Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Fragilità della banca e crisi d’impresa*


Dino Crivellari
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Fragilità della banca e crisi d’impresa*


Data pubblicazione
07 luglio 2025

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Dino Crivellari

Sommario: 1. La banca è fragile, la più fragile fra le imprese; 2. Dal macro al micro.


1.     La banca è fragile, la più fragile fra le imprese.

L’art. 10 del TUB definisce l’attività bancaria come l’esercizio congiunto della raccolta del risparmio tra il pubblico e l’erogazione del credito.

Quindi perché la banca faccia la banca deve contemporaneamente raccogliere risparmio ed erogare credito. Questa è un’attività che per la sua delicatezza e rilevanza è riservata dalla legge alle imprese autorizzate dalla Banca d’Italia o dalla BCE, a seconda dei casi.

La banca è definita tecnicamente un intermediario di denaro tra risparmiatori e prenditori.

Ma possiamo anche dire che:

-la banca vende propri debiti ai risparmiatori (acquista denaro pagando un interesse);

-la banca compra debiti dai suoi clienti (vende denaro percependo un interesse),

quindi la banca intermedia debiti.

Ancora in altre parole:

-la banca compra tempo dai risparmiatori;

-la banca vende tempo ai clienti prenditori.

La banca raccoglie risparmio, da restituire a vista o a termine, ed eroga crediti che le verranno restituiti a vista o a termine. Quindi la banca intermedia tempo cioè trasforma scadenze.

Perché questa attività possa avvenire bisogna che i risparmiatori si fidino della banca alla quale consegnano i propri soldi e che la banca si fidi dei suoi clienti ai quali consegna i soldi dei risparmiatori (ovvero moneta bancaria creata dal nulla ,ma questo è un altro argomento).

Questa attività di intermediazione della fiducia rende la banca fragile, anche se è grande , potente e redditizia, indipendentemente dalla sua dimensione.

Vediamo perché.

Intermediare tempo e fiducia, che è il compito del buonbanchiere, è un mestiere difficile perché la fiducia fa fatica a collaborare con il tempo che passa .

La fiducia di cui godo oggi potrebbe perdersi con il tempo perché le cose cambiano. La fiducia che attribuisco oggi a qualcuno potrebbe venir meno domani perché le cose cambiano.

La banca vive in questa incertezza che si chiama rischio.

Il rischio è connaturato all’attività di qualunque impresa. Ma un’impresa manifatturiera o di servizi concentra il rischio sulla sua attività propria, che si presuppone conosca al meglio.

La banca, invece, si fa contemporaneamente carico del rischio di impresa di centinaia di migliaia di imprese cui ha dato fiducia, senza gestirle e quindi senza conoscerne le vicende tempo per tempo. Una volta erogato il credito naviga quasi alla cieca. Le revisioni periodiche delle posizioni creditizie lavorano ex post.

D’altra parte, la banca può permettersi di dare fiducia (cioè di fare credito) se ottiene e mantiene la fiducia dei risparmiatori che le prestano denaro.

Tutto questo, innestato con la variabile tempo, fa sì che la banca assuma una quantità di rischio che nessun’altra impresa concentra in misura così elevata.

Un rischio doppio :

-       sul lato del passivo, perché i risparmiatori potrebbero chiedere la restituzione dei loro depositi;

-       sul lato dell’attivo, perché i debitori potrebbero non restituire i prestiti.

Se una banca sbaglia a dare fiducia, quel cliente non restituirà il denaro prestatogli e la banca avrà una sofferenza. Finché le sofferenze sono poche si possono gestire e il patrimonio della banca assicurerà che i risparmiatori depositanti non ne abbiano a soffrire a loro volta.

Se invece le sofferenze aumentano e i risparmiatori perdono fiducia nella banca la situazione è molto più grave e pericolosa.

C’è un film del 1946 con James Stewart e Donna Read, “La vita è meravigliosa“ di Frank Capra ,dove si vedono le sconvolgenti scene del cosiddetto Bank Run, cioè la corsa agli sportelli. I risparmiatori, impauriti dalle notizie non positive sulla loro banca, corrono precipitosamente a ritirare i loro denari depositati, ma la banca non ha la liquidità sufficiente a rimborsarli tutti contemporaneamente perché li ha prestati alle imprese. C’è una crisi di liquidità. Conseguenza : il panico.

Diceva un mio collega, direttore finanziario di una grande banca, che mentre il credito cattivo, cioè le sofferenze, uccidono la banca lentamente come un cancro, la crisi di liquidità la uccide istantaneamente come un infarto.

Ma c’è di più.

Quando le banche, molti decenni fa, operavano in territori ristretti (comuni, province, regioni, Stati nazionali) le variabili su cui dovevano concentrare la loro attenzione nell’assumere rischi erano a loro volta concentrate e limitate.

Nel mondo moderno le banche più significative operano su scala internazionale, se non mondiale, ed anche quelle operative su un territorio ristretto, sono interconnesse con le altre banche perché si scambiano reciprocamente prestiti e depositi.

Questo costituisce il rischio interbancario, che si basa sulla fiducia tra banche, e fa sì che, se una banca ha problemi di liquidità o di rischio di credito, è probabile che infetti altre banche o gran parte del sistema. In alcuni casi anche tutto il sistema a livello mondiale.

Ed in un mondo dove non si possono fare pagamenti senza utilizzare il sistema bancario, le conseguenze rischiano di essere terribili. Sono fenomeni che con il passare del tempo si sono intensificati, diffusi e riproposti con una frequenza allarmante.

Senza andare alla storica crisi del 1929, quella del 2007/2008 è la più vicina a noi ed in parte ne stiamo scontando ancora le conseguenze.

Tutti sanno che quella crisi nacque da una bolla speculativa di mutui cosiddetti Sub-Prime (cioè ad alto rischio) che banche e finanziarie avevano erogato negli anni precedenti fidando erroneamente su un mercato immobiliare in perenne espansione, finanziandoli con le cosiddette cartolarizzazioni. Non mi dilungo su questo punto che è stato sviscerato in questi ultimi due decenni fino all’inverosimile anche perché solo in Italia ha comportato l’emergere di oltre 365 miliardi di sofferenze, non ancora del tutto smaltite, e politiche economiche rigorose di cui abbiamo vivida memoria. Le politiche di austerity del decennio scorso.

Se non si sono verificati casi gravi e diffusi di Bank Run, lo si deve ai provvedimenti governativi di sostegno ed alle regole restrittive adottate dalle banche centrali che all’inizio del fenomeno fecero un vero e proprio dietro front rispetto agli atteggiamenti ultraliberisti dei decenni precedenti, imponendo alle banche delle regole comportamentali e di capitale molto severe.

È stato un bene per le banche che si sono salvate da default a ripetizione, ma i costi di questi salvataggi sono stati pagati dall’Erario (quindi da tutti noi con le nostre tasse) e dalle imprese che non hanno trovato più nelle banche quei comportamenti generosi nell’erogazione del credito tipici dell’inizio del secolo.

Il risultato è stato un andamento non esaltante di salari e produzione, ma anche un peggioramento del debito pubblico. Chi ne ha tratto vantaggio sono stati i fondi speculativi che hanno ampliato a dismisura la loro presenza nel mercato. Fondi molto meno regolamentati e controllati delle banche.

Pochi giorni fa il presidente della Consob, Paolo Savona, ha lanciato un ennesimo allarme: la iperfinanziarizzazione dell’economia e l’espandersi della speculazione anche su pseudomoneta come le cripto valute non soggette al governo delle autorità monetarie, fanno temere che si possa ripresentare una crisi sistemica analoga a quella del 2007/2008. Siamo dentro l’ennesima bolla pronta ad esplodere? Considerando le crisi geopolitiche che stiamo tragicamente vivendo, un’altra crisi finanziaria mondiale è l’ultima cosa che dovrebbe accadere. Non è detto che oggi ci siano strumenti adeguati a superarla.

2.      Dal macro al micro

La fragilità della banca riverbera nel rapporto tra banche ed imprese critiche. È l’argomento più delicato da trattare.

Dal 1942 al 2006 noi abbiamo beneficiato (e mi assumo tutta la responsabilità nel dirlo) di una normativa che affrontava la crisi d’impresa essenzialmente con l’istituto del fallimento. Un’impresa insolvente doveva essere liquidata a beneficio dei creditori e ad onta dell’imprenditore. Il concetto era semplice, ma la procedura lenta, inefficiente e costosa. I creditori malcapitati si dovevano leccare le ferite frutto della sorte o della loro miopia. Banche comprese. In ogni caso il fallimento cancellava l’impresa dal mercato.

Dal 2005 al 2025 il legislatore ha fatto enormi e continui sforzi per favorire fin dove possibile il salvataggio delle imprese in difficoltà nell’interesse dell’economia complessiva , ma anche dei creditori.

Il fatto stesso che in vent’anni le norme su questi argomenti siano state riformate, rivedute e modificate decine di volte (e chi meglio del professor Ambrosini ce lo può insegnare) dimostra che c’è qualcosa che non torna.

Di fronte ad un sistema economico globalizzato, una volta esclusivamente banco-centrico (oggi molto meno), che si trasforma in continuazione e vede qualunque impresa sempre più esposta a fenomeni congiunturali e di concorrenza profondi e repentini, si è tentato e si tenta tuttora di cercare soluzioni per evitare che quell’impresa esca dal mercato.

Non sono sicuro che questa impostazione sia un bene sotto il profilo macroeconomico. Se una impresa non ce la fa, sarebbe meglio che lasciasse spazio ad un’altra più efficiente. È un po’ cinico, ma, come diceva quello, ” è il capitalismo, bellezza!”.

Questo ha comportato e sta comportando un peggioramento del rapporto tra banche e imprese. Anzi sta comportando un tentativo, anche giurisprudenziale, di coinvolgere sempre più la banca nel tentativo di salvataggio dell’impresa in crisi.

Detta così sembra una cosa buona : se un’impresa ha problemi, cerchiamo di salvarla; casomai facendo fare sacrifici ai creditori ancor prima che fallisca (oggi si dice che entra in liquidazione giudiziale, un mero eufemismo buonista).

Questo ha un senso perché si attribuisce alla banca la responsabilità di aver finanziato in modo eccessivo o in forme e tempi sbagliati le imprese critiche. È una responsabilità connaturata ad una banca orientata al profitto, e quindi al rischio, e fa sì che anche la banca debba subire le conseguenze del default dell’impresa. Non è sbagliato, ma non è la soluzione.

Tutti i vari istituti che sono stati inventati e applicati in questi ultimi due decenni - dalla ristrutturazione ai piani attestati e compagnia bella - naturalmente non hanno risolto il problema di fondo. Semmai hanno ritardato, aumentandone i costi e i tempi, la chiusura dell’impresa in default.

L’ultimo ritrovato di questa ideologia apparentemente buonista è la Composizione negoziata della crisi d’impresa introdotta dal Codice della crisi (D.L. 118/21 già modificato più volte con buona pace di operatori e magistrati) dove è previsto che un imprenditore che si sente mancare il terreno sotto i piedi chiede al Segretario Generale della CCIA di nominare un Esperto che si impegnerà, come terzo indipendente, a tentare di trovare una soluzione per salvare l’impresa.

Questa innovazione è l’ultima risposta, per ora, alla intervenuta consapevolezza che la crisi dell’impresa non ancora manifestamente insolvente sia da affrontare con strumenti “privatistici “ e stragiudiziali piuttosto che sotto l’occhiuta ed a volte fuorviante regia del giudice della procedura, troppo vincolato al rispetto formale di norme anelastiche e spesso anacronistiche.

Quindi tutto bene? Finalmente si è arrivati a considerare la prevalenza del negoziato tra le parti (imprese e creditori) come fattore di efficienza garantito dall’operato professionale ed indipendente di un Esperto che non è un giudice, ma nemmeno un arbitro.

Anche la statistica sembra confermare il successo del nuovo strumento: il ricorso alla composizione negoziata sta aumentando ed i casi di successo pure, specie tra le aziende più grandi, il che la dice lunga sul suo uso spesso strumentale. Che le PMI siano meno coinvolte non è positivo in un Paese come il nostro dove pesano quasi il 90 % del PIL. Il fatto è che hanno consulenti meno preparati.

Ma le statistiche di breve periodo non rassicurano. Il futuro, a breve, ci dirà se le imprese che hanno concluso con successo la composizione negoziata sopravviveranno al passare del tempo.

Anche il famigerato Concordato in bianco, quando fu inventato in una notte del 2012 su richiesta ministeriale per affrontare le conseguenze della crisi del 2011, ebbe un successo straordinario, salvo poi rendersi conto che, invece di risolvere i problemi, li aveva soltanto spostati in avanti nel tempo con grave danno per i creditori (bancari in particolare) e senza risolvere le crisi di aziende che sarebbero comunque fallite alimentando i 365 miliardi di sofferenze di cui abbiamo parlato prima.

E tutto questo con una certa complicità di fatto delle banche meno avvedute che in fin dei conti potevano ritardare (in allora, oggi non più) gli accantonamenti per svalutazione dei crediti drogando di utili inesistenti i loro bilanci ed i bonus dei loro amministratori.

Tutti prezzi pagati e riscossi di lì a poco dalla Realtà!

Con la Composizione negoziata resta comunque quasi sempre irrisolto il cd. “Dilemma del banchiere”.

In cosa consiste?

Di solito le difficoltà di una impresa sono messe in evidenza dal suo squilibrio finanziario (prima ancora che economico e patrimoniale). Ha troppi debiti a cui non riesce più a far fronte con regolarità. È un problema di cassa. Le entrate sono insufficienti a pagare i debiti. Se ha troppi debiti è perché qualcuno (banche e fornitori) le hanno dato troppo credito.

A volte, se i creditori rinunciano a parte dei loro crediti, l’impresa torna in equilibrio. E qui le banche debbono fare di solito i sacrifici maggiori, giustificandoli tecnicamente come il male minore agli occhi dei loro supervisori, depositanti e azionisti.

Ma spesso prevale la logica burocratica per cui, piuttosto che prendersi la responsabilità di concordare uno stralcio, al rappresentante della banca conviene aspettare la decisione di un giudice. Nel peggiore dei casi sarà stata colpa dell’avvocato che non avrà saputo difendersi in giudizio. In questi casi la composizione negoziale non arriva a meta.

Ma perché un’impresa possa salvaguardare la continuità aziendale ha spesso bisogno di sostegno finanziario, di nuova finanza. E qui scatta il “dilemma del banchiere”.

Sulla base delle normative regolamentari sempre più severe emanate dalle autorità di vigilanza, la sana e prudente gestione della banca imporrebbe di uscire dalla relazione creditizia non appena il cliente debitore dia segni di difficoltà. Se non ci si riesce, ed è il caso più frequente, bisogna classificare la posizione come irregolare , il che, in gran parte dei casi, non è altro che l’anticamera della liquidazione giudiziale perché nessuna banca fornirà credito ulteriore.

Ma c’è un limite: l’interruzione abusiva del credito è un illecito che può comportare grave responsabilità a carico della banca.

In realtà una azienda in dispnea finanziaria di sicuro non sopravvive se la banca le chiede di rientrare. Anzi a volte potrebbe salvarsi proprio grazie alla nuova finanza concessagli dalla banca.

Ma qui c’è un altro limite: la concessione abusiva del credito che può costituire l’illecito del concorso della banca nella mala gestio degli amministratori dell’impresa.

In questo dilemma si dibattono i banchieri anche al tavolo della Composizione negoziata.

Entrano così in ballo concetti e principi astratti e sfuggenti come la buona fede ed il prevalente interesse sociale alla continuità aziendale, ecc. ecc., sui quali, ex post o in teoria, è facile concordare, ma ex ante affollano le notti insonni dei protagonisti delle trattative.

Concetti e principi che mal si adattano alle regole rigidissime della regolamentazione micro e macro prudenziale cui le banche sono soggette , pena le severe sanzioni delle autorità di vigilanza, che hanno sempre il vantaggio di intervenire ex post.

Non sembra neanche una soluzione tranquillizzante quella apparentemente razionale che sostiene di aversi interruzione brutale/abusiva del credito nei confronti della impresa in crisi, mentre la concessione abusiva del credito sarebbe da limitare ai casi di impresa in stato di insolvenza.

Siamo su un crinale: da una parte la crisi dall’altra l’insolvenza. Spesso è questione di poco per restare di qua o cadere di là.

Non è così semplice: la fase in cui queste decisioni della banca vanno prese non è sempre trasparente e di interpretazione univoca anche perché sono valutazioni che, a rigore di regole bancarie, debbono essere prese in termini di prospettiva, quindi ancora una volta ex ante. E non sempre le vere condizioni dell’impresa sono così evidenti per la banca che deve decidere. La buona fede e la lealtà dell’imprenditore sono sempre assicurabili da parte dell’Esperto? Ho seri dubbi.

Non dimentichiamo che nella psicologia della banca il cliente in difficoltà è visto come qualcuno nei confronti del quale si è riposta fiducia smentita dai fatti. Torniamo alla fiducia!

Il tema è delicato quanto complesso e fiumi di dottrina se ne sono occupati.

Naturalmente non ho soluzioni da proporre perché la problematica va affrontata e risolta caso per caso in modo empirico e con senso di realismo. Ma anche accettando il rischio di sbagliare.

Ci dibattiamo tra due angoscianti esigenze:

- salvaguardare le imprese che possono ancora produrre ricchezza, salari e tasse;

- salvaguardare l’equilibrio delle banche senza le quali il mondo moderno non può esistere.

Di sicuro se le imprese fossero meno avventate e le banche meno avide, molti di questi problemi non si presenterebbero.

Ma questa è una ovvietà.

 

(*) Questo contributo rappresenta lo sviluppo dell’Intervento tenuto il 27 giugno scorso a Osimo in occasione del seminario di studi “Imprese e finanza: profili di gestione di credito e risparmio a supporto delle PMI”, organizzato dal Centro Adriatico di Studi sull’Impresa

 

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