Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Le attività di liquidazione in esecuzione della proposta di concordato preventivo omologata


Francesco Carelli
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Ragionando sul concordato preventivo. Alcuni consigli (non richiesti) ai conditores


Alberto Jorio

Data pubblicazione
02 marzo 2022

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Sommario. 1. Le criticità del concordato preventivo disegnato dal CCII. – 2. Alcuni consigli (non richiesti) di modifica della disciplina per la sopravvivenza dell’istituto. – 3. Conclusioni.


1. Le criticità del concordato preventivo disegnato dal CCII

La lettura, gradevole e istruttiva, di due recentissimi saggi [1], il primo sull’impatto della Direttiva Insolvency sul concordato in continuità, il secondo sulla “concorrenza” destinata a prodursi da parte sia del nuovo istituto della composizione negoziata sia del rinnovato istituto degli accordi di ristrutturazione con continuità aziendale ad efficacia estesa (tanto più se eventualmente preceduti dalla fase della composizione negoziata) nei confronti del concordato preventivo, così come disegnato dal Codice della crisi e dell’insolvenza, mi inducono ad alcune  brevi osservazioni e a cedere alla tentazione di qualche (non richiesto) consiglio a chi si sta  occupando meritoriamente di apportare ulteriori modifiche all’ormai  imminente  CCII, modifiche che  presumibilmente riguarderanno anche il concordato preventivo, istituto che ha da sempre rappresentato la classica alternativa al fallimento. e ora alla liquidazione giudiziale e che rischia di soccombere di fronte alle ventate di novità normative, e a conservarsi quasi come un fossile, nella vetrina dei tempi che furono.

La prima osservazione si riduce più che altro alla constatazione di quanto rapido ed elevato sia divenuto, a decorrere dal 2005, il tasso di complessità della disciplina di regolazione delle crisi d’impresa. Si può dire che il legislatore abbia inteso dare veste e protezione normativa alla variegata miriade di soluzioni stragiudiziali che sono sempre state un mondo a se stante, accanto agli istituti tradizionali del diritto concorsuale, soluzioni stragiudiziali sino ad ora considerate appetibili in quanto connotate dalla maggiore elasticità, ma al tempo stesso rischiose per le gravi conseguenze di un eventuale possibile insuccesso.

“Il panorama del nostro ordinamento concorsuale – ci ricorda ora Paola Vella[2] - consta di una lunga serie di istituti e strumenti già in vigore, o di applicazione imminente o rinviata”. L’elenco arriva sino al numero 24, ma è destinato ad andare oltre. Tra la miriade di possibili composizioni delle crisi d’impresa persiste e resiste il concordato preventivo, che tuttavia appare sempre meno appetibile vuoi per la concorrenza di nuovi istituti, ben sottolineata da Nicolò Abriani, vuoi per sue carenze intrinseche. 

Nella visione complessiva che ha guidato la costruzione delle norme sul concordato preventivo nell’ambito delle linee guida della legge delega 19 ottobre 2017, n. 155 ed ancor più nella redazione dei decreti delegato e correttivo 12 gennaio 2019, n. 14 e 26 ottobre 2020, n. 147 (quest’ultimo a seguito della legge delega 8 marzo 2019, n. 20) il concordato preventivo è stato considerato con un rigore che mal celava un senso di ostilità verso questo tradizionale istituto: la sensazione che produceva la lettura delle nuove norme del CCII era che il legislatore, dopo essersi speso nel formulare le misure di allerta e la procedura di composizione negoziata della crisi con l’istituzione degli OCRI, e dopo aver “rinforzato” la disciplina dei  piani attestati e degli accordi  di ristrutturazione, avesse in sostanza esaurito la disponibilità verso le soluzioni concordate e guardasse con malcelato sfavore le residue alternative alla liquidazione concorsuale[3]. La figura giuridica che risultava più delle altre mal tollerata era il concordato liquidatorio, rispetto al quale è stato espressamente affermato che tanto sarebbe valso procedere al fallimento (ed ora alla liquidazione concorsuale), ritenuto più economico e meglio gestito. Ma era l’intero istituto del concordato preventivo ad essere mal visto, tant’è che veniva confermata l’esclusione dell’approvazione mediante il silenzio–assenso, rimasta invece nella procedura di sovraindebitamento.

A mio avviso il concordato preventivo non merita questo diffuso sfavore. Siamo di fronte ad un istituto che  è stato da sempre, nel nostro e nei più importanti ordinamenti,  il veicolo per l’introduzione  delle maggiori novità nella regolazione dei rapporti tra debitore e creditori: l’apertura ad ogni possibile forma di soddisfacimento dei creditori (e quindi anche alla considerazione per le esigenze di categorie di stakeholders, in particolare i creditori fornitori, interessati più alla prosecuzione dei rapporti che al recupero di parte del credito pregresso, e sui quali si reggono le sorti del concordato in continuità); la suddivisione dei creditori in classi; il controllo giudiziale sull’ammissibilità del ricorso alla procedura, spinto sino alla valutazione economica delle prospettive di successo della proposta e del piano; l’introduzione dei limiti all’autonomia del debitore attraverso gli artt. 167 e 173 l. fall., ora trasfusi nel CCII; l’applicazione del cram down, del best of creditors interest test e, tra poco, auspicabilmente, della Relative priority  rule (RPR) conservano al concordato preventivo la posizione di istituto centrale nella disciplina delle crisi e delle insolvenze. Ma ad una condizione: che le regole siano applicate da magistrati esperti e specializzati e da professionisti che svolgano la funzione di commissari giudiziali con adeguata esperienza e incisività, intervenendo con tempestività e capacità professionale. Il rischio di vedere mal applicate le regole a causa di incapacità o lassismo non deve portare ad elevare steccati normativi: occorre piuttosto lavorare sul fattore umano[4].

L’interrogativo che a questo punto si può porre è il seguente: in un  rinnovato contesto di maggiori possibilità di composizione del conflitto naturale tra debitore e creditori e di offerte di opportunità per la conservazione o la riconquista della continuità aziendale, e quindi di mantenimento in vita delle imprese ancora viables, ha senso mantenere il concordato preventivo in una condizione di subalternità rispetto ai più appetibili strumenti di composizione della crisi, o non è preferibile cercare di intervenire su quei punti della disciplina del CCII che appaiono distonici rispetto alla nuova configurazione delle soluzioni delle crisi, governate, a mio  avviso molto opportunamente, da due principi ineludibili: l’autonomia delle parti nella regolazione dell’accordo[5] e il puntuale e diffuso controllo del giudice, coadiuvato dal commissario giudiziale, sul rispetto della legge e nella valutazione della fattibilità del piano?

Nicolò Abriani illustra bene i punti dove la concorrenza dei nuovi istituti può apparire vincente[6]. Ma forse sono possibili alcune modifiche alla disciplina del concordato preventivo, idonee quanto meno a diminuire l’evidente gap che si è venuto a creare sul piano dell’appetibilità.   

 

2. Alcuni consigli (non richiesti) di modifica della disciplina per la sopravvivenza dell’istituto.

a) Il primo consiglio che mi sentirei di formulare consiste nell’escludere qualsiasi forma di vantaggio temporale per l’accesso al concordato derivante dall’aver il debitore seguito prioritariamente il percorso della composizione negoziata di cui al D L 118/2021. La tentazione di valorizzare la composizione negoziata è indubbiamente forte e comprensibile (di qui la misura premiale di cui all’art. 25, lett. d) del CCII), ma a mio avviso sarebbe sufficiente conservare l’efficacia di determinati atti ed operazioni già svolte, senza dover “premiare” ulteriormente il debitore che depositi una domanda di concordato in bianco dopo aver infruttuosamente tentato la composizione negoziata. Anche perché, come ricorda opportunamente P. Vella, la necessità di rispettare comunque il termine dell’anno per l’estensione delle misure protettive, rende estremamente problematica la “consecuzione” tra i due istituti[7].

b) Il concordato prenotativo, o concordato in bianco[8], è stato sempre osteggiato da una parte della giurisprudenza di merito, la quale ha purtroppo dovuto constatare l’abuso che dell’art. 161, comma 3°, l.fall. è stato fatto in casi non infrequenti. Ma l’esistenza di questi abusi non deve indurre a comprimere le opportunità di applicazione di questo istituto, ben noto nella legislazione statunitense e architrave del Chapter 11.[9] La sua ragion d’essere consiste, come è noto, nella riconosciuta necessità di consentire al debitore di ottenere l’apertura dell’ombrello protettivo per il tempo necessario al fine di formulare proposta e piano. Non si vede perché ciò che funziona nell’ordinamento statunitense non debba funzionare anche da noi; piuttosto rappresenta un triste dato dell’esperienza la verifica della scarsa attenzione che i controllori riservano, a tutti i livelli, all’attività del debitore in questo periodo, attività che dovrebbe invece essere sottoposta a controlli più frequenti ed incisivi. Controlli che non dovrebbero tuttavia limitare l’autonomia gestoria dell’imprenditore: il sistema delineato per la composizione negoziata dal D.L. 118/2021 potrebbe servire da modello, dove autonomia gestoria e controllo (che significa consapevolezza piena delle vicende imprenditoriali da parte dell’esperto, e quindi da parte del commissario giudiziale) possono coesistere.

 A mio avviso andrebbe invece esclusa la possibilità di accedere, durante il periodo di pre-concordato, al piano di risanamento: una volta eletta la via del confronto con i creditori (e quindi della necessaria ricerca del loro consenso, necessario anche nell’alternativa dell’accordo di ristrutturazione), non dovrebbe essere possibile sottrarvisi.

c) Mi sia consentito, in questo elenco delle aspirazioni destinate a restare lettera morta, ricordare un mio “pallino” relativo al concordato prenotativo: la possibilità per i creditori di chiedere al giudice l’apertura di una fase temporale di protezione del debitore, durante la quale il debitore, risvegliato dal suo colpevole letargo, sia indotto a predisporre una domanda di concordato o un accordo di ristrutturazione, ovvero anche una domanda di accesso alla novella composizione negoziata. Decorsa inutilmente questa fase temporale la legittimazione a proporre il concordato passerebbe ai creditori o a un terzo interessato, senza ulteriore possibilità di intervento del debitore[10].

Si tratta, anche in questo caso, di un’ipotesi derivante dall’esperienza statunitense e contemplata dal Chapter 11, ove appunto si prevedono gli unvoluntary cases, e cioè i casi di apertura dell’ombrello protettivo a iniziativa dei creditori. Troverebbe così opportunità di applicazione il principio di competitività, oggi destinato all’insuccesso a causa dello squilibrio informativo esistente tra debitore e creditori, uno squilibrio che verrebbe invece tendenzialmente colmato dalla conoscenza della realtà economica, patrimoniale e finanziaria del debitore man mano acquisibile durante il periodo dello stay attraverso le relazioni del commissario ed altri approfondimenti che venissero consentiti.

A suo tempo mi ero spinto  a ritenere che questa eventualità potesse essere colta dai creditori anche in presenza di una situazione di crisi non ancora degenerata in insolvenza, secondo la distinzione, di non facile comprensione, contenuta nel CCII [11], ma per superare le possibili e prevedibili obbiezioni sulla lesione dei principi costituzionali di libertà ed autonomia dell’imprenditore non ancora tecnicamente insolvente si potrebbe limitare l’intervento dei creditori ai casi di insolvenza reversibile, e cioè a quelle situazioni destinate ad assumere rilevanza fondamentale nel nuovo panorama delle procedure concorsuali, nelle quali il debitore non è più in grado di assolvere regolarmente le proprie obbligazioni, e la dimostrazione ne è data dai perduranti ritardi accumulati verso il fisco, la previdenza e addirittura i dipendenti, ma anche i normali creditori, verso i quali egli ha ormai da tempo intrapreso il faticoso percorso degli accordi dilatori. L’insolvenza cosiddetta reversibile costituiva il presupposto dell’amministrazione controllata; oggi essa potrebbe essere più realisticamente declinata nei casi nei quali l’impossibilità di assolvere regolarmente le obbligazioni è già attuale, ma si prospetta come superabile mediante un accordo con i creditori ed una ristrutturazione adeguata al recupero della continuità aziendale. Una situazione, questa, della quale con quasi certezza buona parte dei creditori sarebbe al corrente, ed in grado di superare, ove lo ritenesse opportuno, le incertezze e la “timidezza operativa” del debitore e dei suoi controllori, attraverso un’iniziativa rispondente ad un giusto equilibrio tra i principi di libertà economica e di tutela del bene collettivo.

Il sistema degli interventi sull’impresa in crisi risulterebbe così articolato.

-durante la fase di pre-crisi (la cosiddetta twilight zone) il solo imprenditore (amministratori e organi di controllo) sarebbe legittimato ad assumere iniziative per porre rimedio alle difficoltà emerse, eventualmente trattando con i creditori più significativi (banche?) le condizioni idonee.

-In una situazione di crisi sarebbe ancora riservata all’imprenditore l’esclusiva legittimazione, ma qualora le stimolazioni ricevute dall’esterno (sicuramente dal settore del credito e ora anche dai creditori particolarmente qualificati: enti previdenziali, esattore delle imposte e Agenzia delle Entrate[12]) non dessero risultati si verificherebbero i presupposti per l’applicazione, invero devastante, dell’art. 2409 cod. civ.

-Ove poi si fosse in presenza di una impossibilità ad adempiere, seppure con prospettive di recupero attraverso un  piano di ristrutturazione e il consenso dei creditori, qualora l’imprenditore non assumesse adeguate e tempestive iniziative, potrebbero essere legittimati i creditori a sollecitare al tribunale l’apertura dell’ombrello protettivo e la concessione al debitore di un termine per assumere l’iniziativa concordataria o  anche quella ex D.L. 118/2021, decorso inutilmente il quale l’iniziativa concordataria potrebbe essere assunta dai creditori o da un  terzo.     

Il concordato preventivo è, nelle sue varie declinazioni, lo strumento classico per consentire l’opportuno equilibrio tra le attese del debitore e dei creditori, sotto il controllo del giudice. Anche le più avanzate teorie protese a dare evidenza e peso agli interessi della collettività nella quale l’impresa è collocata concordano nel riconoscere la preminenza della Best of creditors interest rule. E d’altro canto non siamo di fronte ad una prevalenza di interessi individuali rispetto a interessi collettivi, perché la difesa dell’interesse dei creditori è, in definitiva, tutela del credito e della fiducia che in esso è riposta, valore primario che ha costituito da sempre uno dei fondamenti della disciplina dei rapporti economici. E ciò, merita subito aggiungere, con riferimento alle crisi delle imprese che non siano riconducibili nell’alveo di applicazione della procedura di amministrazione straordinaria, ove il tema della compatibilità tra interesse del ceto creditorio e interesse alla salvaguardia del complesso produttivo è da sempre risolto, e confermato anche dalla successiva legislazione, a favore del secondo: il dibattito sulla preminenza degli interessi, e quindi sulla finalità, nelle procedure concorsuali sembra a volte trascurare questa realtà, la quale comporta, con estrema chiarezza, che una volta superata una determinata dimensione, l’interrogativo sulla preminenza tra la tutela dei creditori, e quindi del credito, e la salvaguardia degli interessi dei soggetti complessivamente indicati come stakeholders, realizzabile attraverso la continuità aziendale, si risolva senza dubbi  a favore della seconda. Con ciò, ovviamente non si intende affermare che il conflitto sia un fenomeno naturale, tant’è che non di rado le scelte della gestione sono espressamente orientate sia alla tutela della continuità aziendale sia al miglior interesse dei creditori, sulla premessa che il ritorno alla normalità della gestione, e quindi alla regolarità dei rapporti, rappresenti un vantaggio per il ceto creditorio. Ma se si tiene conto che normalmente il ritorno alla normalità della gestione passa attraverso la più o meno rilevante riduzione del debito il tema del conflitto torna di attualità. Non sarebbe quindi fuori luogo attribuire ai creditori la legittimazione a richiedere al giudice la fissazione di un termine al debitore perché si attivi.

d) Una difficoltà non lieve per la formulazione della proposta di concordato in continuità è data dalla previsione, contenuta nell’art. 84 CCII, del mantenimento o della riassunzione “di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forze nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall’omologazione”. Previsione che, in caso di continuità indiretta, “si applica anche con riferimento all’attività aziendale proseguita dal soggetto diverso dal debitore”. Si tratta di un vincolo chiaramente imposto dall’ossequio all’indirizzo unionale di favore e protezione dei lavoratori, ma destinato inevitabilmente a costituire un freno per il ricorso al concordato in continuità[13]. 

e) L’art. 87, lett. d) del CCII dispone, in linea generale, e quindi anche per il concordato in continuità, che il piano debba indicare “le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero”. Tra esse, quindi anche le eventuali azioni di responsabilità verso gestori e controllori dell’impresa.

Il legislatore esige quindi una piena confessione da parte dell’imprenditore, in difetto della quale, a seguito delle indagini del commissario giudiziale, la procedura può interrompersi. Eventualità, questa, che può forse essere evitata nelle procedure più rilevanti, ove prevalgano interessi alla continuità aziendale e alla tutela del contesto nel quale l’impresa è collocata, ma che costituisce un rischio notevolissimo in assenza di questi interessi “superiori”[14].

f) Un ripensamento richiederebbe anche il concordato preventivo liquidatorio, destinato a subire, avverte Nicolò, la competizione «diseguale e, ad una prima lettura, finanche ‘sleale’ – del nuovo istituto del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, introdotto dall’art. 18 del Decreto. Un istituto, quest’ultimo, che potrebbe erodere spazi non soltanto al concordato preventivo liquidatorio ma anche a quel concordato con continuità aziendale indiretta, che costituisce la versione di gran lunga più diffusa del concordato con continuità del concordato semplificato»[15] .

Se il legislatore ammette ora che gli accordi con i creditori possano comportare la liquidazione del patrimonio del debitore senza limiti minimi di soddisfacimento dei creditori e riconosce la valutabilità dell’eventuale sussistenza di vantaggio per il ceto creditorio rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, con conseguente legittimazione del giudice a considerare la convenienza (e con possibilità dei creditori di opporsi all’omologazione) non si  vede perché la stessa eventualità non possa ricorrere nel concordato liquidatorio, con il riconoscimento in questo caso ai creditori del potere di approvare o non  approvare una proposta di concordato liquidatorio anche sotto la soglia del 20%.

g) Un ulteriore punto meritevole di ripensamento riguarda il potere – dovere del liquidatore del concordato preventivo liquidatorio di promuovere l’azione di responsabilità (art 115 CCII). Lo disse molto bene Vincenzo Calandra, parlando de “l’ansia giustizialista che anima questa scelta legislativa”,  e osservando come sia “impensabile che i titolari della società, che sono normalmente anche amministratori, o i loro familiari si convincano a fornire quell’apporto esterno che può consentire l’accesso al concordato quando permane il rischio che venga proposta dal liquidatore un’azione di responsabilità, magari basata sulla consueta retrodatazione delle perdite che hanno inciso sul capitale o con il nuovo cavallo di battaglia dell’inadeguatezza degli assetti organizzativi. Meglio tenersi queste risorse per transigere un’eventuale azione proposta in sede di liquidazione giudiziale”[16].

 L’inopponibilità di ogni patto contrario che dovesse formare oggetto dell’offerta ai creditori da parte dei soci amministratori, impegnati a supportare con propria finanza la proposta di concordato, si inserisce nell’ambito di una concezione restrittiva delle opportunità riservate al concordato liquidatorio, considerato poco più che un’anomalia nel contesto delle forme di risoluzione delle crisi e delle insolvenze.  Meriterebbe invece riconoscere i vantaggi del concordato liquidatorio per il ceto creditorio rispetto alla liquidazione giudiziale[17], ove ovviamente l’azione di responsabilità continua ad avere il proprio tradizionale spazio. I gestori dell’impresa, normalmente titolari del capitale sociale, avranno ben presente (e comunque sarà la relazione del commissario giudiziale a ricordarlo) i rischi della liquidazione giudiziale anche sotto il profilo delle responsabilità, e la proposta di concordato liquidatorio terrà in qualche modo conto dei rischi da evitare, rendendo la proposta di concordato più vantaggiosa. L’azione di responsabilità non deve quindi essere “neutralizzata” nella valutazione della scelta tra l’una e l’altra soluzione. 

h) Vengo, infine, ad un punto (per me) dolente: l’approvazione del concordato. A suo tempo[18] mi era parso di poter indicare nell’introduzione della formula del silenzio-assenso uno strumento idoneo a vitalizzare i concordati, ad aumentarne cioè il numero, nel convincimento che un accordo tra debitore e creditori sia soluzione assai migliore di un fallimento. Convincimento che in linea di principio riscuote ovviamente un consenso diffuso, se non fosse che la formula si presta a possibili distorsioni e contribuisce alle non infrequenti delusioni in sede di esecuzione del concordato.

Continuo tuttavia ad essere convinto che giudicare della bontà o dell’inefficienza degli istituti sia possibile soltanto sulla premessa che questi istituti siano messi nelle condizioni ottimali per operare. Il che significa, con riferimento al concordato, che la valutazione , anche economica, operata dal tribunale in sede di ammissione, venga compiuta da giudici perfettamente preparati, che il commissario giudiziale sia professionista competente e abbia valutato nella maniera più approfondita le chances dell’impresa di eseguire il concordato, che la proposta e il piano rappresentati ai creditori siano assolutamente chiari e coerenti, che infine il pubblico ministero abbia piena consapevolezza delle tematiche civilistiche, economiche, aziendali e finanziarie  del caso sul quale è chiamato a pronunciarsi. Questo richiede la legge, e in presenza di queste premesse si può ben attribuire al silenzio del creditore il significato di consenso. Ed occorre operare affinché le premesse si realizzino[19].           

3. Conclusioni

É difficile dire se con queste accennate modifiche il concordato uscirà dalla bacheca dei ricordi. Forse, però, un aiuto ad aprire la vetrina verrà da una fonte inaspettata: il fattore tempo.

Come ben scrive Nicolò, “Sullo sfondo si colloca il più ingombrante e inquietante tra i ‘convitati di pietra’ della nuova disciplina concorsuale, rappresentato dal limite massimo di durata della sospensione delle azioni esecutive, che il Codice della crisi – in questo caso, in puntuale attuazione della Direttiva 1023/2019 – determina, come noto, in dodici mesi, anche non continuativi e con inclusione di eventuali rinnovi o proroghe. Si tratta di un limite temporale invalicabile, proprio per la fonte euro unitaria del vincolo destinato a rivelarsi tanto più angusto in contesti, come le trattative di gruppo di cui all’art. 13 del d.l. 118, che presentano una complessità tale da rendere problematico non soltanto il conseguimento di soluzioni nel semestre prefigurato di regola per la composizione negoziata, ma anche il perfezionamento del percorso di risanamento con strumenti più strutturati nei successivi sei mesi”[20]. Ora, se lo stretto tempo concesso dall’Unione potrà ritenersi sufficiente per la composizione negoziata, più angusto esso potrà rivelarsi qualora al tentativo di composizione negoziata debba seguire un accordo di ristrutturazione. Ed è qui che, nel dubbio, potrà forse riacquistare appetibilità l’immediato ricorso alla procedura di concordato, adeguatamente stemperata dai suoi aspetti più ostici.



[1] P. VELLA, La spinta innovativa dei quadri di ristrutturazione preventiva europei sull’istituto del concordato preventivo in continuità aziendale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1° gennaio 2022; N. ABRIANI, Concordato preventivo e ristrutturazione dell’impresa dopo il D.L. n. 118/2021: Que reste-t-il?, in dirittodellacrisi.it, 16 febbraio 2022.

[2] P. VELLA, La spinta innovativa, cit., 28 s.

[3] Così anche S. AMBROSINI, Nuovo concordato preventivo:, ”finalità,”, “presupposti” e controllo di fattibilità del piano (con qualche considerazione di carattere generale), in Crisi d’impresa e insolvenza, in ilcaso.it, 25 febbraio 2019, 17 s. (considerazioni riprese dall’autore nel suo recente volume Diritto dell’impresa in crisi, Pisa, 2022, 55 s.: «lo spazio per la soluzione concordataria della crisi viene, da questa riforma, ulteriormente ridotto: il che può destare nel commentatore qualche legittima perplessità in ordine alla scelta di fondo del legislatore, che appare in definitiva, per vero fin dalla legge delega, eccessivamente condizionata dai numerosi casi – in realtà per lo più antecedenti agli interventi “correttivi” del 2013 e del 2015 – di utilizzo abusivo (e come tale decisamente censurabile) dello strumento concordatario».

4 Merita riportare questo interessante brano di P. VELLA, op. cit. “Una particolare sottolineatura merita il tema della specializzazione dell’autorità giudiziaria – senza dimenticare che il tema riguarda anche l’autorità amministrativa, avuto riguardo alle amministrazioni straordinarie e alla liquidazione coatta amministrativa – su cui si fa leva in modo insistito nel Tit. IV della Dir., che impone in tutti i tipi di procedure concorsuali (non solo quelle di ristrutturazione) il perseguimento degli obbiettivi di trasparenza, prevedibilità, rapidità ed efficienza, attraverso la fissazione di adeguati standard di formazione, competenza e professionalità, non solo degli organi chiamati a decidere, ma anche dei professionisti da essi nominati (v. artt. 26 e 27 Dir.). In particolare, l’art. 25 Dir. prescrive che sia garantita una formazione adeguata ai componenti delle autorità giudiziarie o amministrative che trattano le procedure di ristrutturazione, di insolvenza e di esdebitazione, tale da assicurare il possesso delle competenze necessarie e appropriate alle loro responsabilità, fermo restando che tali competenze possono essere acquisite anche durante l'esercizio stesso della professione, così come prima della nomina, o durante l'esercizio di altro incarico rilevante.

Gli obbiettivi sottesi sono: i) che le procedure siano trattate in modo efficiente, in vista del loro sollecito svolgimento, in quanto la loro durata eccessiva «determina incertezza giuridica per i creditori e gli investitori e bassi tassi di recupero» (Cons. 85); ii) che le «decisioni aventi ripercussioni economiche e sociali potenzialmente significative» siano adottate in modo appropriato (Cons. 86). Peraltro, al fine di non interferire oltremodo con l’autonomia organizzativa del potere giudiziario all’interno dell’Unione, la Dir. non si è spinta fino al punto di imporre una forma di specializzazione assoluta, secondo i canoni di esclusività e concentrazione, dando espressamente atto che non è necessario prevedere che «un'autorità giudiziaria debba occuparsi esclusivamente di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione», e che non vi è nemmeno obbligo per gli Stati membri di «dare priorità alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione rispetto ad altre».

Tuttavia, il legislatore europeo non ha rinunciato a suggerire che un modo efficace per raggiungere gli obiettivi di efficienza perseguiti dalla Dir. potrebbe essere proprio «la creazione di organi giudiziari o sezioni specializzati, o la nomina di giudici specializzati conformemente alla legislazione nazionale, nonché la concentrazione della competenza in un numero limitato di autorità giudiziarie o amministrative» (Cons. 86).

Sul punto si registra – con rammarico – il mancato recepimento, nel d.lgs 12 gennaio 2019, n. 14 (il CCII di prossima applicazione) del principio di cui all’art. 2, co. 1, lett. n), della legge delega n. 155 del 2017, il quale era appunto volto ad «assicurare la specializzazione dei giudici addetti alla materia concorsuale, con adeguamento degli organici degli uffici giudiziari la cui competenza risulti attuata». Ad oggi, è stata implementata solo la competenza dei tribunali sede di sezioni specializzate in materia d’impresa per le procedure di amministrazione straordinaria e le cause che ne derivano, a norma dell’art. 27, co. 1, CCII, la cui entrata in vigore è stata peraltro anticipata dall’art. 389, co. 2, CCII). I tribunali concorsuali ordinari invece erano e restano centoquaranta.

Nel panorama europeo invece, al di là degli ordinamenti già tradizionalmente fondati sulla giurisdizione specializzata in materia commerciale e concorsuale, come quello francese (les tribunaux de commerce), molti Stati membri hanno adottato – con estrema lungimiranza – il principio della specializzazione dei giudici, attuando lo spirito, prima ancora che la lettera, della Dir.; ad esempio, il Confirmation of Extragiudicial Restructuring Plan olandese (cd. CERP) ha affidato le procedure di ristrutturazione a un panel di giudici specializzati ed esperti che si occupano esclusivamente di quel tipo di procedure, per assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni; analogamente, la Unternehmens Stabilisierungs und Restrukturierungs Gesetz tedesca (cd. StaRUG) ha istituito esperti che si occupano esclusivamente di quel tipo di procedure, per assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni; analogamente, la Unternehmens Stabilisierungs und Restrukturierungs Gesetz tedesca (cd. StaRUG) ha istituito un vero e proprio “Tribunale della Ristrutturazione”. Scorrendo i testi normativi delle riforme di quei Paesi, che godono notoriamente di ampia credibilità nel contesto economico internazionale, emerge la nitida consapevolezza – del resto unanimemente condivisa, quantomeno a livello teorico –che un elevato livello di specializzazione dei giudici (e delle autorità amministrative) addetti alla materia concorsuale produce senza ombra di dubbio una maggiore efficienza delle procedure, perché consente di ridurre i tempi e i costi della ristrutturazione (così come della liquidazione giudiziale), grazie all’attribuzione ai 17 / 37 giudici di quel tasso di discrezionalità necessario a rendere più flessibili le procedure e più snelle le norme che le disciplinano. Ad esempio, tanto il legislatore olandese quanto quello francese si sono avvalsi della facoltà di derogare al principio della RPR e hanno optato per la regola facoltativa della APR. Tuttavia entrambi, per superare le evidenti rigidità della seconda, hanno attinto a piene mani alla possibilità, prevista dall’art. 11, par. 2, co. 2, Dir., di prevedere deroghe alla APR «qualora queste siano necessarie per conseguiregli obbiettivi del piano di ristrutturazione e se il piano di ristrutturazione non pregiudica ingiustamente i diritti o gli interessi delle parti interessate». E per far ciò hanno rimesso alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria –con norme la cui linearità è direttamente proporzionale alla generalità che le caratterizza – il compito di individuare i casi in cui sussistano ragionevoli motivi per discostarsene, senza pregiudizio per i creditori (o i soci) delle classi dissenzienti interessate. Per non dire dell’affidamento che viene riposto nell’alta specializzazione di quegli stessi giudici dei Paesi Bassi, sempre al fine di assicurare certezza, prevedibilità e uniformità delle decisioni nelle procedure di ristrutturazione: l’art. 369, co. 10 del CERP dispone infatti– con una previsione quasi inconcepibile nel nostro ordinamento – che, salva diversa e specifica disposizione, le decisioni del tribunale non sono soggette ad alcuna forma di impugnazione («Unless determined otherwise, decisions of the court in the context of this Section are not subject to any ordinary remedies»)”.

[5] P. VELLA non me ne vorrà se riesumo il termine “autonomia”. Mi piace peraltro riportare queste sue interessanti considerazioni : “Tre sono i pilastri sui quali la Dir. ha edificato i preventive restructuring frameworks: a) la preservazione dell’attività imprenditoriale, quale volano dell’economia dell’Unione (dove le PMI costituiscono il 99% del totale delle imprese), che assicura migliori performance a vantaggio dei creditori e consente di tutelare l’occupazione (art. 4, par. 1); b) l’efficienza della procedura, finalizzata a ridurne tempi e costi (Tit. IV), che passa inevitabilmente attraverso la specializzazione tanto dell’autorità giudiziaria o amministrativa (art. 25), quanto dei professionisti nel campo della ristrutturazione da essa nominati (artt. 26 e 27); c) il dialogo tra tutte le parti interessate durante le trattative (Cons. 10) e l’intervento del giudice a tutela dei loro interessi contrapposti (art. 4, par. 6). Di fronte a questo nuovo approccio alla ristrutturazione veicolato dalla Dir., finisce per scolorire il tema tralatizio della polarizzazione tra autonomia ed eteronomia; tema che appare obsoleto e ideologico rispetto alla visione sovraordinata del legislatore europeo, che, nell’intento di armonizzare i plurimi sistemi concorsuali nazionali, tende naturalmente a superarne le oggettive diversità di regole e principi, in una composizione bilanciata delle opposte visioni.

[6] N. ABRIANI, op. cit. passim.

[7] P. VELLA, op. cit.   

[8] Sul quale mi ero già espresso in termini favorevoli nel mio scritto La riforma fallimentare: pregi e carenze delle nuove regole, in Giur. comm., 2013, I, 698 ss.

[9] Avevo anzi indicato – e continuo ad esserne convinto – nel concordato prenotativo un’opportunità positiva, ovviamente se utilizzata nel rispetto della legge e sotto un controllo sovente risultato inefficiente (A. JORIO, La riforma fallimentare, cit., 700 s.)

[10] Anche in questo caso devo rinviare a quanto già espresso, tra gli altri, nei lavori citati alla nota successiva.

[11]  Rinvio alle mie considerazioni in argomento in La riforma fallimentare: pregi e carenze delle nuove regole, in Giur. comm., 2013, I, 712; ID., La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in Dir. fall., 2019, 283 ss. e in La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, Giappichelli, 2019, 413 ss.; ID,,Introduzione generale alla disciplina delle crisi d’impresa,, Trattato delle procedure concorsuali, , diretto da Jorio e Sassani, vol I, Milano, Giuffrè, 2014, 97 s.

[12]  Così l’art. 30 sexies della legge 29 dicembre 2021, n, 233, sulla quale F. CESARE, Torna l’allerta esterna ridimensionata nella composizione negoziata della crisi, in ilfallimentarista.it.    

[13] E cfr. ancora P. VELLA, op. cit.: «I livelli occupazionali imposti finiscono per ingessare oltremodo la ristrutturazione con continuità indiretta (comma 2) e, per altro verso, si esclude che un concordato preventivo cd. “misto” possa essere considerato in continuità quando la soddisfazione dei creditori avvenga prevalentemente con il ricavato dalla liquidazione, salva la relativa presunzione iuris et de iure in caso di mantenimento di determinati livelli occupazionali (comma 3), mentre la Dir. ammette la prosecuzione parziale dell’attività senza porre vincoli di prevalenza sul momento liquidatorio che lo affianchi, ritenendo comunque prioritario l’obbiettivo che le imprese continuino a operare (Cons. 1)». 

[14]  E cfr. S. AMBROSINI, Nuovo concordato preventivo, cit., 13: “Il precetto tuttavia si colloca, a ben vedere, ai confini con l’inesigibilità della prestazione, specie considerando il poco tempo concesso nel nuovo sistema al debitore per costruire il piano di concordato; senza dire dalla dubbia compatibilità di una disposizione siffatta, nella parte in cui ri-comprende (implicitamente ma chiaramente) le azioni di responsabilità contro gli amministratori in carica, con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di nemo tenetur se detegere, andando tale norma ben oltre la disclosure, necessaria secondo la giurisprudenza ormai consolidata, circa gli eventuali atti di frode commessi anteriormente alla presenta-zione della domanda. Sarebbe stato preferibile, quindi, mantenere la soluzione adottata dalla legge vigente (cfr. l’art. 172 come novellato nel 2015), continuando a demandare tali approfondimenti alla relazione del commissario giudiziale”

[15] N. ABRIANI, Concordato preventivo e ristrutturazione, cit., 14.

[16] V. CALANDRA BUONAURA, Il nuovo concordato preventivo, in La riforma delle procedure concorsuali, in ricordo di Vincenzo Buonocore, a cura di A. Jorio e R. Rosapepe, Quaderni di Giur. comm., Giuffrè, Milano, 2021, 165 ss.

[17] É qui doveroso richiamare un altro brano di P. VELLA, op. cit., 5 s.: “Una delle principali ragioni che hanno indotto l’Unione europea a legiferare in materia di ristrutturazione preventiva è stata la constatazione che in molti Stati membri le ristrutturazioni concorsuali hanno una durata eccessiva e bassi tassi di recovery per i creditori, anche a causa di procedure «indebitamente dispendiose» (Cons. 6 Dir.).Il dato è noto e trova eco anche in un recente studio nazionale, condotto su un campione di oltre tremila procedure di concordato preventivo ammesse nel periodo 2009-2015, dal quale sono emersi, tra l’altro, i seguenti elementi: i) la netta prevalenza delle procedure di fallimento, su quelle di concordato preventivo e sugli accordi di ristrutturazione dei debiti (pari rispettivamente a 13.472, 817 e 488 nell’anno 2016); ii) il progressivo aumento delle dimensioni delle imprese man mano che accedono al fallimento, o al concordato preventivo, o agli accordi di ristrutturazione (indice che solo le imprese più grandi riescono ad accedere agli strumenti “paranegoziali” di regolazione della crisi); iii) la preponderanza, all’interno della categoria dei concordati preventivi, di quelli liquidatori (circa il 70%); iv) una notevole durata della procedura (in media circa 10 mesi, 14 nel concordato preventivo cd. “con riserva”), calcolata dalla presentazione della domanda all’omologazione; v) la lunghezza dei tempi programmati di esecuzione del piano (circa 3 anni, limite peraltro quasi mai rispettato); vi)l’esiguità dei tassi di recupero per i creditori chirografari (in media 18% nei concordati preventivi liquidatori, 23% nei concordati in continuità indiretta, 37% in quelli in continuità diretta); vii) un minor scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi (questi ultimi pari in media al 60% dei primi) nei concordati in continuità, rispetto alle altre tipologie di concordato; viii) migliori performance in caso di minore “cronicità” della crisi persistenti nell’adempimento degli obblighi verso le banche e l’avvio della procedura); ix) una diminuzione dei tassi di recupero proposti, all’aumentare delle spese “di giustizia” e per i professionisti che assistono il debitore; x) una diminuzione dello scarto tra tassi di recupero proposti e tassi effettivi, all’aumentare di quelle stesse spese” Dove, però, non emerge il raffronto tra i risultati dei concordati liquidatori e quelli dei fallimenti.

[18] Rinvio al mio La riforma fallimentare, cit., 698 s

[19] Mi sarei anche accontentato della soluzione indicata da AMBROSINI, op. cit., 17, per il quale “sarebbe stato importante rendere la disciplina concorsuale finalmente armonica con il resto dell’ordinamento civilistico, notoriamente retto dal principio della non significatività del silenzio (qui tacet neque dicit, neque negat, neque utique fatetur). Pertanto, si sarebbero dovuti scomputare i creditori non votanti dal quorum deliberativo, giacché il loro atteggiamento astensionistico non è, obiettivamente, riconducibile né a un assenso, né a un dissenso”. Condivisibile è anche l’ulteriore riflessione di Ambrosini sulla possibilità di porre rimedio alla mancata riproduzione, all’interno dell’art 47 del CCII, del disposto dell’art.162, 1° comma, L. Fall.: “Un pertugio nel senso della persistente possibilità per il tribunale di accordare un termine si rinviene peraltro nell’espressione, con-tenuta nel terzo comma dell’art. 47, “sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale e il pubblico ministero”, ovviamente con riguardo alla figura del debitore. In linea generale, ad ogni buon conto, sembra difficile negare un potere siffatto in capo al tribunale a prescindere da previsioni che lo sanciscano espressamente, dovendosi anzi osservare che esso potrà in futuro esercitarsi al di là dei limiti (peraltro, come si diceva, in via di prassi sistematicamente valicati) dell’attuale art. 162 relativamente al “termine non superiore a quindici giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti”.

[20] N. ABRIANI, op. cit., 19 s.