Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Focus

Banche e NBFIs - Shadow banking: un intreccio da indagare e risolvere


Data pubblicazione
24 settembre 2024

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Dino Crivellari

Sommario: 1. La fragilità della banca; 2. Le banche e la crescita delle NBFIs; 3. Chi possiede le banche commerciali in Italia?; 4. Banche ed NBFIs, tra concorrenza e commistione; 5. In Europa; 6. Le prospettive; 7. Conclusioni.


1. La fragilità della banca.

La banca è l’unica impresa che ”vende” debiti (i suoi) ai risparmiatori e “compra” debiti dai suoi clienti prenditori. L’attività prevalente della banca è quindi gestire debiti, i propri e quelli dei clienti.

I tanti rischi connessi a questa gestione fanno sì che la banca sia un’impresa sostanzialmente fragile[1] la cui attività principale è “commercializzare tempo”: comprare il tempo dei depositanti e vendere tempo ai prenditori. Il prezzo di questa attività è il tasso di interesse che la banca paga ai depositanti e riscuote dai prenditori. Un margine economico ben più basso del mark-up che qualunque altra impresa di produzione di beni o di servizi consegue nella sua gestione fisiologica.

Questa descrizione dell’attività bancaria, estremamente essenziale, trascura volutamente la ben più grande complessità delle attività che le banche nel tempo hanno incorporato e che oggi costituiscono parte rilevante della loro operatività.

Raccogliere il risparmio ed erogare crediti è tuttavia l’attività di fondo che ha reso necessaria una regolamentazione specifica della banca che gli Stati hanno ritenuto indispensabile adottare proprio per contrastare e contenere la fragilità del sistema bancario che si accompagna alla sua centralità nel sistema economico [2].

Evitare che le banche entrino in crisi, spesso per fenomeni esogeni che non controllano (le vicende dei mercati e dell’economia reale), ma anche per i comportamenti dei banchieri, è stata da quasi cent’anni a questa parte la preoccupazione principale di legislatori e Regulator.

Orientamenti diversi di legislatori e Regulator si sono avvicendati nel tempo a seconda che i loro interventi fossero destinati a sistemi economici bancocentrici piuttosto che mercatocentrici. Tuttavia, sia negli USA che in Europa, dopo la crisi del ‘29 [3], si produssero regolamentazioni di settore che oggi consideriamo normali, ma che fino ad allora erano state assai carenti nella logica del laissez faire imperante.

Le conseguenze tragiche di quei comportamenti, tipici della banca mista o universale, sono state all’origine delle scelte di separare radicalmente le attività bancarie ordinarie (raccogliere risparmio ed erogare credito) da quelle considerate estranee alla gestione prudente del buon banchiere: operare investimenti in capitale di rischio di altre imprese, adottare comportamenti speculativi, ecc.

La legge italiana del ’36 (cd. Riforma Menichella) e quella americana del 1933 (Glass-Steagall Act [4]) imposero alle banche di rimettere al centro del loro business model l’ attività essenziale, facendo in modo che quelle speculative fossero concentrate su enti finanziari distinti e separati, non destinati alla raccolta del risparmio retail in parte garantito da fondi pubblici o comunque istituzionali. Lo scopo era quello di evitare che le conseguenze negative delle crisi bancarie venissero socializzate attraverso l’intervento dello Stato e danneggiassero l’economia reale.

Come noto, in Italia la conseguenza della legge del ‘36 fu anche la separazione tra il credito a breve e quello a medio e lungo termine e specialistico (agrario, industriale, cinematografico, ecc.), affidato ad istituti di credito diversi dalle banche ordinarie.[5]

Questa impostazione fu prevalente in Europa occidentale e in USA fino agli anni ‘80 del secolo scorso quando ripresero il sopravvento impostazioni “neoliberiste“ basate sulla “deregulation[6] che consentirono nuovamente alle banche ordinarie di potersi impegnare in attività a maggior rischio sulla base del principio che la libertà di circolazione dei capitali e la concorrenzialità nei mercati avrebbero stimolato l’economia facendo crescere il Pil e la ricchezza complessiva [7].

In Italia, in particolare, l’introduzione prima della legge Amato [8] sulla privatizzazione delle banche e poi del TUB [9] favorirono nel giro di pochi anni l’abbandono dello schema severo (anche in termini di ruolo della Vigilanza assicurata dalla Banca centrale), ma forse meno efficiente, tipico di una economia mista e resero le banche enti privati orientati alla creazione di valore per gli azionisti più che alla funzione infrastrutturale di sostegno all’economia reale. Fu un pieno ritorno alla banca universale che, tra l’altro, portò alla scomparsa degli istituti di credito speciale ed alla emersione della a contendibilità delle banche[10].

La logica di origine neoliberista della banca universale è stata incontrastata, ed anzi favorita, sia di qua che di là dell’Atlantico fino al 2008 quando la crisi dei sub prime e il fallimento di Lehman Brothers riportarono in auge la discussione sull’opportunità o meno di sostenere il modello della banca universale[11].

Da allora, sia pur con accenti diversi nelle singole giurisdizioni europee e statunitensi, la regolamentazione è stata irrigidita tornando per molti versi a puntare sulla stabilità del sistema piuttosto che sulla sua efficienza in termini di produzione di valore per l’azionista senza tuttavia tornare alla rigida separazione tra banche commerciali e banche universali. In Italia, per esempio, ci fu un tentativo legislativo, fallito, di reintrodurre la segregazione tra banche commerciali e banche d’affari prevedendo il “divieto esplicito, per le banche che effettuano la raccolta di depositi o di altri fondi con l’obbligo di restituzione, di svolgere attività legate alla negoziazione di valori mobiliari in genere[12] [13].

Questo irrigidimento ha comportato un effetto inizialmente non previsto e tanto meno desiderato: il progressivo contenimento del canale bancario nel finanziamento dell’economia reale sia per le più stringenti regole sul capitale (v. Basilea, IFRS 9, ecc.) sia per le normative in tema di rischi di credito in relazione alle quali, specie in Europa, ci si è concentrati sulla necessità di evitare crisi bancarie dovute al peggioramento della qualità degli attivi in una prospettiva di forte preoccupazione del “too big to fail[14].

Una delle conseguenze di tali provvedimenti è stata la crescita, dove possibile, del mercatocentrismo, ma in ogni caso della presenza e dell’espansione delle NBFIs. Sostiene Raffaele Scalcione: “L’eccessiva regolamentazione di una tipologia di intermediario finanziario produce l’immediato spostamento dell’operatività su intermediari non soggetti alle medesime limitazioni operative. L’industria degli hedge funds è infatti cresciuta significativamente negli ultimi anni forse anche grazie al nuovo impulso ricevuto dall’indiretto effetto causato proprio dalla Volcker Rule”.[15]

A questa tendenza hanno contribuito il ridimensionamento dei tassi di interesse, frutto della politica espansiva delle banche centrali che ha voluto così contrastare i rischi rivenienti dall’espansione del debito pubblico degli Stati immettendo notevole liquidità sui mercati, liquidità che però è stata indirizzata più verso la speculazione finanziaria che verso l’economia reale [16].

La contrazione dei tassi ha influito sul margine di interesse delle banche esponendole alla difficoltà di reperire capitale di rischio per il rafforzamento del loro patrimonio. Il che ha comportato, in combinazione con le norme restrittive sul capitale e sulla rischiosità dell’attivo, a deprimere ulteriormente la capacità delle banche a sostenere l’economia reale - già sofferente di un andamento non brillante e ulteriormente depressa dalla crisi pandemica-, ma anche quella di raccogliere risparmio.

 

2. Le banche e la crescita delle NBFIs.

Ne è conseguita un ulteriore spinta alla capacità di penetrazione delle NBFIs sia nella acquisizione del surplus dei risparmiatori sia nell’intervento nel capitale di rischio delle imprese [17].

Sul mercato si è quindi assistito ad un fenomeno in precedenza non così rilevante. Le banche hanno utilizzato le proprie reti per vendere quote di fondi ai risparmiatori non più attratti dai bassi tassi di interesse dei depositi, ma più propensi ad investimenti che si prospettavano più redditizi ancorché più rischiosi [18].

Il vantaggio per le banche è stato quello di aumentare i ricavi da commissioni che sono andati a lenire in gran parte le conseguenze negative della riduzione del margine di interesse. Il rischio di essere disintermediate è stato trascurato [19].

In pratica le banche hanno svolto il ruolo di reti di commercializzazione dei fondi di investimento, i quali hanno tipicamente strutture commerciali molto leggere, comunque meno diffuse e presenti nei territori rispetto a quelle delle banche commerciali.

L’effetto è stato di favorire la crescita delle NBFIs, intermediari, concorrenti delle banche sia nella raccolta che negli impieghi, di solito non regolamentati e comunque meno vigilati. Il trionfo dello “shadow banking[20].

I Regulator fino a non molti anni fa, per motivi ancora tutti da indagare, non si erano particolarmente preoccupati della circostanza che grandi quantità di risparmi ed investimenti venissero trasferiti da sistemi complessi (le banche), regolamentati e vigilati nella logica di tutelare l’interesse pubblico e del pubblico, a sistemi opachi, senza vincoli e regole, dediti alla speculazione.

Qualcuno potrebbe sostenere che la conseguente disintermediazione bancaria non sia stata sgradita ai Regulator : la preoccupazione di non riuscire a gestire il fenomeno “too big to fail[21] e quindi la strenua attività di ricercare la stabilità del sistema bancario che nei mercati interconnessi e globalizzati deve assicurare l’efficacia e l’efficienza dei sistemi di pagamento, potrebbe aver fatto premio sulla logica del rispetto del loro compito di tutelare l’interesse pubblico e di salvaguardare i risparmiatori e i consumatori/prenditori di credito.

Contemporaneamente, specie in paesi come l’Italia, dove il fenomeno degli Npl è ormai endemico [22] (e non si riesce a ridimensionarlo anche a causa di un andamento economico non brillante da decenni sia dal lato della produttività che da quello dei salari), le NBFIs hanno svolto un ruolo preponderante dal 2016 in poi nell’alleggerimento delle sofferenze nei bilanci degli intermediari creditizi.

Su questo versante, anche per le insistenze della BCE [23]affinché le banche cedessero massivamente gli Npl, una legislazione di favore ( ad esempio le GACS [24]) ha consentito ai fondi di acquisire in pochi anni quasi l’80% delle sofferenze bancarie a prezzi molto contenuti, frutto di un mercato inefficiente con una offerta molto elevata e pochi compratori [25].

Le conseguenze principali sono state che le banche hanno registrato perdite superiori a quelle che avrebbero subito se avessero gestito direttamente le sofferenze [26], con conseguenti necessità di ricapitalizzazione, mentre i fondi cessionari hanno guadagnato almeno quello che le banche hanno perso [27].

Data la difficoltà delle banche a raccogliere altrimenti capitale di rischio a causa della loro bassa redditività di cui abbiamo detto, è stato abbastanza facile per i fondi partecipare alle loro ricapitalizzazioni utilizzando anche i profitti rivenienti dalla gestione dei Npl.

Si potrebbe sostenere (ma non abbiamo i numeri di dettaglio per dimostrarlo) che i fondi si sono appropriati delle banche commerciali, indebolite dalle perdite da cessione di Npl (e quindi più facilmente contendibili), utilizzando i proventi realizzati acquistando a sconto e gestendo gli Npl delle banche stesse [28].

 

3. Chi possiede le banche commerciali in Italia?

In uno studio di qualche tempo fa [29] si documenta come già nel 2016 gli azionisti delle principali banche italiane non erano più quelli antecrisi del 2008 [30], ma prevalentemente fondi di investimento anglosassoni. Il fenomeno si è ampliato negli anni più recenti. Conseguenza diretta: nei consigli di amministrazione delle banche sono ormai presenti in maggioranza esponenti dei fondi che possono ora gestire banche ben più solide e profittevoli [31] di quelle che avevano di fronte negli anni passati sui tavoli di negoziazione per le cessioni massive di Npl.

Situazione di fatto, ormai consolidata, che dovrebbe costituire un argomento di riflessione non solo per i Regulator, ma ancor più per la Politica che ha ormai perso un interlocutore essenziale per le sue politiche economiche.

L’obiettivo di una banca commerciale è sempre stato quello di partecipare, con visione e strategie di lungo periodo, allo sviluppo del territorio in cui è radicata. I suoi amministratori debbono essere, oltre che capaci, competenti e prudenti, anche organici a quegli obiettivi interpretando un ruolo di tutori di risparmiatori e prenditori nell’interesse degli equilibri economici e finanziari da assicurare ai loro azionisti. Ma anche coerenti con le esigenze, o almeno avvertiti e rispettosi, della politica economica nazionale.

Tale impostazione, forse prevalente quando le banche erano sostanzialmente pubbliche ed operavano nelle economie miste del secondo dopoguerra, era già in corso di appannamento dopo le privatizzazioni degli anni ‘90 e man mano che la “public company” ha preso il sopravvento [32] e le banche maggiori hanno esteso la loro operatività ai mercati globali o comunque ne sono state condizionate più che in passato.

Oggi non si può pretendere che gli esponenti dei fondi che amministrano le banche commerciali siano suggestionati da altri sentimenti se non quelli della valorizzazione dei loro investimenti che si realizza anche, se non soprattutto, con la capacità di ricercare in ogni momento la possibilità di intervenire laddove si prevede più alta la profittabilità nel tempo più breve possibile.

Questa impostazione è nella logica dei fondi perché il loro successo (e quindi la soddisfazione dei loro sottoscrittori) sta nella redditività tempo per tempo che non è sempre perseguibile con impegni di lunga durata se non altro per la velocità con cui i sistemi economici moderni si evolvono. Il che può far temere che i manager siano indotti più che mai ad operare perché il valore delle azioni delle loro banche sia di massima soddisfazione per i nuovi soci, ma anche che le aziende bancarie possano essere esposte ai comportamenti erratici dei fondi-soci che condizionano i mercati mobiliari. Soci geneticamente meno “pazienti” dei precedenti.

Perseguire strategie di lungo periodo, tipiche dell’economia capitalista basata sul capitale fisico e sulla produzione di beni, può apparire anacronistico in un mercato finanziario globale dove la redditività è frutto prevalentemente di speculazione, per sua natura impostata sul breve periodo e sempre pronta a disinvestire a fronte di nuove opportunità di guadagno in altri settori ed in altri luoghi.

La banca ordinaria, per sua natura - oltre ad essere una struttura organizzativa complessa e “appesantita” dalle regole più simile all’industria alla cui espansione ha partecipato e della cui espansione si è giovata per raggiungere le dimensioni che conosciamo - ha (o dovrebbe continuare ad avere) un forte radicamento territoriale per conquistare la fiducia dei risparmiatori e acquisire la conoscenza del tessuto economico in cui operare in una strategia di lungo termine.

I fondi speculativi operano opportunisticamente sul piano globale e sono tanto più efficienti quanto più sono in grado di spaziare tra settori economici diversificati anche geograficamente.

Di fronte a NBFIs che con poche decine di risorse gestiscono enormi quantità di capitale liquido senza regole né vincoli, la capacità competitiva di una banca è ben modesta sia sul lato della raccolta che su quella degli impieghi profittevoli[33].

È anche vero, tuttavia, che della banca commerciale strictu sensu non si può fare a meno specie in economie, come quella italiana, caratterizzate dalla preponderanza di PMI difficilmente interessanti per i grandi fondi di investimento.

D’altra parte il sistema bancario italiano, dopo aver perso le competenze specialistiche di settore, ben radicate ed efficienti negli istituti di credito speciale, ha esasperato per i primi vent’anni dalle privatizzazioni degli anni ‘90 le sue funzioni commerciali utilizzando al meglio le proprie reti (significativamente cresciute con il superamento della logica del “Piano sportelli” legata alla vigilanza intrusiva ex lege del ‘36) nell’intento di vendere prodotti bancari, i più svariati, ad un’utenza che si andava popolarizzando ed espandendo.

La “vocazione commerciale” ha prodotto un impoverimento culturale e professionale del personale bancario utilizzato più per vendere che per presidiare il territorio comprendendone le esigenze [34].

Esaurita questa fase con la crisi del 2008 ed intervenuta la digitalizzazione dei servizi con la diffusione anche tra gli utenti di Internet, le banche hanno fatto i conti con i costi non più sostenibili delle reti, riducendole [35] e procedendo ad aggregazioni tra loro [36] oltre che ad alleggerirsi delle risorse eccedentarie (ridottesi del 23% nell’ultimo ventennio).

Quando poi le banche si sono alleggerite degli Npl, hanno rinunciato anche ai loro uffici recupero crediti esternalizzandone le funzioni, prima, e cedendo intere strutture dedicate (personale compreso) ai nuovi servicer, poi [37].

La tendenza ad esternalizzarne la gestione o addirittura a cedere anche gli UTP sta progressivamente allontanando dalle banche le competenze dei professionisti del credito che erano tanto più capaci proprio perché conoscevano e praticavano le fasi patologiche del rapporto creditizio [38].

Si potrebbe pensare che sia rimasta alle banche almeno la “coltivazione” delle competenze di monitoraggio e di erogazione, ma anche qui il ridimensionamento di “culture” e personale è funzione diretta delle procedure di affidamento basate su algoritmi e scoring e, tra non molto, sull’ intelligenza artificiale [39].

Con una immagine estremamente semplificata, addirittura semplicistica, si può descrivere la situazione come caratterizzata da uno schema in cui i fondi stanno progressivamente fagocitando il sistema bancario utilizzandone le reti commerciali per la vendita delle quote, poi arricchendosi con l’acquisto a sconto dei loro Npls, quindi appropriandosene attraverso la ricapitalizzazione [40] resa necessaria dalle perdite provocate proprio dalla cessione di Npls [41].

Questa descrizione, arditamente semplificata, non è generalizzata e non è generalizzabile, ma sufficientemente estesa da poterla considerare un fenomeno o, quantomeno, una tendenza vigorosa.

Se si considera che le cause della crisi del 2008 si fanno risalire, tra l’altro, agli eccessi speculativi dei fondi anglosassoni che infettarono il sistema bancario il quale non fu in grado di tenersi lontano da tali rischi, ma anzi aveva alimentato indirettamente la speculazione adottando le logiche dell’ “origination and distribute”, rapidamente trasformatesi in “origination to distribute[42], il processo storico che abbiamo descritto può apparire una “nemesi”.

 

 

 

 

4. Banche ed NBFIs, tra concorrenza e commistione.

L’aspetto che andrebbe ancor più profondamente indagato riguarda l’interrelazione esistente tra sistema bancario e NBFIs anche sotto il profilo della reciprocità dei rapporti finanziari esistenti tra i due sistemi.

Una interrelazione che, anticipando le conclusioni, potrebbe innescare un meccanismo di propagazione dei rischi non facilmente prevedibile e, se deflagrato in una crisi, difficile da affrontare nonostante la iper regolamentazione del sistema bancario che si confronta con la pressoché assoluta mancanza di regole del mondo delle NBFIs.

Abbiamo accennato alla pregressa disattenzione dei Regulator circa il fenomeno della crescita delle NBFIs. Da qualche anno invece la situazione è cambiata.

Gita Gopinath, già capo economista del FMI, a Davos nel gennaio del 2023, sottolineava che “il settore [delle NBFIs] è una gigantesca e fortemente interconnessa struttura di cui non si conosce la natura nella reale dimensione-si stima sia oltre tre volte più grande del sistema bancario tradizionale[43].

Nicola Cetorelli, della Federal Reserve Bank of New York, in un prezioso intervento al convegno AEDBF di Milano del 7 novembre 2023, metteva in evidenza come la “crescita spettacolare delle NBFIs stesse prendendo il predominio sulle banche dopo la crisi finanziaria globale del 2008”. La sua tesi è che il fenomeno sia dovuto a considerazioni di efficienza: “i tipi ‘migliori’ di istituzioni sono quelli che crescono e guadagnano nella fornitura di servizi di intermediazione[44].

Il rischio non è insito nella sostituzione delle NBFIs alle banche, ma nella interconnessione tra loro che crea una dipendenza reciproca nonostante abbiano funzioni operative diverse. Le banche raccolgono risparmio retail, in parte garantito dai back-stop, e tendono a stabilizzare il mercato ed i tassi di interesse come propagatori della politica monetaria delle banche centrali, oltre a produrre moneta bancaria.

Le NBFIs indirizzano il risparmio, che non possono raccogliere direttamente se non attraverso la sottoscrizione di quote e l’emissione di titoli, verso investimenti speculativi anche di breve periodo in una logica di efficientamento della sua allocazione.

Tuttavia negli USA la crescita dei prestiti delle banche alle NBFIs è stata del 900% tra il 2010 ed il 2023 (da 10 a 900 miliardi di dollari) mentre i prestiti tra banche si sono contemporaneamente ridotti a meno di 500 miliardi.

La preoccupazione è che, come nella crisi del 2008, i rischi esternalizzati verso le NBFIs [45]o originati da queste tornino alle banche. Questo rischio è frutto della deregulation avviata negli anni ‘80 quando le autorità di regolamentazione statunitensi avevano ampliato in modo significativo la definizione di “attività consentite“. Tuttavia, sostiene Cetorelli, “se la regolamentazione ha interrotto la connessione organizzativa tra banche e NBFIs, ha anche prodotto l’espansione della connessione di finanziamento.”

Il punto è che negli USA, molto più che in Europa, la visione neoliberista è difficile da superare. Già nel 2018 i Regulator avevano introdotto significative modifiche alla “Volcker-rule” voluta da Barack Obama per evitare speculazioni finanziarie troppo rischiose da parte delle grandi banche che consisteva nel tornare al divieto di attività di investiment bank per le banche commerciali [46].

Con la presidenza Trump sono state nuovamente allentate le regole per banche ed istituti finanziari che avevano visto restringersi appunto le “attività consentite” previste dalla legge “Dodd-Frank” nata nel 2012 come tentativo di ovviare ai guasti della crisi del 2008.

Alcuni divieti sono caduti. Le banche commerciali sono tornate, sia pur con limitazioni, sul mercato dei derivati, possono fare trading, investire in hedge fund e private equity. Non è ancora il pieno ritorno alla banca universale, ma, grazie all’interconnessione con NBFIs, i rischi paventati assumono gravità comparabili.

 

5. In Europa

Qui, dove l’approccio dell’Autorità regolamentare e politica è sempre stato più restrittivo specie dopo la crisi del 2008 (regole sul capitale, Basilea 3 e 4, MIFID2, PSD2, ecc.), tuttavia la situazione non sembra essere meno rischiosa.

Anche nell’Area euro la crescita delle NBFIs ha superato quella del settore bancario. Lo attesta uno studio di vari Autori presentato al citato convegno dell’ AEDBF del 7 novembre 2023 a Milano, nel quale si riportano dati di notevole interesse [47].

Le esposizioni delle banche verso NBFIs rappresentano in media il 9% delle Significant Institutions (con attivi oltre i 30 mld di euro) e sono costituite da prestiti erogati prevalentemente dalle grandi banche sistemiche. Ma le passività sono maggiori delle attività. Circostanza di rilievo è che molte NBFIs fanno parte dei gruppi bancari che le sostengono finanziariamente e che detengono la loro liquidità. L’interconnessione è anche formalmente evidente.

I depositi del NBFIs sono però particolarmente vulnerabili ai cambiamenti del mercato; la maggior parte di tali depositi sono “a vista” e non operativi, il che contribuisce a rappresentarli come il “principale veicolo per trasmettere shock di liquidità dal settore NBFIs a quello bancario[48].

Anche la circostanza che le NBFIs siano titolari di finanziamenti “pronti contro termine”, di solito overnight, ne accentua il ruolo di potenziali trasmettitori di shock. Stesse preoccupazioni nascono dalla interconnessione tra NBFIs e banche a proposito di titoli di debito bancari e derivati.

Conclude lo studio citato: “Un piccolo gruppo di banche di rilevanza sistemica è fondamentale per garantire il buon finanziamento di parti del settore NBFIs. Se uno o un gruppo di tali enti dovesse trovarsi in difficoltà, vi sarebbero probabilmente conseguenze sostanziali in termini di capacità di parti significative del settore NBFIs di gestire la liquidità e i rischi di mercato. Allo stesso tempo le difficoltà nel settore NBFIs probabilmente colpirebbero queste banche chiave in modo più significativo rispetto alle banche più piccole”. Un buon motivo per salvaguardare la biodiversità anche dimensionale del sistema bancario [49].

Questa preoccupazione è ben rappresentata (finalmente) in alcuni documenti della BCE [50] dove sono definiti “considerevoli“ le esposizioni di asset delle banche verso le NBFIs tanto che qualsiasi turbolenza nel settore potrebbe colpire “in modo sproporzionato“ le grandi banche sistemiche. Secondo la BCE, le prime cinque banche rappresentano il 50% delle esposizioni complessive di prestiti e titoli e le prime 13 banche oltre l’80%. Non di meno il finanziamento delle banche dalle NBFIs è “altamente concentrato” sia dal lato del mutuatario che da quello del prestatore [51].

 

6. Le prospettive

Per Andrea Enria, allora (giugno 2023) presidente del Consiglio di sorveglianza della BCE, “l’elevata leva finanziaria e la trasformazione aggressiva della scadenza e della liquidità presso le NBFIs possono essere fonte di instabilità finanziaria”, rischi che al momento potrebbero “persistere sotto la superficie”. La preoccupazione è dovuta alla circostanza che le NBFIs svolgono un ruolo sempre più importante nel finanziamento dell’economia reale e nella gestione del risparmio di famiglie e corporazioni.

Dal 2008 le NBFIs hanno raddoppiato la loro dimensione di intervento passando da 15 trilioni a 31 trilioni di euro. Il credito concesso dal settore alle società non finanziarie dell’Area euro è aumentato dal 15% del 2008 al 26% del 2022, pari a circa l’80% di quello del settore bancario [52].

Secondo il FSB, nonostante che l’aumento dei tassi e il rallentamento delle attività economiche debbano essere seriamente considerati come fattori critici potenziali, i rischi maggiori vengono proprio dalle NBFIs che gestirebbero un debito complessivo di almeno 48.000 miliardi di dollari (circa il Pil mondiale, ma secondo alcune stime anche di più). Il recente aumento dei tassi di interesse potrebbe mettere in difficoltà hedge fund che hanno investito in operazioni rischiose a leva con tassi originariamente bassi, ma ora in crescita.

Klaas Knot, presidente del FSB, sostiene [53]: ”se non gestita adeguatamente, la leva finanziaria può amplificare lo stress in caso di shock e portare a perturbazioni sistemiche come dimostrato dalle recenti tensioni nei mercati delle materie prime ed obbligazionario”.

È evidente da quanto precede che, se le banche sono fragili intrinsecamente, questa loro condizione genetica è ora accentuata dalla interconnessione con il mondo delle NBFIs che a loro volta rischiano di avere minore capacità di resilienza delle banche stesse.

L’interconnessione tra soggetti comunque destinati ad operare quali concorrenti sui mercati finanziari è quindi un elemento di instabilità sistemica accentuata dalla concorrenza del Fintech e dalle ‘esondazioni’ in campo finanziario della cosiddetta “GAFAM” (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), per non parlare degli operatori cinesi e indiani ancora per un po’ sulla porta, almeno in Occidente.

 

7. Conclusioni

Nel corso dell’ultimo secolo abbiamo assistito a trasformazioni molto significative dei sistemi bancari occidentali scandite dalle varie crisi succedutesi nel tempo. Una sorta di moto pendolare tra il minimo ed il massimo della regolamentazione.

All’inizio del secolo scorso il laissez faire connotava banche private libere di compiere qualunque operazione, anche le più rischiose: la banca universale.

Il primo dopo guerra e la crisi del ‘29 hanno imposto al sistema bancario - in alcuni casi, come in Italia, prevalentemente pubblico - regole più stringenti per favorire il sano finanziamento dell’economia reale e la tutela del risparmio.

Regole ispirate alla logica della prudente gestione del buon banchiere, vigilato da organi intrusivi e condizionanti. Quasi un “sistema amministrato”. Questo periodo, conclusosi con gli anni ‘80, è coinciso con il cosiddetto “periodo d’oro del capitalismo” ed ha consentito alle banche di svilupparsi dimensionalmente e far crescere una cultura del credito solida ed efficace, anche se forse non sempre efficiente. La fiducia nelle banche da parte dei risparmiatori era elevata e incondizionata nonostante non siano mancati scandali e disavventure.

Con il rigurgito neoliberista degli anni ‘80 è tornata di moda, specie negli Stati Uniti, la banca universale spesso “vestita” da public company, dedita alla crescita del valore dell’azienda nell’interesse degli azionisti e del management gratificato da alti stipendi e bonus altrettanto elevati[54].

In questa fase l’appetito al rischio dei banchieri era aumentato in proporzione diretta alla deregulation ed inversa all’attenzione prestata da una vigilanza divenuta prudenziale, quindi meno prescrittiva che in precedenza.

Contemporaneamente crescevano le NBFIs dalle quali ci si attendeva un efficientamento del mercato se non altro perché, esaltando le caratteristiche dei sistemi mercatocentrici, gli operatori avrebbero potuto avere punti di vista più trasparenti sull’andamento delle imprese finanziate e delle operazioni speculative grazie all’azione quotidiana di “bond vigilantes“, pronti a cogliere gli interventi più redditizi ed a far abbandonare quelli destinati al default, rivestendo un ruolo sicuramente più efficiente di quello delle banche ordinarie, meno flessibili ed efficienti anche nel disimpegnarsi dal rapporto creditizio in peggioramento.

In questa fase, però, si è creata ed estesa l’interconnessione tra banche e NBFIs cui le prime trasferivano i rischi per distribuirne il peso su una platea vasta di sottoscrittori senza farne carico esclusivamente al patrimonio bancario.

L’“avidità“ dei banchieri, attratti dagli alti rendimenti delle NBFIs, li ha portati a finanziarne ed a sottoscriverne gli attivi, riportando dentro le banche i rischi prima esternalizzati oltre a quelli originati autonomamente dalle NBFIs stesse [55].

Quando nel 2008 la bolla speculativa è esplosa, chi ne ha fatto le spese sono state proprio le banche che hanno costretto gli Stati ad intervenire per fermare la deriva sistemica [56]. Da allora legislatori e Regulator hanno sancito che la banca universale fosse troppo rischiosa per continuare a tollerarne gli azzardi ed hanno introdotto sempre maggiori regole per presidiare i rischi ed evitare effetti sistemici non riducibili.

Ciononostante, come abbiamo scritto, il rapporto – divenuto incestuoso - tra sistema bancario ed NBFIs non si è risolto. Anzi, oggi abbiamo banche dominate dai fondi e NBFIs legate al sistema bancario da relazioni finanziarie eccessivamente compromettenti.

Tutto questo in un mercato dove, anche grazie alla digitalizzazione, la circolazione globale dei capitali ha assunto velocità fino a pochi anni fa impensabili e soggetti, non solo non bancari, ma addirittura non finanziari quali i grandi e potenti “detentori” di Internet, competono con il mondo della finanza senza regole e con tecnologie ben più avanzate ed invasive di quelle che anche la più avanzata delle banche possa permettersi.

Il quadro complessivo è di un grande disordine, dalle prospettive incerte e non fauste. E’ evidente che per riportare ordine e prospettive c’è bisogno di adottare regole condivise e sostenibili.

Studiosi della Banca d’Italia, già nel 2017 [57], trattando di Shadow banking, sostenevano che “attraverso un ampio e coerente perimetro regolamentare, basato sul principio della regolamentazione bancaria equivalente, è possibile istituire un quadro prudenziale equilibrato, ove sia la regolamentazione sulle banche sia quella sugli intermediari non bancari contribuiscano a ridurre i rischi sistemici e di arbitraggio normativo.”

A seguire, nel 2022, la BCE pubblicava la sua proposta finale di regolamentazione (RTS) che specifica i criteri per identificare i soggetti del sistema bancario ombra ai fini delle segnalazioni di vigilanza riguardo lvolta un documento con le medesime finalità, mentre nel settembre del 2023 la Commissione europea ha adottato [58] i nuovi RTS per la segnalazione dell’esposizione delle banche verso NBFIs.

Si tratta di primi, timidi, passi che dovrebbero intercettare in tempo utile una deriva del sistema nei confronti della quale potremmo trovarci impreparati se una regolamentazione stringente, condivisa ed univoca a livello globale non venisse tempestivamente adottata per ricondurre banche ordinarie e NBFIs ad operare nei rispettivi campi d’intervento senza rischi di commistioni pericolose.

Non siamo ottimisti.

Della necessità dell’introduzione di norme valide a livello globale se ne parla sin dal 1992 quando in sede ONU fu istituita la Commissione sul Governo Globale (CGG) che, nel 1995, constatava, mestamente: “in assenza di misure adeguate per assicurare una governance economica globale, [la globalizzazione] ha reso l’economia mondiale più instabile, i paesi sono diventati più vulnerabili agli shocks finanziari, molti sono stati emarginati, e il divario tra i più ricchi e più poveri si è ampliato. …”.[59]

Un monito evidentemente non ascoltato.



[1] Per una disamina sintetica, ma completa, della rischiosità della banca v. M. AFFINITO, “L’Europa delle banche”, Editori Laterza, 2019.

[2] In proposito, tra gli altri: F. CESARINI, G. GOBBI, “Finanza e credito in Italia”, Il Mulino, 2008.

[3] Crisi la cui origine è stata attribuita ai comportamenti delle banche, libere da vincoli, che avevano impegnato in parte considerevole le loro disponibilità, nascenti dai depositi dei risparmiatori, in interventi nel capitale di rischio di imprese, spesso loro clienti, entrate in default anche per le vicende belliche ovvero trasformando in partecipazioni azionarie le loro esposizioni verso le medesime.

[4] Il Glass-Steagall Act, noto anche come Banking Act, comportò la divisione tra commercial banks che raccoglievano i depositi ed Investment banks che potevano operare liberamente su titoli e partecipazioni societarie, ma non potevano raccogliere depositi.

[5] Altra conseguenza fu che le banche divennero prevalentemente pubbliche.

[6] Ex pluribus, per i vari punti di vista sulla regolamentazione bancaria v. “ Il Tramonto della banca universale?”, M. RISPOLI FARINA, M. PORZIO (a cura di), Edizioni Scientifiche Italiane, 2017.

[7] Nel 1999fu emanato il “ Financial service modernization Act che toglieva le ultime restrizioni alla fusione tra banche commerciali e banche d’affari.

[8] Legge 30 luglio 1990, n. 218.

[9] D. Lgs. 1mo settembre 1993, n. 385.

[10] Con la Riforma Amato venne meno anche la distinzione delle banche in “categorie” che ne caratterizzavano scopi e funzionalità (banche di interesse nazionale, istituti di diritto pubblico, casse di risparmio, ecc.). Il processo di omogeneizzazione si è completato intorno metà dello scorso decennio con la riforma delle banche popolari e quella delle banche di credito cooperativo.

[11] Ex pluribus, “Contro la banca universale e la contabilità di Stato bancaria”, F.MERUSI, 2012.

[12] Atto Senato, n. 1085 XVII Legislatura, Senatrice De Pin, 7 ottobre 2013.

[13] In “Questioni di economia e finanza”, n. 164 dell’ 11 giugno 2013, Banca d’Italia, S. MARIANTONIO, A. TISENO scrivono.”Il panorama finanziario e regolamentare emerso in seguito alla crisi è profondamente mutato e pone ulteriori sfide al modello di banca universale. Molti rimedi proposti alla crisi finanziaria globale sembrano spingere le banche verso il ritorno ad un modello maggiormente conservatore.”

[14] Per il salvataggio delle banche dalla crisi globale del 2008, gli Stati hanno impegnato grandi quantità di risorse finanziarie. V. M. AFFINITO, op. cit., p. 126.

[15] M. RISPOLI FARINA, M. PORZIO (a cura di), op. cit., p.181.

[16] Per una ampia disamina del fenomeno v. “Tecnofeudalesimo”, Y. VAROUFAKIS, La Nave di Teseo, 2023.

[17] Già nel 2011 il FSB in un proprio Report dedicato (riportato in un doc. Consob) riferiva : “ Si trattava di un ‘mondo’ che ha conosciuto una crescita sostenuta passando da un valore delle transazioni complessivamente realizzate di 26 mila mld di $ nel 2002 a quasi 67 mila mld di $ nel 2011, pari al 111% del PIL mondiale e a circa metà degli asset dell’intero sistema bancario”. Sempre il FSB in un Report del 2020 “Global monitoring report on Non-bank Financial intermediation 2019” riferiva che l’intermediazione del settore ammontava a 51,6 mila mld di $.

[18] Y. VAROUFAKIS, op. cit.

[19] Un fenomeno noto, ma poco indagato, che caratterizza i sistemi bancari contemporanei è quello che Francesco Cesarini definisce l’ “istinto del gregge”. Le banche, infatti, tendono ad imitarsi vicendevolmente sia nei prodotti che nei comportamenti, talchè, se una di loro propone al mercato un nuovo prodotto, nel giro di poco tempo la maggior parte delle altre la imita. Questa omologazione, oltre a non favorire la concorrenzialità nel sistema, concorrenzialità premiata dall’offerta di prodotti distintivi, produce spesso effetti non positivi. Il primo è che la competizione si scarica essenzialmente sul prezzo del prodotto condizionando il margine economico di tutti gli attori. Il secondo è che l’espansione dell’offerta può determinare fenomeni controproducenti non essendo in grado il mercato di assorbirla per intero. Analogamente accade per i business model in relazione ai quali l’omologazione è anche la conseguenza del ricorso continuo alle medesime società di consulenza (v. infra nota 38 ). Il fenomeno della progressiva disintermediazione ne è un esempio. Da un certo momento in poi le banche lo hanno considerato ineluttabile e quindi nessuna si è mossa per contrastarlo aggravandone la diffusione e le conseguenze.

[20] D. CRIVELLARI, “In lode dei fondi speculativi: una affermazione o una domanda?”, Gli Stati generali.it, 25 giugno 2019.

[21] V. L. SCIPIONE, “ Le banche too big to fail tra ‘pericolose’ metamorfosi’ e ‘ tentazioni’ di ritorno all’antico”, in “Il tramonto della banca universale?”, op. cit., pp. 302 e ss.

[22] V. “Mercato delle transazioni NPL e industria del credito deteriorato”, Banca IFIS, settembre 2023; D. CRIVELLARI, “Crediti deteriorati: un fenomeno endemico. Le nuove proposte in Parlamento”, in “Scritti in onore di Gino Cavalli”, ANTONIO CAIAFA (a cura di), Nuova editrice universitaria, 2023.

[23] V.: R. NAPOLETANO, “Il cigno nero e il cavaliere bianco”, La Nave di Teseo, 2017, p. 287 e ss.; D. CRIVELLARI, “Piano di azione della Commissione europea sugli NPLs: luci ed ombre”, Master legal service, 11 gennaio 2021.

[24] Sull’andamento delle operazioni di cartolarizzazioni assistite da GACS v. SENATO DELLA REPUBBLICA, “Relazione sull’andamento delle operazioni assistite dalla garanzia dello Stato sulla cartolarizzazione delle sofferenze e sugli obiettivi di performance collegati”, Doc.CXIV,n’1, 17 ottobre 2023; D. CRIVELLARI,” Gacs tra luci ed ombre. Lo stato dell’arte della garanzia offerto dal Tesoro”, BeBankers, 21/12/2023.

[25] D. CRIVELLARI, “NPE 2022: il sorpasso dei fondi”, Master legal service, 1mo febbraio 2021.

[26] V. A.L.FISCHETTO,I.GUIDA, A.RENDINA,G.SANTINI, M.SCOTTO DI CARLO, “Tassi di recupero delle sofferenze nel 2020”, in Note di Stabilità Finanziaria, n.27, nov 2021.

[27] F. CESARINI, Le conseguenze economiche e strutturali delle cessioni massive dei crediti deteriorati”, Bancaria, a.75, vol. 11, novembre 2019, pp. 6-11; DINO CRIVELLARI, “L’intermediario bancario specializzato in NPL”, in “I crediti deteriorati nelle banche italiane”, FRANCESCO CESARINI (a cura di), G.Giappichelli editore, novembre 2017.

[28] D. CRIVELLARI,” Banche e sistema bancario ombra”, Glistatigenerali.it, 7 maggio 2018.

[29] C. SFORZA FOGLIANI in “Siamo molto popolari”, Rubbettino, 2017, riporta da pag. 83 a p. 104 tabelle illustrative delle compagini azionarie delle principali banche italiane dalle quali risulta la prevalenza schiacciante di fondi e banche di investimento esteri.

[30] Fondazioni, enti privati, istituzioni ecc. azionisti “pazienti”.

[31] È noto che, per effetto del rialzo dei tassi, le banche hanno realizzato nel 2022 e nel 2023 profitti cospicui, ben superiori a quelli degli anni precedenti. Tali risultati, in molti casi, sono stati anche frutto dei minori accantonamenti sui rischi di credito. A fronte di questa situazione straordinaria il Governo italiano nell’estate del 2023 ha emanato una normativa per una tassazione temporanea dei cd ‘extraprofitti’, peraltro di scarsa efficacia. Intanto, SCOPE RATING ritiene che: “ la redditività del settore abbia raggiunto il suo picco nel 2023 e che inizierà a diminuire nel 2024 e nel 2025 a causa di una normalizzazione dei margini di interesse netti e di un moderato aumento del rischio di credito”.

[32] Una interessante disamina storica, ben dettagliata, è svolta da P. MODIANO e M. ONADO in “Illusioni perdute”, Il Mulino, 2023, pp. 165 e ss.

[33] J. Mc MILLAN, “ La fine delle banche”, Mondadori, 2014, ipotizza che con l’era digitale si possa considerare l’eventualità che le banche siano destinate ad essere sostituite da intermediari più evoluti e redditizi.

[34] Ricordiamo l’acuta osservazione di F. CESARINI che in “ Scritti in onore di A.Santini” argomentava sull’abbandono del concetto di ‘Servizi bancari’ sostituito da quello di ‘Prodotti bancari’ nel momento in cui il ‘Sistema’ bancario ha cominciato ad essere denominato ‘ Industria bancaria’. Era già evidente la mutazione.

[35] Nel 2012 in Italia gli sportelli bancari operativi erano 32.881; a fine 2022 si erano ridotti a 20.986. Oggi si lamenta che circa tremila comuni non siano più serviti da sportelli bancari e che potrebbe essere opportuno riempire di ATM le farmacie, sicuramente più diffuse, ma anche le reti ATM sono in contrazione grazie alla diffusione dei pagamenti elettronici.

[36] La concentrazione delle banche ha radici antiche. Se ne parlava già diffusamente in “Banche e finanza nel futuro: Europa, Stati Uniti, Asia”, M. DE CECCO, G. NARDOZZI, Bancaria editrice, 2006.Tra il 1998 ed il 2020 il loro numero è più che dimezzato: da 900 a circa 400.

[37] Anche su questo fenomeno l ‘istinto del gregge’( v. Nota 19) ha funzionato. Oggi gran parte delle banche italiane, che a cavallo del secolo avevano ottimizzato le loro funzioni di recupero crediti esternalizzandole a proprie società dedicate e specializzate, hanno abdicato completamente cedendo quelle entità - alcune delle quali di valore riconosciuto a livello internazionale - ai fondi cessionari delle loro sofferenze. I risultati non sono tutti commendevoli.

[38] Non è un caso che le banche negli ultimi venti anni abbiano sostituito risorse interne con personale proveniente dalle società di consulenza allocato in ruoli elevati, se non apicali. Le cd. BIG THREE hanno avuto ed hanno tuttora decisive responsabilità nella adozione di modelli organizzativi coerenti con le vicende di cui ci stiamo occupando. In proposito: M. MAZZUCATO, R. COLLINGTON, “Il grande imbroglio”, Editori Laterza, 2023.

[39] Il che comporterà probabilmente, anche qui, la omologazione dei comportamenti creditizi con conseguenze non del tutto positive sia per la concorrenzialità delle banche che per l’economia reale, ed in particolare per le PMI le cui singolarità mal si adattano a meccanismi valutativi basati sui “big data”.

[40] Per una visione complessiva delle problematiche sulle ricapitalizzazioni: M. CARDI, “Ricapitalizzazioni e garanzie nelle crisi bancarie”, G.Giappichelli Editore, 2017.

[41] Caso paradigmatico è quello di Unicredit che, a metà del decennio scorso, effettuò una gigantesca cessione massiva di NPL (17 miliardi di GBV venduti a prezzi particolarmente contenuti) seguita da una altrettanto gigantesca ricapitalizzazione (13 miliardi) chiusa con successo grazie all’intervento dei fondi di investimento esteri che modificò la base azionaria della banca ed ebbe riflessi anche sulla composizione del Consiglio di amministrazione.

[42] Tra i moltissimi testi sulla crisi si segnala: A. TOOZE, “ Lo schianto”, Mondadori, 2018, in particolare da pag. 56 in poi, ma anche: I. VISCO, “Anni difficili”, Il Mulino, 2018 e M. ONADO, “Alla ricerca della banca perduta”, Il Mulino, 2017.

[43] V. “Così cambia il sistema bancario mondiale”, C. CURI, L. M.MURGIA, M. MURGIA, La Voce.info, 27 aprile 2023.

[44] Su questo tema v. anche Y. VAROUFAKIS, op. cit.

[45] Per esempio con le cessioni massive di attività tramite cartolarizzazioni.V.E.BECCALLI, V.MASSIAH, “Gestione bancaria avanzata”, Pearson, 2023, a pag.148 riferiscono:” allo scoppio della crisi finanziaria del 2007, la gran parte dei crediti erogati (ben l’86% ei prestiti subprime e l’80% dei prestiti conforming, ossia dei mutui rispondenti a determinati standard fissati dalle Government Sponsored Enterprises) era oggetto di cartolarizzazione.

[46] E’ nota la frase ad effetto d Paul A. Volc ker, incaricato da Obama di intervenire per il contenimento della banca universale : “il lavoro in banca deve tornare ad essere noioso

[47] Documento non definitivo redatto da E. FRANCESCHI, M. GRODZICKI, B. KAGERER,C. KAUFMANN, F. LENOCI,L. MINGARELLI, C. PANCARO, R. SENNER dal titolo “Caratteristiche speciali”.

[48] Ibidem p. 5.

[49] E. BECCALLI, “Il valore di biodiversità, credito di relazione e prossimità del settore bancario”, Bancaria, aprile 2023. Si vedano i diversi altri scritti dell’Autrice su questo argomento. D. CRIVELLARI, “L’insegnamento di Raffele Mattioli e l’eclissi delle banche di prossimità. Un’ipotesi di compromesso”, Banca Impresa Società, Il Mulino, 4/2022.

[50] ECB, Non-bank financial intermediation in the euro area: implications for monetary policy transmission and key vulnerabilities, 2022.

[51]BCE, Enria: rischi da banche ombra potrebbero intensificarsi con rialzo tassi”, La Stampa, 20 giugno 2023.

[52] A. BARANES, “Tassi, hedge fund e shadow banking: perché il sistema finanziario rischia”. 25 settembre 2023.

[53] Ibidem.

[54] M. ONADO, op.cit. p.31.

[55] V. A.TOOZE, op. cit. p.67 e ss.

[56] V. Nota 14.

[57]C. GOLA, M. BURRONI, F. COLUMBA, A. ILARI, G.NUZZO, O. PANZARINO, “Shadow banking fuori dall’ombra: l’intermediazione non bancaria ed il quadro regolamentare italiano” in Quaderni di Economia e Finanza, Banca d’Italia, febbraio 2017.

[58] Commissione europea, “Non-bank financial institutions: assesment of their impact on stability of financial system.”

[59] L. GALLINO, “Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi”, Einaudi, 2011.