Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Le attività di liquidazione in esecuzione della proposta di concordato preventivo omologata


Francesco Carelli
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La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale


Paola Vella

Data pubblicazione
01 gennaio 2022

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Sommario: 1. Il concetto di procedura concorsuale secondo il diritto dell’Unione. – 2. Il nuovo approccio europeo alla ristrutturazione preventiva. – 3. Le principali innovazioni necessarie. – 4 Specializzazione e discrezionalità: un focus su absolute e relative priority rule. – 5. Con quale strumento attuare la Dir. (UE) 2019/1023? – 6. Lineamenti di un modello europeo di concordato in continuità.


1.      Il concetto di procedura concorsuale secondo il diritto dell’Unione

Nel momento storico in cui lo Stato italiano è chiamato a recepire, entro il 17 luglio 2022, la prima direttiva europea sulla ristrutturazione e sull'insolvenza – «Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la Dir. (UE) 2017/1132)» (di seguito Dir.) – è inevitabile che il sistema normativo nazionale di regolazione della crisi e dell’insolvenza sia sottoposto a tensioni e torsioni, indotte, per un verso, da comprensibili resistenze legate alla tradizione giuridica e culturale domestica[1] e, per altro verso, da ineludibili proiezioni verso un diritto della crisi e dell’insolvenza che non potrà più essere “autarchico”, ma dovrà necessariamente confrontarsi con la progressiva armonizzazione che il legislatore europeo sta coltivando da circa un decennio, in modo sempre più stringente[2].

Il processo di adattamento dei singoli diritti nazionali, in vista di una sempre maggiore convergenza delle loro regole, si muove nel solco tracciato da un atto normativo dell’Unione europea che è già parte integrante del nostro sistema delle fonti (ove si colloca in posizione sovraordinata alle fonti primarie e pariordinata alle fonti costituzionali e di rilievo costituzionale): il «Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza» - rifusione del Regolamento (CE) n. 1346/2000 del Consiglio» (di seguito Reg.), il cui ambito di applicazione, originariamente circoscritto alle sole procedure di insolvenza con implicazioni transfrontaliere, è stato esteso alle analoghe «procedure che promuovono il salvataggio delle società economicamente valide ma che si trovano in difficoltà economiche e che danno una seconda opportunità agli imprenditori» (Cons. 10 Reg.)[3].

Le procedure concorsuali prese in considerazione dal Reg. hanno dunque finalità che spaziano dal salvataggio, alla ristrutturazione del debito, alla riorganizzazione, alla liquidazione del debitore e, in base alle loro caratteristiche, sono raggruppate in tre macro-categorie (art. 1, par. 1, Reg.): a) quelle caratterizzate dallo spossessamento totale o parziale del debitore e dalla nomina di un amministratore della procedura (si pensi al fallimento o al concordato preventivo); b) quelle caratterizzate dallo stato di crisi («probabilità di insolvenza»), il cui scopo è evitare l’insolvenza del debitore o la cessazione della sua attività, nelle quali il debitore non viene completamente spossessato, ma mantiene il «controllo totale o parziale dei suoi beni e affari», essendo solo eventuale la nomina di un amministratore della procedura (come avviene negli accordi di ristrutturazione dei debiti), a condizione però che «i beni e gli affari» del debitore siano soggetti al controllo o alla sorveglianza di un giudice», laddove per «controllo» si intende anche la situazione in cui il giudice interviene solo incidentalmente, su sollecitazione di un creditore o di un’altra parte interessata (Cons. 10 Reg.) e per «giudice» si intende ogni organo (anche non giudiziario, come nelle procedure di amministrazione straordinaria) legittimato dal diritto nazionale ad aprire procedure d'insolvenza (Cons. 20 Reg.); c) quelle caratterizzate esclusivamente dalla concessione, giudiziale o ex lege, della sospensione delle azioni esecutive individuali, a protezione delle trattative tra debitore e creditori (cd. stay), purché siano contemplate misure idonee a tutelare la massa dei creditori e sia previsto che, in caso di mancato raggiungimento di un accordo, si apra una delle altre due tipologie di procedura sub a) o sub b) (Cons. 11 Reg.).

In siffatto contesto, il legislatore europeo ravvisa la garanzia del «carattere concorsuale della procedura» nella possibilità per i creditori di venire a conoscenza della loro apertura e di parteciparvi per far valere i loro crediti (Cons. 12 Reg.), sicché la cifra di tutte le procedure elencate nell’allegato A del Reg. non è la loro universalità oggettiva o soggettiva, bensì il loro essere (quand’anche «provvisorie») «pubbliche»[4].

Va qui sottolineato, in particolare, che l’universalità soggettiva non è un carattere indefettibile delle procedure concorsuali unionali: in base alla stessa definizione di cui all’art. 2, n. 1), Reg., la procedura concorsuale può comprendere tutti o «anche solo una parte significativa dei creditori», purché, nel secondo caso, non siano pregiudicati gli interessi dei creditori non coinvolti (cfr. art. 182-bis l.fall.).

Per tale ragione sono espressamente ritenute procedure concorsuali quelle «riguardanti soltanto i creditori finanziari di un debitore» (cfr. art. 182-septies l.fall.), così come le procedure d'insolvenza di persone fisiche che escludono dall’effetto remissorio alcune categorie specifiche di crediti, come ad esempio quelli alimentari (Cons. 14 Reg.).

Tuttavia, lo stesso Cons. 14 Reg. precisa che la possibilità di non coinvolgere tutti i creditori è data solo per le procedure che hanno «come obiettivo il salvataggio del debitore», poiché quelle di carattere liquidatorio («che portano ad una cessazione definitiva delle attività del debitore o alla liquidazione dei suoi beni»), devono invece necessariamente «comprendere tutti i creditori».

Al contrario, nel sistema nazionale vigente l’universalità soggettiva caratterizza non solo il fallimento e il concordato preventivo liquidatorio, ma anche il concordato preventivo in continuità aziendale, e ciò rappresenta, come meglio si vedrà in prosieguo, una distonia da appianare, o modificando il regime del concordato in continuità, o modificando altri aspetti degli accordi di ristrutturazione dei debiti (che quella facoltà consentono), oppure attuando la Dir. attraverso un articolato meccanismo di combinazione dei due istituti, entrambi ascrivibili alla categoria della concorsualità.

Dato questo orizzonte normativo, si comprende perché la Dir., nel disciplinare nel Tit. II i preventive restructuring frameworks – che, si sottolinea, riguardano esclusivamente le ristrutturazioni caratterizzate in tutto o in parte dalla continuità “diretta” e, se previsto dal diritto nazionale, anche da quella “indiretta” (art. 2, par. 1, n. 1) – consenta agli Stati membri: i) di limitare la partecipazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa ai casi in cui è «necessaria e proporzionata», fermo restando l’obbligo di garantire «la salvaguardia dei diritti delle parti interessate» (art. 4 par. 6); ii) di prevedere che la nomina di un insolvency practitioner (corrispondente al nostro commissario giudiziale)non sia sempre obbligatoria e che il debitore mantenga un controllo «almeno parziale» della sua attività (art. 5); iii) di escludere dalla ristrutturazione i crediti esistenti e futuri di lavoratori o ex lavoratori, i crediti alimentari e quelli derivanti da responsabilità extracontrattuale del debitore (art. 1, par. 5), salva l’obbligatoria esclusione dei diritti pensionistici maturati dai lavoratori (art. 1, par. 6); iv) di permettere al debitore l’esclusione motivata dal piano di ristrutturazione di alcuni creditori o categorie di creditori o di altre parti interessate (art. 8, par. 1, lett. e).

Appare allora evidente che molti degli elementi che, secondo la nostra tradizione giuridica, sarebbero essenziali per la qualificazione di una procedura come “concorsuale”, tali non sono per la Dir., la quale, limitatamente alla ristrutturazione preventiva in going concern, non reputa ad esempio indefettibili – per quanto di norma e tendenzialmente presenti – né il coinvolgimento di tutti i creditori (art. 8, par. 1, lett. e), né l’intervento del giudice (art. 4, par. 6), né la nomina di un commissario giudiziale (art. 5), né l’apertura formale di una procedura (arg. ex art. 29, par. 1, lett. a) e b) e par. 2), né addirittura (sia pure in ipotesi rare) la stessa omologazione (art. 10, par. 1).

In effetti, già prima dell’emanazione della Dir. la stessa Cassazione aveva ritenuto – con orientamento ormai consolidato sul tema della natura degli accordi di ristrutturazione dei debiti[5] – che, a seguito delle innumerevoli riforme, a livello nazionale e sovranazionale, la cifra della moderna concorsualità si sarebbe sostanzialmente ridotta a tre profili minimi, quali: «i) una qualsivoglia forma di interlocuzione con l’autorità giudiziaria, con finalità quantomeno “protettive” (nella fase iniziale) e di controllo (nella fase conclusiva); ii) il coinvolgimento formale di tutti i creditori, quantomeno a livello informativo e fosse anche solo per attribuire ad alcuni di essi un ruolo di “estranei”, da cui scaturiscono conseguenze giuridicamente predeterminate; iii) una qualche forma di pubblicità»[6].

2 Il nuovo approccio europeo alla ristrutturazione preventiva

Una delle principali ragioni che hanno indotto l’Unione europea a legiferare in materia di ristrutturazione preventiva è stata la constatazione che in molti Stati membri le ristrutturazioni concorsuali hanno una durata eccessiva e bassi tassi di recovery per i creditori, anche a causa di procedure «indebitamente dispendiose» (Cons. 6 Dir.).

Il dato è noto e trova eco anche in un recente studio nazionale[7], condotto su un campione di oltre tremila procedure di concordato preventivo ammesse nel periodo 2009-2015, dal quale sono emersi, tra l’altro, i seguenti elementi: i) la netta prevalenza delle procedure di fallimento, su quelle di concordato preventivo e sugli accordi di ristrutturazione dei debiti (pari rispettivamente a 13.472, 817 e 488 nell’anno 2016); ii) il progressivo aumento delle dimensioni delle imprese man mano che accedono al fallimento, o al concordato preventivo, o agli accordi di ristrutturazione (indice che solo le imprese più grandi riescono ad accedere agli strumenti “paranegoziali” di regolazione della crisi); iii) la preponderanza, all’interno della categoria dei concordati preventivi, di quelli liquidatori (circa il 70%); iv) una notevole durata della procedura (in media circa 10 mesi, 14 nel concordato preventivo cd. “con riserva”), calcolata dalla presentazione della domanda all’omologazione; v) la lunghezza dei tempi programmati di esecuzione del piano (circa 3 anni, limite peraltro quasi mai rispettato); vi) l’esiguità dei tassi di recupero per i creditori chirografari (in media 18% nei concordati preventivi liquidatori, 23% nei concordati in continuità indiretta, 37% in quelli in continuità diretta); vii) un minor scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi (questi ultimi pari in media al 60% dei primi) nei concordati in continuità, rispetto alle altre tipologie di concordato; viii) migliori performance in caso di minore “cronicità” della crisi (misurata come tempo intercorrente tra la percezione delle prime difficoltà persistenti nell’adempimento degli obblighi verso le banche e l’avvio della procedura); ix) una diminuzione dei tassi di recupero proposti, all’aumentare delle spese “di giustizia” e per i professionisti che assistono il debitore; x) una diminuzione dello scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi, all’aumentare di quelle stesse spese.

La maggiore redditività degli strumenti di ristrutturazione in continuità aziendale (specie se diretta) rispetto a quelli meramente liquidatori giustifica la concentrazione degli sforzi del legislatore europeo sui primi, che la Dir. mira ad incentivare anche attraverso un maggior coinvolgimento dei soci[8], stimolandoli ad investire nella prosecuzione dell’attività imprenditoriale in vista di una possibile partecipazione al cd. valore di continuità aziendale, inteso come valore di lungo termine dell’impresa, che, come si legge nel Cons. 49, di norma è superiore al valore di liquidazione, «poiché si basa sull'ipotesi che l'impresa continua la sua attività̀ con il minimo di perturbazioni, ha la fiducia dei creditori finanziari, degli azionisti e dei clienti, continua a generare reddito e limita l'impatto sui lavoratori».

Di qui il dichiarato obbiettivo dei quadri di ristrutturazione preventiva unionali di «consentire ai debitori in difficoltà finanziarie di continuare a operare, in tutto o in parte» (Cons. 2 Dir.), anche mediante la vendita di attività o parti dell’impresa o, se previsto dal diritto nazionale dell’intera impresa «in regime di continuità aziendale» (art. 2 n. 1) Dir.), al fine di risanare l’impresa, «o almeno salvarne le unità che sono ancora sane» (Cons. 4).

E’ singolare che l’art. 4, par. 1, della Dir., nell’enunciare le finalità dell’accesso alla ristrutturazione preventiva, menzioni solo quella di impedire l’insolvenza e assicurare la sostenibilità economica (viability) del debitore, che a sua volta consente anche di «tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale»; manca un esplicito riferimento al soddisfacimento dei creditori, che invece campeggia nel primo comma dell’art. 84 CCII quale principale finalità del concordato preventivo (peraltro da realizzare indifferentemente sia con «la continuità aziendale» che con la «liquidazione del patrimonio»). Si ha quindi l’impressione che per la Dir. la continuità aziendale – anche se solo parziale, ed anche se non la realizzi il debitore, ma un terzo cui questi trasferisca l’azienda – sia non già un “valore-mezzo” (come tradizionalmente nelle procedure concorsuali ordinarie), bensì un “valore-fine” (come tradizionalmente nelle procedure di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi)[9].

I successivi commi dell’art. 84 CCII avrebbero una maggiore assonanza con la Dir. sul tema della tutela dei posti di lavoro, se non fosse che, per un verso, i livelli occupazionali imposti finiscono per ingessare oltremodo la ristrutturazione con continuità indiretta (comma 2) e, per altro verso, si esclude che un concordato preventivo cd. “misto” possa essere considerato in continuità quando la soddisfazione dei creditori avvenga prevalentemente con il ricavato dalla liquidazione, salva la relativa presunzione iuris et de iure in caso di mantenimento di determinati livelli occupazionali (comma 3), mentre la Dir. ammette la prosecuzione parziale dell’attività senza porre vincoli di prevalenza sul momento liquidatorio che lo affianchi, ritenendo comunque prioritario l’obbiettivo che le imprese continuino a operare (Cons. 1)[10].

Questo progressivo spostamento del baricentro della ristrutturazione dall’interesse dei creditori alla continuazione dell’attività imprenditoriale – in quanto capace di meglio soddisfare quell’interesse, e al tempo stesso di soddisfarne altri collaterali – trova eco anche in campo dottrinario, dove si registra la convivenza delle teorie più tradizionali, come la cd. creditors’ bargain theory – per cui le compressioni dei diritti dei creditori in ambito concorsuale non sono finalizzate all’obbiettivo politico del salvataggio delle imprese, bensì al coordinamento dell’azione dei singoli creditori sul patrimonio del debitore, al fine di massimizzare il valore a disposizione di tutti gli interessati (in tesi insufficiente), nell’assunto che il diritto della crisi sia sostanzialmente un meccanismo alternativo all’esecuzione individuale – con altre teorie più innovative “stakeholders oriented” (spesso di matrice anglosassone), che muovono invece dal principio per cui il diritto concorsuale non solo può, ma deve perseguire anche finalità diverse da quella satisfattiva[11].

Sennonché, passando dal piano teorico a quello empirico, di cui sopra si è dato conto, risulta evidente che il processo in corso di graduale osmosi tra le procedure di ristrutturazione dove la continuità è un “valore-mezzo” e quelle in cui essa è un “valore-fine”, si fonda sotto traccia sulla constatazione che la continuità aziendale è comunque uno strumento capace di aumentare il tasso di recovery dei creditori[12], sia pure in concomitanza con la tutela degli altri soggetti interessati alla ristrutturazione (lavoratori, fornitori, stakeholders, soci e lo stesso imprenditore)[13]; un simile approccio si trova preconizzato nel secondo comma dell’art. 84 CCII, per cui la prosecuzione dell’attività d’impresa assicura il ripristino dell’equilibrio economico-finanziario «nell’interesse prioritario dei creditori, oltre che dell’imprenditore e dei soci», a testimonianza che il valore della continuità aziendale è in realtà un “valore-fonte”, da cui dipendono tutti gli altri, a cominciare dalla soddisfazione dei creditori, passando attraverso la tutela dei posti di lavoro, per finire alla preservazione della stessa imprenditorialità. Sulla medesima lunghezza d’onda, la Dir. proclama nitidamente che i quadri di ristrutturazione preventiva hanno al tempo stesso lo scopo di: i) impedire la perdita di posti di lavoro; ii) evitare la perdita delle conoscenze e competenze imprenditoriali; iii) massimizzare il valore dell’impresa a beneficio dei creditori, rispetto a quanto potrebbero ricevere nello scenario liquidatorio o in un altro scenario alternativo al piano; iv) massimizzzare quello stesso valore anche per i proprietari dell’impresa e in ultima analisi per l’economia nel suo complesso (Cons. 2).

Date queste premesse, tre sono i pilastri sui quali la Dir. ha edificato i preventive restructuring frameworks: a) la preservazione dell’attività imprenditoriale, quale volano dell’economia dell’Unione (dove le PMI costituiscono il 99% del totale delle imprese), che assicura migliori performance a vantaggio dei creditori e consente di tutelare l’occupazione (art. 4, par. 1); b) l’efficienza della procedura, finalizzata a ridurne tempi e costi (Tit. IV), che passa inevitabilmente attraverso la specializzazione tanto dell’autorità giudiziaria o amministrativa (art. 25), quanto dei professionisti nel campo della ristrutturazione da essa nominati (artt. 26 e 27); c) il dialogo tra tutte le parti interessate durante le trattative (Cons. 10) e l’intervento del giudice a tutela dei loro interessi contrapposti (art. 4, par. 6).

Di fronte a questo nuovo approccio alla ristrutturazione veicolato dalla Dir., finisce per scolorire il tema tralatizio della polarizzazione tra autonomia ed eteronomia; tema che appare oblsoleto e ideologico rispetto alla visione sovraordinata del legislatore europeo, che, nell’intento di armonizzare i plurimi sistemi concorsuali nazionali, tende naturalmente a superarne le oggettive diversità di regole e principi, in una composizione bilanciata delle opposte visioni.

In tal senso vanno letti, ad esempio, gli approdi finali delle disposizioni sul ruolo del giudice (art. 4, par. 6)[14] e sulla nomina dell’insolvency practitioner (art. 5, parr. 2 e 3)[15], che all’esito dei negoziati tra gli Stati membri sono divenute ideologicamente più neutre, se viste attraverso il prisma dei tre “pilastri” di cui si è detto (preservazione dell’attività imprenditoriale, efficienza della procedura e tutela bilanciata degli interessi di tutte le parti).

E’ dunque evidente che legislatore, dottrina, giurisprudenza e operatori tutti del sistema concorsuale dovranno essere disponibili a recepire il nuovo approccio fondato sulla centralità assunta dal risanamento, che dischiude all’orizzonte un possibile allineamento tra procedure concorsuali ordinarie (giudiziali) e speciali (amministrative) – tutte invero rientranti nel campo di applicazione della Dir. – sebbene sia sinora mancata nel nostro Paese la volontà politica di includere le seconde (liquidazioni coatte amministrative e amministrazioni straordinarie) in una riforma organica dell’intero settore.

Tre sono in ogni caso gli ambiti generali che richiederanno un qualche cambio di mentalità: I) la nozione omnicomprensiva di imprenditore, che include qualsivoglia tipologia di attività imprenditoriale, compresa quella agricola e finanche quella professionale (art. 2, n. 9, Dir.); II) la svolta culturale dell’accesso alle informazioni sugli strumenti di ristrutturazione disponibili, non solo per il debitore ma anche per i lavoratori (art. 3, par. 1 e 4), ivi compresa una check-list online per la redazione piano (art. 8, par. 2); III) un maggiore protagonismo assegnato ai lavoratori e ai loro rappresentanti (artt. 1, par. 5; art. 3, parr. 2 e 5; art. 4, par. 8; art. 6, par. 5; art. 8, par. 1.g; art. 9, par. 4.2; art. 13).

Vi sono poi alcune nuove regole tecniche da recepire, che, se sapientemente integrate nell’ordinamento nazionale, potranno dare un volto più moderno e flessibile alla ristrutturazione preventiva in continuità aziendale.

 

3. Le principali innovazioni necessarie

Come sopra anticipato, un primo vincolo posto dalla Dir. (che interroga preliminarmente sullo strumento da utilizzare per la sua attuazione) è la possibilità per il debitore di non coinvolgere tutti i creditori nel piano di ristrutturazione (art. 2, n. 2; art. 8, par. 1.e, Dir., in linea con l’art. 2, n. 1, Reg.), collocato a valle della facoltà, per gli Stati membri, di escludere a priori dalla ristrutturazione i crediti dei lavoratori, i crediti alimentari e i crediti risarcitori extracontrattuali (art. 1, par. 5 Dir.). Tale opzione, già esercitata nelle riforme di vari Stati membri, comporta che i crediti rimasti estranei alla ristrutturazione non ne devono risultare pregiudicati (aspetto non esplicitato nella Dir. ma presente nell’art. 2, n. 2 Reg.). Deve invece essere assicurato in ogni caso che i quadri di ristrutturazione preventiva non incidano sui diritti pensionistici maturati dai lavoratori (art. 1 par. 6 Dir.).

La disciplina generale delle misure protettive richiede solo qualche ritocco, con una più dettagliata regolamentazione dei casi di proroga o revoca della sospensione delle azioni esecutive individuali, su richiesta del debitore o del professionista nominato, in linea con quanto dispone dettagliatamente l’art. 6, par. 7 e 9, Dir.

Analoga messa a punto riguarda la disciplina dei contratti essenziali – estendibile a quelli non essenziali – con il divieto per i creditori soggetti allo stay di modificarli, risolverli, anticiparne la scadenza o anche sollevare eccezione di inadempimento, per il solo fatto di non essere stati pagati (art. 7, par. 4, Cons. 41, Dir.).

Di maggiore impatto appare la necessità di eliminare la fase di ammissione alla procedura, con l’obbiettivo di ridurne i tempi[16], fatta salva la possibilità – tutta da verificare – di applicare analogicamente la facoltà degli Stati membri di prevedere alcuni interventi anticipati del giudice in tema di formazione delle classi e diritto di voto (art. 9, par. 5, co. 2 e Cons. 46, Dir.), ad esempio estendendola ad ipotesi di manifesta o macroscopica inutilità della prosecuzione della procedura sino alla fase dell’omologazione.

Sul tema rovente del giudizio di fattibilità, la formula adottata dall’art. 10, par. 3, Dir. – che assicura il potere del giudice di rifiutare l’omologazione del piano di ristrutturazione «che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa»[17] – va incontro, per la sua maggiore elasticità, alle esigenze da più parti rappresentate di considerare la difficoltà, peraltro aumentata nel contesto economico attuale (e che si protrarrà anche dopo l’uscita dall’emergenza Covid-19) di attestare in positivo la fattibilità di piani di concordato in continuità aziendale, ordinariamente proiettati in un arco temporale pluriennale.

In sede di omologa[18] (e non prima, non esistendo come detto una fase preliminare di ammissione alla procedura) il tribunale dovrà sempre verificare d’ufficio, anche in caso di approvazione unanime delle classi: i) la regolarità della procedura; ii) la corretta formazione delle classi e il regolare esercizio del diritto di voto; iii) che alle parti incluse nella medesima classe sia attribuito, proporzionalmente, un pari trattamento; iv) che qualsiasi nuovo finanziamento previsto dal piano non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori.

Al di là di possibili deroghe per le PMI, diventa obbligatoria (perché essenziale nella nuova dinamica dell’approvazione del piano) la formazione di classi che rispecchino una sufficiente comunanza di interessi, secondo criteri verificabili, dovendosi quantomeno distinguere i creditori chirografari dai privilegiati ed essendo fortemente incoraggiata la formazione di ulteriori classi, specie per tutelare i diritti dei creditori particolarmente vulnerabili, come i lavoratori e i piccoli fornitori (art. 9, par. 4, Cons. 44 Dir.).

Nell’ambito contiguo della votazione, una importante novità è l’eliminazione della maggioranza dei crediti ammessi al voto, rilevando solo (in prima battuta) la maggioranza dell’importo dei crediti all’interno di ciascuna classe, da fissare entro la forbice del 50-75%, fatta salva la facoltà di introdurre anche un criterio di calcolo delle maggioranze “per teste” (art. 9 par. 6, Dir.). Invero, l’ipotesi prioritaria presa in considerazione dalla Dir. è che il piano di ristrutturazione sia approvato da tutte le classi (sia pure a maggioranza interna). Solo in difetto si potrà accedere – su richiesta del debitore o (quantomeno per le PMI) con il suo accordo, se il piano è stato presentato da un terzo – al meccanismo della cd. ristrutturazione trasversale (cross-class cram-down), attraverso la quale è possibile vincolare anche le classi dissenzienti, secondo regole che differiscono dal nostro sistema vigente.

Invero, è necessario che il piano sia approvato dalla maggioranza delle classi, di cui almeno una di rango privilegiato, ma in mancanza è sufficiente l’approvazione di almeno una o più classi cd. in the money, per tali intendendosi quelle che riceverebbero (o si può ragionevolmente presumere che riceverebbero) una qualche soddisfazione applicando l’ordinaria graduazione dei crediti al valore di continuità dell’impresa.

In tal caso, fermo il rispetto delle condizioni poste dall’art. 11 Dir. – e del principio fondamentale per cui nessuna classe può ricevere più dell’importo integrale del credito o, se si tratta di detentori di strumenti di capitale, più dell’interesse detenuto – il tribunale può omologare il piano se ritiene, d’ufficio, che le classi di voto dissenzienti ricevono un trattamento «almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango[19] e più favorevole di quello delle classi inferiori» (cd. relative priority rule, di seguito RPR)[20].

Il par. 2 dell’art. 11 Dir. consente in via di eccezione agli Stati membri di subordinare l’omologazione del piano alla diversa regola per cui non può essere attribuita alcuna soddisfazione alla classe di rango inferiore se quella dissenziente di grado poziore non sia stata «pienamente soddisfatta con mezzi uguali o equivalenti» (cd. absolute priority rule, di seguito APR)[21]. Peraltro, il comma successivo contempla un’eccezione all’eccezione, consentendo agli Stati membri di prevedere deroghe alla stessa APR «qualora queste siano necessarie per conseguire gli obbiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate».

Un ulteriore aspetto di impatto sul nostro sistema delle ristrutturazioni in continuità aziendale è che, eliminato il riferimento al miglior soddisfacimento dei creditori, resta a tutela dei loro interessi il rispetto del cd. best-interest-of-creditors-test (art. 2, par. 1, n. 6 Dir.)[22]; Cons. 49, Dir.), detto anche test di convenienza, che andrebbe piuttosto tradotto come test di non pregiudizio, poiché è sufficiente che la loro soddisfazione non sia inferiore – potendo perciò essere anche pari – a quella ritraibile nello scenario liquidatorio alternativo.

Tale regola informa anche il giudizio di cram down italiano (art. 180, co. 4, l.fall.), ma nel concordato preventivo con continuità aziendale opera il diverso criterio per cui il professionista indipendente deve anche attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa è funzionale «al miglior soddisfacimento dei creditori» ( art. 182-bis, co. 2, lett. b) l.fall.; art. 87 co. 1 lett. f) CCII)[23].

Inoltre, dovrà essere garantito ad ogni singolo creditore, a prescindere dalla classe di appartenenza, il diritto di chiedere tale verifica sul proprio trattamento. Il test di convenienza europeo (come quello statunitense) integra infatti una forma di tutela individuale[24], a differenza delle regole di RPR/APR, che operano come tutela di classe.

Infine, il test di convenienza non può essere verificato d’ufficio, ma solo su eccezione della parte interessata (a differenza della RPR/APR che va verificata d’ufficio, sia pure solo nei confronti delle classi dissenzienti, sempre in sede di omologazione). Il legislatore europeo vuole infatti recisamente evitare che tali costose valutazioni siano fatte di default, anche in assenza di specifiche contestazioni (art. 10, par. 2, lett. d); Cons. 50; art. 14, Dir.).

Da ciò consegue che la ristrutturazione in continuità aziendale non potrà mantenere, così come è attualmente configurato, il cd. cram-down fiscale d’ufficio, in ipotesi di mancata adesione determinante dei creditori fiscali e previdenziali[25], la cui operatività potrà invece essere recuperata – stante la sua indiscussa funzione agevolativa della ristrutturazione – proprio attraverso la regola (pressoché identica, ma più protettiva) della RPR[26].

Invero, per contenere i tempi e i costi della procedura, il tribunale può effettuare una valutazione dell’impresa – secondo il valore di liquidazione, ai fini del test di convenienza; secondo il valore di ristrutturazione, ai fini della individuazione della classe in the money – solo quando vi sia una parte dissenziente che lo contesati, giammai d’ufficio (art. 14 Dir.)

Un ulteriore aspetto va esaminato: nel proporre l’opzione tra RPR e APR, l’art. 11 Dir. non detta espressamente una regola specifica (simile a quella prevista dall’art. 160, co. 1, prima parte l.fall., ripetuto nell’art. 85, co. 7 CCII) sul trattamento dei «creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca»[27], rendendo perciò legittimo il dubbio che tutte le forme di prelazione debbano essere indifferentemente trattate secondo la APR o la RPR.

Tuttavia, il penultimo periodo del Cons. 44 precisa che «gli Stati membri dovrebbero poter stabilire che i crediti garantiti possano essere suddivisi in parti garantite e non garantite in base alla valutazione della garanzia reale» (cd. bifurcation), sicché quella regola può essere mantenuta – s’intende per il privilegio speciale (non generale) – anche tenuto conto della sua sostanziale coincidenza con il criterio del best-interest-of-creditors-test (infatti, anche in sua assenza il giudice ben potrebbe omologare un piano che non prevedesse l’integrale soddisfazione del creditore munito di garanzia reale il cui trattamento non fosse inferiore a quello ricavabile in caso di liquidazione).

Il problema si pone semmai nell’ipotesi opposta, in cui alla classe di creditori garantiti da garanzia reale (o privilegio speciale) fosse attribuito un soddisfacimento superiore a quanto ricavabile dalla liquidazione del bene su cui grava il diritto di prelazione, ma inferiore all’ammontare integrale del credito.

In tal caso non sarebbe nemmeno violato l’ulteriore “paletto” distributivo per cui «nessuna classe di parti interessate può ricevere o conservare in base al piano di ristrutturazione più dell’importo integrale dei crediti o interessi che rappresenta» (art. 11, co. 1, lett. d) Dir.). In effetti, la ristrutturazione preventiva europea non consente di attribuire meno di quanto si conseguirebbe con la liquidazione, né più dell’ammontare integrale del credito, ma all’interno di quella forbice lascia spazio alla negoziazione tra debitore e creditori, i cui esiti sono sottoposti al vaglio giudiziale solo in presenza di una classe dissenziente, secondo la regola della RPR ovvero della APR (pura o “temperata”).

Per concludere, la regola assimilabile alla bifurcation – nata nel fallimento (art. 54 co. 1 l.fall.), importata nel concordato preventivo con la riforma del 2007 (art. 160 co. 2 l.fall.) e ribadita nel concordato in continuità aziendale introdotto nel 2012 (art. 186-bis co. 2 lett. c) l.fall. – può essere mantenuta, anche se sembra attagliarsi piuttosto a un sistema improntato alla APR che non alla RPR. Invero, solo nella prima ipotesi la soddisfazione della classe di rango inferiore richiede l’integrale soddisfazione di quella superiore (che risulterebbe unfair in caso di incapienza del bene), mentre nella seconda ipotesi è consentita di default la soddisfazione non integrale della classe poziore, purché in misura maggiore di quella di rango inferiore, sicché il limite a priori del valore di liquidazione del bene sarebbe solo un vincolo imposto alla negoziazione del consenso, peraltro nemmeno necessario a tutela del singolo creditore, che a tal fine si può avvalere del best-interest-of-creditors-test.

E’ bene comunque evidenziare che, nella prospettiva della Dir., il criterio della bifurcation non è incompatibile nemmeno con la RPR, la quale potrebbe operare tanto sulla parte privilegiata del credito (rispetto alle classi di rango inferiore) quanto sulla parte del credito degradata a chirografo (rispetto alle altre classi chirografarie), in applicazione della no unfair discrimination rule (v. sopra).

Anche per questa ragione – oltre che per ben più decisive esigenze deflattive – l’intero quadro potrebbe trovare una composizione di compromesso attraverso una applicazione bipartita e combinata delle due regole di APR e RPR, la prima limitatamente al valore di liquidazione (per prevenire ogni possibile contestazione del best-interest-of-creditors-test), la seconda sul valore ulteriore generato dal piano di ristrutturazione (plan value).

In tal modo, la distribuzione del valore di liquidazione sarebbe governata dalla regola del best-interest-of-creditors-test e quella del valore di continuità o ristrutturazione (plan value) dalle regole di RPR o APR; fermo restando che tutte queste regole vanno applicate solo in sede di omologa, la prima su eccezione del creditore dissenziente, le altre due d’ufficio ma solo rispetto alla classe dissenziente.

La scelta finale, indubbiamente non facile tenuto conto di tutte le variabili implicate, spetterà ovviamente al legislatore.

Un ultimo aspetto, di non eccessivo impatto ma di grande utilità per il nostro sistema, che peraltro testimonia l’approccio sostanziale e concreto del legislatore europeo, è l’obbligo per gli Stati membri di consentire al giudice di secondo grado la possibilità di confermare il provvedimento di omologa del piano – eventualmente anche apportandovi le necessarie modifiche – nonostante l’accoglimento dell’impugnazione, con l’ulteriore facoltà di prevedere una tutela risarcitoria (in luogo di quella reale) a favore della parte vittoriosa, realizzabile anche mediante accantonamenti in appositi fondi contemplati dal piano (art. 16 par. 4 Dir.).

Tra le tante novità non vincolanti ma solo facoltative della Dir. – le quali rappresentano comunque una chance da cogliere senza timori, per ammodernare e rendere competitivo il sistema concorsuale italiano – meritano qui un cenno: a) la legittimazione a presentare una domanda di concordato preventivo in capo a creditori e rappresentanti dei lavoratori, con il «previo accordo del debitore», quantomeno se PMI (art. 4, par. 8 Dir.), fatto salvo il diritto del debitore di presentare un piano di ristrutturazione concorrente (art. 9 par. 1 Dir.); ii) la presentazione di piani di ristrutturazione concorrenti da parte del commissario giudiziale (art. 9 par. 1, co. 2, Dir.).

 

4. Specializzazione e discrezionalità: un focus su absolute e relative priority rule

Una particolare sottolineatura merita il tema della specializzazione dell’autorità giudiziaria – senza dimenticare che il tema riguarda anche l’autorità amministrativa, avuto riguardo alle amministrazioni straordinarie e alla liquidazione coatta amministrativa – su cui si fa leva in modo insistito nel Tit. IV della Dir., che impone in tutti i tipi di procedure concorsuali (non solo quelle di ristrutturazione) il perseguimento degli obbiettivi di trasparenza, prevedibilità, rapidità ed efficienza, attraverso la fissazione di adeguati standard di formazione, competenza e professionalità, non solo degli organi chiamati a decidere, ma anche dei professionisti da essi nominati (v. artt. 26 e 27 Dir.).

In particolare, l’art. 25 Dir. prescrive che sia garantita una formazione adeguata ai componenti delle autorità giudiziarie o amministrative che trattano le procedure di ristrutturazione, di insolvenza e di esdebitazione, tale da assicurare il possesso delle competenze necessarie e appropriate alle loro responsabilità, fermo restando che tali competenze possono essere acquisite anche durante l'esercizio stesso della professione, così come prima della nomina, o durante l'esercizio di altro incarico rilevante.

Gli obbiettivi sottesi sono: i) che le procedure siano trattate in modo efficiente, in vista del loro sollecito svolgimento, in quanto la loro durata eccessiva «determina incertezza giuridica per i creditori e gli investitori e bassi tassi di recupero» (Cons. 85); ii) che le «decisioni aventi ripercussioni economiche e sociali potenzialmente significative» siano adottate in modo appropriato (Cons. 86).

Peraltro, al fine di non interferire oltremodo con l’autonomia organizzativa del potere giudiziario all’interno dell’Unione, la Dir. non si è spinta fino al punto di imporre una forma di specializzazione assoluta, secondo i canoni di esclusività e concentrazione[28], dando espressamente atto che non è necessario prevedere che «un'autorità giudiziaria debba occuparsi esclusivamente di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione», e che non vi è nemmeno obbligo per gli Stati membri di «dare priorità alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione rispetto ad altre».

Tuttavia, il legislatore europeo non ha rinunciato a suggerire che un modo efficace per raggiungere gli obiettivi di efficienza perseguiti dalla Dir. potrebbe essere proprio «la creazione di organi giudiziari o sezioni specializzati, o la nomina di giudici specializzati conformemente alla legislazione nazionale, nonché la concentrazione della competenza in un numero limitato di autorità giudiziarie o amministrative» (Cons. 86).

Sul punto si registra – con rammarico – il mancato recepimento, nel d.lgs 12 gennaio 2019, n. 14 (il CCII di prossima applicazione)[29], del principio di cui all’art. 2, co. 1, lett. n), della legge delega n. 155 del 2017, il quale era appunto volto ad «assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti attuata». Ad oggi, è stata implementata solo la competenza dei tribunali sede di sezioni specializzate in materia d’impresa per le procedure di amministrazione straordinaria e le cause che ne derivano, a norma dell’art. 27, co. 1, CCII, la cui entrata in vigore è stata peraltro anticipata dall’art. 389, co. 2, CCII). I tribunali concorsuali ordinari invece erano e restano centoquaranta.

Nel panorama europeo invece, al di là degli ordinamenti già tradizionalmente fondati sulla giurisdizione specializzata in materia commerciale e concorsuale, come quello francese (les tribunaux de commerce)[30], molti Stati membri hanno adottato – con estrema lungimiranza – il principio della specializzazione dei giudici, attuando lo spirito, prima ancora che la lettera, della Dir.; ad esempio, il Confirmation of Extragiudicial Restructuring Plan olandese (cd. CERP) ha affidato le procedure di ristrutturazione a un panel di giudici specializzati ed esperti che si occupano esclusivamente di quel tipo di procedure, per assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni; analogamente, la Unternehmens Stabilisierungs und Restrukturierungs Gesetz tedesca (cd. StaRUG) ha istituito un vero e proprio “Tribunale della Ristrutturazione”.

Scorrendo i testi normativi delle riforme di quei Paesi, che godono notoriamente di ampia credibilità nel contesto economico internazionale, emerge la nitida consapevolezza – del resto unanimemente condivisa, quantomeno a livello teorico – che un elevato livello di specializzazione dei giudici (e delle autorità amministrative) addetti alla materia concorsuale produce senza ombra di dubbio una maggiore efficienza delle procedure, perché consente di ridurre i tempi e i costi della ristrutturazione (così come della liquidazione giudiziale), grazie all’attribuzione ai giudici di quel tasso di discrezionalità necessario a rendere più flessibili le procedure e più snelle le norme che le disciplinano.

Ad esempio, tanto il legislatore olandese quanto quello francese si sono avvalsi della facoltà di derogare al principio della RPR e hanno optato per la regola facoltativa della APR. Tuttavia entrambi, per superare le evidenti rigidità della seconda, hanno attinto a piene mani alla possibilità, prevista dall’art. 11, par. 2 , co. 2, Dir., di prevedere deroghe alla APR «qualora queste siano necessarie per conseguire gli obbiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate». E per far ciò hanno rimesso alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria – con norme la cui linearità è direttamente proporzionale alla generalità che le caratterizza – il compito di individuare i casi in cui sussistano ragionevoli motivi per discostarsene, senza pregiudizio per i creditori (o i soci) delle classi dissenzienti interessate[31], ovvero il potere di derogare a quella regola, su istanza del debitore o dell’amministratore giudiziario (con l’accordo del primo) quando è necessario per conseguire gli obbiettivi del piano, sempre che esso non pregiudichi eccessivamente i diritti delle parti interessate[32]. Una analoga – ma più circoscritta – discrezionalità giudiziale è prevista dal legislatore tedesco nella Sezione 28(1) della StaRUG, che consente una deroga alla APR se giustificata dalle concrete difficoltà economiche da superare, tenuto conto delle circostanze del caso[33].

E’ dunque evidente che le deroghe alla APR integrano una discrezionalità – ed un conseguente margine di incertezza – assai maggiore di quanto non sia applicando direttamente la RPR, che integra una regola più elastica, ma almeno predeterminata.

Ciò significa che, in assenza di una completa specializzazione degli organi giudiziari o amministrativi che si occupano della materia concorsuale – non limitata cioè alla formazione, ma estesa alla esclusività e alla concentrazione, aspetti invero essenziali per la certezza e prevedibilità delle decisioni – è sconsigliabile mantenere ferma la regola della APR (più adatta alle ristrutturazioni liquidatorie, per la loro maggiore assimilabilità alle liquidazioni giudiziali) per poi dover necessariamente indulgere ad inevitabili deroghe, fondate su margini di discrezionalità elevati; è invece preferibile adottare una regola che possa recepire gli indiscutibili vantaggi, in termini di flessibilità (e dunque di incentivazione alla ristrutturazione in continuità aziendale) della RPR, senza essere poi costretti ad introdurre deroghe con ampi margini di discrezionalità che, in assenza di un nucleo ristretto di organi giudiziari dedicati in via esclusiva alla trattazione della materia, finirebbero per mettere a rischio le esigenze di certezza e prevedibilità delle decisioni e così la stessa efficienza delle procedure di ristrutturazione.

Un ulteriore terreno di confronto sui temi interconnessi della specializzazione e della discrezionalità dell’autorità giudiziaria sono i criteri di omologazione del piano.

Emblematico è il caso del CERP olandese, che nell’elencare i criteri di omologabilità del piano, non solo li distingue tra quelli obbligatori («the court shall deny a request to confirm») e quelli facoltativi («the court may refuse to confirm the plan»), ma contempla tra i primi – con una formula la cui latitudine farebbe rabbrividire non pochi giuristi italiani – il fatto che «other reasons militate against confirmation» (art. 384, comma 2, lett. i): vale adire assoluta discrezionalità, appunto, di quel ristretto panel di giudici specializzati ed esperti che si occupano esclusivamente di procedure concorsuali di ristrutturazione.

 Per non dire dell’affidamento che viene riposto nell’alta specializzazione di quegli stessi giudici dei Paesi Bassi, sempre al fine di assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni nelle procedure di ristrutturazione: l’art. 369, co. 10 del CERP dispone infatti – con una previsione quasi inconcepibile nel nostro ordinamento – che, salva diversa e specifica disposizione, le decisioni del tribunale non sono soggette ad alcuna forma di impugnazione («Unless determined otherwise, decisions of the court in the context of this Section are not subject to any ordinary remedies»).

 

5. Con quale strumento attuare la Direttiva (UE) 2019/1023?

La domanda è d’obbligo, ma al di là della risposta che verrà fornita dal legislatore, è innegabile che, di fronte dell’esuberante palinsesto degli strumenti nazionali di regolazione della crisi e dell’insolvenza disciplinati dal CCII – che peraltro il recente d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla l. 21 ottobre 2021, n. 147, ha ulteriormente incrementato, introducendo gli istituti della «composizione negoziata della crisi»[34] e del «concordato semplificato» – non si avverte sicuramente l’esigenza di introdurne uno nuovo, ben potendosi intervenire con modifiche su quelli già esistenti.

Al momento, infatti, al di là degli istituti vigenti della l.fall., il panorama del nostro ordinamento concorsuale consta di una lunga serie di istituti e strumenti già in vigore, o di applicazione imminente o rinviata, la cui tassonomia è già di per sé impressionante:

1)             il contratto concluso nell’ambito della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa che secondo la relazione dell’esperto facilitatore assicuri la continuità aziendale per almeno due anni (art. 11 lett. a), d.l. 118/2021), accessibile da qualsiasi imprenditore ma con norme speciali dettate per l’imprenditore “sotto soglia” (art. 17) e per i gruppi di imprese (art. 13), con le misure premiali previste dal successivo art. 14;

2)             l’accordo raggiunto nel procedimento di composizione assistita della crisi dinanzi all’OCRI (artt.19-20 CCII), con esonero da revocatoria equivalente al piano attestato di risanamento e con la possibilità, su richiesta, di sospensione delle azioni esecutive e cautelari e degli obblighi di ricapitalizzazione, fruibile da qualsiasi imprenditore ma con norme speciali per l’imprenditore agricolo e quello “minore” (art. 12, co. 7, CCII);

3)             l’accordo in esecuzione di un piano attestato di risanamento (art. 56 CCII), con esonero da revocatoria ex art. 166, co. 3, lett. d), destinato a qualsiasi imprenditore;

4)             l’accordo di ristrutturazione ordinario con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (artt. 57-59 CCII), con le medesime sospensioni, l’esonero da revocatoria ex art. 166, co. 3, lett. e) e la prededucibilità dei finanziamenti in funzione o in esecuzione ex artt. 99 e 101, che nella vigente versione dell’art. 182-bis l.fall. è stato già reso più fluido dall’art. 20, co. 1, lett. a) e b), d.l. 118/2021, con i nuovi commi 4 (possibilità di adesione entro novanta giorni) e 8 (modifiche del piano ante e post omologa), anch’esso rivolto a qualsiasi imprenditore che non sia però “sotto soglia”;

5)             l’accordo di ristrutturazione agevolato (art. 60 CCII), con percentuale dimezzata al 30% dei crediti in assenza di stay e moratorie, anticipato dall’art. 20, co. 1, lett. f), d.l. 118/2021, che ha introdotto l’art. 182-novies l.fall., anch’esso rivolto a qualsiasi imprenditore non minore;

6)             l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII) raggiunto con il 75% dei crediti di creditori appartenenti ad un’unica categoria, che solo in presenza di banche e intermediari finanziari rappresentanti oltre la metà dell’indebitamento può essere di tipo liquidatorio, anticipato dall’art. 20, co. 1, lett. e), d.l. 118/2021, che ha modificato l’originario art. 182-septies l.fall., destinato a qualsiasi imprenditore non minore;

7)              l’accordo di ristrutturazione a efficacia estesa “rinforzato” ex art. 11, co. 2, d.l. 118/2021, che ha ridotto la soglia al 60% dei crediti se il raggiungimento dell’accordo risulta dalla relazione finale dell’esperto, rivolto a qualsiasi imprenditore non minore;

8)             la convenzione di moratoria (art. 62 CCII), fruibile da qualsiasi imprenditore[35] e anticipata dall’art. 20, co. 1, lett. f), d.l. 118/2021, con il nuovo art. 182-octies l.fall.;

9)             la transazione fiscale e gli accordi su crediti contributivi nell’ambito delle trattative che precedono l’accordo di ristrutturazione (art. 63 CCII), con il cram down d’ufficio per i crediti fiscali e previdenziali, introdotto nell’art. 182-bis, co. 4, l.fall. dal d.l. 7 ottobre 2020 n. 125, convertito dalla l. n. 248/2020 (in vigore dal 4 dicembre 2020) e da ultimo corretto dall’art. 20, co. 1, lett. a), d.l.118/2021, che ha sostituito la «mancanza di voto» con «mancanza di adesione», fruibile da qualsiasi imprenditore non minore;

10)             il concordato preventivo liquidatorio (art. 84 co. 4, CCII) o con assuntore (art. 85 co. 3 lett. b), CCII);

11)             il concordato preventivo con continuità aziendale, diretta o indiretta (artt. 84 co. 2 e 3 CCII) – in cui i creditori devono essere «soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità», condizione che si presume «quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un’attività d’impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso»[36] – non accessibile da imprenditori agricoli e minori;

12)             il trattamento dei crediti tributari e contributivi nel concordato preventivo (art. 88 CCII) con il cram down d’ufficio per i crediti fiscali e previdenziali, introdotto nell’art. 180, co. 4, l.fall. dal d.l. 7 ottobre 2020 n. 125, convertito dalla l. n. 248/2020 (in vigore dal 4 dicembre 2020) e da ultimo corretto dall’art. 20, comma 1, lett. a), d.l. 118/2021, con analoga sostituzione della «mancanza di voto» con «mancanza di adesione», cui parimenti non hanno accesso l’imprenditore agricolo e quello minore;

13)             il concordato liquidatorio semplificato (comprensivo della continuità indiretta) fruibile da qualsiasi imprenditore ma solo all’esito della composizione negoziata (artt. 18 e 19 d.l. 118/2021), con norme speciali dettate dall’art. 17 per quello minore;

14)             il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati di risanamento dei gruppi di imprese (artt. 284 ss. CCII);

15)             il concordato minore (art. 74 ss. CCII), cui se non diversamene disposto si applicano le disposizioni del concordato preventivo in quanto compatibili (art. 74, co. 4 CCII), destinato a imprenditore agricolo, imprenditore minore, professionista e start-up;

16)             la ristrutturazione dei debiti del consumatore (art. 67 ss. CCII), che assorbirà l’accordo di ristrutturazione del sovraindebitato ex art. 7, l. n. 3 del 2012;

17)             la liquidazione giudiziale (artt. 121 ss. CCII), destinata a sostituire il fallimento, e il concordato nella liquidazione giudiziale (artt. 240 ss. CCII), ex concordato fallimentare;

18)             la liquidazione giudiziale delle società (artt. 254 ss. CCII) e il concordato nella relativa procedura (artt. 265 ss. CCII);

19)             la procedura unitaria di liquidazione giudiziale dei gruppi (artt. 286 s. CCII);

20)             la liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268 ss. CCII), destinata ad assorbire la liquidazione dei beni ex art. 14-ter, l. n. 3 del 2012;

21)             le procedure di esdebitazione (artt. 278 ss. CCII);

22)             la liquidazione coatta amministrativa e il relativo concordato (artt. 293 ss. CCII);

23)             le liquidazioni coatte amministrative disciplinate da leggi speciali;

24)             le amministrazioni straordinarie disciplinate da leggi speciali.

Il semplice elenco di questo armamentario di procedure dà la misura di quanto l’introduzione di un ulteriore strumento esporrebbe il nostro ordinamento a comprensibili critiche di elefantiasi o bizantinismo, essendo innegabile il valore aggiunto degli ordinamenti giuridici caratterizzati da chiarezza, semplicità e linearità[37].

Peraltro, tra alcuni di questi strumenti si è instaurata una sorta di “circolarità”[38], inizialmente circoscritta ai rapporti tra accordi di ristrutturazione e concordato preventivo, ma da ultimo estesa, con la normazione da emergenza Covid-19, ai piani attestati di risanamento. Infatti, fino al 31 dicembre 2022 (termine così prorogato dall’art. 21 del d.l. 118/2021), tanto il concordato preventivo con riserva, quanto le trattative sull’accordo di ristrutturazione, potranno sfociare in un piano attestato di risanamento, previa rinuncia del debitore alle originarie domande e ai termini concessi ex artt. 161 co. 6, o 182-bis, co. 7, l.fall., con conseguente declaratoria di improcedibilità delle relative procedure, qualora egli documenti la pubblicazione del piano attestato nel registro delle imprese[39].

Lo stesso CCII contempla la possibilità di virare dal concordato preventivo agli accordi di ristrutturazione, muovendo da un’unica domanda iniziale (v. artt. 40, co. 1[40], 44 co. 1, lett. a)[41] e 54, co. 6)[42], in sintonia con la flessibilità predicata dal Cons. 29 per contribuire all’efficienza della ristrutturazione preventiva, al fine di ridurne tempi e costi.

Orbene, il legislatore europeo non ha inteso imporre agli Stati membri l’adozione di un unico strumento in toto conforme alle prescrizioni della Dir., consentendo di procedere alla sua attuazione anche attraverso «una o più procedure, misure o disposizioni», alcune delle quali realizzabili anche «in sede extragiudiziale», a condizione, però, che tutti i diritti e le garanzie allestiti dal Titolo II della Dir. siano conferiti – in modo coerente – ai debitori e a tutte le parti interessate (art. 4, par. 5 Dir.), obbiettivo che può essere realizzato solo assicurando la massima flessibilità e fluidità tra i diversi strumenti in ipotesi utilizzati.

E’ evidente che questa chance data agli Stati membri di implementare la Dir. in modo “diffuso” – purché esaustivo e coerente –, se da un lato può avere un minor impatto sui sistemi concorsuali nazionali (poiché consente di innovare il meno possibile, ricucendo all’interno dei diversi strumenti esistenti le caratteristiche della nuova ristrutturazione preventiva unionale), dall’altro presenta sicuramente un maggior grado di complessità tecnica – con inevitabili riflessi anche a livello attuativo – poiché richiede l’adozione di specifici raccordi processuali tra i singoli strumenti coinvolti, diretti a preservarne la modularità, onde assicurare effettiva continuità all’iniziativa del debitore. Deve infatti garantirsi che il percorso di ristrutturazione preventiva del debitore sia effettivamente rapido e unitario, non già frammentato in segmenti caratterizzati da diversi presupposti, poiché ciò contravverrebbe all’obbiettivo prioritario di evitare l’allungamento dei tempi e l’aumento dei costi della ristrutturazione a carico del debitore, i quali si riverberano negativamente sui creditori per i minori tassi di recupero (cfr. Cons. 15, 17, 29 Dir.).

E’ invero un dato acquisito che le regole dettate dal Tit. II della Dir. si attagliano ora all’uno ora all’altro degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza italiani, ed in particolare ai due istituti maggiormente assimilabili ai preventive restructuring frameworks, il concordato preventivo in continuità aziendale e gli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa. Ad esempio, la possibilità di non coinvolgere tutti i creditori nelle trattative e nel piano (art. 8, par. 1, lett. e) Dir.) è coerente con i secondi ma non con il primo, mentre la possibilità di omologazione a maggioranza delle classi (art. 11 Dir., cd. cross-class cram-down) è presente nel primo ma non nei secondi.

Sennonché, gli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa (art. 61 CCII) richiederebbero maggiori adattamenti, che finirebbero per imbrigliarne la preziosa snellezza e flessibilità. Tra essi, accanto all’estensione dell’applicazione in caso di continuità aziendale non prevalente (profilo comunque da riformare anche nel concordato preventivo ex art. 84 CCII), possono menzionarsi: la previsione di ulteriori casi di nomina obbligatoria del commissario giudiziale; l’introduzione di una disciplina specifica per i contratti pendenti e di un articolato regime delle autorizzazioni giudiziali; una disciplina più stringente del giudizio di omologazione; l’introduzione del meccanismo della ristrutturazione trasversale (cross-class cram-down); l’introduzione di vincoli distributivi, quantomeno in termini di RPR; la possibilità di falcidia dei prelatizi incapienti; il coinvolgimento dei soci o comunque meccanismi per impedire manovre ostruzionistiche.

In ultima analisi, lo strumento che allo stato sembra più facilmente assoggettabile alle innovazioni rese necessarie dalla Dir., in quanto più vicino per ratio e disciplina ai preventive restructuring frameworks, è certamente il concordato preventivo in continuità aziendale.

Per operare questo adattamento – e soprattutto per farlo in modo lineare, rinunciando a complicazioni di carattere processuale dettate da un attaccamento alla tradizione giuridica, che dovrà cedere giocoforza al processo di armonizzazione in corso – occorre una buona dose di moderno spirito innovativo, capace di realizzare il duplice obbiettivo di una fedele implementazione della Dir. e di una coraggiosa semplificazione del nostro ormai ipertrofico (per quanto raffinato) sistema concorsuale.

 

6. Lineamenti di un modello europeo di concordato in continuità

All’esito di questa disamina, e guardando all’imminente futuro attraverso la finestra del PNRR, si possono scorgere i lineamenti di un nuovo modello europeo di ristrutturazione preventiva, senza mai dimenticare che, per ora, la Dir. (UE) 2019/1023 non tange le ristrutturazioni esclusivamente liquidatorie.

Ne consegue che, volendo giocare la partita sul terreno del concordato preventivo, quello in continuità aziendale (le cui origini risalgono al d.l. n. 83 del 2012, convertito dalla l. n. 134 del 2012, che ha introdotto nell’ordinamento italiano l’art. 186-bis l.fall.) dovrà più nitidamente assumere la fisionomia di uno strumento distinto e differenziato – per finalità, principi e regole – dal concordato meramente liquidatorio, al quale potranno invece continuarsi ad applicare le regole della nostra tradizione giuridica.

In questo nuovo tipo di ristrutturazione preventiva caratterizzata dalla continuazione dell’attività imprenditoriale – fortemente agevolata per i benefici che può arrecare non solo ai creditori, ma anche ai lavoratori, agli altri stakeholders e ai soci, oltre che allo stesso imprenditore e all’intero sistema economico – la flessibilità data al debitore è estrema, poiché egli può costruire l’architettura del piano di concordato senza essere vincolato a priori dalle consuete regole distributive (prima fra tutte quella consacrata dall’art. 160, co. 2, seconda parte l.fall., ripetuta nell’art. 85, co. 6, CCII), puntando in prima battuta ad ottenere, attraverso un accorto dosaggio di proposte parametrate alle peculiarità delle classi (obbligatoriamente formate), il consenso della maggioranza dei creditori di ciascuna di esse (senza necessità di ottenere anche la maggioranza dei crediti complessivamente ammessi al voto, come richiesto dall’art. 177 co. 1, l.fall., ripetuto nell’art. 109 co. 1 CCII).

Ove questo primo obbiettivo fosse realizzato (con il raggiungimento di un equilibrio paretiano tra le varie riduzioni e dilazioni possibili, in vista di una ristrutturazione efficiente per tutte le parti interessate, proprio grazie al “fattore continuità”), il piano andrebbe comunque sottoposto all’omologazione del tribunale, il quale dovrebbe controllare d’ufficio, in tempi perentoriamente rapidi: i) l’osservanza di tutte le regole procedurali; ii) la corretta formazione delle classi e il rispetto della regola di pari trattamento all’interno di ciascuna classe; iii) che il piano non risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore, o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa; iv) che qualsiasi nuovo finanziamento previsto dal piano non pregiudichi ingiustamente gli interessi dei creditori.

Il tribunale dovrebbe altresì verificare – ma solo se ne faccia richiesta un creditore dissenziente – che questi non riceva una soddisfazione inferiore a quella che potrebbe conseguire in caso di liquidazione giudiziale (cd. test di non pregiudizio).

Qualora invece quella felice “alchimia” non riuscisse, il debitore dovrebbe poter chiedere al tribunale – senza soluzione di continuità – l’omologazione mediante ristrutturazione trasversale, per rendere il piano vincolante per le classi dissenzienti.

In quel caso il tribunale, oltre a svolgere le verifiche richieste in caso di unanimità delle classi, dovrebbe altresì appurare: v) che il piano sia stato approvato dalla maggioranza delle classi, di cui almeno una privilegiata o, in difetto, da almeno una classe (il legislatore ne potrà preveder anche più, purché non tutte) che sia “in the money” (v. sopra); vi) che rispetto alle classi dissenzienti sia rispettata la RPR (o la APR, pura o temperata, ovvero una combinazione delle due regole); vii) che nessuna classe riceva più dell’importo integrale ad essa spettante.

Anche in questa seconda ipotesi resterebbe ferma la facoltà per qualsiasi creditore dissenziente (appartenente a qualsiasi classe) di richiedere il best-interest-of-creditors-test.

Il fatto che il tribunale possa procedere alle complesse e costose stime del valore di liquidità o del valore di continuità solo su richiesta della parte che abbia sollevato le correlate contestazioni di cui sopra, contribuisce – insieme all’eliminazione della fase di ammissione – a rendere la procedura concordataria più rapida, accessibile ed efficiente.

Inoltre, la possibilità per la corte d’appello di confermare l’omologazione del piano nonostante la fondatezza dell’opposizione – semmai apportandovi le necessarie modifiche – e di disporre, se del caso, un indennizzo a favore della parte vittoriosa (ritraibile da appositi fondi previsti nel piano), consente al nostro ordinamento di attingere a quella maggiore pragmaticità che caratterizza l’ordinamento europeo (e quello di molti Stati membri) quanto mai opportuna in una materia, come quella concorsuale, in cui i profili giuridici sono inscindibilmente intrecciati con quelli economici.

In ultima analisi, l’aspetto più qualificante di questo nuovo modello europeo di concordato in continuità aziendale è l’estrema libertà e flessibilità del piano, con l’eliminazione di vincoli distributivi precostituiti che potrebbero far abortire sul nascere una ristrutturazione capace, in tesi, di raccogliere il consenso dei creditori interessati, proprio grazie al valore aggiunto della continuità aziendale.

E’ ovvio che la presenza, a valle, di alcuni di quei vincoli – per quanto attivabili solo su richiesta dei creditori dissenzienti (test di non pregiudizio) o in presenza di classi dissenzienti (RPR o APR) – orienterebbero lo stesso debitore a non discostarsene oltremodo nella proposta.

Ma ciò non toglie che si tratta di un notevole impulso alla ristrutturazione preventiva in continuità aziendale, dove il debitore, essendo un imprenditore che resta sul mercato, deve necessariamente disporre di una maggiore libertà d’azione rispetto a quello che si limiti a liquidare la propria attività.

In questa cornice, l’autorità giudiziaria resta saldamente presente ma interviene in modo più incisivo solo negli spazi non colmati dal consenso (anche maggioritario) delle parti interessate, restando a presidio di principi invalicabili laddove gli interessi siano ingiustamente pregiudicati. Si tratta infondo di un inedito mix di autonomia ed eteronomia che potrebbe consentire l’ottimale (o almeno una migliore) allocazione delle risorse.



[1] M. Fabiani, Il concordato preventivo: codice della crisi e direttiva sui quadri di ristrutturazione, ovvero il concordato preventivo in mezzo al guado: una relazione “impossibile”, in Atti del corso SSM “La disciplina del concordato preventivo”, (P21091), 10-12 novembre 2021, pag. 9.

[2] Tra i numerosi interventi possono ricordarsi, oltre alla Direttiva (UE) 2019/1023:la Risoluzione del Parlamento Europeo del 15 novembre 2011 sulle procedure d’insolvenza nel contesto del diritto societario dell’UE, che comprendeva anche l’armonizzazione delle condizioni per l’elaborazione, l’impatto e i contenuti dei piani di risanamento; il Piano d’Azione Imprenditorialità 2020 COM(2012), adottato dalla Commissione il 9 gennaio 2013; la Raccomandazione della Commissione n. 2014/135/UE del 12 marzo 2014 su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all'insolvenza; il Regolamento (UE) 2015/848 del parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015 relativo alle procedure di insolvenza – rifusione del Regolamento (CE) n. 1346/2000; il Piano d’azione della Commissione europea per dare impulso all’Unione dei mercati dei capitali (Capital Market Union) del 24 settembre 2020, che tra le misure messe in campo per realizzare gli obiettivi-chiave include quella di «rendere più armonizzate o convergenti le norme in materia di insolvenza». In funzione complementare alla Direttiva Insolvency, la Commissione UE ha già lanciato l’iniziativa Survey 2021 per «rafforzare la convergenza del diritto fallimentare» su ulteriori e molteplici aspetti, tra i quali: responsabilità e doveri degli amministratori delle società nell'imminenza dell'insolvenza; status e obblighi degli amministratori delle procedure di insolvenza; grado dei crediti; azioni revocatorie; individuazione e conservazione dei beni appartenenti alla massa fallimentare; nozioni procedurali fondamentali.

[3] Vi sono altresì comprese le situazioni in cui il debitore attraversa difficoltà di natura non finanziaria, purché comportanti una reale e grave minaccia per la sua capacità effettiva o futura di pagare i debiti in scadenza, da apprezzare in un arco temporale di alcuni mesi o anche più lungo, al fine di tener conto dei casi nei quali le difficoltà economiche (come ad esempio la perdita di un appalto fondamentale) minacciano la continuità aziendale e, a medio termine, la liquidità del debitore (Cons. 17 Reg., ripreso letteralmente dal Cons. 28 Dir.).

[4] Esulano invece dal campo di applicazione del Reg. – nonostante svolgano un ruolo importante in alcuni Stati membri – «le procedure d'insolvenza di carattere riservato», poiché la loro riservatezza non consente a creditori e giudici di essere al corrente della loro apertura in un altro Stato membro, rendendo perciò difficoltoso un riconoscimento dei loro effetti attraverso l'Unione (Cons. 13).

[5] Cass. 1182/2018 in Fall., 2018, 185; Cass. 12965/2018, in Giur. comm., 2019, 762; Cass. 10106/2019, in www.ilcaso.it; Cass. 15724/2019, in Fall., 2019, 1011; Cass. 11985/2020 in www.italgiure.it

[6] Cass. 12 aprile 2018 n. 9087, inDir.fall., 2019, 444 ss. con nota adesiva di M. Del Linz, e in Fall., 2018, 984 ss., con nota adesiva di C. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione sono una procedura concorsuale; la Cassazione completa il percorso; conf. in dottrina E. Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57 ccii): una procedura concorsuale, tra vecchie certezze e nuove incertezze normative, in Dir.fall., 2021, 5, la quale ritiene che l’indirizzo dottrinario contrario – cfr. M. Fabiani, La nomenclatura delle procedure concorsuali e le operazioni di ristrutturazione, in Fall., 2018, 296 ss.; M. Pompili, In tema di natura giuridica degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Fall., 2019, 1382 ss.; G. Bruno, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Contr. impr., 2021, 440 – si basa su un malinteso concetto di concorsualità, ed in particolare sull’erronea identificazione del principio del concorso dei creditori con quello della par condicio, laddove, «secondo la classica impostazione di dottrina, i due principi non vanno confusi: il principio del “concorso” concerne la “ragione” del concorso fra gli aventi diritto, mentre la parità di trattamento è solo uno dei modi possibili di attuazione del principio». Sulla stessa lunghezza d’onda si osserva (V. D. Gesumundo, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Metamorfosi di una procedura concorsuale, in Giur. comm., 2019, 772), che «il palinsesto degli strumenti di soluzione della crisi si è progressivamente arricchito e probabilmente non è più logico fare riferimento a categorie rigide, in presenza di un nucleo comune di garanzie giurisdizionali che consentono di verificare la coerenza con i valori costituzionali del sacrificio imposto ai creditori per la più efficiente soluzione della crisi», donde la necessità di «un approccio unitario ogni volta che si ha un intervento del giudice nella soluzione della crisi, variamente graduato». Anche secondo G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. comm., 5, 2021, 972 ss., «al di là delle categorie giuridiche e dei nomina delle varie procedure, ciò che sembra rilevare sono le conseguenze di una data procedura per i soggetti interessati» e, in particolare, «quali siano le tutele opportune nel caso in cui un soggetto (…) sia costretto ad accettare un sacrificio della propria pretesa (ad es., la falcidia o la dilazione) contro la sua volontà»; l’autrice ricorda anche che in base alla Creditors’ Bargain Theory – dottrina statunitensesviluppata da T.H. Jackson, in The Logic and Limits of Bankruptcy Law, Cambridge (MA)-London, Harvard University press, 1986 (che ha influenzato anche il diritto concorsuale di altri ordinamenti giuridici fondati su un’economia di mercato) – «il diritto della crisi è considerato un meccanismo alternativo all'esecuzione individuale idoneo a risolvere un problema di coordinamento fra i vari titolari di pretese nei confronti del patrimonio del debitore (c.d. common pool problem), al fine di massimizzare il valore a disposizione di tutti». Da ultimo è stato acutamente osservato che la stessa composizione negoziata introdotta dal d.l. n. 118 del 2021 ha inaugurato un ulteriore volto della concorsualità, «perlomeno quella intesa come regolazione ordinata e strutturata delle posizioni dei creditori», nonostante essa operi prima e al di fuori delle procedure concorsuali, e però con non pochi interventi incidentali del giudice «sugli snodi cruciali della negoziazione in itinere», ritenuti essenziali per il «presidio dei diritti e contemperamento degli interessi» coinvolti, tanto da realizzare una sorta di giurisdizione “selettiva”, ove il giudice assume l’inedito compito di conciliare «la libertà dell’impresa in bonis nella gestione della propria attività e nella ristrutturazione del proprio indebitamento e la tutela effettiva dei creditori», diventando una sorta di «metronomo tra la disciplina giuridica e il fenomeno economico, essendogli demandato il compito di saldare, con flessibilità d’approccio, il divario tra la velocità del mercato e staticità delle regole chiamate a disciplinarlo» (L. De Simone, Le autorizzazioni giudiziali, in www.dirittodellacrisi.it, 9 dicembre 2021, 14 s.).

[7] A. Danovi, S. Giacomelli, P. Riva, G. Rodano, Strumenti negoziali per la soluzione delle crisi d’impresa: il concordato preventivo, in Questioni di Economia e Finanza, n. 430, marzo 2018, in www.bancaditalia.it.

[8] In linea di principio il diritto di voto spetta a tutte le parti interessate, e quindi anche ai soci; l’art. 9, par. 2 e 3, Dir. consente eccezionalmente di escluderli (come anche le parti correlate o i creditori postergati) a condizione che vengano adottate apposite norme dirette a non consentire ai soci di impedire od ostacolare irragionevolmente l’adozione, l’omologazione o l’attuazione del piano (art. 12 Dir.). Al riguardo si osserva incidentalmente che il Cons. 43 ammette «eccezioni limitate» alla regola del diritto di voto, e la ristretta latitudine dell’eccezione rende improbabile che la moratoria senza voto dei privilegiati, ex art. 186-bis l.fall. (che peraltro l’art. 20, co. 1, lett. g), d.l. n. 118 del 2021 ha aumentato da uno a due anni) sia compatibile con la Dir.

[9] G. Ballerini, op.cit., 973, non condivide l’approccio della Dir. per cui «una misura o un’azione potrebbe essere ammissibile anche quando pregiudica gli interessi dei creditori come gruppo, se promuove altri interessi che si ritiene abbiano un peso maggiore degli interessi dei creditori», che l’autrice individua nel Cons. 2, ove si legge che i quadri di ristrutturazione preventiva «dovrebbero impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori, rispetto a quanto avrebbero ricevuto in caso di liquidazione degli attivi della società o nel caso del migliore scenario alternativo possibile in mancanza di un piano, così come per i proprietari e per l'economia nel suo complesso».

[10] P. Vella, I quadri di ristrutturazione preventiva nella Direttiva UE 2019/1023 e nel diritto nazionale, in Fall., 2020, 1034.

[11] G. Ballerini, op.loc.cit., secondo la quale, al di là di queste contrapposte visioni, «che il principio della par condicio stia subendo un lento declino è una questione che attiene a scelte del legislatore delle quali il diritto della crisi dovrebbe semplicemente – o comunque prevalentemente, se si seguono le tesi più stakeholders oriented – prendere atto».

[12] Cfr. M. Fabiani, I. Pagni, Introduzione alla composizione negoziata, in Fall., 2021, 1484, per i quali «più di tutto conta l’obiettivo del risanamento, ma non fine a sé stesso, bensì quale mezzo per salvaguardare il miglior interesse dei creditori»; L. De Simone, op.cit., pag. 14, per la quale «la continuità dell’attività d’impresa non potrà mai essere avulsa dalla tutela del credito e sarà proprio il giudice a ad assicurare il coordinamento fra i due piani».

[13] Sul tema parallelo della distribuzione delle risorse, si è osservato che sarebbe come dire che «se tutti stanno meglio rispetto ad un confronto con la dissoluzione dell'impresa, non importa che alcuni stiano meglio di altri» (M. Fabiani, Appunti sulla responsabilità patrimoniale «dinamica» e sulla de-concorsualizzazione del concordato preventivo, in AA.VV., Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, diretto daS. Ambrosini,Bologna, 2017, 51 s.).

[14] All’originario art. 4, par. 3 della Proposta di Dir., che imponeva agli Stati membri di limitare «la partecipazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa ai casi in cui è necessaria e proporzionata alla salvaguardia dei diritti delle parti interessate», è subentrato l’attuale art. 4, par. 6 della Dir., per cui gli Stati membri “possono” «prevedere disposizioni che limitino la partecipazione dell’autorità giudiziaria o amministrativa a un quadro di ristrutturazione preventiva ai casi in cui è necessaria e proporzionata», ma “devono” garantire «la salvaguardia dei diritti delle parti e dei pertinenti portatori di interessi».

[15] Mentre per l’originario art. 5 della Proposta di Dir. la nomina doveva sempre essere effettuata caso per caso, potendo gli Stati membri renderla obbligatoria solo in due ipotesi tassative (concessione dello stay generale e omologa del piano con il cross-class cram-down), l’attuale art. 5 della Dir. ha lasciato liberi gli Stati membri di rendere la nomina automatica «in determinate situazioni» e l’ha comunque resa obbligatoria almeno in tre casi: a) quando è concesso lo stay generale e l’autorità giudiziaria o amministrativa decide che il professionista è necessario per tutelare gli interessi delle parti; b) quando il piano deve essere omologato con il cross-class cram-down; c) quando la nomina è chiesta dal debitore o dalla maggioranza dei creditori che si fanno carico del costo.

[16] L’art. 10, par. 4 Dir. impone agli Stati membri di assicurare che la decisione sull’omologazione del piano sia adottata «in modo efficace» e avvenga in «tempi rapidi».

[17] Va peraltro dato atto che alcuni Stati membri, come i Paesi Bassi, hanno tradotto il criterio della Dir. in modo più rigoroso del dato testuale, prevedendo il diniego di omologazione quando la fattibilità del piano di ristrutturazione non sia sufficientemente garantita (v. art. 384, co. 2, lett. e), CERP olandese).

[18] La fase dell’omologazione non potrà mai essere eliminata dagli Stati membri – nemmeno in caso di unanimità delle classi – non solo quando il piano preveda nuovi finanziamenti, ma anche quando vi siano parti dissenzienti o il piano comporti la perdita di più del 25% della forza lavoro (art. 10, par. 1 Dir.)

[19] La previsione di un trattamento almeno equivalente tra le classi dello stesso rango (che il legislatore europeo ha sentito la necessità di richiamare solo per la RPR, ritenendolo forse implicito nella APR) evoca la cd. regola di non discriminazione, di matrice statunitense – declinata come no unfair discrimination rule nell’art. 1129(b)(1) del Chapter 11 – quale criterio distributivo applicabile nei rapporti orizzontali tra le classi, nel rispetto del principio di equality of creditors; tuttavia, nel sistema italiano, sinora caratterizzato dalla APR e (con sempre più estese eccezioni) dal principio della par condicio creditorum è ammessa la creazione di diverse classi dello stesso rango (ad es. chirografari) con trattamento differenziato. Solo nel 2006, con l’introduzione della transazione fiscale ex art. 182-ter l.fall. (che applica una regola quasi identica all’attuale RPR), si è affermato il principio per cui, «se il credito tributario ha natura chirografaria, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari, ovvero» (come successivamente precisato dal d.l. n. 185 del 2008, convertito dalla l. n. 2 del 2009) «nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole». Sul tema in dottrina v. G. Ballerini, Le ricadute di diritto italiano della regola di non discriminazione nella Direttiva Restructuring, in Giur. comm., 5, 2021, 975 ss., ove si richiamano le diverse letture della no unfair discrimination rule ed in particolare quella estensiva (Broad test) – in base alla quale, per verificare se un piano sia ingiustamente discriminatorio rispetto a una o più classi dissenzienti, «occorrerebbe verificare che (i) vi sia una giustificazione ragionevole per la discriminazione; (ii) la discriminazione sia necessaria ai fini della ristrutturazione; (iii) la discriminazione sia stata proposta in buona fede; e, infine, (iv) il pregiudizio arrecato alla classe discriminata sia proporzionato al vantaggio conseguito grazie alla discriminazione» – e quella più restrittiva, per cui sarebbe il proponente a dover «dimostrare che (a) la maggiore percentuale riconosciuta in capo a una classerispetto all'altra si giustifica alla luce del contributo che quella stessa classe è in grado di apportare alla riorganizzazione e/o (b) che il maggior rischio - discendente, ad esempio, dalla tipologia del mezzo di soddisfazione assegnato o dalla ampiezza della dilazione richiesta - sia coerente con le «prebankruptcy expectations» della classe svantaggiata, e cioè con il tipo di rischio che essa «w[as] willing to assume before bankruptcy». Varie disposizioni della Dir., tra cui i Cons. 55, 56 e 57, sembrano supportare una versione europea meno rigorosa e più flessibile della no discrimination rule, comunque soggetta al vaglio giudiziale.

[20] Come detto, la RPR è pressoché identica alla regola che dal 2006 si applica al trattamento dei crediti fiscali e contributivi (art. 88, co. 1, seconda parte CCII), che però consente un trattamento anche pari – e non necessariamente superiore – a quello delle classi inferiori, risultando perciò deteriore rispetto alla RPR.

[21] Occorre essere consapevoli che, se si adotta l’APR, il coinvolgimento dei soci nel piano di ristrutturazione (ossia la conservazione delle loro partecipazioni) è possibile solo con il consenso di tutte le classi, poiché il dissenso di una classe farebbe venir meno, “a cascata”, il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione.

[22] Tale norma prevede che «nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale, oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato». La seconda opzione – introdotta su richiesta della delegazione italiana per conformità all’art. 180, co. 4, l.fall. che per il cram down fa riferimento alle «alternative concretamente praticabili» – è facoltativa (Cons. 52); peraltro ai fini del cross-class cram-down vale il diverso meccanismo dell’art. 11 Dir. (Cons. 49). Sennonché, il CCII fa ora riferimento solo all’alternativa liquidatoria ai fini dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione in mancanza di adesione determinante dell’amministrazione finanziaria (art. 48 co. 5), del piano del consumatore (art. 70, co. 9), del concordato minore (art. 80, co. 3) e del concordato preventivo (art. 112, co. 1), nonché nella transazione fiscale interna all’accordo di ristrutturazione (art. 63 co. 1).

[23] L’art. 182-bis, co. 7, l.fall. (però non ripetuto nel CCII) impone la revoca del concordato ex art. 173 l.fall. se nel corso della procedura l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori.

[24] Diversamente, nel nostro ordinamento il corrispondente “diritto al valore di liquidazione” assume una valenza collettiva, poiché può essere fatto valere solo dal creditore dissenziente appartenente ad una classe dissenziente, o, in mancanza di classi, dai creditori dissenzienti che rappresentano il venti per cento dei crediti ammessi al voto (art. 112 CCII; art. 180, co. 4, l.fall.).

[25] L’istituto è stato introdotto nell’art. 180 co. 4, l.fall. dal d.l. n. 125/2020, convertito dalla l. n. 150/2020, e da ultimo corretto con l’art. 20 del d.l. n. 118/2021. Esso si differenzia dal cram down ordinario, che invece richiede l’opposizione degli interessati sia nell’accordo di ristrutturazione (art. 48 co. 4, CCII) – nonostante il “pre-requisito” previsto dall’art. 61 co. 2, lett. d) CCII, che pertanto non andrebbe verificato d’ufficio in sede di omologa – sia nel concordato preventivo (art. 112, co. 1, CCII).

[26] Coglie dunque solo in parte nel segno l’affermazione per cui «l’estensione del cram down non determina alcun contrasto con la direttiva Insolvency 1023/2019 sulle ristrutturazioni trasversali» (Trib. Teramo 19 aprile 2021, in ilfallimetarista.it; Trib. Pescara 27 maggio 2021, in ilcaso.it; cfr. G. Acciaro, A, Turchi, Il cram down fiscale dopo il D.L. 118/2021 e le prime pronunce di merito, in dirittodellacrisi.it, 16 dicembre 2021, p. 5). Invero, pur convenendosi sull’identità sostanziale tra il trattamento dei crediti fiscali e contributivi e la RPR, sfugge il fatto che il cd. cram down fiscale non è solo, come quest’ultima, una regola di giudizio di omologabilità, ma anche un meccanismo diretto a neutralizzare il mancato raggiungimento delle maggioranze ex art. 177 l.fall., così incidendo sul diritto di voto che spetta a tutte le parti interessate (art. 9, par. 2 Dir.) e sulla maggioranza minima richiesta (art. 9, par. 6 co. 2 Dir.). L’istituto può essere salvato solo perché con la Dir. non ha più rilievo la maggioranza dei crediti complessivi, valendo solo quella all’interno della singola classe (entro la forbice del 50-75%), sicché l’eventuale dissenso delle classi dei crediti tributari e previdenziali potrà essere superato secondo il nuovo paradigma di maggioranze e RPR declinato nell’art. 11 Dir., fermo restando che qualsiasi creditore dissenziente potrà chiedere il test di convenienza ma che il tribunale non potrà svolgerlo d’ufficio, nemmeno per i crediti fiscali o previdenziali.

[27] Ove si prevede, come noto, che detti creditori «possono essere soddisfatti anche non integralmente, purché in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato, in caso di liquidazione, dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, avuto riguardo al loro valore di mercato, al netto del presumibile ammontare delle spese di procedura inerenti al bene o diritto e della quota parte delle spese generali, attestato da professionista indipendente. La quota residua del credito è trattata come credito chirografario.»

[28] Come faceva invece espressamente la Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 novembre 2016 [COM(2016) 723 final].

[29] La cui entrata in vigore è stata da ultimo differita al 16 maggio 2022 dal primo comma dell’art. 1, d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla l. 21 ottobre 2021, n. 147, salvo l’ulteriore differimento al 31 dicembre 2023 dell’entrata in vigore del Tit. II della Parte prima del CCII, a norma del secondo comma.

[30] I tribunali di commercio furono introdotti in Francia all’epoca della Rivoluzione francese, con legge risalente all’agosto del 1790. Attualmente la giurisdizione commerciale è attuata sul territorio nazionale mediante 134 tribunali costituiti da giudici non professionali (commercianti, imprenditori o dirigenti di imprese), organizzati in due distinti settori che si occupano del contenzioso commerciale e delle procedure concorsuali, queste ultime articolate in Procédure d’alerte, Mandat ad hoc, Conciliation e Procédure de sauvegarde per la fase di crisi, nonché di Redressement judiciaire e Liquidation judiciaire per la fase di insolvenza (v. P. Farina, Contributo allo studio della specializzazione del giudice, Torino, 2020, 106 ss.).

[31] Cfr. art. 384 comma 4 lett. b) CERP: «unless there are reasonable grounds for such deviation and the interests of the said creditors or shareholders are not prejudiced».

[32] Cfr. L. 626-32-II: «lorsque ces dérogations sont nécessaires afin d’atteindre les objectifs du plan et si le plan ne porte pas une atteinte excessive aux droits ou intérêts de parties affectées», con l’aggiunta di una previsione specifica per cui «Les créances des fournisseurs de biens ou de services du débiteur, les détenteurs de capital et les créances nées de la responsabilité délictuelle du débiteur, notamment, peuvent bénéficier d’un traitement particulier».

[33] Cfr. § 28 (1) StaRUG: «Der angemessenen Beteiligung einer Gruppe von planbetroffenen Gläubigern am Planwert steht es nicht entgegen, wenn eine von § 27 Absatz 1 Nummer 3 abweichende Regelung nach der Art der zu bewältigenden wirtschaftlichen Schwierigkeiten und nach den Umständen sachgerecht ist. Eine von § 27 Absatz 1 Nummer 3 abweichende Regelung ist nicht sachgerecht, wenn auf die überstimmte Gruppe mehr als die Hälfte der Stimmrechte der Gläubiger der betroffenen Rangklasse entfällt

[34] Secondo M. Arato, La scelta dell’istituto più adeguato per superare la crisi d’impresa, in Ristrutturazioni aziendali, ilcaso.it, 8 ottobre 2021, 5, la composizione negoziata integra una procedura stragiudiziale «che rende la composizione agevolata non troppo dissimile dal concordato preventivo (ove gli aderenti devono essere almeno il 51%) ma con il vantaggio(i) di costi e tempi contenuti, (ii) dell’assenza di un apparato giudiziario/autorizzativo (si pensi alle relazioni del commissario giudiziale ex artt. 172 e 180 l.fall., ovvero ex art. 173 l.fall.), (iii) dell’assenza di un attestatore e (iv) del mantenimento della gestione ordinaria e straordinaria in capo al debitore. Infine, siccome la composizione negoziata non è una procedura concorsuale, in linea di principio non trovano applicazione i reati fallimentari, a meno che non si pervenga ad accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa».

 

[35] Si è osservato che «l’immediata entrata in vigore della convenzione di moratoria, che prevede la sua estensione ai creditori recalcitranti purché non siano più del 25%, offre uno strumento che si può affiancare alla composizione negoziata allungando nella sostanza le misure protettive o che può essere lo sbocco stesso della composizione negoziata (art. 11 c. 1 lett. b D.L. 118/2021) con una sorta di reintroduzione (e correzione) della amministrazione controllata abrogata 16 anni fa» (M. Arato, La scelta dell’istituto più adeguato per superare la crisi d’impresa, in Ristrutturazioni aziendali, ilcaso.it, 8 ottobre 2021, 5).

[36] Che, oltre alle misure sopra indicate, presenta (tra l’altro) le seguenti peculiarità: uno stay su richiesta, automatico e temporaneo, confermabile o revocabile entro 30 giorni (artt. 54 comma 2 e 55 comma 3 CCII); il divieto per i creditori di acquisire diritti di prelazione e l’inefficacia delle ipoteche giudiziali iscritte nei 90 giorni antecedenti la domanda (art. 46, comma 5 CCII); la moratoria biennale del pagamento dei creditori prelatizi (art. 86 CCII); l’eventuale sospensione o scioglimento dei contratti pendenti, salvo indennizzo (art. 97 CCII); l’omologabilità del CP approvato dalla maggioranza dei crediti nel maggior numero di classi (art. 109, comma 1 CCII) quando, nonostante la contestazione della convenienza da parte dei creditori dissenzienti appartenenti alle classi dissenzienti o, in mancanza di classi, dei creditori dissenzienti che rappresentino il 20% dei crediti, il tribunale ritenga che il relativo credito «possa risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alla liquidazione giudiziale» (art. 112 CCII).

[37] Se non altro andrebbe tenuto a mente il pensiero di Guglielmo di Occam, per cui «frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora», più noto con il brocardo «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem».

[38] La Cassazione ha posto in luce l’evoluzione normativa dell’istituto degli accordi di ristrutturazione, «sempre più strettamente intrecciato a quello del concordato preventivo grazie ad una lunga serie di rinvii normativi che hanno finito per delinearli come strumenti di regolazione della crisi di impresa non solo alternativi ma anche (specie dal 2012) biunivocamente interscambiabili in itinere (cfr. artt. 161, comma 6 e 182-bis, comma 8, l.fall.)», sottolineando come il tessuto normativo dell’art. 161 l.fall. «mostra inequivocabilmente la matrice comune dei due istituti nell’ambito della domanda cd. prenotativa», quanto a presupposti, oneri documentali, termini, obblighi, controlli, rischi e sanzioni, così come il continuo intreccio tra i due istituti emerge dai rinvii dell’art. 182-bis agli artt. 161, 168 e 183 l.fall. (Cass. n. 9087/2018, cit. in nota 6, annotata anche in Corr. Giur., 2019, 1379 ss.).

[39] Per un commento critico della normativa si vedano: S. Ambrosini, La rinuncia al concordato preventivo dopo la legge (n. 40/2020) di conversione del “decreto liquidità”: nascita di un “ircocervo”?, in ilcaso.it, 10 giugno 2020, 8, che evidenzia l’innesto dell’automatic stay su un istituto di matrice tradizionalmente stragiudiziale, scevro da ogni controllo giudiziale; N. Abriani, P. Rinaldi, Emergenza sanitaria e tutela proporzionata delle imprese: oltre la domanda “tricolore”, in ilcaso.it, 6 giugno 2020, 4, secondo i quali «la transitoria dimensione giudiziale aperta dalla domanda di concessione dei termini assegna al piano di risanamento attestato le stigmate della pubblicità, immolando sull’altare della protezione la tradizionale connotazione riservata dell’istituto rispetto ai soggetti che non partecipano alle trattative»; M. Irrera, Le novità in tema di procedure concorsuali nella conversione in legge del decreto liquidità (ovvero di quando i rimedi sono peggiori del male o inefficaci), in ilcaso.it, 3 giugno 2020, 7, per cui il vantaggio di ottenere misure protettive risulta vanificato dalle necessarie autorizzazioni giudiziali, dagli obblighi informativi periodici, dal divieto di pagamento dei creditori anteriori e dalla vigilanza del pre-commissario.

[40] Rubricato «Procedimento unitario per l'accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza».

[41] Per cui il tribunale, «se richiesto, fissa un termine compreso tra trenta e sessanta giorni, prorogabile su istanza del debitore in presenza di giustificati motivi e in assenza di domande per l'apertura della liquidazione giudiziale, fino a ulteriori sessanta giorni, entro il quale il debitore deposita la proposta di concordato preventivo con il piano, l'attestazione di veridicità dei dati e di fattibilità e la documentazione di cui all'articolo 39, commi 1 e 2, oppure gli accordi di ristrutturazione dei debiti, con la documentazione di cui all'articolo 39, comma 1».

[42] Per cui «le misure protettive disposte conservano efficacia anche se il debitore, prima della scadenza fissata dal giudice ai sensi dell'articolo 44, comma 1, lettera a), deposita domanda di apertura del concordato preventivo in luogo della domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione ovvero deposita domanda di omologazione degli accordi di ristrutturazione in luogo della proposta di concordato preventivo».