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Sustainability and going concern


Edgardo Ricciardiello

Data pubblicazione
13 ottobre 2021

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Sommario: 1. Premessa; 2. Il metodo economico dell’impresa quale fattore condizionante la programmazione della crisi; 3. Continuità aziendale e metodologia di rilevazione della crisi secondo analisi prospettica della possibilità dell’insolvenza; 4. La Corporate responsibility quale deterrente contro condotte azzardate degli amministratori: la necessità di un’organizzazione aziendale idonea a prevenire condotte abusive (moral hazard) basata sulla natura e dimensioni dell’impresa; 5. La responsabilità sociale dell’impresa quale conseguenza della mancata programmazione della crisi che coinvolge la direzione dell’impresa a prescindere dalle forme organizzative adottate; 6. SCR e business judgement rule, il sostegno finanziario all’impresa in crisi.

* Il presente contributo è destinato alla pubblicazione anche su Rivista delle società, nonché nell’ambito di un volume collettaneo a cura di Stefano Ambrosini.


1.        Premessa

Nei tempi più recenti il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa (o utilizzando l’acronimo anglosassone – Social Corporate Responsibility – SCR) ha assunto dimensioni considerevoli coinvolgendo pressoché tutti i settori dell’esistenza umana e delle scienze.

La presa d’atto dei cambiamenti climatici e dell’impatto dello stile di vita umano sull’ambiente ha indotto i legislatori di tutto il pianeta a sensibilizzare condotte improntate alla cura e perseguimento di interessi “terzi”: si pensi alle politiche di riduzione di uso di materiali ad alto impatto ambientale, o all’imposizione di principi a cui la conduzione del business aziendale deve improntarsi.

Sostenibilità è divenuta presto paradigma, forse anche retorico[1], di adeguamento a valori generalmente riconosciuti ed accettati diffusamente dalle carte costituzionali e dai trattati internazionali e la sua portata si è talmente ampliata da assumere significati non del tutto univoci al punto che, come ha osservato la dottrina, sussiste il rischio che tale concetto sia svuotato di ogni concreto significato[2].

La SCR nell’ambito delle business organization, forse anche a causa delle gravi crisi economiche che si sono succedute a partire dal 2008, è divenuta ben presto sul piano comportamentale, una manifestazione tutt’altro che spontanea di compliance ai valori primari della nostra società, quali la tutela dell’ambiente, la sicurezza, la dignità umana, il lavoro.

Costituisce principio recepito che la governance, quale sistema con il quale le imprese sono dirette e controllate,[3] debba essere oggi improntata ai valori enviromental, social and governance (ESG).

A seguito di movimenti di pensiero della fine degli anni ’70 del secolo scorso che proponevano “social and enviromental accounting” (SEA) o “social and enviromental reporting” (SER), culminati nella teorizzazione della corporate social responsibility (CSR) che sintetizza la c.d. triple bottom line (social-enviromental and financial)[4] e che avevano portato ad iniziative di soft law quali la Global Reporting Initiative (GRI) del 1997, si assiste ad un progressivo recepimento persino a livello normativo dei principi ivi enunciati che possiamo sintetizzare nella necessità di perseguimento di un equilibrio tra esigenza di perseguimento del profitto da parte dei soci (shareholders value o lucro soggettivo) e dell’impresa (enterprise value o lucro oggettivo) e necessità che l’attività d’impresa contempli, altresì, la salvaguardia di interessi o beni giuridici terzi (stakeholders doctrine) [5].

Sono innumerevoli le iniziative assunte sia a livello europeo che transoceanico volte ad affermare la necessità di un’impresa orientata anche alla salvaguardia di tali interessi: dal Global Compact dell’ONU in cui sono stati emanati i Principles for Responsible Investment (UN PRI), al Global Reporting Initiative (GRI),al Carbon Disclosure Project (CDP),al  Sustainability Accounting Standards Board (SASB),all’ Americanand European SRI, al Green Book della Commissione europea del 2001 che ha confermato la natura spontanea e volontaria della CSR[6].

Nel 2011 la Commissione Europea ha emanato il documento Strategia rinnovata dell’UE” per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese. Questo documento rappresenta un passaggio cruciale per le politiche europee in materia di responsabilità sociale delle imprese, poiché partendo dalle precedenti elaborazioni e iniziative, avvia un nuovo corso d’azione.

Esso, in particolare, evidenzia come il numero di imprese socialmente responsabili sia sensibilmente aumentato anche grazie all’adesione a piattaforme europee come il Forum il Global Compact, l’EMAS, la Business Social Compliance Iniziative e il Global Iniziative Reporting.

In Europa la trasposizione a livello codicistico della SCR è stata preceduta dai codici di autodisciplina delle società quotate[7] sulla scia dell’esperienza dell’ordinamento tedesco[8] per poi confluire persino nelle Direttive 2014/95/UE sull’informazione non finanziaria; e nella Direttiva 2017/828/UE sui diritti degli azionisti (art. 9-bis). In Italia sono ampi i riferimenti normativi alla SCR sia nella disciplina sulle società benefit (art. 1, comma 376, L. 28 dicembre 2015, n. 208) che, come si dirà, nella prospettiva del CCII.

Appare significativo che, in tale contesto, venga introdotta una nuova definizione di responsabilità sociale delle imprese quale “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società” volendosi con ciò enfatizzare l’attenzione per le questioni sociali e ambientali, la trasparenza, il rapporto con gli stakeholder.

La nuova strategia europea parte dal presupposto che SCR debba essere gestita e sviluppata dalle imprese in dialogo con le parti sociali, e l’intervento pubblico debba quindi essere limitato alla proposta di misure politiche volontarie (come il Forum o l’Alleanza) e alla regolamentazione complementare, come criteri di certificazione, rendicontazione, bilancio e incentivi di mercato (ad esempio negli appalti pubblici). L’approccio europeo si è spinto nel 2014 ad estendere la SCR all’economia ed alla finanza favorendo l’introduzione nei bilanci di esercizio delle informazioni non finanziarie. Tale impostazione è poi sfociata nella Direttiva 2014/95/EU sulla “non-financial reporting” che è stata recepita in Italia con il d.lgs. 30 dicembre 2016 n. 254 sulla “dichiarazione non finanziaria” degli emittenti quotati ed emittenti diffusi.

Per la prima volta a livello normativo una disposizione afferente la SCR è divenuta obbligatoria con la previsione di una sanzione amministrativa in caso di sua violazione[9]. Anche se appare dominante il pensiero che, ad oggi, la responsabilità sociale dell’impresa si fondi ancora su basi prettamente volontaristiche, è di tutta evidenza che i medesimi principi enunciati a più livelli[10] siano in gran parte già recepiti dalla disciplina di diritto positivo[11].

L’adozione di politiche sociali ben presto è divenuta “marchio” di qualità dell’impresa al punto da influire sulla performance stessa dell’impresa soprattutto nei mercati finanziari ove, da tempo, si enfatizzano i benefici economici dell’adozione di politiche “social oriented” nel contesto delle business organizations[12].

L’analisi dell’impatto delle politiche sociali assunte dalle organizzazioni di impresa, nonostante abbia condotto a risultati non univoci in termini di maggiore o minore redditività, ha posto in evidenza senza subbio il conflitto di interessi che si pone tra la visione short termism degli investitori rispetto alla necessità di politiche sociali che, per definizione, sono improntate ad una visione di medio lungo termine.

Milton Friedman nel suo celebre saggio del 1970[13] con cui riteneva persino sovversiva la teoria della responsabilità sociale dell’impresa (“the only social responsibility of a firm is to maximize profits while avoiding deception or fraud”) quale elemento afferente alla conduzione dell’impresa che avrebbe dovuto distogliere dalla visione puramente egoisitica (shareholders value) dei soci di maggioranza e persino sottrarre agli azionisti le decisioni in merito al perseguimento degli interessi sociali in forza della agency theory (i.e. l’attribuzione della responsabilità esclusiva della gestione agli amministratori), ha aperto la strada ad un opposto modello di business orientato alla tutela degli stakeholders[14]. Con ciò anticipando il dibattito moderno sull’interesse sociale nell’epoca della SCR in cui persiste il dilemma del conflitto tra interesse egoistico degli investitori rispetto alle esigenze di tutela di altre categorie di soggetti i cui interessi o diritti possono essere messi a repentaglio da una conduzione dell’impresa non compliant a certi valori.

Il tema che interessa questa analisi è il passaggio dalla concezione della SCR da condotta su base volontaristica improntata ad una migliore efficientazione della governance societaria ad un vero e proprio obbligo dell’agire “responsabile” che si impone in ogni fase della vita dell’impresa e che non riguarda solo l’impatto ambientale e sociale bensì la tutela dei “terzi”.

La SCR sembra divenire oggi il paradigma della responsabilità “da contatto” dell’impresa che impone alla corporate governance un’azione improntata al neminem ledere ed alla salvaguardia dei diritti dei terzi (stakeholders, soci di minoranza e comunità locali e nazionali).

In questa accezione sostenibilità diviene, pertanto, applicata alle organizzazioni di impresa, sinonimo di lungo termine ovvero della necessità di approntare sin dal momento costitutivo dell’impresa strumenti idonei a garantire la continuità aziendale quale attitudine dell’impresa a restare sul mercato nel tempo.

La dimensione sociale dell’impresa si sposta così dalla tutela dell’ambiente all’obbligo di perseguimento della continuità aziendale quale presidio di stabilità dell’impresa non solo nell’interesse degli azionisti (shareholders value) bensì dell’impresa in sé, nella consapevolezza che l’adozione di misure di intervento precoce e di (ri)soluzione delle crisi aziendali costituisca unica prospettiva per la gestione efficiente e scevra da conflitti di interessi dell’impresa ove alla shareholders value viene anteposto l’interesse (forse persino di rango pubblicistico) alla stabilità economica delle imprese.

Il passaggio dalla visione “egoistica” dell’impresa in cui i soci di maggioranza possono estrarre benefici privati dal controllo anche in presenza di una situazione di deterioramento patrimoniale e finanziario a quella della necessaria adozione di presidi a tutela dei terzi in caso e con l’approssimarsi nella crisi non rappresenta una novità assoluta. Perlomeno si è giunti a questa manifestazione della dimensione sociale dell’impresa a seguito dei crack bancari e finanziari del 2009 ed alla successiva adozione di misure preventive della crisi d’impresa senza precedenti che hanno caratterizzato le imprese bancarie, finanziarie ed assicurative.

Nel contesto della Direttiva UE/59/2014 “BRRD” si assiste per la prima volta al superamento della visione short termism a quella di lungo termine attraverso le misure di preparazione della crisi e di early warning (piani di risanamento, accordi di sostegno finanziario infragruppo e misure di risoluzione) che obbligano ad una vera pianificazione o programmazione della crisi.

Un approccio che ha poi influito sulla Direttiva UE 1023/2019 sulla ristrutturazione preventiva delle imprese. In attesa dell’entrata in vigore del CCII che all’attualità pare subire una fase se non di ripensamento quanto meno di rallentamento (v. schema D.L  5 agosto 2021 che introduce misure urgenti e in  materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale nonché ulteriori misure urgenti in materia di giustizia) è possibile affermare, in sostanza, che la sostenibilità dell’impresa sia divenuta sempre più non solo presidio della tutela dell’ambiente e della sicurezza sociale bensì della stessa stabilità finanziaria delle imprese le quali devono rispondere sin dal momento della loro costituzione a canoni organizzativi e di gestione idonei a garantire il perseguimento della continuità aziendale quale attitudine dell’impresa a rimanere sul mercato nel tempo.

 

2. Il metodo economico dell’impresa quale fattore condizionante la programmazione della crisi

Laddove si condivida la premessa per cui l’attività d’impresa per poter essere considerata sostenibile deve guardare ad una dimensione di lungo periodo in quanto, diversamente, essa non sarebbe rispondente ai canoni di diligenza in quanto l’attività soddisferebbe solo gli interessi primari del capitale di comando favorendo l’estrazione di benefici privati  a danno di stakeholders e ceditori esterni soprattutto in fase di emersione della crisi occorre domandarsi se, davvero, la necessità di perseguimento della continuità aziendale configuri precetto riconducibile alla responsabilità sociale dell’impresa ovvero essa risponda ad un obbligo  generale già previsto dalla legge.

Il codice civile italiano è improntato sulla definizione dell’imprenditore fornita dall’art. 2082 c.c. secondo cui è imprenditore colui che svolge un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Nozione che viene adattata, altresì, al piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 c.c. e, in sostanza, viene ripresa all’art. 2247 c.c. ove si definisce il contratto di società il contratto tra due o più persone con il quale conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

Elemento comune delle nozioni fornite dal Codice civile riguardo all’impresa individuale o collettiva è lo volgimento di un’attività economica ovvero un’attività che deve essere svolta con metodo economico.

In forza del principio contabile OIC 19 la continuità aziendale si sostanzia nelle capacità dell’impresa di costituire un complesso economico funzionante destinato alla produzione di reddito per un prevedibile arco temporale futuro relativo a un periodo di almeno 12 mesi dalla data di riferimento del bilancio[15]. Concetto che, all’opposto, viene recepito nel CCII ove la definizione di crisi è ancorata alla probabilità di manifestazione dell’insolvenza in un arco temporale (lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate).

Ebbene, la continuità aziendale rappresenta un elemento imprescindibile dell’esistenza stessa dell’impresa fin tanto che, perduta ogni prospettiva di continuità, il compendio aziendale debba essere disgregato ed il soggetto d’impresa liquidato secondo procedura che conduce alla sua estinzione.

A ben vedere, tuttavia, il concetto di sostenibilità e di continuità non coincidono: con il primo si individua non solo la necessità di durevolezza dell’attività secondo prospettiva temporale ma si rivolge l’attività stessa alla tutela di molteplici interessi anche esterni all’impresa; continuità è nozione fornita dalla scienza aziendalistica per definire la attitudine dell’impresa a generare ricavi idonei a remunerare i costi a prescindere dalla destinazione del risultato economico di esercizio.

In rapporto di genere a specie potremmo affermare che la sostenibilità presuppone la continuità anche se la prima ha una portata più ampia in quanto tende a rivolgere sul piano qualitativo e degli interessi tutelati l’attività d’impresa.

Se il metodo economico costituisce elemento strutturale dell’attività d’impresa appare evidente che il discrimine tra attività d’impresa ed altre situazioni giuridiche dissimili (comunione di godimento ecc..) risieda proprio nella programmazione, ovvero nel modus attraverso cui tale obiettivo viene perseguito.

L’attività d’impresa si differenzia dalle altre per il livello di pianificazione ed organizzazione ad essa funzionale: la propensione alla produzione di reddito distribuibile non può così prescindere da una programmazione dell’attività d’impresa che involgerà diverse figure (o, se si preferisce, funzioni) aziendali in relazione alle fasi dell’impresa.

La programmazione dell’attività d’impresa non è però solo funzionale alla produzione del reddito dei soci in quanto la preservazione della continuità aziendale in determinate situazioni appare costituire unico rimedio per conseguire il miglior perseguimento della tutela di interessi terzi tra cui, quello non esclusivo, dei creditori. Ove un ruolo determinante assumerebbe la necessità di salvaguardia di valori anche di rango costituzionale (art. 41 Cost. sulla libertà di iniziativa economica privata ed il limite del divieto di contrasto con l’utilità sociale o la lesione della sicurezza, della libertà e della dignità umana)[16].

Si pensi alla dichiarazione di insolvenza di grandi imprese in crisi ove al “fallimento” del soggetto corrisponde la necessità di mantenimento in funzione del comparto aziendale per esigenze di produzione nazionale (v. per es: Ilva di Taranto; Alitalia).

Il punto centrale diviene allora quello di coniugare la sostenibilità ed i principi che si desumono dal sistema normativo nel passaggio da una situazione di continuità aziendale a quella di crisi o insolvenza. Tema che non comporta un mutamento dell’oggetto sociale, come è stato proposto (i.e l’abbandono dello scopo lucrativo a favore del miglior soddisfacimento dei creditori), poiché, al miglior soddisfacimento dei creditori, corrisponde, altresì, la necessità di perseguimento di altri interessi dai quali l’impresa non è liberata e che vanno senz’altro contemperati[17].

In tal senso la visione tradizionale secondo cui la proprietà dell’azienda insolvente si trasferirebbe dai soci ai creditori ha ricevuto di recente non poche critiche (v. infra).

Il sistema normativo, come delineato di recente anche a fronte del tentativo ancora non compiuto di riforma del diritto concorsuale e della crisi d’impresa, appare chiaramente improntato alla prevenzione della crisi quale fase eventuale ma del tutto possibile della vita dell’impresa e, con riferimento alla liquidazione, all’affermazione della prevalenza della ristrutturazione e del risanamento aziendale rispetto alla disgregazione dei compendi aziendali: in questa accezione sostenibilità significa saper anticipare la crisi attraverso misure di diversa natura che abbiano quale finalità precipua quella di non fare trovare impreparata l’impresa e così di poter adottare codici comportamentali “proporzionali” alla natura e gravità dell’evento avverso che possa verificarsi[18]. Al contempo, sostenibilità dell’impresa insolvente significa privilegiare soluzioni finalizzate alla ristrutturazione dell’azienda piuttosto che alla sua disgregazione fintanto che le misure alternative alla liquidazione non solo garantiscano il miglior soddisfacimento dei creditori bensì il miglior contemperamento di interessi diversi da quelli dei soci.

Come è stato di recente posto in evidenza il problema appare complesso in quanto si tratta di comprendere in effetti quali siano gli interessi da tutelare in modo da potersi ritenere che l’attività d’impresa, seppure in una situazione di distress (o persino di insolvenza), risponda al canone della sostenibilità (i.e. quale attitudine a perseguire siffatti interessi primari) e possa comunque giustificarsi la sua prosecuzione. La questione si complica ulteriormente in quanto la valutazione di convenienza dovrebbe essere parametrata alla luce di diversi interessi in gioco e non solo quello dei creditori sociali attratti dal loro “miglior soddisfacimento”. Un recente punto di approdo condivisibile è che l’insolvenza non elide il canone di sostenibilità ovvero anche il fallimento del soggetto imprenditore può coesistere con una visione sostenibile dell’impresa disciolta valutando gli interessi coinvolti nel processo di disgregazione (o liquidazione) degli assets secondo una logica che di trae dal diritto positivo di non necessaria allocazione degli assets secondo il miglior soddisfacimento (economico) dei creditori[19].

Sostenibilità dell’impresa in crisi involge, d’altro canto, una valutazione di accettazione del rischio della prosecuzione di un’attività che sul versante del soggetto esercente è risultata fallimentare ma che in prospettiva del soddisfacimento di quegli interessi terzi può risultare efficiente rispetto alla disgregazione del compendio.

Sulla spinta del soft law (Uncintral, Legislative Guide on Insolvency Law) si assiste ad un superamento dell’equazione insolvenza=liquidazione a favore dei creditori sociali. Persino l’insolvenza irredimibile rende possibile oggi recuperare valore a favore di soggetti diversi dai creditori sociali sia in termini di quello che è stato efficacemente definito come “limite alla massimizzazione dell’attivo da destinare ai creditori” sul presupposto del contemperamento di valori anche di rango costituzionale[20]. Bilanciamento che è altresì affermato a livello di Direttiva UE/2019/1023 sulla ristrutturazione e sull’insolvenza.

La dimensione dell’impresa “concorsuale” è ben percepita ormai dalla dottrina che coglie seppure dal frammentario sistema normativo ancora incompiuto sulla crisi d’impresa tracce ed elementi del diritto d’impresa sostenibile[21].

Concludendo sul punto si può affermare che la verifica di sostenibilità deve riguardare anche la fase di crepuscolo twilight zone ovvero la stessa emersione della crisi o persino dell’insolvenza trattandosi di “fasi” possibili della vita dell’impresa che rendono compatibile la prosecuzione dell’attività d’impresa per il perseguimento di interessi di diversa natura tra cui quello dei creditori secondo un bilanciamento rispetto ad altri valori potenzialmente sovraordinati e confliggenti.

 

3. Continuità aziendale e metodologia di rilevazione della crisi secondo analisi prospettica della possibilità dell’insolvenza

La continuità aziendale nella sua accezione di dovere di improntare la gestione dell’impresa ad una visione di equilibrio economico- finanziario di lungo termine implica la necessità di approntamento di sistemi di rilevazione periodica dell’andamento della gestione e della profilatura dei rischi.

In questa accezione business sostenibile comporta un dovere organizzativo e di pianificazione che involge il “livello d’impresa” dell’organizzazione stessa[22].

L’impresa sin dal momento in cui viene ad esistere deve sapere fronteggiare ogni possibile evoluzione dell’attività e del suo andamento. La gestione diligente diviene, pertanto, quella che sa anticipare l’emersione della crisi mediante l’approntamento di codici comportamentali da adottare in presenza di determinate situazioni che possono impattare negativamente sull’andamento economico.

Sostenibilità implica gestione dei rischi (risk management)[23] ovvero (i) programmazione della crisi d’impresa mediante l’individuazione di funzioni e soggetti a cui vengono demandati specifici compiti in presenza di eventi avversi; (ii) redazione di codici comportamentali da adottare in fase di emersione della crisi o della sua probabile verificazione[24].

Questo nuovo approccio di cui si rinviene traccia nel nostro ordinamento già nel diritto positivo (art. 2086 c.c.)[25] determina un cambiamento epocale della governance d’impresa in quanto essa non potrà più essere improntata al soddisfacimento delle sole esigenze di profitto dei soci; bensì alla salvaguardia del valore dell’impresa in sé che è funzionale alla protezione di valori di alto rango (lavoratori dipendenti, stabilità economico-finanziaria di comparti locali o nazionali, la salute pubblica e via discorrendo) e di interessi diffusi. In questo senso l’obbligo codificato persino nel diritto dell’impresa di dotazione di adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi costituisce pilastro su cui poggia la preservazione della continuità aziendale quale valore dell’impresa sostenibile.

La gestione dell’impresa non potrà più essere appannaggio di decisioni improvvisate mentre assume valore centrale la pianificazione delle scelte gestorie che, a sua volta, presuppone organizzazione o pianificazione della crisi (utilizzando il gergo del diritto bancario “preparazione della crisi” a voler denotare la piena consapevolezza che si tratta appunto di una fase dell’impresa tutt’altro che improbabile)[26].

In questo contesto diviene centrale l’informazione finanziaria ovvero, in estrema semplificazione, l’analisi del processo di raccolta ed elaborazione delle informazioni sull’andamento della gestione che possano assicurare al management una pronta reazione a fronte di rischi. Ma anche tale attività fondamentale non può prescindere da una individuazione ex ante dei livelli funzionali a cui sono demandate determinate competenze.

L’informazione rilevante avrà natura complessa involgendo sia la struttura organizzativa dell’impresa; che la performance e l’impatto dell’attività di impresa su altri interessi tutelati.

In questa prospettiva si inserisce l’attività di corporate sustainable reporting quale principale strumento di raccolta ed elaborazione delle informazioni relative all’andamento della gestione, delle sue prospettive evolutive nel breve-medio e lungo termine anche in chiave preventiva della crisi[27].

Occorre rilevare che ai fini di una maggiore armonizzazione a livello EU delle regole e dei protocolli di reporting è stato costituito l’IRRC (International Integrated reporting Council) che ha pubblicato l’International Framework già in vigore dal °1 gennaio 2022.

Il riferimento è a regole standard destinate ad operare a livello globale ed armonizzato affinché le informazioni relative all’andamento dell’impresa siano sempre più “circolari” e accessibili al fine di contenere i rischi di default e preservare la continuità aziendale quale valore assoluto dell’impresa.

IR sono definiti all’interno del Framework quali “concise communication about how an organization’s strategy, governance, performance and prospects, in the context of its external environment, lead to the creation, preservation or erosion of value over the short, medium and long term. An integrated report should be prepared in accordance with the Framework. 1B Objective of the Framework 1.3 The purpose of the Framework is to establish Guiding Principles and Content Elements that govern the overall content of an integrated report, and to explain the fundamental concepts that underpin them. 1.4 The Framework is written primarily in the context of private sector, for-profit companies of any size but it can also be applied, adapted as necessary, by public sector and not-for-profit organizations”.

L’assoluta novità risiede nel fatto che si tratta di standard applicabili a tutte le imprese, di qualsiasi dimensione, con scopo e senza scopo di lucro. Obiettivo è la rilevazione attraverso precisi processi comunicativi riguardo alla strategia, assetto di governance che portano alla creazione- preservazione ma anche all’erosione di valore dell’azienda nel breve, medio e lungo periodo.

La sopra indicata definizione conferma la centralità della continuità aziendale quale fattore di preservazione dell’impresa nonché la stretta interdipendenza sussistente tra il “capitale umano e finanziario” e la tutela dei terzi. IR significa sul piano qualitativo raccogliere ed elaborare informazioni “interconnesse” tra loro che afferiscono al capitale, all’andamento finanziario, alla produzione, alla rilevanza sociale dell’impresa e le sue implicazioni sull’ambiente. Si afferma in tal modo il c.d. “stakeholder management model” già recepito in numerose codificazioni (anche a livello di codici di autodisciplina)

Si afferma sempre di più il modello di business basato sugli IR (integrated reporting) che presuppone un’idonea organizzazione di governance, l’adozione del risk management function, la previsione (o pianificazione) di strategia nel breve, medio e lungo peridio oltre che un apparato di controllo interno[28].

L’IR combina informazioni finanziarie e non. L’attività di reporting, peraltro, soddisfa in primis l’interesse degli stakeholders, interessati a che l’impresa crei valore e lo mantenga nel tempo (es: fornitori, dipendenti controparti contrattuali, comunità locali, policy makers e legislatori)[29].

Come si conferma sulla base della disciplina degli IR l’attività di monitoraggio funzionale alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi non può essere demandata alla disciplina sul capitale sociale o del bilancio di esercizio e consolidato poiché la crisi, quale fenomeno di natura finanziaria, si evidenzia attraverso la prospettica incapacità dell’imprenditore a fare fronte alle proprie obbligazioni pecuniarie in determinato lasso temporale (sei mesi).

 Ebbene né la disciplina relativa agli obblighi di conservazione del capitale sociale (2446, 2447, 2482-ter c.c.), né quella sul bilancio appaiono idonei ad anticipare la possibile emersione della crisi trattandosi di precetti che appaiono idonei solo ex post a porre (parziale) rimedio alla situazione di deterioramento patrimoniale. Ove statisticamente la perdita del capitale sociale costituisce più che un indice di insolvenza conclamata retrodatabile.

Occorre, inoltre, ricordare che il capitale sociale, anche alla luce del suo progressivo “svilimento” per effetto dell’evoluzione della disciplina delle organizzazioni di impresa (s.r.l. semplificate, start up), non rappresenta più presidio di garanzia delle obbligazioni assunte dall’impresa verso i creditori.

Per quanto concerne il bilancio esso fornisce solo una fotografia postuma e statica dell’andamento patrimoniale e finanziario dell’impresa non fornendo alcun presidio di tutela anticipata rispetto ad una crisi già emersa, senza con ciò voler svilire l’importanza di tale documento rispetto ad una previsione futura di declino dell’impresa.

La responsabilità sociale dell’impresa dovrebbe allora, in questa accezione, manifestarsi laddove l’imprenditore, individuale o collettivo, ometta di dotarsi di un’organizzazione idonea (rectius: adeguata) finalizzata alla misurazione del rischio, alla sua gestione e soluzione.

La responsabilità dell’impresa scaturisce allorché essa non si doti di una struttura organizzativa adeguata e funzionale a prevenire la crisi: come si vedrà non è possibile oggi ritenere che il principio di insindacabilità delle scelte gestorie (business judgment rule) trovi spazio applicativo rispetto all’anticipazione ed emersione della crisi in quanto il potere discrezionale degli amministratori si arresta laddove, nel passaggio da una situazione di continuità a quella di gone concern, assurga a valore primario la protezione dei creditori e dei portatori di interessi collettivi.

Passando al tema dell’oggetto dell’informazione e come essa debba essere elaborata appare utile ricordare che l’IICR ha stabilito che il reporting debba caratterizzarsi sulla base di elementi quantitativi e qualitativi: i primi si basano sugli indicatori di performance e finanziari i secondi riguardano il modus in cui l’impresa opera sul piano finanziario, patrimoniale e come intende perseguire gli obiettivi di continuità aziendale nel tempo (long term vision).

Non appare casuale che gli IICR riconducano gli obiettivi dell’informazione a precise attribuzioni di competenze e responsabilità della governance societaria. Vi è l’assunzione precisa di una responsabilità correlata alla “integrità” delle informazioni che vengono rese nei reporting.

Sulla stretta connessione tra corretta informazione funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi ed adeguati assetti organizzativi gli IICR stabiliscono a livello di principio “In applying paragraph 1.20, the organization will take into account its own governance structure, which is a function of its jurisdiction, cultural and legal context, size and ownership characteristics. For example, some jurisdictions require a single-tier board, while others require the separation of supervisory and executive/management functions within a two-tier board. In the case of two-tier boards, the statement of responsibility is ordinarily provided by the body responsible for overseeing the strategic direction of the organization. It is important to consider the intent of paragraph 1.20, which is to promote the integrity of the integrated report through the commitment of the body responsible for overseeing the strategic direction of the organization. 1.23 In cases where legal or regulatory requirements preclude a statement of responsibility from those charged with governance, an explanation of measures taken to ensure the integrity of the integrated report can provide important insight to users. Accordingly, disclosures about the process followed to prepare and present the integrated report are encouraged. Such disclosures can include: • Related systems, procedures and controls, including key responsibilities and activities • The role of those charged with governance, including relevant committees. 1.24 Process disclosures are encouraged as a supplement to a statement of responsibility from those charged with governance as this information indicates measures taken to ensure the integrity of the integrated report”. 1.22

Appare centrale ai fini di questa analisi la previsione del principio n. 2 degli IIRC secondo cui l’informazione deve essere idonea ad evidenziare come la società produce reddito ma anche (in caso di crisi) come essa perde valore e quali siano le ragioni. Sul punto, infatti, si stabilisce che“An integrated report explains how an organization creates, preserves or erodes value over time. Value is not created, preserved or eroded by or within an organization alone. It is: • Influenced by the external environment • Created through relationships with stakeholders • Dependent on various resources. 2.3 An integrated report therefore aims to provide insight about: • The external environment that affects an organization • The resources and the relationships used and affected by the organization, which are referred to collectively in the Framework as the capitals and are categorized in Section 2C as financial, manufactured, intellectual, human, social and relationship, and natural • How the organization interacts with the external environment and the capitals to create, preserve or erode value over the short, medium and long term”.

Come già affermato in sede normativa (per es: Bank Recovery and Resolution Directive BRRD), gli IICR si ispirano ad una nuova concezione di interesse sociale quale sintesi di una pluralità di beni giuridici protetti la cui preservazione produce valore per l’impresa in sé e apporta benefici agli stessi shareholders ed alla comunità intesa come insieme di soggetti portatori di interessi molteplici (stakaholders).

La visione di lungo termine è correlata proprio alla capacità dell’organizzazione di preservare il capitale mediante[30] lo svolgimento della propria attività caratteristica che si orienta verso il business sostenibile quale accezione dell’impresa a svolgere un’attività orientata al benessere diffuso.

Sul punto gli IICR stabiliscono che “The ability of an organization to create value for itself is linked to the value it creates for others. As illustrated, this happens through a wide range of activities, interactions and relationships in addition to those, such as sales to customers, that are directly associated with changes in financial capital. These include, for example, the effects of the organization’s business activities and outputs on customer satisfaction, suppliers’ willingness to trade with the organization and the terms and conditions upon which they do so, the initiatives that business partners agree to undertake with the organization, the organization’s reputation, conditions imposed on the organization’s social licence to operate, and the imposition of supply chain conditions or legal requirements” When these interactions, activities, and relationships are material to the organization’s ability to create value for itself, they are included in the integrated report. This includes taking account of the extent to which effects on the capitals have been externalized (i.e. the costs or other effects on capitals that are not owned by the organization).

La governance deve essere organizzata in modo da identificare strategie di riduzione o gestione dei rischi e massimizzare le opportunità del business.

Tale impostazione presuppone il c.d. allocation plan ovvero la pianificazione di distribuzione delle risorse (2.27). Per anticipare la crisi e gestire i rischi è necessario l’approntamento di strumenti di misurazione e monitoraggio che possano fornire alla governance tempestive e corrette informazioni sull’andamento passato, presente ed, in prospettiva, quello futuro. Si tratta ovviamente di processi non statici ma dinamici che tengono conto dell’effettivo andamento dell’impresa e che sappiano operare dall’interno un processo di revisione periodica.

Gli integrated reports combinano tutti gli elementi o indicatori di valutazione tra loro interdipendenti che assumono rilevanza ai fini della prevenzione della crisi affinché l’impresa realizzi la visione di medio-lungo periodo[31].

Tali report analizzano la performance del passato in modo prospettico rispetto ad una visione di lungo termine attraverso una verifica di adeguatezza della governance nell’arco temporale analizzato in modo da poter anticipare in via previsionale ogni scenario avverso. Tra gli indicatori rilevanti vi è il capitale nella accezione sopra esposta e la capacità dell’organizzazione di preservarlo ed implementarlo ma anche i rischi che possono comprometterne la sua conservazione; altresì rilevanti sono le informazioni di carattere finanziario relative all’andamento del mercato di riferimento, nuove opportunità di business, efficientamento energetico, cooperazione a livello di comunità locale.

Allo stesso modo è importante individuare quali siano i soggetti esterni rilevanti per l’impresa la cui tutela non può essere pretermessa anche ai fini di una corretta gestione imprenditoriale. I reports devono individuare gli stakeholders quali portatori di interessi meritevoli di tutela anche da parte di una organizzazione di tipo privatistico e quali misure l’impresa debba adottare per la salvaguardia di siffatti interessi.

I reports devono ispirarsi al principio di materialità (3.17) ovvero essi devono rivelare le informazioni che assumono rilevanza sotto il profilo della responsabilità sociale dell’impresa e che possono minare la stabilità dell’impresa nel medio e lungo termine. Il processo di identificazione dei beni giuridici protetti è di essenziale importanza e ciò avviene secondo una scala di valori e di priorità che deve essere enunciata e formare oggetto di disclosure.

Secondo il Framework i reports dovrebbero contenere almeno otto elementi: 1. Organizational overview and external environment; 2.  Governance; 3. Business model; 4.  Risks and opportunities; 5.  Strategy and resource allocation; 6.  Performance; 7.  Outlook; 8.  Basis of preparation and presentation (4.1).

Per quanto concerne l’aspetto della governance che è correlato agli assetti organizzativi appare rilevante mappare e valutare l’organizzazione in modo critico e stabilire l’organizzazione sia sul piano del modello adottato in concreto ma anche sotto il profilo soggettivo (capacità e background professionale) sia idonea a perseguire gli obiettivi prefissati. Tale verifica evoca la valorizzazione del principio di professionalità oltre che quello di adeguatezza del management e implica certamente una verifica periodica di idoneità sotto il profilo soggettivo dei soggetti preposti a svolgere funzioni aziendali.

Concludendo sul punto, adeguatezza degli assetti organizzativi implica descrivere il business model tenendo conto secondo la visione di lungo termine delle modalità attraverso le quali l’impresa opera sul mercato ovvero le modalità con cui essa trae mezzi finanziari (input) come essa trasforma le risorse per collocare i propri prodotti o servizi sul mercato (outputs) e come l’impresa contempla la salvaguardia degli stakeholders evitando o gestendo i rischi (finanziari e non) correlati all’attività di impresa svolta.

 

4. La Corporate responsibility quale deterrente contro condotte azzardate degli amministratori: la necessità di un’organizzazione aziendale idonea a prevenire condotte abusive (moral hazard) basata sulla natura e dimensioni dell’impresa

Se la continuità aziendale rappresenta elemento imprescindibile di esistenza stessa dell’impresa ed il suo perseguimento significa attribuire al management una visione di “durability” è importante comprendere come il processo decisionale degli organi apicali dell’impresa debba atteggiarsi in quanto esiste una netta interconnessione tra processo decisionale (in senso formale e sostanziale) e durevolezza dell’impresa quale attitudine a rimanere sul mercato ed evitare l’insolvenza.

Sostenibilità appare concetto strettamente connesso all’insolvenza ed al pericolo che essa si manifesti durante la vita dell’impresa: l’azione dell’organo di gestione deve pertanto essere improntata al perseguimento della continuità aziendale tenendo conto che la crisi può innescarsi in ogni momento e per cause tra loro disomogenee.

In questa fase il conflitto di interessi tra capitale di comando che esprime gli amministratori di maggioranza della società e gli altri portatori di interessi, tra cui gli stessi amministratori che possono essere incentivati a compiere operazioni azzardate in quanto più remunerative nel breve periodo e garantire ad essi vantaggi remunerativi, soci di minoranza, creditori sociali  ecc. può essere determinante.

La situazione di crisi comporta un aggravamento del rischio sul versante dei creditori in quanto il finanziamento della società in crisi può recare vantaggi asimmetrici: nella prospettiva dei soci finanziatori il successo dell’operazione di rifinanziamento porterebbe vantaggi agli stessi soci- finanziatori per l’accrescimento di valore della loro partecipazione; sul versante dei creditori sarebbe del tutto neutro e, in caso di insuccesso dell’operazione, i creditori dovrebbero concorrere con il finanziatore riducendo sul piano del quantum l’aspettativa di rimborso del loro credito[32].

È l’azzardo morale[33] che induce i soci di controllo, attraverso gli amministratori di loro nomina, ad intraprendere operazioni rischiose che possono portare a realizzare un surplus per i soci investitori ormai insperato in base all’attività caratteristica dell’impresa, incapace di svolgersi secondo condizioni di equilibrio[34].

Essi indebitano ulteriormente l’impresa ricorrendo al credito per ridurre le pretese dei creditori sociali (c.d. claim dilution). Si innesca in tal modo una situazione di non ritorno per la società che finisce per sacrificare i creditori sociali a fronte del rischio limitato assunto dai soci[35].

I soci, in quanto creditori residuali (all’esito del soddisfacimento delle ragioni dei creditori), non hanno alcun incentivo ad investire ulteriormente al solo fine di appianare le perdite e salvaguardare le ragioni dei creditori.

Gli amministratori, in una situazione di crisi o di insolvenza, rappresentando gli interessi dei soci di maggioranza quali residual claimants[36], investono in attività con bassa remuneratività con la conseguenza che l’impresa viene di fatto finanziata dai creditori sociali che si trovano svantaggiati visto il principio della limitazione della responsabilità.

La situazione di dissesto o tensione finanziaria induce altresì i soci di controllo a contrarre gli investimenti in attività poco redditizie anche se sicure in quanto tali investimenti non appaiono remunerativi delle perdite ma del solo patrimonio quale garanzia dei creditori, escludendosi in tal modo un vantaggio diretto per i soci investitori[37].

Lo stesso disincentivo si manifesta sul piano dell’accesso ad una procedura concorsuale che non darebbe alcun vantaggio all’imprenditore insolvente ma solo ai creditori, con la conseguenza che i soci tentano ristrutturazioni stragiudiziali aggravando il dissesto fino a depauperare il patrimonio sociale mediante condotte distrattive.

Il tema involge anche la governance della società nel momento del default laddove i titolari di diritti di credito (stakeholders) sono privi di voice rispetto alle scelte dell’organo di gestione della società debitrice: il che pone un problema di tutela, ma anche di governo, nelle fasi di crepuscolo dell’impresa (ovvero quelle fasi di mezzo twilight zone in cui non sussiste una disciplina né di diritto societario né concorsuale che stabilisca apparentemente doveri e principi applicativi). Questa situazione di disallineamento di interessi, come si diceva, è acuita in presenza di una situazione di insolvenza.

In situazione di distress il conflitto di interessi tra soci e creditori esplode rispetto ad una situazione in bonis: infatti, i primi non sono più interessati ad accrescere il patrimonio della società ma mirano a dividerlo pro quota al netto dei debiti ai creditori i quali, ultimi, hanno interesse primario a mantenere valori il più possibile elevati di patrimonializzazione quale garanzia dell’adempimento delle obbligazioni assunte dalla società[38].

Si assiste così ad una dissociazione tra il potere di direzione dell’impresa che spetterebbe ancora ai soci ed il rischio di impresa che invece ricadrebbe completamente sui creditori[39].

Il passaggio da una situazione di continuità a quella di default ha indotto una parte della dottrina ad individuare un vero e proprio spostamento del baricentro degli interessi (ed anche dei doveri degli amministratori in fase di crisi c.d. shifting of duties) dai soci di controllo ai creditori sociali con la conseguenza che gli amministratori non avrebbero più l’obiettivo di perseguire l’interesse sociale ma quello dei creditori sociali al fine di minimizzare le conseguenze dell’insolvenza e gestire in maniera conservativa l’impresa in modo da estrarne il più alto valore liquidatorio possibile [40]. Seguendo questa impostazione la gestione dell’impresa passerebbe dai soci-amministratori di controllo agli stessi creditori quali residual owners[41].

L’individuazione dei creditori sociali quali “gestori e finanziatori dell’impresa in crisi” induce ad una riflessione non solo in merito alla legittimazione alla conduzione dell’impresa insolvente (se di competenza degli amministratori espressione dei soci che vivono il conflitto di interessi sopra esposto ovvero ai creditori stessi attraverso l’individuazione di procedure concorsuali che identifichino nel rappresentante della procedura il mandatario del ceto creditorio) ma anche alle sue concrete modalità operative.

L’affermazione dell’interesse esclusivo del ceto creditorio (creditor maximization) anziché di perseguimento dell’interesse dei soci di controllo (shareholder maximization) come già esposto in altra sede non conduce a risultati soddisfacenti[42]: da una parte, la massimizzazione del profitto pregiudicherebbe le ragioni dei creditori attraverso la dispersione del valore residuo del patrimonio e l’incentivazione dell’azzardo morale; ma, allo stesso modo, il perseguimento di una politica conservativa del patrimonio costituirebbe ostacolo ad operazioni di recupero dell’attività d’impresa e di prevenzione della crisi[43].

L’eccessiva anticipazione di una gestione conservativa può configurare secondo la prospettiva di common law responsabilità degli amministratori alla stessa stregua di un ritardo nell’accesso a procedure di risoluzione della crisi[44].

La prospettiva di passaggio da una situazione di continuità aziendale e di crisi se non di insolvenza porta i titolari del capitale di comando ed i loro amministratori anziché ad investire ulteriormente in equity visto che il capitale appare perduto a compiere operazioni che possono rivelarsi imprudenti aventi la finalità, secondo visione shortermism, di risollevare finanziariamente l’impresa. Ma si tratta di operazioni che non tengono conto di sovente degli effetti tutt’altro che benefici per l’impresa.

La riflessione riguarda ancor prima (sul piano sostanziale) l’individuazione di regole (standards o rules) che impongano condotte specifiche agli amministratori (fiduciary duties) in presenza della crisi o in prospettiva della crisi[45]. Tema che impone una riflessione preliminare in merito all’interesse sociale nella crisi di impresa[46].

La questione implica un superamento, o una ampia rivisitazione, della nozione di interesse sociale come viene proposta oggi nell’epoca del sustainable business e della responsabilità sociale dell’impresa[47]: interesse sociale che deve essere rapportato alle dimensioni dell’impresa ed al rischio connesso all’attività che ne costituisce oggetto sociale divenendo la responsabilità sociale dell’impresa l’emblema della tutela non solo di interessi quali la sicurezza e l’ambiente ma, in generale, verso qualsiasi evento che abbia un impatto sull’impresa e la sua stabilità del tempo[48].

 

5. La responsabilità sociale dell’impresa quale conseguenza della mancata programmazione della crisi che coinvolge la direzione dell’impresa a prescindere dalle forme organizzative adottate.

Presupposto della responsabilità sociale dell’impresa è il superamento del single entity approach sulla scia del tort liability e della valutazione dell’impresa quale attività esercitabile indistintamente da forme organizzative diverse, il che implica una assunzione di responsabilità rapportata non al soggetto ma all’attività di impresa che può essere contingentata a più livelli soggettivi.

La dimensione di impresa del gruppo societario è ben nota nella disciplina antitrust[49] e le teorie sulla responsabilità sociale dell’impresa fanno di sovente riferimento all’articolazione dell’impresa multinazionale in gruppi societari[50].

Accanto ai tradizionali stakeholders vengono individuate categorie di soggetti o di interessi protetti tali da trasformare i doveri degli amministratori sul piano qualitativo della gestione e dell’organizzazione[51] in funzione preventiva di tutela di interessi molteplici anche a rilevanza pubblicistica[52]. 

Il perseguimento di tali interessi diffusi non può essere schermato attraverso i paradigmi della responsabilità limitata e della separazione patrimoniale delle società appartenenti al gruppo ma assume dimensione di impresa in quanto la responsabilità limitata diverrebbe incentivo per i manager ad adottare condotte azzardate sia sul piano del rischio di impresa che dell’impatto dell’attività di impresa su altri interessi protetti[53].

La massimizzazione del profitto di impresa (o shareholders primacy) costituisce, quindi, un parametro che si cumula con la dimensione “sociale” dell’impresa che non guarda solo all’interesse degli azionisti di maggioranza bensì al benessere della società e dell’ambiente (c.d. triple bottom line) ed in generale alla ricollocazione dell’interesse sociale nel contesto in cui l’impresa opera[54].  La responsabilità di impresa rappresenta, senza dubbio, un buon incentivo per gli amministratori a perseguire una gestione consapevole e scevra da condotte azzardate.

Del resto, come visto, il business sostenibile impone non solo di saper combinare la massimizzazione del profitto di impresa con il rispetto dell’ambiente; ma anche di perseguire politiche aziendali secondo una prospettiva di continuità (long term vision) proprio perché la responsabilità sociale dell’impresa presuppone il rispetto di regole di gestione peculiari che riguardano l’impresa nel suo complesso e quindi anche il modello organizzativo prescelto che deve tendere al perseguimento della economicità e dell’equilibrio finanziario nel tempo[55].

Le precedenti digressioni sono utili per comprendere, di fronte all’emersione della crisi, o della semplice probabilità di una sua emersione, come si atteggino i doveri e poteri degli amministratori e dell’organo di controllo all’interno dell’impresa con l’approssimarsi dell’insolvenza non potendosi ritenere che il duty of loyalty degli amministratori subisca uno shifting (slittamento) a favore dei creditori anziché dell’impresa e come la dimensione unitaria di impresa imprima al management una obbligazione di garanzia di stabilità destinata a perdurare e che è funzionale a prevenire l’insolvenza. Il che implica non solo, a certe condizioni, la possibilità di intervento di finanziario (e nei gruppi societari l’attuazione di accordi di sostegno finanziario) ma anche il trattamento preferenziale dei finanziamenti erogati in funzione della prevenzione e risoluzione della crisi. La risposta data dal CCII in materia di incentivi alla finanza anche infra gruppo in termini di prededuzione appare coerente con tale impostazione.

Le occasioni di azzardo morale si acuiscono nelle organizzazioni di gruppo proprio grazie al circuito di finanza interna che si ingenera per effetto della direzione e coordinamento[56] ed il rischio finanziario che viene assunto per effetto della ramificazione ed interconnessione finanziaria è del tutto paragonabile a quello derivante dalla “tort liability” ovvero dalla responsabilità da fatto illecito come sono molteplici gli esempi di coinvolgimento di soggetti “terzi” rispetto all’autore materiale del danno.

Nelle organizzazioni di gruppo si assiste potenzialmente al medesimo fenomeno sopra descritto, ovvero alla allocazione in conflitto di interessi di risorse a favore di unità del gruppo a svantaggio di altre, alla confusione di patrimoni ovvero ancora alla assunzione di obbligazioni infragruppo a condizioni svantaggiose per le società contraenti che si risolvono in una diminuzione della garanzia patrimoniale dei creditori di tali società[57].

Si tratta di comprendere cosa significhi applicare il canone della SCR all’impresa in crisi o insolvente.

I tentativi interpretativi della dottrina, seppure autorevole, si sono sinora arrestati ad una valutazione del canone della responsabilità sociale dell’impresa nella prospettiva di verifica delle procedure concorsuali nel contesto del CCII[58] secondo una apprezzabile disamina gradata del bene giuridico “tutela de creditori” rispetto al contesto procedurale in esame. Il canone di sostenibilità è stato tuttavia verificato in funzione della tutela dei creditori sociali nella prospettiva di un loro miglior soddisfacimento (seppure con critica dell’autore il quale contempera la necessità di ridurre tale canone a fattore tutt’altro che assoluto) nel contesto degli istituti del fallimento (liquidazione giudiziale) e concordato preventivo.

Ad avviso di chi scrive il canone di sostenibilità permea invece la gestione dell’impresa persino in via anticipata rispetto all’emersione della crisi involgendo processi decisionali ed informativi che devono essere approntati quando l’impresa è in bonis. Tale struttura organizzativa influisce sul modus attraverso il quale la crisi può essere prevenuta o superata. La struttura organizzativa impiegata dovrà essere mantenuta ed attuata durante la fase di emersione della crisi non potendosi ritenere coerente con il canone di diligenza un improvviso ed immotivato cambiamento nella gestione o peggio nella gestione finanziaria dell’impresa. Così come i meccanismi di approvvigionamento finanziario e di erogazione nella finanza non potranno incepparsi se non arrecando grave pregiudizio ai terzi ed alla stessa impresa denotando una azione improntata al conflitto di interessi.

 

6. SCR e business judgement rule, il sostegno finanziario all’impresa in crisi.

Si tratta, a questo punto, di comprendere sino a che punto l’emersione della crisi o dell’insolvenza possa giustificare la decisione dell’organo di gestione di accedere ad una procedura di liquidazione o di ristrutturazione ovvero di esercitare persino un potere discrezionale valutativo non solo sul quomodo ma persino sull’an della ricorrenza di un’ipotesi di deterioramento patrimoniale e finanziario.

Occorre, considerare, che il passaggio da una condizione di continuità ad una di distress conduce l’impresa in una dimensione diversa che è funzionale alla soddisfazione delle ragioni di varie categorie di soggetti tra cui, in primis,i creditori sociali nonché i soci come residual claimants[59].

Il passaggio da una gestione ordinaria a quella propria della crisi parrebbe persino determinare, secondo altra prospettazione, una modifica dell’oggetto sociale della società, e nell’ambito del gruppo, della holding quale soggetto esercente l’attività di direzione e coordinamento[60].

Il tema non è solo quello della emersione tempestiva di una causa di scioglimento[61] in quanto l’ordinamento tende a favorire la conservazione della continuità aziendale anche in presenza di una situazione di scioglimento del “soggetto” imprenditore, sul presupposto che allo stato di crisi non corrisponda necessariamente la perdita della continuità aziendale e la conseguente necessità di disgregazione del compendio aziendale. Anzi, il sistema delineato dalla riforma della legge fallimentare del 2005 evidenzia la perfetta convivenza tra la situazione di crisi, quale incapacità per l’impresa di svolgere la propria attività in un determinato lasso di tempo, e la continuità diretta o indiretta.

L’attuale disciplina in materia di concordato e di accordi di ristrutturazione dei debiti come modificata dal CCII (artt. 284 ss.) consente perfettamente di conservare la continuità pur in presenza di una situazione di deterioramento grave quale è la crisi d’impresa. Non solo. Il sistema normativo previsto dalla legge fallimentare rende compatibile anche l’attivazione di procedure di tipo liquidatorio (fallimento o concordato) con la continuità aziendale (es: affitto d’azienda ed esercizio provvisorio)[62].

La possibilità di conservare la continuità aziendale, anche indiretta (i.e. riferita ad un soggetto diverso dall’imprenditore insolvente come accade nell’affitto di azienda endoconcorsuale o nell’esercizio provvisorio), consente di poter confermare che la liquidazione, quale condizione antitetica alla continuità aziendale, non è un effetto automatico del mutamento della condizione finanziaria dell’impresa ma dipende concretamente dalle scelte adottate dagli organi sociali. Ad esempio l’obbligo di redazione del bilancio secondo criterio liquidatorio dettato dall’art. 2423 c.c. dipende solo dalla cessazione effettiva dell’attività produttiva e dalla disgregazione aziendale ovvero dall’attivazione formale di una procedura liquidatoria[63]

È persino ovvio che l’attivazione di una procedura concorsuale di tipo liquidatorio o concordata rappresenti spesso una conseguenza inevitabile di una situazione di dissesto sfociata nell’insolvenza insanabile che non lasci altra alternativa agli organi di gestione. Del resto, la pletora di strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico rafforza la doverosità di selezionare lo strumento più idoneo per risolvere la situazione di crisi dell’impresa secondo principio di “proporzionalità”. Non vi è, pertanto, dubbio che l’accesso ad una procedura concorsuale rappresenti esso stesso un dovere specifico degli amministratori che viene sanzionato con un aggravamento della responsabilità risarcitoria in caso di sua omissione. Il CCII introduce per la prima volta un dovere specifico in tal senso all’art. 3 CCII (doveri del debitore) il quale rimanda al novellato art. 2086 c.c. in materia di adeguati assetti organizzativi e l’art. 4 lett. b) in tema di obbligo di azione tempestiva del debitore riguardo all’accesso doveroso ad una procedura di soluzione della crisi per non pregiudicare i diritti dei creditori.

Occorre sul punto rilevare che anche la prevenzione della crisi, così come la sua rapida e tempestiva soluzione, rappresenta un precetto che deriva dai principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria codificato all’art. 2497 c.c. e di azione diligente dell’organo di gestione ai sensi dell’art. 2392 c.c. e che tale dovere, seppure vada rapportato alle funzioni anche di altri organi (amministratori delegati ed organo di controllo), afferisca principalmente agli amministratori[64] quali destinatari della funzione di architettura “costituente” dell’impresa e della sua organizzazione in concreto.

Nella difficoltà di individuare con certezza la zona di crepuscolo dell’impresa e data l’imprevedibilità sul piano temporale della emersione della crisi (potendo essa dipendere anche da fattori non prevedibili quali azioni risarcitorie ed elementi esterni) appare imprescindibile la redazione di piani di prevenzione e salvataggio dell’impresa.

Tale necessità sorge anche a fronte delle citate incertezze in merito alla esatta qualificazione e distinzione dello stato di crisi e di quello di insolvenza nella accezione giuridica, anche in relazione a quella economica ove sarebbe persino possibile individuare delle sub fasi come quella di pre crisi o pre insolvenza[65].

Il riferimento non è a mere regole standard o consuetudinarie del diritto commerciale internazionale: vi sono norme di diritto positivo che fanno espressamente riferimento alla continuità quale fine dell’attività di impresa secondo metodo economico. Si pensi, ad es., all’ art. 2423-bis 1) c.c. che stabilisce il principio di redazione del bilancio secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività; all’art. 2082 c.c. che, facendo riferimento all’esercizio di un’attività con metodo economico richiama la continuità aziendale quale elemento imprescindibile della gestione economica (i.e. di remunerazione dei costi con i ricavi e della creazione del lucro oggettivo).

Anche i Principi di Revisione contabile (v. IAS n. 1; ISA Italia n. 570) fanno riferimento alla continuità aziendale quale regola dell’impresa in bonis che indica la capacità di continuare a svolgere l’attività in un prevedibile futuro facendo fronte alle passività durante il normale svolgimento dell’attività aziendale con autosufficienza e produttività.

Questo passaggio appare importante perché fa comprendere come la continuità aziendale dell’impresa sia connessa all’equilibrio finanziario inteso quale attitudine dell’attività caratteristica a generare flussi reddituali idonei a coprire le passività.

Come avverte la dottrina, il concetto di continuità racchiude in sé solvenza quale attitudine dell’impresa a fronteggiare le passività laddove è possibile distinguere la continuità attiva quale attitudine a generare flussi reddituali e la continuità passiva quale capacità di fare fronte alle passività[66].

Ne consegue, che l’inadeguatezza degli strumenti di rilevazione precoce della crisi, come l’accesso tempestivo agli strumenti di risoluzione, comporta responsabilità per violazione di un dovere specifico, ovvero quello di programmare la crisi e di gestirla in caso di sua emersione attraverso l’accesso tempestivo agli strumenti di risoluzione esistenti[67].

Il rapporto specifico tra organizzazione e scopo fa sorgere un dovere di adeguatezza la cui violazione è sindacabile ex post dal giudice poichè non investe il sindacato di merito delle singole scelte imprenditoriali (Business Judgement rule): la decisione dell’organo di gestione (ma anche di controllo) di accedere o meno ad uno strumento di prevenzione o gestione della crisi non può attenere alla mera discrezionalità degli amministratori riguardando essa solo la scelta dello strumento di risoluzione adottato ma non la scelta se accedervi o meno. La business judgement rule in un momento di crisi o insolvenza non può operare con riferimento all’an dell’accesso ad uno strumento di risoluzione della crisi ma solo al momento dell’intervento che dipende dalle risultanze dei flussi informativi.

D’altro canto, passando all’emersione della crisi, il CCII afferma la supremazia e preferenza delle procedure di ristrutturazione rispetto all’ipotesi liquidatoria la quale viene considerata un estremo rimedio: nell’ambito del procedimento unitario di accesso alle procedure della crisi e dell’insolvenza il legislatore del CCII ha attribuito alla ristrutturazione un deciso favor rispetto alla liquidazione anteponendone la trattazione[68].

Anche sotto tale profilo l’ambito di discrezionalità dell’organo di gestione cede il passo a favore di un sistema normativo orientato alla prevalenza della logica della ristrutturazione aziendale rispetto alla disgregazione degli assets implicita nella visione liquidatoria.

Le stesse disposizioni sulla prededuzione superano persino con norme di netta agevolazione il tabù del divieto di finanziamento all’impresa in crisi o insolvente accordando al soggetto finanziatore (socio o esterno) non solo la antergazione del credito ma il privilegio della prededuzione purchè il finanziamento sia funzionale alla preservazione della continuità aziendale (art. 6 lett. d) CCII). Si rileva che le disposizioni sulla prededuzione relative al concordato con continuità aziendale e gli accordi di ristrutturazione dei debiti previste dall’art. 99 CCII e ss. non relegano l’ammissibilità della finanza prededucibile al miglior soddisfacimento dei creditori bensì alla prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività aziendale giustificandosi l’autorizzazione del tribunale anche in assenza di attestazione qualora ricorra un oggettivo pregiudizio alla prosecuzione dell’attività aziendale.

Possiamo concludere che la continuità aziendale costituisce canone fondamentale della responsabilità sociale dell’impresa e fa ampiamente parte del tessuto normativo vigente. Essa deve essere perseguita sin dalla costituzione dell’impresa e deve essere conservata per quanto possibile anche nel contesto della crisi d’impresa laddove persistano possibilità di risanamento. Si può ritenere che, fermo il divieto di azzardo morale che precluderebbe il finanziamento all’impresa in crisi laddove esso comporti l’aggravamento del dissesto, sussiste un obbligo giuridico di conservazione della continuità aziendale anche facendo ricorso al finanziamento (interno o esterno) dell’impresa nel contesto di procedure di risanamento che andranno preferite alla liquidazione fin tanto che essa sia evitabile.

La SCR opererebbe al contrario laddove potesse imputarsi al management di non aver fatto accesso a misure di risanamento o ristrutturazione previste dalla legge allorché era possibile salvare l’impresa garantendone la continuità aziendale.

Continuità aziendale costituisce senza dubbio esplicitazione del canone della sostenibilità sotto il profilo della long term vision e della preservazione del valore aziendale nel tempo funzionale alla tutela di una molteplicità di interessi disomogenei, gli azionisti, i creditori sociali, i fornitori, la comunità locale o nazionale (a seconda della rilevanza dimensionale dell’impresa).



[1] Cfr. J. ROBINSON, Squaring the circle? Some thoughts on the idea of sustainable development, Ecological Economics, 48, 2004, 374

[2] J. MÄHÖNEN, Integrated Reporting and Sustainable Corporate Governance from European Perspective, in Account. Econ. Law, 2020. Per un critica v. il recente contributo di G. D’ATTORRE, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in Diritto della crisi, 2021. Sul tema in generale della responsabilità sociale dell’impresa nell’ordinamento italiano v., ex multis, V. BUONOCORE, Impresa (Diritto privato), in Enciclopedia del diritto. Annali I, Milano, 2007, 765; U. TOMBARI, “Potere” e “interessi” nella grande impresa azionaria, Milano, 2019, 36 ss.; A. PERRONE, La responsabilità sociale d’impresa tra diritto societario e diritto internazionale, a cura di M. Castellaneta e F. Vessia, Napoli, 2019.

[3]Si veda la definizione fornita dal Report of the Committee on The Financial Aspects of Corporate Governance (Calbury Report), December 1, 1992; in dottrina v. A.KEAY, An Analytical Study of Board Accountability in Transnactional Codes of Corporate Governance, in Jean Jacques Du Plessis and Chee Heong Low (ed), Corporate Governance Codes for twenty-first Century: International Perspectives and Critical Analyses (Cham: Springer, 2017), 117.

[4] V. J. ELKINGTON, Cannibals with forks: The triple bottom line of Twenty-first century business, Oxford Capstone, 1997

[5] Per esempio v. Companies Act 2006 Section 172. 172 Duty to promote the success of the company

(1)A director of a company must act in the way he considers, in good faith, would be most likely to promote the success of the company for the benefit of its members as a whole, and in doing so have regard (amongst other matters) to—

(a)the likely consequences of any decision in the long term,

(b)the interests of the company's employees,

(c)the need to foster the company's business relationships with suppliers, customers and others,

(d)the impact of the company's operations on the community and the environment,

(e)the desirability of the company maintaining a reputation for high standards of business conduct, and

(f)the need to act fairly as between members of the company.

(2)Where or to the extent that the purposes of the company consist of or include purposes other than the benefit of its members, subsection (1) has effect as if the reference to promoting the success of the company for the benefit of its members were to achieving those purposes.

(3)The duty imposed by this section has effect subject to any enactment or rule of law requiring directors, in certain circumstances, to consider or act in the interests of creditors of the company.

[6] Negli anni successivi, la CSR è stata progressivamente recepita in atti e documenti ufficiali della UE come l’Agenda Sociale, la Strategia per lo Sviluppo Sostenibile, la Piattaforma Europea contro la Povertà e l’Esclusione Sociale e altri. Nel 2006 la Commissione Europea si è fatta promotrice di un’Alleanza Europea per la R.S.I., aperta alle imprese europee di ogni dimensione che liberamente possono aderirvi. La Commissione Europea considera l’Alleanza uno strumento utile per implementare gli obiettivi della strategia di Lisbona e ne supporta le attività, pur senza oneri. Nel medesimo documento vengono indicati otto settori prioritari per l’intervento della U.E.: 1) sensibilizzazione e scambio di migliori prassi; 2) sostegno a iniziative multilaterali; 3) cooperazione con gli Stati membri; 4) informazione dei consumatori e trasparenza; 5) ricerca; 6) educazione; 7) piccole e medie imprese (PMI); 8) dimensione internazionale della RSI.

[7] V. Codice italiano di Corporate Governance, approvato nel gennaio 2020; sul tema v. P. MARCHETTI, Il nuovo Codice di Autodisciplina delle società quotate, in Riv. soc., 2020, 269 ss

[8] Cfr. G.B. PORTALE, Diritto societario tedesco e diritto societario italiano in dialogo, in Banca, borsa, tit. cred., 2018, I, 602 ss; K. J. HOPT-R.VEIL, Gli stakeholders nel diritto azionario tedesco: il concetto e l’applicazione. Spunti comparatistici di diritto europeo e statunitense, in Riv. soc., 2020, p. 921 ss.

[9] L’articolo 3 del Decreto prevede che la dichiarazione concerna i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani e alla lotta contro la corruzione. Tali temi devono essere rappresentati nei limiti di quanto gli stessi siano effettivamente rilevanti in relazione alle attività svolte e alle caratteristiche dell’impresa e devono essere rappresentati in modo tale da assicurare la comprensione dell’attività di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta.

Appare interessante osservare che il Decreto dispone che sia data evidenza almeno di una serie di aspetti, quali: (i) il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attività dell’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231; (ii) le politiche praticate dall’impresa, comprese quelle di dovuta diligenza, i risultati conseguiti tramite di esse ed i relativi indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario; (iii) i principali rischi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dalle attività dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto.Le materie sopra enucleate possono peraltro non assumere concreta rilevanza, in ragione delle attività svolte e dei mercati di riferimento, per alcune delle imprese soggette all’obbligo di dichiarazione non finanziaria – quali quelle operanti esclusivamente nel settore dell’intermediazione finanziaria – e in tal senso ha certamente rilevanza quanto previsto dal comma 6 dell’articolo in oggetto, il quale dispone che, in ottemperanza al cosiddetto principio del “comply or explain”, gli enti di interesse pubblico che non praticano politiche in relazione a uno o più degli ambiti di cui al comma 1, forniscono all’interno della medesima dichiarazione, per ciascuno di tali ambiti, le motivazioni di tale scelta, indicandone le ragioni in maniera chiara e articolata. Per le società madri di gruppi di grandi dimensioni sono tenute alla redazione di una dichiarazione di carattere non finanziario a livello consolidato. In merito, l’articolo 4 del Decreto prevede che, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attività del gruppo e il suo andamento, la dichiarazione consolidata comprende i dati della società madre e delle società figlie consolidate integralmente. La dichiarazione non finanziaria consolidata ha ad oggetto i temi predetti e alla stessa si applicano le norme circa le modalità di redazione di seguito descritti.

[10] Si veda per esempio EU High-Level Expert Group on Sustainable Finance, Financing a Sustainable European Economy: Interim Report (July 2017) reperibile su https://ec.europa.eu/info/publications/170713-sustainable-finance-report_en;

[11] Cfr. J. MÄHÖNEN, Integrated Reporting and Sustainable Corporate Governance from European Perspective, in Account. Econ. Law, 2020; M. BATTAGLIA-P.GRAGNANI-N.ANNESI, Moving Business toward Sustainabe Development Goals (SDGs): Evidence from an Italian “Benefit-For Nature” Corporation, in Entrep. Res. J., 2020. In questo studio vengono evidenziati i punti comuni tra SCR e disciplina societaria delle cooperative e delle società benefit.

[12] La letteratura è ampia sul tema. Cfr. A.M. ALMANSOORI-H.NOBANEE, How Sustainability Contributes to Shared Value Creatio and Firm’s Value, (October 19, 2019) articolo disponibile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=3472411 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3472411; A.ALSHEHHI- H.NOBANEE - N KHARE,  The Impact of Sustainability Practices on Corporate Financial Performance: Literature Trends and Future Research Potential. Sustainability, (2018), p. 494-519; R. AMEER-R. OTHMAN, Sustainability Practices and Corporate Financial Performance: A Study Based on the Top Global Corporations, in Journal of Business Ethics, 108(1), (2012). 61-79.G. FIORI, F. DI DONATO, M.F. IZZO, Corporate social responsibility and firms performance-an analysis on Italian listed companies, articolo consultabile sul sito www.ssrn.com , 2007

[13] Cfr. M. FRIEDMAN, The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits.” The New York Times Magazine. September 13, 1970: pp. 32-33, 122, 126. Secondo l’Autore “the great virtue of private competitive enterprise—it forces people to be responsible for their own actions and makes it difficult for them to ‘exploit’ other people for either selfish or unselfish purposes. They can do good—but only at their own expense”.

[14] D. Hedblom- B. R. Hickman-  J.A. List, Toward an understanding of Corporate Social Responsibility: theory and field experimental evidence, National Bureau of Economic Research, 2019.

[15] Cfr. A. SOLIDORO, Il presupposto della continuità aziendale: criteri e metodi per un monitoraggio efficace. Parte prima: il contesto normativo e di prassi antecedente la riforma del Codice della crisi e dell’insolvenza, in Crisi e Risanamento, 2019.

[16] Cfr.V. BUONOCORE (a cura di), Iniziativa economica e impresa nella giurisprudenza costituzionale, ESI, Napoli, 2006, 10.

[17] Cfr. G. D’ATTORRE, La responsabilità sociale dell’impresa insolvente, in Riv. dir. civ., 2021, 60 ss. L’Autore in maniera convincente afferma altresì che le considerazioni che discendono dalla responsabilità sociale dell’impresa valgono persino in sede di fallimento/liquidazione ove non sussiste solo l’interesse alla tutela dei creditori sociali; e ciò si evince dalle regole sulla liquidazione dell’attivo concorsuale che non rispondono necessariamente ad una esigenza di soddisfacimento prioritario delle ragioni dei creditori.

[18] Sia consentito rinviare a E. RICCIARDIELLO, Gli accordi di sostegno finanziario infra gruppo nella crisi dei gruppi bancari, in Dir. Banca Merc. Fin., 2016, 683 ss.

[19]  Cfr. G. D’ATTORRE, Sostenibilità e responsabilità sociale nella crisi d’impresa, in Diritto della Crisi, 2021. L’Autore offre molteplici esempi per una analisi sistematica delle disposizioni normative che non risponderebbero al canone del miglior soddisfacimento dei creditori nella accezione di massimo soddisfacimento dei creditori quali le norme sul programma di liquidazione (art. 107 l.f. e 216 CCII), sull’affitto d’azienda endofallimentare (art. 104-bis comma 2 l.f. e 212 CCII) e l’esercizio provvisorio che risponderebbero al soddisfacimento di altri interessi (es: alla abitazione, precludendo lo scioglimento del contratto di locazione ad uso abitativo, ovvero attraverso le procedure competitive che garantirebbero l’allocazione del compendio aziendale non solo al miglior offerente).

[20] Cfr. sempre G.D’ATTORRE, op. cit.

[21] Cfr. S. PACCHI, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2019/1023, in Dir. fall., 2019, I, 1278; P. VELLA, L’impatto della Direttiva (UE) 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fall., 2019, 756.

[22] In senso critico anche per l’impatto della CSR sui costi aziendali per il proliferare dei consulenti esterni v. A. KEAY, The Corporate Objective, Oxford, Hart Publishing, 2018.

[23]N. CHILESHE- L. WILSON- J. ZUO-G. ZILLANTE, Strategic risk assessment for pursuing sustainable business in the construction industry: Diagnostic models. University of South Australia. (2013).

[24] Sia consentito rinviare a E. RICCIARDIELLO, La crisi dell’impresa di gruppo tra strumenti di prevenzione e di gestione, Milano, Giuffré, 2020.

[25] S. AMBROSINI, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, in Crisi d’impresa e insolvenza, in www.ilcaso.it, ottobre 2019, 2-3. Cfr. A. PANIZZA, Adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili: aspetti teorici ed operativi, in Ristrutturazioni Aziendali, www.ilcaso.it, agosto  2021; P. BASTIA – E. RICCIARDIELLO, Gli adeguati assetti organizzativi funzionali alla tempestiva rilevazione e gestione della crisi: tra principi generali e scienza aziendale, in Banca, Impresa Società, 2020; P. BASTIA, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, in Ristrutturazioni Aziendali, www.ilcaso.it, luglio 2021.

[26] Z. PRUTINA, The effect of corporate social responsiblity on organizational commitment. Journal of Management Sciences, 21(1), 2016, 227-248.

[27] Cfr. A JAN- M. MARIMUTHU, Bankruptcy and Sustainability: A Conceptual Review on Islamic Banking Industry. Global Business and Management Research: An International Journal, 7(1), (2015). 109-138. M. ALMANSOORI-H.NOBANEE, How Sustainability Contributes to Shared Value Creatio and Firm’s Value, (October 19, 2019) in SSRN: https://ssrn.com/abstract=3472411 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3472411.

[28] cfr. J.J. DU PLESSIS-A. RÜHMKORF, New trends regarding sustainability and integrated reporting for companies: what protection do directors have?, The Company Lawyer, 2015, 49.

[29] Cfr. J. OLIVER-G.VESTY-A.BROOKS, Conceptualising integrated thinking in practice, Managerial Auditing Journal, 2016, 228.

[30] Nella sua accezione più ampia di “the capitals comprise financial, manufactured, intellectual, human, social and relationship, and natural, although as discussed in paragraphs 2.17–2.19, organizations preparing an integrated report are not required to adopt this categorization” (part. 1 introduction).

[31] Trattasi di una metodologia ormai acquisita in ogni ambito di operatività del business. Per le società quotate operanti sui mercati finanziari cfr. key performance inidcators for Enviromental, Social & Governance Issues Version 3.0 predisposti dall’EFFAS e DVFA nel 2010. Sul tema cfr. D.WOSCHNACK-S. HISS- S.NAGEL- B. TEUFEL, Sustainability Disclosure and the Financialization of Social Sustainability, in Account. Econ. Law., 2020.

[32] Cfr. sul punto ampiamente L. BENEDETTI, Lo statuto dei finanziamenti dei soci, op. cit. p. 6-7 il quale parla apertamente di “asimmetria” tra l’interesse economico dei soci finanziatori e quello dei creditori che verrebbe colmata attraverso la regola della postergazione legale prevista dall’art. 2467 c.c.; sul tema v. anche G.B. PORTALE, I “finanziamenti” dei soci nelle società di capitali, in Banca, borsa, tit., cred., 2003, 666; v. anche M. MAUGERI, Finanziamenti “anomali”, op. cit., 51 ss.

[33] Cfr. M. BELCREDI, Crisi d’impresa e ristrutturazione finanziaria, Milano, 1995, 40 ss.

[34] Cfr. F. BRIZZI, Responsabilità gestorie in prossimità dello stato di insolvenza e tutela dei creditori, in Riv. dir. comm., 2008, I, 1027.

[35] L. STANGHELLINI, La crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 24. Secondo l’Autore è proprio dalla combinazione tra indebitamento dell’impresa e rischio limitato dei soci che essi possono di fatto appropriarsi di tutto l’utile scaricando sui creditori sociali le perdite.  Peraltro l’Autore anticipa il tema di grande attualità dell’inefficienza degli strumenti “civilistici” di rilevazione della crisi.

[36] Cfr. F.H EASTERBROOK-D.R. FISCHEL, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge, Harvard University Press, 1991.

[37] Cfr. L. STANGHELLINI, La crisi d’impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, Il Mulino, 2007, 50.

[38] Cfr. sul punto G. FERRI jr., Garanzia patrimoniale e disciplina dell’impresa in crisi, in AA.VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Giuffré, Milano, 2013, p.29. L’allineamento degli interessi tra soci e creditori tende a svanire in prossimità dell’insolvenza in quanto soci e creditori risultano portatori di interessi finanziari diversi. I soci tendono a ridurre le risorse per il conseguimento dell’oggetto sociale mentre i creditori vogliono impedire la ripartizione o suddivisione del patrimonio per non perdere la garanzia del proprio credito.

[39] Cfr. A.M LUCIANO, La gestione della s.p.a. nella crisi pre-concorsuale, Milano, Giuffré, 2016, 4.

[40] Cfr. R. KRAAKMAN-J. ARMOUR-P. DAVIES-L. ENRIQUES-H. HANSMANN – G. HERTIG, The anatomy of corporate law. A comparative and functional approach, Oxford, Third Edition, 2017, 114; A. KEAY, The shifting of Directors’ Duties in the Vicinity of insolvency, in Int. Insolv. Rev., 2015, 221. Contra F. BRIZZI, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, Giappichelli, 2015, 35, secondo il quale i creditori non avrebbero i necessari incentivi a massimizzare il valore complessivo del patrimonio sociale come per i soci di controllo poiché i creditori non si appropriano dell’intero guadagno come fanno i soci ma della sola parte del patrimonio inerente la loro pretesa creditoria. Cfr. anche L. PICARDI, Il ruolo dei creditori fra monitoraggio e orientamento della gestione nelle società per azioni, Milano, Giuffrè, 2013.

[41] Cfr. D. VATTERMOLI, Gli insolvency protocols nelle operazioni di ristrutturazione del gruppo di imprese in crisi, in Dir. banca merc. finanz., I, 2019, 11 ss. (spec. nt. 4). 

[42] Sia consentito rinviare sul punto a E. RICCIARDIELLO, La crisi dell’impresa di gruppo tra strumenti di prevenzione e di gestione, Milano, Giuffré, 2020. Contrario all’affermazione di un’azione amministrativa improntata al perseguimento dell’interesse dell’impresa nel suo complesso per la genericità del precetto dal quale dovrebbe ricavarsi una regola comportamentale è A. ZOPPINI, Emersione della crisi e interesse sociale (Spunti dalla Teoria dell’Emerging Insolvency), in www.juscivile.it, 2014, 2, 60. L’Autore evoca il modello di efficienza Kaldor-Hicks secondo il quale la allocazione delle rirorse è efficiente se il benessere ottenuto da taluni supera le perdite di benessere subite da altri componenti con la conseguenza che il modello è efficiente se la perdita di benessere sia compensata da coloro che hanno ricevuto un trattamento favorevole. v. anche A. NIGRO, Principio di ragionevolezza e regime degli obbighi e della responsabilità degli amministratori di spa, in Giur. Comm., 2013, I, 457 ss.

[43] Tale ultimo aspetto viene in particolare enfatizzato anche a livello internazionale (Report of Reflection Group on the Future of Eu Company Law 2011 e Uncitral),

[44] Cfr. P.L DAVIES, Directors' Creditor-Regarding Duties in Respect of Trading Decisions Taken in the Vicinity of Insolvency, in European Business Organization Law Review (EBOR), Vol. 7, 2006 la cui posizione è nota nel distinguere situazioni di conlcamata insolvenza che farebbero scattare obblighi di protezione dei creditori (liquidation procedures) da situazioni in cui sussiste ancora una possibilità di tutela della continuità aziendale in cui tale dovere di protenzione non assume funzione primaria “the need to promote a 'rescue culture' for companies in financial distress may lead the legislature to limit the creditor-regarding duty arising before, but in the vicinity of, insolvency to cases of liquidation and not to extend it to companies being handled through procedures whose main aim is to save the company or (parts of) its business as a going concern”.

[45] Cfr. B. BECKER-P. STRÖMBERG, Fiduciary Duties and Equity-Debtholder Conflicts, 2012, articolo disponibile sul sito www.ssrn.com.

[46] Cfr. ex plurimis A. HARGOVAN-T.M. TODD, Financial Twilight Re-Appraisal: Ending the Judicially Created Quagmire of Fiduciary Duties to Creditors, University of Pittsburgh Law Review, Vol. 78, No. 2, 2016; Kristin van Zwieten; Director Liability in Insolvency and Its Vicinity: West Mercia Safetywear Ltd v Dodd RevisiteD, Oxford Legal Studies Research Paper No. 38/2017 in senso critico all’insorgenza di doveri di fedeltà e lealtà degli amministratori verso i creditori sociali in partcicolare facendo leva sull’ambiguità dell’argomentazione fornita dalla giurisprudenza e dalla rilevanza del regime delle azioni revocatorie; F. TUNG, Gap Filling in the Zone of Insolvency, Emory Law and Economics Research Paper No. 06-09 il quale ritiene che I creditori sofisticati non necessitano di ottenere tutela ex post dal giudice per colmare il deficit della tutela contrattuale in quanto essi di premuniscono ex ante per la tutela delle proprie ragioni. In ogni caso l’insorgenza di doveri di lealtà verso I creditori costituirebbe una mera petizione di principio “In particular, the standard justification for including creditors as beneficiaries of directors' fiduciary duties - the fear of excessive risk taking, or "overinvestment," by managers of distressed firms - seems a rather weak rationale”.

[47] Cfr. J. F. Sneirson, The Sustainable Corporation and Shareholder Profits, 46 Wake Forest L. Rev. 541 (2011); D. Millon, Two Models of Corporate Social Responsibility, 46 Wake Forest L. Rev. 523, 530-33 (2011).

[48] Cfr. Til Rozman, Corporate Groups and Corporate Social Responsibility: The EU Perspective, 2 Turk. Com. L. Rev. 205 (2016) secondo cui “At the EUnormative (non-binding) level, the concept of CSR was initially defined in the Green Paper - Promoting a European Framework for Corporate Social Responsibility (Green Paper) as 'a concept whereby companies integrate social and environmental concerns in their business operations and in their interaction with their stakeholders on a voluntary basis'. The Green Paper aimed to provide a holistic approach towards CSR bylisting and describing various dimensions of CSR, e.g., social responsibility integrated management, social responsibility reporting and auditing,' quality in work, social and eco-labels, and socially responsible investment.  Arenewed EUstrategy 2011-14 for Corporate Social Responsibility' provides a new, much wider definition of CSR, i.e., 'the responsibility of enterprises for their impacts on society'." The document discusses the relevance of CSR and argues that CSR is not only in the interest of corporations (especially in terms of risk management, cost savings, access to capital, customer relationships, human resource management, and innovation) but also in the interest of society as a whole (in terms of offering a set of values on which to build a more cohesive society and sustainable economic system)”.

[49] V. Akzo Nobel v. Commission of the European Communities, Court ofJustice of the European Union, C9 7/o8 p, 2009. In the AKZO case,46 the Court of Justice of the European Union has clearly stated that the concept of the undertaking has to be understood as an economic unit even if it comprises different legal persons. Furthermore, since dominant and dependent companies comprise a single economic unit, fines for competition law infringements may be addressed both to the dependent company, which is directly involved in the competition law infringement, and to the dominant company. The reason rests in the contestable presumption that the dominant company can exercise a decisive influence over the conduct of the dependent company. V. anche Imperial Chemical Industries v. Commission (ECJ 14 luglio 1972 C-48/69). In dottrina cfr.  Flaminia Starc-Meclejan, Groups of Companies and Environmental Liability Confronting, 2 Persp. Bus. L.J. 234 (2013)

[50] Cfr. UGLJEŠA GRUŠIC, ́ Responsibility in groups of companies and the future of international human rights and environmental litigation, in Cambridge Law Journal, 2015, p. 30 ss.

[53] Cfr. Meredith Dearborn, Enterprise Liability: Reviewing and Revitalizing Liability for Corporate Groups, 97 Calif.

L. Rev. 195 (2009) secondo la quale “In comparison to limited liability, enterprise liability better addresses the

problem of tort creditors because it reallocates risk and forces parent corporations to internalize the risks of their subsidiaries. Under a limited liability regime, parent corporations have no incentive to purchase insurance or adequately capitalize subsidiaries because limited liability artificially removes these operating costs. Enterprise liability, in contrast, forces the parent corporation to absorb these costs by purchasing insurance or adequately capitalizing the subsidiary. Enterprise liability thus leads to "more efficient investment decision-making, including the allocation of capital, and removes the moral hazard aspect of limited liability”.

[54]A. W. Savitz & Karl Weber, The Triple Bottom Line: How Today's Best-Run Companies Are Achieving Economic, Social, and Environmental Success - and How You Can Too xii (2006); M. Tueth, Fundamentals of Sustainable Business 45-46 (2010); J. F. Sneirson, Green Is Good: Sustainability, Profitability, and a New Paradigm for Corporate Governance, 94 Iowa L. Rev. 987, 991 n.12 (2009).

[55] Cfr. Sempre D. Millon, Two Models of Corporate Social Responsibility, 46 Wake Forest L. Rev. 523, 530-33 (2011) secondo il quale “a sustainable business takes a view of the firm that is both broader and longer than the typical, conventional focus on short-term financial gains

[56] Cfr. sempre E. RICCIARDIELLO, La crisi dell’impresa di gruppo tra strumenti di prevenzione e di gestione, op. cit. S. JOHNSON-R.LA PORTA-F. LOPEZ DE SILANES-A. SHLEIFER, Tunneling, 90 American Economic Review, Papers and proceedings 22 (2000);

[57] cfr. V. ATANASOV-B. BLACK-C. CICCOTELLO, Unbundling and Measuring Tunneling, 2014, University Of Illinois Law Review 1967 (2014).

[58] Cfr. G. D’ATTORRE, op.cit.

[59] Cfr. A. NIGRO-D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, 3 ed, Bologna, 2014.

[60] Cfr. R. RORDORF, op. cit.

[61] Contra G. BERTOLOTTI, op. cit., p. 140 il quale parla di anticipazione degli effetti dello scioglimento al momento della crisi anche se a pag. 147 l’Autore apre ad una gestione non conservativa in presenza della crisi.

[62] F. PACILEO, op. cit. p. 106 che la dottrina definisce continuità compromessa o crepuscolare.

[63] V. OIC n. 5 paragrafi 7, 7.1 e 7.2.

[64] Sul punto R. RORDORF, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, in Società, 2013, 669 ss. Secondo l’Autore l’art. 2497 c.c. esprime una regola di carattere generale applicabile agli amministratori della capogruppo  consistente in doveri che comportano “l’applicazione di criteri e regole elaborati essenzialmente dai cultori della scienza aziendalistica ma che assumono valenza giuridica” ; tale regola si estenderebbe anche all’ipotesi di capogruppo in forma di s.r.l.; v. anche sul punto P. ABBADESSA, Profili topici della nuova delega amministrativa, in Il nuovo diritto delle società, a cura di Abbadessa e Portale, Milano, 2007, vol. 2, 493.

[65] Cfr. G. STRAMPELLI, Capitale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, 631.

[66] Cfr. F. PACILEO, op. cit. p. 84 ss. il quale evidenzia come il going concern insieme alla solvenza rientrano nei canoni di economicità sanciti dall’art. 2082 c.c.

[67] Cfr. A. MAZZONI, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendali, in AA.VV., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber Amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p. 833 il quale evidenzia tuttavia come in caso di insolvenza la scelta ricada sugli strumenti strettamente concorsuali. Sul punto cfr. D. GALLETTI, La ripartizione del rischio di insolvenza, 165.

[68] Art. 7 comma 2 CCII. Nel caso di proposizione di più domande, il tribunale tratta in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l'insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che nel piano sia espressamente indicata la convenienza per i creditori e che la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile o infondata.