, 17 febbraio 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Introduzione. 2. L’assetto normativo previgente e l’orientamento giurisprudenziale tradizionale. 3. La riforma del 2006-2007, tra continuità e discontinuità. 4. Le questioni ancora aperte nel riparto fallimentare. 5. Le questioni ancora aperte nel riparto concordatario (e non solo).
1. Introduzione
Non v’è alcun dubbio che quella dei crediti prededucibili è stata una delle questioni che maggiormente ha vivacizzato il dibattito di dottrina e giurisprudenza fallimentariste nell’anno passato; anno conclusosi con un arresto del più autorevole consesso della Suprema Corte[1] che ha posto la parola fine su molti dei profili ancora problematici in subiecta materia nel vigore dell’attuale legge fallimentare, prima che essa ceda il (pesante) testimone al c.d. Codice della crisi. La sentenza delle Sezioni Unite ha compiuto una ricca e pregevole ricostruzione della prededuzione sotto il profilo – per così dire – genetico, soffermandosi particolarmente sulla prestazione dei professionisti che operano nell’interesse dell’impresa nella fase preparatoria del piano e della proposta concordatari[2]. Del tutto estraneo al ragionamento della Corte, invece, è l’aspetto del concreto soddisfacimento del credito prededucibile, che ovviamente nelle procedure concorsuali trova la sede elettiva[3] nei riparti.
Trattasi di un ambito tematico foriero di molteplici questioni giuridiche e tutt’altro che scevro di ricadute pratiche di non scarso rilievo. L’oggetto specifico delle seguenti riflessioni sono, in particolare, i criteri distributivi da seguire nel conflitto tra crediti prededucibili e crediti garantiti da ipoteca o pegno[4]; conflitto che può sorgere, nell’ipotesi più semplice, per stabilire quale quota delle spese sostenute dal curatore (o dal liquidatore giudiziale, nel caso di concordato) vada fatta ricadere sul ricavato dalla vendita del bene gravato dal diritto reale di garanzia, e, nell’ipotesi più complessa, per stabilire se il suddetto ricavato possa essere intaccato anche da spese che non riguardano in senso stretto la procedura concorsuale in corso.
Come si accennava, le questioni appena accennate sono tutt’altro che banali e, allo stesso tempo, molto ricorrenti nella pratica e di forte impatto patrimoniale. Sorprende allora che, sul punto, non si assista a un dibattito parimenti vivace. Di più: a ben guardare, da molto tempo (oltre un decennio) non si registra un arresto della giurisprudenza di legittimità[5], mentre assai pochi sono i contributi dottrinari. Varrà allora la pena “riavvolgere il nastro” e affrontare il tema a partire dall’assetto normativo immediatamente antecedente a quello attualmente vigente; excursus invero fondamentale per ben inquadrare lo stato dell’arte.
2. L’assetto normativo previgente e l’orientamento giurisprudenziale tradizionale
Nell’originario assetto della legge fallimentare, l’ordine di distribuzione del riparto veniva regolato esclusivamente dall’art. 111 il quale pareva configurare un impianto piuttosto semplice. Veniva infatti stabilito che le somme ricavate dalla liquidazione dell'attivo dovevano essere erogate, in prima battuta, «per il pagamento delle spese, comprese le spese anticipate dall'erario, e dei debiti contratti per l'amministrazione del fallimento e per la continuazione dell'esercizio dell'impresa, se questo è stato autorizzato», in seconda battuta «per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l'ordine assegnato dalla legge» e, in ultima battuta, per il soddisfacimento dei chirografari. Come si vede, ancora non v’era traccia della categoria concettuale della «prededuzione», la cui nascita si deve al successivo e progressivo lavorio interpretativo di dottrina e giurisprudenza[6]. Veniva tuttavia affermato con una certa limpidezza che le spese di funzionamento del fallimento (che oggi, pacificamente, costituiscono crediti prededucibili) avrebbero dovuto essere pagate prioritariamente rispetto ai crediti assistiti da prelazione, quale che essa fosse (anche di tipo reale, dunque).
La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, valorizzando altre disposizioni contenute nell’originaria legge fallimentare, finì per modificare sensibilmente i criteri distributivi appena enunciati con particolare riferimento al trattamento del creditore assistito da garanzia reale. Le prime pronunce risalgono addirittura alla fine degli anni ’60[7], ma indubbiamente l’orientamento (granitico e unanime) in esame diviene pienamente riconoscibile a partire dagli anni ’80.
In estrema sintesi, venne sostenuto che «in presenza di creditori ipotecari, il prezzo ricavato dalla vendita dei beni immobili deve essere distribuito fra tali creditori separatamente dalle altre attività e che da esso possono essere detratte solo le spese sostenute e il compenso eventualmente spettante al curatore per l'amministrazione e la vendita dei beni»[8]. Più esattamente, «la prededuzione ex art. 111 cit. delle spese relative alla procedura fallimentare non incide ugualmente su tutti i beni alienati, perché, ove si tratti di beni gravati da garanzie reali speciali, le spese generali di amministrazione rilevano nei soli limiti in cui esse si ricolleghino all'amministrazione ed alla liquidazione di detti beni, ovvero siano attinenti ad attività di amministrazione direttamente rivolte ad incremento dei beni stessi o a specifica utilità dei relativi creditori garantiti»[9]. Insomma, venne coniata la summa divisio tra spese speciali (riferibili cioè al singolo bene gravato da garanzia reale e come tali da detrarre effettivamente dal ricavato dalla vendita del bene in questione) e spese generali. Quest’ultime avrebbero potuto intaccare il ricavato del bene garantito soltanto limitatamente ad «un'aliquota» da calcolare «in relazione alla circostanze concrete, in misura corrispondente all'interesse e all'utilità - anche solo potenziale, cioè sperata, ma non concretamente realizzata - del creditore garantito, con valutazione della utilità rimessa al giudice di merito»[10]. Il criterio guida era dunque quello dell’utilità, quantomeno potenziale, di una certa spesa per il creditore garantito; utilità da tradurre in una «aliquota», vale a dire una frazione delle spese generali da collocare sul ricavato dalla vendita del bene garantito.
V’è da dire, per il vero, che già sul finire degli anni ’90 il criterio dell’utilità subì qualche ridefinizione, per lo più sulla spinta della giurisprudenza di merito. Epifania di questo nuovo corso fu sicuramente la sentenza n. 5104 del 1997, con la quale la Corte confermò la decisione di un Tribunale che ebbe ad utilizzare quale criterio per collocare l’aliquota di compenso del curatore sul ricavato dalle vendite degli immobili ipotecati quello del rapporto proporzionale tra l'attivo ricavato da tali vendite e l'attivo ricavato dalla residua massa dei beni fallimentari. Per giungere a tale approdo i giudici di Piazza Cavour non smentirono affatto l’orientamento tradizionale, che anzi venne richiamato per lunghi passi; piuttosto, nel ribadire che avrebbe dovuta essere compiuta «una valutazione comparativa, che ponga a raffronto l'attività svolta dal curatore nell'interesse generale della massa e quella specificamente riferibile all'interesse dei creditori garantiti», osservarono che «nel caso di specie, il giudice delegato prima ed il tribunale (in sede di reclamo) poi, difettando più specifici elementi di riferimento, hanno ritenuto corretto adottare un criterio d'imputazione che rispecchiasse il rapporto proporzionale di valore (corrispondente al ricavato della vendita) dei beni immobili ipotecari rispetto alla restante parte dei beni liquidati nell'ambito del fallimento». Nel proseguo, venne puntualizzato che «non è questo, come si è chiarito, il solo criterio necessariamente applicabile, ma di certo non sussiste alcun ostacolo logico o giuridico alla sua adozione quando gli organi giudiziari della procedura, nell'esercizio del loro potere di valutazione discrezionale, reputino che esso sia rispondente all'attività effettivamente svolta dal curatore nell'interesse dei creditori muniti di garanzia reale, in rapporto alla restante massa dei creditori partecipanti al concorso».
Non si può nascondere che i passaggi motivazionali testé richiamati non abbiano un incedere particolarmente chiaro e, anzi, a larghi tratti l’ordito risulta contraddittorio: invero, se si presuppone che sul ricavato dalla vendita del bene garantito da ipoteca possano gravare solo le spese di qualche utilità per il creditore ipotecario, non si vede come il criterio proporzionale (che si sostanzia in un raffronto tra quel ricavato e quanto conseguito dalle restanti fonti di attivo) possa costituire un criterio d’imputazione che rispecchia l’utilità stessa in mancanza di «più specifici elementi di riferimento».
Tale ambiguità pare essere stata perfettamente colta non solo dalla dottrina[11], ma anche dalle pronunce successive, ivi compresa l’ultima che si registra in subiecta materia[12]. La Suprema Corte, in quest’ultima occasione, cassò la decisione che ebbe ad applicare il criterio proporzionale nell’impossibilità di valutare l’incidenza delle spese generali su quelle che sarebbero state necessarie per la liquidazione del bene ipotecato; ciò in base alla considerazione che il criterio della proporzionalità fosse stato applicato «"in mancanza di certezze in merito all'inutilità, per l'ipotecario, di alcune delle spese rientranti in quelle globali", così ribaltando il parametro valutativo indicato da questa Corte, secondo cui al fine indicato occorre fare riferimento non già alla mancata certezza in ordine all'inutilità delle spese sostenute dalla procedura, ma all'accertata utilità delle stesse per il creditore garantito». Insomma, parrebbe di capire che il criterio della proporzionalità, per questa giurisprudenza, avrebbe dovuto essere sussidiario rispetto a quello dell’utilità o, per meglio dire, che in tanto avrebbe potuto farsi corso al criterio della proporzionalità in quanto, a monte, fosse stato possibile ricondurre una certa spesa a una certa utilità per il creditore ipotecario.
Permane per il vero qualche dubbio sull’intrinseca logicità di tale conclusionale: invero, se l’utilità costituisce un presupposto indefettibile e il giudice di merito non l’ha intercettata, non si vede quale spazio possa avere il criterio della proporzionalità. Detto altrimenti, e come già accennato, i due criteri paiono assolutamente antitetici, il secondo – quello della proporzionalità – prescindendo completamente da un’analisi sull’utilità effettiva di una certa spesa[13].
Esplicitati i principi di diritto dettati dalla giurisprudenza tradizionale nel vigore dell’originario assetto normativo, occorrerebbe soffermarsi sugli argomenti giuridici a sostegno di una rivisitazione tanto vigorosa dei criteri distributivi descritti dall’art. 111. Un’analitica disamina, per il vero, ci porterebbe lontano ed esonderebbe gli scopi specifici del presente lavoro. Basti qui rilevare che l’orientamento in questione fece leva su un argomento di carattere sistematico e su alcuni addentellati normativi. Per quanto riguarda il primo, era ricorrente la seguente affermazione: «va considerato, infatti, che il vantaggio derivante dalla esecuzione concorsuale assiste solo i creditori chirografari, i quali, se avessero proceduto all'esecuzione forzata individuale, avrebbero potuto vedere definitivamente pregiudicate le proprie ragioni dalla definitiva insolvenza del debitore, i cui effetti sono mitigati invece dalla esecuzione concorsuale che segue alla dichiarazione di fallimento mentre i creditori ipotecari non possono ottenere dalla liquidazione concorsuale del patrimonio del debitore un vantaggio maggiore di quello derivante dalla realizzazione del loro credito prima del dissesto del debitore»[14]. Relativamente ai secondi, invece, venivano richiamati gli artt. 53 e 54 (tuttora vigenti nell’originaria formulazione), l’art. 107 (che tuttavia ha cambiato formulazione ed è sostanzialmente confluito nell’art. 111-ter) e l’art. 109 (il cui testo è rimasto sostanzialmente invariato)[15].
3. La riforma del 2006-2007, tra continuità e discontinuità
La disciplina del riparto fallimentare è stata notevolmente arricchita a cavallo tra 2006 e 2007, con una doppia riforma che, da un lato, ha introdotto expressis verbis nell’art. 111 la categoria della prededuzione, associandole una definizione, e, dall’altro lato, ha aggiunto gli artt. 111-bis e 111-ter.
L’art. 111-bis, comma 3, isolatamente preso, sembrerebbe oltremodo chiaro nell’attribuire prevalenza al creditore ipotecario sul ricavato dalla vendita dell’immobile oggetto della garanzia reale rispetto ai crediti prededucibili, tra i quali parrebbero annoverabili anche tutte le spese di procedura in quanto sorte «in occasione» della procedura. La disposizione in esame, infatti, così recita: «i crediti prededucibili vanno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi con il ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare, tenuto conto delle rispettive cause di prelazione, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti».
La dottrina espressasi negli anni immediatamente successivi alla riforma ha affermato che in tal modo il legislatore avrebbe recepito l’orientamento giurisprudenziale dominante[16]. Siffatta conclusione, tuttavia, è vera soltanto in parte; e ciò lo si comprende ponendo attenzione al disposto del successivo art. 111-ter, comma 3. Quest’ultimo (anche lui di nuovo conio), infatti, così recita: «il curatore deve tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili oggetto di privilegio speciale e di ipoteca e dei singoli beni mobili o gruppo di mobili oggetto di pegno e privilegio speciale, con analitica indicazione delle entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale».
È di immediata evidenza che quest’ultima regola entra in conflitto con il pur chiarissimo disposto normativo contenuto nell’articolo precedente. Se, infatti, il curatore deve tenere un conto separato in connessione a ciascun bene specifico oggetto di garanzia reale (ma anche di privilegio speciale), analiticamente indicando tanto le entrate (ad esempio, i canoni di locazione) quanto (e per quanto più interessa in questa sede) le uscite (ad esempio, l’imposta sull’immobile o i costi di stima) che riguardano ogni bene, è perché quelle spese, specificamente riferibili al bene in questione, non possono che gravare sul ricavato dalla vendita dello stesso. Ci si trova di fronte, dunque, a prededuzioni che sicuramente vengono soddisfatte con quanto ricavato dalla vendita del bene oggetto di garanzia; di più: di prededuzioni soddisfatte solo ed esclusivamente con quel determinato ricavato, non potendo compartecipare a tali spese le masse attive ricavate dalla vendita di altri beni rispetto ai quali quell’uscita non si sia rivelata di alcuna utilità.
Arrestando per un attimo a questo punto la nostra analisi, parrebbe effettivamente che, sebbene non prendendo isolatamente l’art. 111-bis ma combinando quest’ultimo con il successivo comma terzo dell’art. 111-ter, il legislatore abbia fatto proprio il principio di diritto enunciato ripetutamente dalla Suprema Corte. Sennonché che le spese specialmente riferibili a un determinato bene dovessero gravare soltanto sul ricavato dalla liquidazione del bene medesimo non costituiva il fattore innovativo e “creativo” di quell’orientamento, potendo considerarsi un’acquisizione condivisa e pacifica, oltreché per certi versi fondata sullo stesso disposto normativo[17]. Come visto, l’indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, in sostanziale deroga dall’art. 111, si dimostrava innovativo da un altro punto visuale, e segnatamente nella modalità di imputazione delle c.d. spese generali, vale a dire quelle non immediatamente riferibili a uno specifico bene, ed affermava che sul ricavato dall’alienazione del bene ipotecato potesse gravare soltanto un’aliquota delle spese generali individuata avuto riguardo all’utilità che quella spesa generale aveva avuto nell’amministrazione e nella liquidazione del bene. L’esempio classico era quello del compenso del curatore, spesa prededucibile non riferibile a un qualche bene ma sicuramente di utilità per tutti i beni, ivi compreso quello ipotecato.
Orbene, da questo punto di vista la regola dettata dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 111-ter segna, invece, una vera e propria discontinuità rispetto all’indirizzo giurisprudenziale appena richiamato[18]. Ivi può leggersi, infatti, che una quota delle entrate e delle uscite di carattere generale vengano imputate a ciascun bene «secondo un criterio proporzionale».
Il legislatore della riforma, pertanto, ha aderito a un criterio (quello della proporzionalità) che, come abbiamo visto, si era affacciato nella giurisprudenza di merito ma era stato accolto dalla giurisprudenza di legittimità con una certa freddezza e con qualche ambiguità, relegandolo a un ruolo subalterno rispetto al criterio dell’utilità[19]. Sennonché – ed anche su questo aspetto ci si è già soffermati – si tratta di criteri tra loro incompatibili e rispondenti a una logica assolutamente diversa.
Il criterio dell’utilità, infatti, ha un senso soltanto postulando l’esistenza di un trattamento preferenziale per il ricavato dalla vendita dei beni gravati da garanzia reale, che sarebbe distribuito autonomamente rispetto alla ripartizione delle altre attività. Tale impostazione, che già mostrava qualche crepa ante riforma[20], non è sicuramente più sostenibile dopo la riforma: com’è stato notato, l’art. 111-quater (anch’esso introdotto nel 2006) «pone in modo chiaro e inequivoco il principio della duplicità delle masse – una mobiliare ed una immobiliare – nonché della tassatività delle cause di prelazione e, quindi, la unicità della graduatoria tra le prelazioni – sia tra loro eterogenee che all’interno di una di esse – che su ciascuna massa possono esercitarsi», sicché «tutte le somme realizzate confluiscono in una unica massa, distinta solo in ragione della natura mobiliare o immobiliare delle provenienze, sui cui concorrono tutti i creditori» e, conclusivamente, «non può più ragionarsi in funzione dell’interesse e della utilità che dall’esborso ricevono i creditori garantiti da ipoteche perché il principio primario che regola la distribuzione è quello della previa soddisfazione dei crediti prededucibili posto dall’art. 111 l.fall., di modo che il criterio con cui queste incidono sui beni vincolati alla garanzia specifica di alcuni creditori deve essere tale da distribuire il rischio della incapienza nel rispetto delle priorità prefissate dalla legge»[21].
D’altro canto, anche prescindendo dalle premesse teoriche che vi sono alla base, tale criterio mal si attaglia alla conformazione propria di una procedura concorsuale per ragioni prettamente pratiche. In primo luogo, applicare il criterio dell’utilità ai soli creditori con garanzia reale equivarrebbe (necessariamente) a scaricare una larghissima parte delle c.d. spese generali sul ricavato dalla vendita dei beni immobili non gravati da ipoteca (evenienza, però, assai rara) e dei beni mobili o comunque sull’attivo ottenuto dall’esercizio di azioni revocatorie o risarcitorie; un attivo, nel suo complesso, il più delle volte non particolarmente elevato, con il rischio che, non potendosi attingere dal ricavato dalla vendita del bene ipotecato (o su cui grava un pegno), molte spese sarebbero destinate a rimanere insoddisfatte. E si badi bene: se con riferimento al compenso del curatore (che, come già visto, secondo l’orientamento giurisprudenziale tradizionale sarebbe imputabile sul ricavato dalla vendita immobiliare soltanto pro quota) esiste pur sempre la “valvola di sfogo” dell’anticipazione da parte dell’Erario, in forza dell’art. 146 del d.P.R. 115/2002 (e della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 174 del 2006), per tutte le altre spese, invece, ciò non sarebbe possibile.
Un simile inconveniente pratico, non a caso, si era già posto nel vigore di quell’orientamento giurisprudenziale e la giurisprudenza di merito, per necessità, l’aveva superato proprio facendo applicazione del criterio della proporzionalità. Ed è emblematico al riguardo osservare che la Suprema Corte[22], con un percorso argomentativo non poco contraddittorio[23], pur reiterando i noti principi di diritto, e quindi riaffermando il criterio dell’utilità, finì poi per avallare l’utilizzo del criterio della proporzionalità osservando che, nel caso in cui le spese relative alla liquidazione dell'attivo mobiliare superano il ricavo da essa conseguito e l’unico altro attivo è riferibile alla vendita di un bene ipotecato, le spese mobiliari eccedenti non possono che gravare sul ricavato immobiliare.
Ma c’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione, ancora più importante. Il criterio dell’utilità impone al curatore (in fase di predisposizione del riparto) e al giudice delegato o al Tribunale (in sede di impugnazione) di distinguere tra spese specialmente riferibili a determinati beni e spese generali, per poi individuare, all’interno di quest’ultime, l’aliquota di quelle utili per il creditore assistito da garanzia reale. Il criterio dell’utilità, quindi, viene utilizzato due volte: una prima volta per l’individuazione delle spese specifiche e una seconda volta per l’individuazione dell’aliquota delle spese generali. Un’operazione, a ben vedere, tutt’altro che agevole e fortemente discrezionale, che presuppone l’ulteriore distinzione tra utilità “forte” e utilità “debole”, solo la prima associabile a spese imputabili in maniera specifica nei confronti del creditore. Sennonché, com’è stato già osservato, «se una spesa è utile per un determinato bene, vuol dire che si tratta di una spesa specifica a quel bene e deve, perciò, incidere soltanto su esso». Invero, «sono proprio le spese non specificamente utili o riferibili ad un bene che rientrano nella categoria delle spese generali, il cui criterio distributivo non può che essere quello che rispecchi il rapporto proporzionale fra il valore (da intendersi nel senso di ricavato dalla vendita) dei beni immobili ipotecati e di ogni altro bene gravato da garanzia specifica, rispetto a quello della restante parte dei beni liquidati nell’ambito fallimentare»[24].
In ultima analisi, dunque, il criterio della proporzionalità pare essere l’unico compatibile con la logica concorsuale. È certamente vero – per rievocare l’argomento sistematico utilizzato dalla giurisprudenza tradizionale a supporto delle sue conclusioni a favore del criterio dell’utilità – che l’esecuzione collettiva (quale può essere considerato il fallimento) non risponde a un’utilità in senso stretto per il creditore ipotecario una volta osservato che quest’ultimo, in sede di esecuzione immobiliare, troverebbe una soddisfazione ben maggiore, se non altro perché non correrebbe il rischio di compartecipare a spese non direttamente riferibili alla sua sfera d’interesse. Sennonché, lo sfogo fallimentare è una delle possibili ricadute della sofferenza finanziaria del debitore, a sua volta rispondente a principi di primaria importanza per l’ordinamento giuridico (in testa quello della par condicio creditorum), per cui costituisce un rischio “sistemico”, vale a dire un’eventualità che il sistema complessivo del recupero forzato del credito tiene in considerazione e che il creditore ipotecario non può che accettare. Detto altrimenti, una volta apertosi il fallimento il creditore ipotecario deve accettare la partecipazione a un “percorso collettivo”, che gli richiede di contribuire agli esborsi proporzionalmente per ragioni per certi versi solidaristiche, conservando tuttavia un vantaggio di non secondario livello, vale a dire la priorità di soddisfacimento sul ricavato immobiliare, pur tenuto conto dell’aliquota di sacrificio nell’interesse del ceto creditorio inteso nella sua unitarietà.
Che la riforma abbia superato il criterio dell’utilità pare oltretutto essere ormai un’acquisizione fatta propria anche dalla giurisprudenza di merito[25]; non si registra, tuttavia, un nuovo arresto della giurisprudenza di legittimità.
4. Le questioni ancora aperte nel riparto fallimentare
Fissate le coordinate generali, e quindi acquisito il fatto che trova applicazione il criterio della proporzionalità con riferimento alle spese generali, è tutt’altro che esaurito il ventaglio di problematiche che si associano alla tematica oggetto di analisi. Invero, il criterio della proporzionalità risulta di agevole applicazione pratica nella misura in cui, una volta escluse le spese specifiche (proprie facendo uso del criterio dell’utilità), consente di ripartire le spese generali in base a un semplice raffronto proporzionale tra il ricavato dalle varie masse attive. Sennonché, talora si pongono non pochi problemi nell’individuazione delle spese generali. Ciò accade, segnatamente, allorquando il fallimento consegua ad una procedura concordataria naufragata e le prededuzioni maturate in quell’ambito, in base al ben noto principio della consecutio procedurarum[26], ricadono fatalmente – e previa ammissione al passivo – nella procedura fallimentare. La domanda, in estrema sintesi, è la seguente: anche quelle prededuzioni seguono il criterio della proporzionalità?
Tale domanda non ha un sapore meramente teorico giacché questo tipo di prededuzioni possono essere anche molte numericamente parlando e, soprattutto, consistenti sul piano quantitativo. Tre sono le fattispecie probabilmente più rilevanti. La prima è quella dei crediti sorti dalla continuità aziendale nell’ambito di un concordato ex art. 186-bis l.f.[27]; ipotesi alla quale può associarsi quella dei finanziamenti prededucibili a norma degli artt. 182-quater e 182-quinquies l.f.. La seconda fattispecie è quella dei compensi dei professionisti che hanno assistito l’impresa debitrice durante il percorso che ha condotto all’apertura, prima, e all’omologa, poi, del concordato[28]. Da ultimo, ma non per importanza, vi è l’ipotesi dei compensi maturati dagli organi della procedura concordataria.
Relativamente alla prima fattispecie, deve anzitutto registrarsi che l’orientamento tradizionale ebbe più volte occasione di soffermarsi sull’argomento (sebbene occupandosi dell’amministrazione controllata). Le conclusioni che trasse, per il vero, non risultano sorprendenti se si tiene bene a mente quale fosse la premessa teorica di partenza, vale a dire il criterio dell’utilità. E così venne affermato che «i crediti ipotecari prevalgono sui crediti prededucibili che ineriscano ad obbligazioni sorte nell'ambito dell'amministrazione controllata, precedente al fallimento, salvo che i crediti prededucibili si ricolleghino ad attività direttamente e specificamente rivolte ad incrementare, o ad amministrare, o a liquidare i beni ipotecati o rechino, comunque, ai titolari specifiche utilità (non individuabili nella semplice esistenza della procedura di risanamento), e salvo il limite di un'aliquota delle spese generali, che deve, in ogni caso, gravare sui beni assoggettati a garanzia reale»[29].
A ben vedere almeno una porzione del principio di diritto testé riportato potrebbe ancora conservare una propria vitalità; si allude alle spese speciali sostenute nell’esclusivo interesse del creditore ipotecario, come quelle relative all’amministrazione, alla manutenzione o alla liquidazione del bene immobile assoggettato alla garanzia. In buona sostanza, potrebbe essere teoricamente data continuità a tale regula iuris sostenendo che queste spese, prededucibili nella procedura concordataria, continuino a pesare sul solo creditore ipotecario (melius: sul ricavato dalla vendita del bene ipotecato) anche nel fallimento.
Ben più problematico, però, è il discorso riguardante le prededuzioni generali. L’intangibilità dei creditori ipotecari era infatti sostenibile in un contesto che vedeva affermato il criterio dell’utilità[30]. Assai più difficile, invece, sarebbe reiterare lo stesso ragionamento nel vigore del criterio della proporzionalità; criterio che, se applicato in maniera rigorosa, condurrebbe con tutta probabilità all’erosione (anche completa) delle possibilità di soddisfacimento del creditore ipotecario.
Per quanto consta allo scrivente, precedenti di legittimità relativi alla seconda fattispecie, invece, non si rinvengono. Ciò, del resto, ha una spiegazione molto semplice: il filone giurisprudenziale che ha iniziato ad attribuire connotati prededucibili al credito del professionista (avvocato, advisor finanziario o attestatore) che assiste l’impresa prima e immediatamente dopo la domanda di concordato ha trovato linfa nella riforma del 2006 e, in particolare, nell’introduzione del concetto di “funzionalità” rispetto a una procedura concorsuale all’interno della macrodefinizione della prededuzione[31].
Può tuttavia menzionarsi un interessante (e relativamente recente) pronuncia di merito[32]. Il giudice siciliano, dopo aver rilevato che la regola dettata dall’art. 111-bis riguarderebbe le sole prededuzioni specifiche, le quali «non possono intaccare il ricavato di altri beni oggetto di pegno ed ipoteca», ha affermato che «i debiti prededucibili generali, e non specifici, potrebbero essere pagati andando ad intaccare anche la massa immobiliare gravata da garanzie reali, in base al criterio proporzionale», non essendo più sostenibile il criterio dell'utilità. Sulla scorta di queste premesse, ha concluso che «vanno considerate come prededuzioni generali, da imputarsi in via proporzionale anche al creditore ipotecario, i crediti dei professionisti che hanno seguito la società in fase di concordato preventivo, poi naufragato, non potendosi ricondurre la loro attività in via specifica all’interesse di taluno soltanto dei creditori ammessi al passivo».
Anche l’ultima fattispecie venne lambita dalla giurisprudenza tradizionale della Suprema Corte, sia pure – per quanto consta a chi scrive – soltanto in un’occasione[33]. Il Tribunale, nel decreto impugnato, pose a carico del ricavato della liquidazione degli immobili gravati da garanzia reale anche una quota del compenso del curatore e – per quello che più interessa in questa sede – del commissario giudiziale del concordato preventivo che aveva preceduto il fallimento, peraltro determinando la quota in base al criterio di proporzionalità. La Corte, in coerenza con la propria impostazione tradizionale, cassò la decisione di merito, contestando al Tribunale di non aver accertato l’utilità effettiva dell’attività del curatore e del commissario per il creditore ipotecario.
Inutile dire che tale soluzione, nel pieno vigore del criterio della proporzionalità, non risulta più sostenibile e quindi, teoricamente, il creditore ipotecario dovrebbe farsi carico (proporzionalmente) anche del compenso liquidato al commissario e, in caso di concordato liquidatorio, del liquidatore giudiziale.
Tutto ciò posto, non si può nascondere che le conclusioni alle quali si è pervenuti possono risultare particolarmente gravose – per non dire punitive – nei confronti del creditore ipotecario. Deve al riguardo rammentarsi che quest’ultimo, in sede di omologa concordataria, di norma non esprime un voto in base alla regola impressa all’art. 177, comma 2, l.f., e cioè nel caso in cui ne sia previsto – in linea teorica, quantomeno – l’integrale pagamento. Questi, quindi, sovente si trova “intrappolato” in una procedura concordataria senza avere la possibilità di dissentire, salvo poi, però, in caso di successivo fallimento, correre il rischio di veder scaricate su di sé (rectius: sul ricavato dalla vendita del bene su cui gode una garanzia reale) non solo le prededuzioni della procedura fallimentare, ma anche quelle sorte nel corso di un concordato che, se avesse avuto la possibilità di votare, non avrebbe neppure approvato.
Muovendo da tale considerazione pare auspicabile proporre una lettura alternativa del combinato disposto tra art. 111-bis e art. 111-ter che valorizzi appieno la portata semantica dei termini utilizzati in queste due disposizioni. Invero, da una parte (art. 111-bis) si parla di «crediti prededucibili»; da un’altra (art. 111-ter), invece, si parla di «entrate» e «uscite». A ben vedere le entrate e le uscite, da un punto di vista strettamente contabile, non possono che coincidere con ciò entra e ciò che esce (o deve uscire) in termini monetari in pendenza di una certa procedura concorsuale, e quindi successivamente all’apertura della stessa. Le «uscite», insomma, coincidono con le spese che gli organi concorsuali devono sopportare in funzione della procedura per le più varie ragioni, e che necessariamente assumono rango prededucibile (sorgendo «in occasione» della procedura). Cosa diversa, invece, sono i «crediti prededucibili». Trattasi, infatti, di un concetto più ampio rispetto alle «uscite», perché vi rientrano anche quei crediti antecedenti all’apertura della procedura concorsuale ma funzionali alla stessa, come – appunto – quelli sorti in ambito concordatario che, in applicazione della consecutio tra procedure, finiscono per scaricarsi sul fallimento.
Così inquadrati i termini della questione, la quota di spese generali che finisce per gravare sul ricavato dalla vendita dell’immobile ipotecato, individuata secondo un criterio puramente proporzionale, andrebbe ricavata dalle sole uscite successive all’apertura del fallimento; diversamente, i crediti prededucibili diversi dalle uscite, come chiaramente affermato dall’art. 111-bis, andrebbero soddisfatti con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di ipoteca[34].
La chiave di lettura appena offerta pare rispondere finanche ad esigenze di giustizia sostanziale se si pone l’attenzione soprattutto sulla seconda fattispecie sopra esaminata, vale a dire quella dei professionisti che abbiano assistito l’impresa. Invero, sarebbe piuttosto paradossale che il creditore ipotecario rimanesse insoddisfatto a causa delle prededuzioni maturate nel corso del concordato preventivo e dovesse finanche pagare i compensi dei professionisti che hanno congegnato la proposta e il piano concordatari naufragati, e che perciò – sia pure incolpevolmente, ben s’intenda – abbiano concausato il mancato soddisfacimento del creditore stesso che, lo si rammenta nuovamente, non ha diritto di voto in sede di omologa. Insomma, non pare così disdicevole che il pagamento dei professionisti sia legato alle effettive sorti del concordato sicché, qualora questo naufraghi, quantomeno il loro compenso non dovrebbe gravare sui creditori muniti di garanzia reale.
L’altra faccia della medaglia, chiaramente, è costituita dai compensi per il commissario e il liquidatore giudiziale. Invero, l’adesione alla prospettiva ermeneutica qui proposta condurrebbe, se portata alle estreme conseguenze, al possibile rischio che questi professionisti non vengano pagati, quantomeno integralmente; ciò, in particolare, nella (malaugurata) ipotesi in cui l’attivo sia pressoché interamente costituito da immobili gravati da ipoteca. Ci si può domandare, sotto questo punto di vista, se la natura – per così dire – super-prededucibile del compenso degli organi della procedura non giustifichi un trattamento poziore e, seguendo sempre il punto di vista offerto, non possano essere qualificati in ogni caso come «uscite».
5. Le questioni ancora aperte nel riparto concordatario (e non solo)
Non meno impegnativi sono i risvolti problematici che possono riscontrarsi nella procedura concordataria.
Il punto di partenza di ogni riflessione, per il vero, non può che essere l’interrogativo circa l’applicabilità degli artt. 111-bis e 111-ter nel contesto del concordato preventivo. Invero, la (sintetica) disciplina del concordato preventivo non conosce un richiamo espresso agli artt. 111 e seguenti della legge fallimentare, sicché il dubbio non è peregrino. Pare tuttavia difficile sostenere che le norme in questione non trovino lì applicazione per almeno due motivi. Il primo è che l’art. 111, comma 2, nell’offrire la definizione di «crediti prededucibili», fa riferimento (ampiamente) a «quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge», denotando un’attitudine normativa non limitata alla sola procedura fallimentare. Il secondo motivo è che la portata sistematica delle regole che sorreggono il riparto concorsuale risulta piuttosto evidente, se non altro perché, diversamente ragionando, si verrebbero a creare diversità di trattamento dei crediti tra l’una e l’altra procedura senza apparente giustificazione. È, insomma, una lettura costituzionalmente orientata e ispirata a ragionevolezza (art. 3 Cost.) che induce a ritenere applicabili gli artt. 111-bis e 111-ter anche al contesto concordatario[35]. D’altro canto, la giurisprudenza usualmente estende l’applicazione delle norme in questione alla (frammentaria, a dir poco) disciplina delle procedure di sovraindebitamento[36].
Acquisito tale dato, non può non accorgersi come l’applicabilità del combinato disposto tra le due norme generi problemi significativi, prima ancora che in sede di riparto, in sede di ammissibilità del concordato, ponendosi un serio tema di fattibilità giuridica della proposta[37]. Accade spesso, infatti, che la proposta depositata dall’impresa preveda una prima classe contenente le spese prededucibili e che – soprattutto – ne preveda il pagamento con priorità assoluta, fatto salvo l’accantonamento per gli organi della procedura (che di norma vengono saldati al termine del concordato, previo provvedimento di liquidazione del Tribunale). Questo assetto, tuttavia, non è compatibile con il criterio della proporzionalità (e per il vero non lo era del tutto nemmeno sotto il vigore del criterio dell’utilità) nella misura in cui scarica tutto il peso delle prededuzioni, quale che ne sia la fonte, sui creditori diversi da quelli assistiti da garanzia reale. Viceversa, dovendo tutti i creditori condividere il peso di tali spese, in via proporzionale, il soddisfacimento delle prededuzioni dovrebbe essere graduale, giacché solo al termine del concordato potrà conoscersi esattamente l’ammontare delle varie masse attive e, quindi, di riflesso, la percentuale di allocazione delle spese su ciascuna massa[38].
Una simile conclusione, è bene precisarlo, non cozza con il disposto di cui all’art. 160, comma 2, l.f., che come noto prevede che i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca non possano essere soddisfatti in misura inferiore «a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione». Questa disposizione, infatti, va necessariamente coordinata con l’art. 111-ter, comma 3, come detto applicabile anche nel contesto concordatario, di talché il «ricavato in caso di liquidazione» va inteso come il ricavato esclusa l’aliquota di spese generali verosimilmente gravanti sullo stesso.
Come si accennava, però, evidentemente i problemi maggiori, anche nel concordato, si presentano in sede di riparto. In questo caso, in realtà, pare porsi ancora prima un tema processuale di non poco momento, vale a dire quello della reclamabilità del piano di riparto.
Invero, il riparto fallimentare è regolato dagli artt. 110 e seguenti della legge fallimentare, e proprio l’art. 110, al comma terzo, attribuisce ai creditori la facoltà di reclamo a norma dell’art. 36 l.f.. Il creditore ipotecario, dunque, ben può opporsi al riparto fallimentare qualora venga fatta gravare su di lui una quota di spese prededucibili superiore a quella a suo avviso dovuta; e del resto la grande mole di pronunce della Suprema Corte in subiecta materia si spiega proprio perché l’ordinamento predispone un apposito strumento di impugnazione e, venendo in interesse la potenziale lesione di un diritto soggettivo, la decisione del Tribunale (organo di fronte al quale viene impugnata la decisione del giudice delegato, a norma dell’art. 26 l.f.) ben può essere impugnabile per cassazione[39].
Nel concordato, invece, l’art. 110 non viene richiamato, né pare esistere una norma che legittimi l’impugnazione del riparto da parte del creditore[40].
In realtà, ad avviso di chi scrive, non è impossibile arrivare a sostenere che un reclamo sia in qualche misura possibile. Nel concordato in continuità, infatti, il creditore potrebbe impugnare ai sensi dell’art. 36 l.f. (espressamente richiamato dall’art. 165, comma 2, l.f.) il parere favorevole reso dal commissario all’esecuzione di un determinato riparto (se richiesto nel decreto di omologa) oppure, se il parere non è richiesto, l’omessa segnalazione da parte del commissario al giudice delegato di un riparto non conforme alla proposta concordataria (previa diffida, proprio come previsto dall’art. 36). Lo stesso dicasi per il concordato liquidatorio, sebbene – nonostante il mancato richiamo dell’art. 36 da parte dell’art. 182 l.f. – in tal caso sarebbe finanche possibile ipotizzare un’impugnazione diretta del riparto predisposto dal liquidatore giudiziale.
La soluzione processuale qui prospettata non sembra smentita dall’insegnamento della Suprema Corte la quale, anche recentemente[41], ha sottolineato che il mancato richiamo degli artt. 110 e 117 l.f. altro non è che il riflesso dell'assenza di una procedura di verifica del passivo in sede concordataria, sicché «il creditore, ove ritenga di essere stato ingiustamente trascurato o di essere stato preso in considerazione dagli organi della procedura in maniera inesatta - quanto a consistenza e natura del suo credito e misura di soddisfazione riservatagli – nella fase di distribuzione dell'attivo disponibile, dovrà agire in sede ordinaria nei confronti del debitore, in bonis e in concordato, al fine di far accertare in quella sede, con efficacia di giudicato, l'esistenza, la consistenza e la natura del proprio credito». Ciò significa che «ove sorga contestazione sulle modalità di distribuzione delle somme di cui si è ottenuta la disponibilità all'esito della cessione dei beni, il debitore tenuto a dare esecuzione alla proposta o i creditori dovranno rimettere al giudice di cognizione ordinario la definitiva soluzione delle divergenze fra loro insorte». In quest'ottica, quindi il provvedimento del Tribunale in merito alle modalità di distribuzione, susseguente all'impugnazione di un reclamo, non avrebbe connotati decisori e, come tale, non sarebbe ricorribile per cassazione.
A ben vedere, infatti, la Corte non ha sancito l’illegittimità del ricorso ai rimedi interni concorsuali, piuttosto enunciando le ragioni per le quali il provvedimento del giudice delegato o del Tribunale non assume connotati decisori. Rimane quindi non solo possibile, ma soprattutto opportuno l’esperimento dei rimedi predetti giacché il giudizio di cognizione, per quanto necessario, conosce tempistiche assolutamente non compatibili con la durata di un concordato, tantopiù quando questo sia arrivato allo stadio del riparto finale. In questo senso, un pronunciamento da parte del giudice delegato, prima, e del Tribunale, in seconda istanza, per quanto non assuma connotati decisori, può rivelarsi prezioso per orientare le scelte degli organi della procedura e far soppesare attentamente ai creditori le proprie prospettive di vittoria in sede contenziosa.
Ad ogni modo, che sia possibile o meno un reclamo avverso il riparto oppure il creditore che si ritiene leso debba necessariamente instaurare un giudizio di cognizione, quel che è certo che anche nel riparto concordatario può porsi il problema della corretta graduazione delle spese e dei crediti. Lo scenario risulta solo apparentemente semplificato. È ben vero che, in linea di massima, durante l’esecuzione di un concordato non si pone il problema di spese concernenti procedure concorsuali anteriori che ivi ricadono in base alla regola della consecuzione[42]. Tuttavia, le tre fattispecie analizzate in ambito fallimentare si ritrovano grossomodo anche nel concordato, perché pure in questa procedura deve essere chiaro su chi ricadono i finanziamenti prededucibili, i crediti dei professionisti e i compensi degli organi della procedura nel caso in cui – come sovente accade – i risultati della procedura si rivelino meno appaganti rispetto alle previsioni. Inoltre, deve rammentarsi nuovamente che il creditore ipotecario non esprime il proprio voto se, in linea astratta (e cioè indipendentemente dall’andamento effettivo del concordato), ne viene previsto il pagamento integrale, sicché l’applicazione dell’art. 111-ter al momento del riparto potrebbe tradursi, per lui, in una vera e propria beffa.
Ora, nel paragrafo n. 4 è stato proposto un correttivo ermeneutico che valorizza la distinzione tra «crediti prededucibili» e «uscite». Intendendo per «uscite» solo quelle che riguardano il concordato nella sua fase esecutiva, e non anche nella fase procedurale vera e propria (dalla domanda all’omologa), sarebbe a ben vedere possibile confinare l’applicazione del criterio della proporzionalità all’ultima fattispecie esaminata, vale a dire quella degli organi della procedura. Invero, quest’ultimi operano nella fase esecutiva del concordato o in via esclusiva (si pensi al liquidatore giudiziale) o senza soluzione di continuità con la fase procedurale (è il caso del commissario giudiziale), di talché non si tratterebbe (perlomeno pro quota, con riguardo al commissario) di un credito prededucibile consolidatosi prima dell’avvio dell’esecuzione del concordato, bensì una «uscita» che matura e si consolida in progress, con l’attuazione del piano concordatario. Viceversa, sia i crediti da finanziamento prededucibile che i crediti dei professionisti non potrebbero qualificarsi alla stregua di «uscita», arrestandosi la loro funzione/opera nella fase procedurale, prima che il piano inizi a trovare attuazione.
A ben guardare, la soluzione qui prospettata, oltre a trovare un addentellato normativo, risponde ad esigenze di giustizia sostanziale. Appare corretto sostenere, infatti, che tanto l’istituto di credito che decida di concedere un finanziamento quanto (soprattutto, e per ragioni sulle quali ci si è già soffermati) i professionisti che hanno coadiuvato l’impresa nella predisposizione di piano e proposta investano sulla riuscita dell’operazione complessiva; riuscita che implicherebbe necessariamente il loro pagamento integrale (o quasi). Di contro, né il commissario né il liquidatore, in linea di massima, potrebbero avere una responsabilità per il naufragio del concordato in fase esecutiva; ciò, naturalmente, sempre che non vengano in gioco errori di carattere professionale, ma in tal caso sarebbe sempre possibile il rimedio risarcitorio.
[1] Si allude, ovviamente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 42093 del 31 dicembre 2021.
[2] Terreno teorico solcato da molta dottrina, soprattutto negli anni più recenti: sia consentito al riguardo, anche per il richiamo ai più significativi spunti di riflessioni, rimandare a F. Pani, Il credito prededucibile del professionista tra novità normative e giurisprudenziali, in www.ristrutturazioniaziendali.it, 15 novembre 2021.
[3] Ma non esclusiva: si ricorda, infatti, che ai sensi dell’art. 111-bis, penultimo comma, l.f., «i crediti prededucibili sorti nel corso del fallimento che sono liquidi, esigibili e non contestati per collocazione e per ammontare, possono essere soddisfatti ai di fuori del procedimento di riparto se l'attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti».
[4] Nel proseguo della trattazione si farà riferimento pressoché esclusivo ai creditori ipotecari, per la semplice ragione che trattasi della garanzia reale che più frequentemente si riscontra nelle procedure concorsuali.
[5] Benché, come meglio si vedrà, non poche cose siano cambiate dall’ultimo pronunciamento della Suprema Corte.
[6] Per un efficace sintesi basti il rinvio a G. Lo Cascio, La prededuzione nelle procedure concorsuali: vecchi e nuovi profili normativi ed interpretativi, in Il Fallimento, 2015, n. 1, pp. 5 e seguenti.
[7] Si fa qui riferimento a Cass. n. 3609/1968, citata da Cass. n. 5913/1994.
[8] Cass. n. 5913/1994.
[9] Cass. n. 7756/1997.
[10] Cass. n. 2329/2006.
[11] Cfr. G. Bozza, Graduazione tra crediti prededucibili e crediti assistiti da garanzia reale, in Il Fallimento, 2000, n. 6, p. 636.
[12] Cass. n. 11500/2010.
[13] Per dirla con le parole di Giuseppe Bozza, nel contributo già richiamato, «ancor più incomprensibile è come sia possibile passare al criterio proporzionale solo dopo che “gli organi giudiziari della procedura, nell’esercizio del loro potere di valutazione discrezionale, reputino che esso sia rispondente all’attività effettivamente svolta dal curatore nell’interesse dei creditori muniti di garanzia reale, in rapporto alla restante massa dei creditori partecipanti al concorso”, perché tale raffronto è improponibile quanto la premessa per l’applicazione del criterio proporzionale è proprio la mancanza di riferimento in ordine ad una specifica imputazione.
[14] Cass. n. 5913/1994.
[15] Come si accennava, non è questa la sede per approfondire i vari argomenti spesi dalla giurisprudenza tradizionale poiché, come meglio si vedrà infra, sono stati superati dalle innovazioni normative. Chi scrive condivide, tuttavia, le critiche mosse da G. Bozza, Graduazione tra crediti prededucibili e crediti assistiti da garanzia reale, cit., pp. 626 e seguenti.
[16] Si vedano E. Lo Mundo, Commento all’art. 111bis, in G. Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, Ipsoa, 2008, p. 1064 e A. Coppola, Commento all’art. 111bis, in A. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Cedam, 2013, p. 786.
[17] Si allude, in particolar modo, all’art. 109, comma 2, che nella formulazione iniziale (sostanzialmente rimasta immutata, salvo per il fatto che oggi la quota di compenso viene determinata dal Tribunale e non dal giudice delegato) stabiliva quanto segue: «il giudice delegato stabilisce con decreto la somma da attribuire, se del caso, al curatore in conto del compenso finale da liquidarsi a norma dell'art. 39. Tale somma è prelevata sul prezzo insieme alle spese di procedura e di amministrazione».
[18] Sottolineano in dottrina l’accennata discontinuità G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, in Il Fallimento, 2015, n. 6, p. 705 e A. Ruggiero, Commento all’art. 111-ter, in A. Jorio (diretto da) e M. Fabiani (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, p. 1852.
[19] Non sembra improprio a questo punto segnalare che il Codice della crisi si pone in sostanziale continuità con l’attuale legge fallimentare. Gli artt. 222 e 223, infatti, riproducono pressoché testualmente gli artt. 111-bis e 111-ter l.f.. L’unica correzione, probabilmente non causale, è l’inserimento di un inciso nel secondo comma dell’art. 222 («salvo il disposto dell'articolo 223»); inciso che, tuttavia, pare soltanto rimarcare un dato per il vero ormai pacifico, vale a dire che la regola impressa dall’art. 223, comma 3 (già art. 111-ter, comma 3), non ha carattere prettamente contabile, rilevando eccome nei criteri distributivi.
[20] Si richiamano nuovamente le note critiche di G. Bozza, Graduazione tra crediti prededucibili e crediti assistiti da garanzia reale, cit., pp. 626 e seguenti.
[21] Così G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, cit., p. 711.
[22] Cass. n. 4626/1999.
[23] Sul quale si sofferma G. Bozza, Graduazione tra crediti prededucibili e crediti assistiti da garanzia reale, cit., pp. 626-628.
[24] Entrambe le citazioni sono di G. Bozza, Graduazione tra crediti prededucibili e crediti assistiti da garanzia reale, cit., p. 636.
[25] Tra le pronunce edite, si vedano Tribunale di Milano del 1° aprile 2017 e Tribunale di Trapani del 27 dicembre 2019, entrambe reperibili in www.ilcaso.it, nonché Tribunale di Massa del 6 ottobre 2017, reperibile nella banca dati de jure; contra, tuttavia, si segnala Tribunale di Piacenza del 4 febbraio 2015 che pare dare continuità al principio di diritto espresso da Cass. n. 11500/2010 (la quale, si badi bene, si espresse su una decisione assunta nel vigore del precedente assetto normativo).
[26] Su cui basti il richiamo a Cass. n. 15724/2019.
[27] Per un affresco generale ma sintetico sulla prededuzione nella procedura concordataria sia consentito, nuovamente, il richiamo a F. Pani, Il credito prededucibile del professionista tra novità normative e giurisprudenziali, cit., paragrafo 2.
[28] Si badi che, seguendo l’indirizzo ormai fatto proprio dalle Sezioni Unite (sentenza n. 42093 del 31 dicembre 2021), peraltro pressoché in linea con la disciplina dettata dall’art. 6 del Codice della crisi, questo tipo di prededuzioni potrebbero ricadere sulla procedura fallimentare finanche a prescindere dall’omologa del concordato o comunque dall’avvio della sua esecuzione, purché il concordato sia stato aperto ai sensi dell’art. 163 l.f.
[29] Cfr. tra le tante Cass. 335/2004, la quale escluse che i crediti retributivi dei dipendenti maturati nel corso della continuità potessero “scaricarsi” sul creditore ipotecario.
[30] Criterio peraltro condiviso anche da una parte della dottrina in relazione alla specifica tematica in esame: sul punto si veda S. Bonfatti e P.F. Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Cedam, 2011, p. 430.
[31] Sul punto di sicuro interesse è il rinvio a S. Pacchi, Le prededuzioni dei professionisti nel concordato preventivo, in www.dirittodellacrisi.it , 27 ottobre 2021.
[32] Si allude a Tribunale di Trapani del 27 dicembre 2019, reperibile in www.ilcaso.it.
[33] Si veda proprio l’ultima pronuncia di legittimità sul tema: Cass. n. 11500/2010.
[34] Una prospettiva simile, ma non identica, viene proposta anche da G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, cit., pp. 708-709. L’Autore, infatti, distingue tra «spese in senso tecnico» e «altre obbligazioni», e afferma che solo le prime potrebbero gravare, se del caso pro quota, del creditore ipotecario. Condivise queste premesse, non si condivide pienamente lo sviluppo successivo del ragionamento dell’Autore, ad avviso del quale questo assetto recepirebbe l’orientamento giurisprudenziale costante e sarebbe finalizzato ad evitare che sul creditore ipotecario possano scaricarsi le spese della continuità aziendale nel concordato. Tale affermazione, in sé, risponde al vero, ma il recepimento dell’orientamento tradizionale, pur aderendo a questa (innovativa) prospettiva ermeneutica, rimane pur sempre parziale. Detto altrimenti, con il nuovo assetto normativo risulta molto più evidente la discontinuità rispetto alla continuità con il passato.
[35] Dello stesso avviso G. Bozza, I criteri per la distribuzione delle prededuzioni tra il ricavato dei beni messi a disposizione dei creditori dal debitore concordatario, cit., p. 703.
[36] Si segnalano, tra le altre, Tribunale di Como del 18 dicembre 2019 e Tribunale di Bari del 3 giugno 2021, entrambe reperibili nel sito www.ilcaso.it.
[37] La possibilità in capo al Tribunale di sindacare la fattibilità giuridica di un concordato è ormai un dato da tempo acquisito in giurisprudenza: si veda, per tutte, Cass., Sez. Un., n. 1521/2013.
[38] Non pare per questo condivisibile una recente pronuncia di merito (Tribunale di Bergamo del 31 marzo 2021, reperibile in www.ilcaso.it) che, a fronte delle contestazioni mosse da un Comune ad avviso del quale l'attribuzione alla massa mobiliare di tutte le spese inerenti il compenso dell'attestatore, dell'advisor legale e finanziario e della società estimatrice (e altro) fosse illegittima, ha argomentato che «le spese di accesso al piano concordatario (advisor legale ed attestatore, e società di stima degli immobili) sono spese che non rivestono specifica utilità per i creditori ipotecari [...]. Risulta quindi corretto che il creditore assistito da garanzia reale non debba sopportare il sacrificio di spese dalle quali non abbia tratto direttamente o indirettamente utilità». Il giudice ha infatti fatto ricorso al criterio dell’utilità, senza che tuttavia ciò trovi (quantomeno oggi) alcun addentellato normativo. Si veda tuttavia infra nel testo per una possibile ricostruzione alternativa che potrebbe condurre, per altra via, allo stesso risultato raggiunto tra Tribunale lombardo.
[39] Viceversa, non è ammesso il ricorso per cassazione allorquando il creditore si dolga soltanto di un eccessivo accantonamento in previsione del pagamento di una quota di spese prededucibili in ipotesi non condivisa: secondo la Suprema Corte, infatti, la lesione del diritto si verifica in questo caso soltanto al momento del riparto effettivo (si veda, tra le molte, Cass. n. 19715/2015). Chiaro è che, al momento del riparto, potrebbe essere ormai troppo tardi, essendosi ormai consolidata la lesione in ragione del principio di irretrattabilità dei riparti sancito dall’art. 114 l.f.; sennonché per la giurisprudenza di legittimità, in un simile caso, il creditore potrebbe soltanto far ricorso alla tutela risarcitoria, citando in giudizio il curatore per responsabilità professionale (tesi già propugnata in Cass. n. 3563/1971; in argomento si veda anche A. Nigro, Commento all’art. 111/II, in M. Sandulli e V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, Giappichelli, 2010, tomo II, p. 1568).
[40] La situazione rimarrà peraltro invariata nel Codice della crisi.
[41] Si veda Cass. n. 641/2019.
[42] Sebbene la giurisprudenza ammetta anche la consecuzione tra concordato e concordato: si veda Cass. n. 15724/2019.