individuali” (sia dell’imprenditore che dei creditori, quali destinatari ultimi dell’esito della ristrutturazione [14]). Naturalmente, in astratto, non si vieta che nel piano siano indicati investimenti diretti alla sostenibilità dell’impresa, pur sempre verificabili nel contesto della correttezza delle informazioni rese e finanche di particolari strumenti di enforcement, ma questa opzione va pur sempre misurata nella prospettiva di compatibilità del risultato del risanamento, indirizzato a preservare l’interesse al soddisfo dei creditori nell’utilità derivante dalla continuazione (con prevalenza di quest’ultimo anche nella valutazione del tribunale). In sostanza, non sussiste per gli amministratori che predispongono il piano, così come per le imprese in bonis, l’obbligo di assumere le proprie scelte ai migliori standard di sostenibilità, rendendo così sindacabili le decisioni impattanti in modo negativo sull’ambiente. Se mai, sussiste al più un onere informativo sulle questioni di sostenibilità ambientale e su quelle relative alle modalità e alle strategie aziendali che tengano conto degli interessi dei terzi e dell’impatto sulla stessa sostenibilità.

La tematica, però, non può ritenersi in ciò esaurita, perché, a fronte di un concordato in continuità, che ha avuto l’approvazione dei creditori, si pone il problema se il tribunale possa negarne l’omologazione, a fronte di significative deficienze rappresentative dei costi necessari per la tutela dell’ambiente. Risulta evidente che se all’espressione “tutela dell’ambiente” si offre una configurazione tale da assumerne la rilevanza di clausola generale a salvaguardia di interessi collettivi, la relativa valutazione assegnata al tribunale in sede di omologazione, potrebbe indurre a far “regredire” l’interesse dei creditori, che pure hanno valutato il piano ed esaminato le caratteristiche in termini di convenienza economica. In tal modo, la valutazione della sostenibilità ambientale (rectius, dei “costi”) finirebbe per assurgere ad una condizione prevista dalla legge, per cui la violazione del “canone” finirebbe per incidere sulla prospettiva propria della “causa concreta”, oggetto di necessaria valutazione dell’Autorità Giudiziaria[15], anche in termini di congruità delle risorse necessarie per supportare i costi. Questa opzione, però, potrebbe prospettarsi solo per le attività definibili “pericolose”, ma non per le altre definibili “non pericolose”, dove il richiamo alla sostenibilità si raffronta rispetto alle risorse dell’impresa, non potendo esigersi che venga compromessa la funzione produttiva, sì da richiedere solo la corretta rappresentazione dei costi per la individuazione di quei presidi normativi ritenuti necessari per la continuità.  Diversamente, anche rispetto alla prima tesi, se il riferimento “ai costi” rappresentati nel piano altro non configurano se non condizioni economiche dello stesso, la relativa valutazione finirebbe per rientrare nell’esame esclusivamente assegnato ai creditori, i quali hanno potuto soppesare il rischio accettabile, identificato con quel rischio rispetto al quale i costi da sostenere per approntare le misure atte a prevenirlo supera lo stesso valore dell’ “attivo” concordatario oppure se detti costi siano in grado di incidere in modo significativo sulle aspettative di soddisfo del credito[16]. 

Vi è, però, che la previsione non può comportare ulteriori conseguenze sullo sviluppo della procedura concordataria. Il riferimento alla “tutela dell’ambiente”, nella stessa genericità della formulazione della norma, non consente che l’agire degli amministratori (qui rilevante nella predisposizione del piano e nella scelta dello strumento di ristrutturazione ritenuto più opportuno) possa essere sindacato da terzi, quali singolarmente considerati o quali portatori di interessi associativi (questi non potranno essere neppure indicati come “eventuali parti non interessate dal piano”, che nella formulazione dell’art. 87, comma 1°, lett. n), vengono indicate “individualmente” o descritte “per categorie di debiti”, unitamente ai motivi per cui le stesse non sono considerate “interessate”[17]).

Ne consegue che, una volta intervenuta la approvazione dei creditori, all’esito delle adesioni alla proposta concordataria, ci si chiede se i portatori di interessi ambientali possano proporre opposizione all’omologazione, ritenendo non realizzata nel piano la tutela ambientale (per incongruità dei “costi” rappresentati, come determinanti sulla finalità protettiva). Invero, sembra rilevante la perimetrazione che si rinviene nell’art. 112, comma 3°, che nel concordato in continuità fa riferimento al solo creditore dissenziente (tale non è il soggetto che non vanta alcuna attuale pretesa, ma una astratta aspettativa al rispetto dei canoni ambientali), che eccepisce il difetto di convenienza della proposta, con il conseguente parametro valutativo delineato su tale interesse, “secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale”. Vi è, però, che l’art. 48, comma 2°, fa riferimento, nel procedimento di opposizione, alle opposizioni proposte dai creditori dissenzienti e da “qualsiasi interessato”, sì che in quest’ultima categoria potrebbero rientrare i portatori di interessi (anche diffusi) connessi alla sostenibilità ambientale, in relazione al contenuto indefettibile della domanda che tanto abbia esposto (in una prospettiva in cui l’ “interesse ad agire” ex art. 100 c.p.c. viene riconosciuto alle associazioni ambientaliste o addirittura a singoli soggetti[18]), e detta prospettiva potrebbe realizzarsi anche per l’opposizione ad una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione (sempre art. 48, comma 4°), pur se, in quest’ultimo caso, l’art. 57, che rinvia semplicemente alla disposizione dell’art. 56, non indica alcun contenuto del piano che faccia riferimento alla tutela dell’ambiente, ciò non escludendo, però, che detto elemento resti intrinseco nella normale prosecuzione dell’attività di impresa. Riconoscendo, però, un “interesse” all’opposizione da parte di soggetti “altri”, si finirebbe per attribuire agli stessi il potere di intervenire sull’esito della ristrutturazione, in assenza – tra l’altro determinante – di chiare perimetrazioni valutative del tribunale sul tema, quali sono quelle espressamente indicate dall’art. 112, comma 3°. Se i risultati della ristrutturazione riguardano, in effetti, i soli creditori e, in maniera residuale, i soci (art. 120 bis ss.), nonché i lavoratori (sia pure nella prospettiva prevalentemente informativa, di cui alla lett. o) dell’art. 87, comma 1°[19]), non potrebbero evincersi interessi ulteriori, per altro non specificamente individuati o indicati. E’ banale sottolineare che il tema dell’enforcement della sostenibilità ambientale rispetto alla crisi trova una particolare problematicità proprio nella individuazione della legittimazione ad azionare i rimedi, a fronte dell’impatto ambientale dell’attività di impresa sulle comunità di riferimento, non ricorrendo tipicamente un rapporto contrattuale idoneo a fondarlo (così come per i creditori e finanche per i lavoratori). Neppure pare utilizzabile, nella materia specifica, la rilevanza degli interessi ambientali fondata sull’estensione delle posizioni giuridiche individuali e collettive, oggetto della disciplina inibitoria o risarcitoria, per le quali ci si limita a registrare un ampliamento del catalogo degli interessi meritevoli di tutela [20]. In effetti, le uniche pretese che questi stakeholders potrebbero legittimamente pretendere non possono che essere quelle fondate sulla violazione di un “diritto” che sia loro attribuito dalla legge; ma la perimetrazione di questo diritto non può che costituire il diretto portato di limiti imperativi che l’ordinamento pone all’esercizio di altri concorrenti diritti, specie nel contesto di una specifica fase dell’attività, come quella richiamabile negli strumenti di risoluzione della crisi. Neppure, per la genericità della formulazione dell’art. 22, comma 1°, lett. d) nella composizione negoziata della crisi, può ritenersi che l’espressione “tenuto conto delle istanze delle parti interessate al fine di tutelare gli interessi coinvolti” al trasferimento in qualsiasi forma dell’azienda, come autorizzato dal tribunale, possa ricomprendere “interessi” diversi da quelli assunti dalle parti che partecipano alle trattative stesse (se si esclude l’interesse dei lavoratori, che pure assume in quel contesto una qualche rilevanza, in tema di intangibilità dei relativi diritti patrimoniali).

Va detto che questa conclusione resterebbe ancora più confermata, se si attribuisse, come pare corretto, all’espressione “tutela dell’ambiente”, indicata quale elemento contenutistico del piano concordatario in continuità, la sola funzione riassuntiva del rispetto di norme pubblicistiche in quanto tali vincolanti. In questa ipotesi, può ritenersi che il riferimento (assai generico) alla “tutela dell’ambiente”, dovrebbe solo comportare nel piano concordatario una mappatura dei rischi, calibrata alla peculiarità dell’impresa e sulle tipologie di rischio cui essa è esposta (con particolare riferimento ai rischi legati all’impatto ambientale dei singoli prodotti o servizi forniti), e dei relativi “costi”.

 

3.     Qualche considerazione conclusiva.

Prospettiva diversa può riscontrarsi laddove le procedure in oggetto venissero piegate ad una gestione sostenibile della crisi, sia dal punto di vista economico, in quanto finalizzata a permettere all’impresa di riacquistare e mantenere la capacità di produrre reddito e lavoro in maniera duratura (profilo determinante e come tale assunto dal legislatore), sia dal punto di vista sociale, quando lo strumento garantisca un’equa distribuzione del costo del risanamento, e, quindi, dei conseguenti benefici su tutti coloro che si incontrano nell’ambito dell’impresa, e questo anche nella prospettiva della sostenibilità ambientale. Il tema viene ricostruito nel contesto del diritto della crisi sulla scorta di un auspicio, che oserei definire ispirato da una logica eco-solidale, secondo cui “l’antagonismo immanente alla individualistica tensione verso il conseguimento delle somme più alte dovrebbe cedere il passo a solidarismo dell’impresa multistakeholders”; ovvero dalla constatazione di tempi ritenuti ormai “maturi per una radicale riforma culturale della materia”, posto che “la costituzionalizzazione della tutela ambientale si pone come limite oggi espresso alla libertà dell’iniziativa economica (…) non facoltizza bensì impone al legislatore interno di predisporre un quadro normativo dove la ristrutturazione dell’impresa in crisi sia possibile solo ove sussista un interesse collettivo o pubblico al suo risanamento” [21]. Resta evidente che il superamento (presunto) dell’interesse, definito “egoistico” dei creditori, finirebbe irrimediabilmente per incidere sulle stesse finalità degli strumenti di superamento della crisi, richiedendo il perseguimento di interessi “altri”, rilevanti dal punto di vista “sociale”, rispetto a quelli dei creditori (addirittura portando ad una modificazione genetica delle procedure concorsuali e delle stesse loro finalità, con una distribuzione del rischio anche futuro su creditori inconsapevoli). Da ciò la conseguenza che, sulla scorta di un principio inespresso nel codice della crisi, risultante in via interpretativa attraverso un processo di generalizzazione da norme contenute in diverse disposizioni, dovrebbe alla sostenibilità attribuirsi una funzione ordinante anche laddove l’impresa sia in crisi, sì da imporre una assunta prevalenza di questi su altri principi, pure costituzionalmente rilevanti, quale la tutela del credito. Sarebbe l’ipotesi di uno stakeholderism forte, difficilmente conciliabile con il contesto normativo di riferimento, e ciò innanzitutto perché la scelta dell’imprenditore circa il “se” della propria responsabilità sociale o della governance dell’impresa in fase di crisi, resta una sua libera opzione, compiuta sulla base di una valutazione di mera opportunità (per altro, in una logica di “convenienza” che è data dall’esito sperato della ristrutturazione, la cui valutazione resta attribuita ad altri “soggetti”). La libertà di impresa e la stessa autonomia negoziale verrebbero in tal modo definitivamente estromesse dalla disciplina della crisi, con effetti ancora più determinanti sul quadro di altri principi, anche questi assistiti da una certa “forza” costituzionale. Se il piano concordatario, ed in particolare quello industriale nel concordato in continuità, rappresenta un dato informativo imprescindibile per i creditori e per lo stesso tribunale e, in genere, per gli stakeholders chiamati a concorrere nel risanamento dell’impresa (principalmente, i creditori), non può disconoscersi che gli amministratori sono investiti, nella predisposizione del concreto strumento utilizzato, del compito di trovare una sintesi tra le confliggenti esigenze di protezione dei vari interessi coinvolti, in grado in tal modo di assicurare il successo alla ristrutturazione. Si tratta di una “sintesi” che resta immanente al piano industriale e che, in quanto tale, è sottoposta alla valutazione dei creditori e del tribunale, per altro nell’assunta valutazione dell’interesse sociale come conformato sull’esclusivo interesse dei creditori [22].

Nel contesto della crisi è possibile utilizzare alcune delle conclusioni cui è pervenuta la dottrina italiana sul rapporto tra sostenibilità ed esercizio dell’impresa. Innanzi tutto, nel caso della riorganizzazione imprenditoriale, che importa normalmente una riduzione dei costi e una tendenziale ridistribuzione tra i creditori dei vantaggi conseguiti nell’esercizio dell’impresa, non può trovare collocazione la tutela di talune esternalità positive preesistenti anche di tipo genericamente ambientale. Ove, per proteggere gli interessi di soggetti esterni, si ponesse un ostacolo alla ristrutturazione per il superamento della crisi, ne deriverebbe non solo il sacrificio dell’interesse generale a preservare imprese che ancora presentano un grado di produttività efficiente, sacrificandolo “sull’altare particolare del gruppo di soggetti lesi”[23], ma soprattutto verrebbero incisi i diritti di stakeholders qualificati, addirittura di prima istanza, come sono i creditori. Proprio per ovviare a questa deriva “pan-funzionalista”, si è ritenuto che “i costi di tutela dell’ambiente”, cui fa riferimento l’art. 87, comma 1°, lett. f), si riferiscono solo a quelli “accertati” e richiesti da norme imperative, essi non ricomprendendo i costi per la sostenibilità ambientale (in quanto tale) in una prospettiva futura di sviluppo dell’impresa.

La sostenibilità del piano industriale nel concordato preventivo, così come per tutti gli strumenti di regolazione della crisi disciplinati nel CCII, si colloca sul piano della coerenza economico-finanziaria del piano stesso, in una prospettiva in cui l’interesse degli stakeholders primari tende a prevalere su quello di cui sono portatori gli stakeholders secondari (ovvero coloro che beneficiano delle esternalità dell’attività). Gli effetti della crisi, che involgono l’intera attività dell’impresa nelle sue stesse dinamiche attuative, non impongono investimenti aventi ad oggetto implicazioni ambientali (non direttamente discendenti da norme imperative) né richiedono la valutazione dello strumento alla luce della sostenibilità ambientale, posto  che un conto resta la valutazione del rapporto tra investimento e rischio ambientale, altro è imporre la ricerca del più alto grado di sostenibilità ambientale possibile nel lungo periodo, anche laddove questa in astratto possa assicurare rendimenti migliori.


(*) Il testo riproduce, con l’aggiunta delle note e l’omissione di frasi di circostanza, la relazione tenuta al Convegno internazionale di Vasto il 29-30 maggio 2025, “Gli ordinamenti a confronto nel diritto della crisi 4.0”.

[1] Sul tema, senza la pretesa di essere esauriente, già: V. BUONOCORE, voce “Impresa (Diritto privato)”, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 765

[2] G. D’ATTORRE, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in Diritto della crisi, 13.4.2021, secondo il quale: “è inevitabile che la spinta ad una maggiore responsabilità delle imprese nella riduzione degli impatti negativi della loro attività sul contesto ambientale e sociale, si rifletta anche nella disciplina della crisi e dell’insolvenza”. Anche: D. STANZIONE, Liquidazione dell’attivo e interessi degli stakeholders, Napoli, 2023, 53 ss.; S. PACCHI, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in Quaderni di Ristrutturazioni Aziendali, fasc. 4/2022, 9.

[3] La domanda che può porsi potrebbe essere la seguente: “che cosa di nuovo o di buono la CSR può introdurre nei rapporti tra imprese in crisi e propri creditori, in aggiunta a ciò che stabilisce direttamente la legge o quali interpretazioni della legge essa può incoraggiare” (così: A. BASSI, LA CSR doctrine di fronte ai creditori, stakeholders di prima istanza, in Giur. comm., 2022, I, 179).

[4] Questa resta l’opzione interpretativa assunta, ad esempio, da G. PALMIERI, L’interesse della società in crisi tra tutela dei creditori e Corporate Social Responsability. Profili critici, in Banca, borsa e tit. cred., 2025, I, 127 ss:; G. FAUCEGLIA, Sostenibilità ambientale e crisi di impresa, ivi, 2023, I, 526 ss.

[5] Sul tema: G. D’ATTORRE, La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, 60 ss.; M. FABIANI, Introduzione ai principi generali e alle definizioni del codice della crisi, in Fallimento, 2022, 1177, secondo il quale “il diritto della crisi e dell’insolvenza è cementato dall’idea che serva ad attuare la responsabilità patrimoniale, senza in esso esaurirsi. Con diverse sfumature, gradatamente ascendenti, l’attuazione della responsabilità patrimoniale dovrà essere coniugata con altri valori – che in talune situazioni potrebbero finanche divenire dominanti – ma la cornice costituzionale impedisce di negare che le procedure di crisi e di insolvenza non siano degli strumenti per consentire al creditore di ottenere tutto e proprio tutto ciò che un debitore inadempiente non va voluto corrispondergli”.

[6] Ciò che non può realizzarsi è la surrettizia espropriazione dei creditori, nello sviluppo delle procedure di insolvenza indirizzata ad obiettivi diversi dall’attuazione della responsabilità patrimoniale (F. D’ALESSANDRO, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giur. comm., 2006, I, 331)

[7] F. DENOZZA, Rendere lo sviluppo sostenibile democratico, in AA.VV., L’impresa sostenibile (a cura di Caterino e Ingravallo), Lecce, 2020, 38

[8] F. SALERNO, L’incerto destino del Green Deal europeo tra “stop the clok” e lacune dell’enforcement, in Scritti per Vittorio Santoro, Pisa, 2025

[9] Problematica avvertita da G. PALMIERI, op. ult. cit., 145; O. CAGNASSO, Sostenibilità e PMI, in Diritto dell’innovazione e PMI, a cura di Cagnasso e Mambriani, Bologna, 2025, 229-231

[10] Sul tema: L. STANGHELLINI, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv. soc., 2004, 1041 ss.

[11] Neppure appare dirimente l’opzione in favore di un’accezione meramente “qualitativa” del criterio di soddisfacimento dei creditori, superando quella quantitativa (nell’alternativa tra “migliore” o “massimo soddisfacimento”), sì da ritenere che il minimo comune denominatore continuerebbe a risiedere nel più consistente valore che sia possibile attribuire ai creditori attraverso la procedura, sia esso risultante da un riscontro immediatamente e strettamente pecuniario (quale massimo profitto possibile) ovvero determinato da scelte gestorie in grado di generare valore (quindi, il miglior profitto) nel lungo periodo (D. STANZIONE, op.ult.cit., 169-170). Si tratta, però, di soppesare la circostanza che nella crisi, e ancor più nell’insolvenza, il “credito” ha smarrito il suo “dato” quantitativo, e forse anche quello “qualitativo” (imposto da una certa conformazione “ideologica” del tema) che ai creditori non interessa affatto, restando determinante “il tempo” del soddisfo (M. SANDULLI, Il tempo è danaro (anche nelle procedure concorsuali), in Società, banche e crisi d’impresa, Liber amicorum Pietro Abbadessa, III, Milano, 2014, 2761 ss.). 

[12] S. PACCHI, op. ult. cit., 9

[13] Sul tema, si rinvia a articolate motivazioni: G. FAUCEGLIA, op. ult. cit., 543-547; confronto: Cons. Stato, Adunanza plenaria, 26 gennaio 2021, n. 3, in Fallimento, 2021, 615 con note di M. FABIANI e F. PERES, La posizione del curatore e gli obblighi di ripristino ambientale

[14] Si tratta di un percorso che si è affermato con riferimento alla “solidarietà”, quale contenitore più ampio della stessa nozione di sostenibilità ambientale: M. FABIANI, Il valore della solidarietà nell’approccio e nella gestione delle crisi d’impresa, in Fallimento, 2022, 5 ss., specie 13, laddove si espone che “etica, responsabilità sociale e solidarietà sono valori più alti che si collocano ad un livello persino sovrastante quello delle alternative tra sistemi debitor o creditor oriented, tra eteronomia giudiziale e autonomia negoziale, tra libertà e autorità”.

[15] Se si accede a detta opzione dovrebbe, poi, riconoscersi che le risorse necessarie per prevenire ogni rischio rilevante in attività pericolose, particolarmente inquinanti per l’ambiente, assurgano non solo a vere e proprie barriere legali all’ingresso delle imprese sul mercato, ma che nella specie ciò possa configurarsi anche quale elemento imprescindibile per la stessa continuità aziendale.  In ogni caso, si ritiene di escludere dalle valutazioni le perdite di utilità ambientali, posto che ciò non implica un vero e proprio pregiudizio, quanto piuttosto il venir meno di quei vantaggi o esternalità positive, alle quali l’impresa non è tenuta a far fronte. Sul tema, in ordine al contenuto del piano: S. AMBROSINI, Sub art. 87, in Il Codice della crisi. Commentario, a cura di Valensise, Di Cecco e Spagnuolo, Torino, 2024, 517.

[16] Una distinzione in ordine alle prospettive di tutela nel caso di concordato in continuità diretta e in continuità indiretta, si legge in G. FAUCEGLIA, op. ult. cit., 550-551

[17] E’ noto che per “parti non interessate” dal piano sono considerati i soli creditori prelatizi di cui sia stato previsto il soddisfacimento integrale entro 180 gg. dall’omologazione (30 gg. se titolari di crediti di lavoro) in quanto esclusi dal voto e, probabilmente, anche i creditori chirografari inseriti in una classe destinataria del soddisfacimento integrale (A. AUDINO, Sub art. 87, in Commentario breve alle leggi su Crisi d’Impresa e Insolvenza, diretto da Maffei Alberti, Cedam, Padova, 2023, 638). Sul tema: V. PINTO – R. SACCHI, Diritti e garanzie comuni dei dissenzienti nel concordato preventivo, nell’a.d.r. e nel PRO, in I concordati dopo il Correttivo, diretto da Jorio e Spiotta, Bologna, 2025, 1321, secondo i quali “i soggetti che, pur essendo coinvolti nel piano di ristrutturazione (di fatto o indirettamente), non ne risultino incisi “direttamente” nei loro “crediti o interessi” sono estranei alla comunità formata dai destinatari degli effetti del potere conformativo e, di conseguenza, non hanno titolo di esprimersi, individualmente o in gruppo, sulla proposta del debitore”.

[18] Sul tema, ovviamente in una prospettiva più generale: U. SALANITRO, Il danno ambientale tra interessi collettivi e interessi individuali, in Riv. dir. civ., 2018, 246 ss.

[19] F. APRILE, Note sparse in tema di interessi dei creditori e tutela dei posti di lavoro nel concordato preventivo in continuità, in Diritto della crisi, luglio 2022; pur riscontrando l’opinione secondo la quale “gli strumenti di regolazione della crisi, seppur nell’intento di valorizzare l’impresa (…) al fine del mantenimento dei livelli occupazionali, ancorché rispondono ad un indiscusso interesse di tipo collettivo, non possono, tuttavia, essere utilizzati con lo scopo di attuare una indiscriminata protezione dei lavoratori al mantenimento della “condizione di occupato”” (A. CAIAFA, I rapporti di lavoro nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Stagflazione, guerra e pandemia: il codice della crisi alla prova dei fatti, a cura di Panzani, Cacucci, Bari, 2023, 164; ID., Effetti sui contratti di lavoro. Vicende economiche dell’impresa, in I concordati dopo il Correttivo, cit., 632 ss.).

[20] Profilo non da oggi oggetto di approfondite riflessioni, senza la pretesa di essere esauriente, già: M. LIBERTINI, La nuova disciplina del danno all’ambiente e i problemi generali del diritto dell’ambiente, in Riv. crit. dir. priv., 1987, 570 ss.

[21] G. CAPOBIANCO, La (mancata) tutela ambientale nel diritto concorsuale tra discrezionalità legislativa e dubbi di legittimità costituzionale, in Quaderni di Ristrutturazioni aziendali, n. 4/2022, 48 ss.

[22] Di recente: Trib. Palermo, 5 febbraio 2025, in Società, 2025, 533, con nota di M. S. SPOLIDORO; Trib. Milano, 3 aprile 2025, ord. in Società, 2025, con nota di G. FAUCEGLIA.

[23] F. D’ALESSANDRO, Il mantello di San Martino, la benevolenza del birraio e la Ford modello T, senza dimenticare Robin Hood (Divagazioni semi-serie sulla c.d. responsabilità sociale dell’impresa e dintorni), in Riv. dir. civ., 2022, I, 409 ss.., 429, il quale espone che in questa ipotesi farebbe capolino il conflitto di interessi di diverse categorie di stakeholders. Resta di particolare evidenza che svolgere una attività di impresa con tutti i più moderni sistemi di antinquinamento assai più costosi di quelli utilizzati dai concorrenti e non imposti da norme imperative,  rimane idoneo a ridurre le esternalità negative e rende l’impresa più sostenibile nella prospettiva ambientale, ma nel contempo riduce significativamente le risorse destinate al soddisfo dei creditori e necessarie per realizzare il programmato risanamento dell’impresa (in termini più generali: M. STELLA RICHTER jr., Long termism, in Riv. soc., 2021, 31).