, 21 dicembre 2025, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Istituti del codice della crisi e ipotesi di consustanzialità del going concern. - 2. Le declinazioni della continuità aziendale nel codice della crisi: identità dell’attività d’impresa… - 3. Segue: … continuità “quiescente”, parziale e funzionale alla liquidazione. - 4. Continuità diretta, indiretta e parziale nella composizione negoziata… - 5. Segue: … nel concordato preventivo… - 6. Segue: … e nel concordato semplificato.
1. Istituti del codice della crisi e ipotesi di consustanzialità del going concern.
Dall’analisi delle disposizioni codicistiche relative ai vari istituti in esse contemplati, pur notoriamente frutto di progressive e non sempre lineari “stratificazioni”, emerge un quadro solo apparentemente “disordinato” e frammentario del concetto di continuità aziendale.
In realtà, mediante una lettura attenta alle peculiarità funzionali dei diversi rimedi della crisi e alla scelta dei termini sul piano semantico quale operata dal legislatore è possibile rintracciare - e di conseguenza riannodare - un fil rouge che attraversa gli istituti e che si traduce in un fattore idoneo a “ordinare” per quanto possibile la materia.
Dal complesso delle previsioni che si occupano di continuità aziendale, nelle quali la legge utilizza – in modo di certo non casuale – talora il termine “risanamento”, talaltra quello “ristrutturazione”, si evince infatti che la continuità va, per così dire, necessariamente a braccetto con quei rimedi che sono finalizzati (esclusivamente) al risanamento dell’impresa, laddove se a venire in evidenza è (anche) la ristrutturazione dei debiti vi è spazio, in linea di principio, per un intervento di tipo liquidatorio.
Occorre naturalmente far salvo, rispetto a questa regola, il caso in cui sia la legge stessa a escludere espressamente la compatibilità con lo strumento di un piano liquidatorio, come accade per gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61, c. 2, lett. b), CCII, ove si richiede che “l’accordo abbia carattere non liquidatorio” e di conseguenza il piano a esso sottostante).
Ad eccezione di tale previsione, però, e ovviamente di quelle dichiaratamente destinate alla sola continuità (quale ad esempio quella sulla c.d. ristrutturazione trasversale ex art. 112, c. 2), deve ritenersi che ogniqualvolta la legge parli soltanto di risanamento dell’impresa intenda escludere l’ipotesi della liquidazione (che già solo sul piano linguistico, a ben vedere, cozza contro il concetto di risanabilità dell’attività imprenditoriale): liquidazione da intendersi qui come dismissione atomistica dei cespiti aziendali (c.d. liquidazione disgregativa), da tenere ben distinta dalla c.d. liquidazione conservativa, vale a dire la cessione dell’azienda (o di un ramo di essa) in esercizio a favore di soggetto diverso dall’imprenditore in crisi o insolvente.
L’assunto trova conferma già nelle primissime disposizioni del codice e segnatamente nella definizione degli strumenti di risoluzione della crisi e dell’insolvenza di cui alla lett. m-bis) dell’art. 2, nell’ambito dei quali la norma traccia lo spartiacque fra quelli volti al risanamento dell’impresa (attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale) e quelli diretti invece alla liquidazione del patrimonio o delle attività del debitore: previsione, questa, in cui il concetto di liquidazione viene contrapposto appunto a quello di risanamento, non a quello di ristrutturazione.
D’altronde, “risanamento” è il termine che la legge (non solo nella norma generale di cui sopra ma anche, ad esempio, nell’art. 12) associa, del tutto correttamente, all’impresa, laddove il vocabolo “ristrutturazione” ha essenzialmente ad oggetto i debiti dell’imprenditore (artt. 57 e ss.; art. 87, c. 1, lett. d), ecc.), non la sua attività.
Se quanto precede risponde al vero, gli unici due istituti incompatibili con il contenuto liquidatorio del piano sono allora gli accordi in esecuzione di un piano attestato di risanamento e la composizione negoziata.
Con riguardo a quest’ultima, il primo comma dell’art. 12 CCII postula appunto la necessità che risulti ragionevolmente perseguibile il risanamento dell'impresa. E la formulazione del secondo comma conferma a sua volta l’interpretazione di cui si diceva, stabilendo che l’esperto agevola le trattative tra l'imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati, al fine di individuare una soluzione per il superamento delle condizioni di cui al primo comma, “preservando, nella misura possibile, i posti di lavoro”: apparendo in effetti la conservazione dei posti di lavoro strettamente collegata alla (recte: indisgiungibile dalla) prosecuzione dell’attività.
Per quanto attiene al piano attestato di risanamento, esso deve apparire idoneo, ai sensi dell’art. 56 CCII, a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione patrimoniale ed economico-finanziaria.
E se qualche dubbio circa la possibile natura liquidatoria dell’istituto può forse residuare, in base alla lettera di tale previsione, per via del fatto che vi si parla di risanamento non già dell’impresa bensì dell’esposizione debitoria di essa, va considerato che il campo risulta in realtà sgomberato da ogni perplessità ove si ponga l’accento sul contenuto del piano in questione, che deve contenere necessariamente, ai sensi del secondo comma del predetto art. 56, “il piano industriale e l'evidenziazione dei suoi effetti sul piano finanziario”, nonché “l'analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi, del fabbisogno finanziario e delle relative modalità di copertura, tenendo conto anche dei costi necessari per assicurare il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e di tutela dell’ambiente”: elementi, questi, che chiaramente presuppongono la continuazione dell’attività e risultano quindi incompatibili con una liquidazione atomistica dei beni aziendali.
Negli altri strumenti di cui al codice della crisi, al contrario, l’utilizzo del vocabolo “ristrutturazione” schiude la porta alla possibile curvatura del piano in senso liquidatorio. Ciò vale, naturaliter, per il concordato preventivo liquidatorio e per il concordato semplificato (deputato ex professo alla “liquidazione del patrimonio”), giacché è la legge medesima a disporlo, dovendosi escludere in base ad essa, nel primo istituto, la continuità tout court, se non quella funzionale alla migliore liquidazione (art. 99, c. 1, CCII), nel secondo, la continuità diretta, essendo contemplata solo l’ipotesi della cessione di azienda (art. 25-septies: e sul punto v., amplius, l’ultimo paragrafo).
Altrettanto deve dirsi poi in ordine al possibile contenuto liquidatorio degli accordi di ristrutturazione dei debiti, data la sola deroga di cui al suddetto art. art. 61, c. 2, lett. b): donde, nelle altre ipotesi, la regola generale del possibile carattere liquidatorio del piano.
E alla medesima conclusione deve pervenirsi, come già in altra sede argomentato, pure con riferimento al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, e ciò anche in virtù del carattere anfibologico degli indici testuali. Se è vero, infatti, che il comma 9-bis dell’art. 64-bis parla di “funzionalità degli atti rispetto alla continuità aziendale” (potendo peraltro considerarsi la norma ad applicazione non necessaria ogniqualvolta non vi sia continuità), non meno rilevante appare la sostituzione, fra le norme inapplicabili al concordato, della disposizione sulla liquidazione nel concordato liquidatorio (art. 114) con quella sulla liquidazione nel concordato in continuità (art. 114-bis). Il tutto a conferma di una verosimile divergenza di opinioni nell’ambito degli stessi conditores, foriera dell’anzidetta, inopportuna ambiguità interpretativa, che in assenza di evidenti fattori preclusivi sembra poter essere risolta, appunto, nel senso più permissivo.
Non si vede d’altronde con la tutela di quale interesse risulti incompatibile un piano di ristrutturazione omologato di carattere liquidatorio. Possono forse deporre in senso contrario esigenze, per così dire, di politica giudiziaria (tese a scongiurare l’inapplicabilità della disciplina del concordato liquidatorio), ma esse non sono tali, per loro natura, da prevalere su quelle del rigore interpretativo e della coerenza sistematica.
Quanto osservato rende dunque disagevole una lettura preclusiva del contenuto liquidatorio del piano, dovendo operare, nei casi dubbi, il principio della tendenziale libertà dei contenuti del piano.
2. Le declinazioni della continuità aziendale nel codice della crisi: identità dell’attività d’impresa…
Le disposizioni che trattano di continuità aziendale pongono il tema se nel perseguire il superamento della crisi si possa cambiare attività, intesa dal punto di vista dei suoi contenuti industriali, quando non addirittura del settore merceologico di appartenenza.
Non si tratta, ovviamente, di domandarsi se una tale scelta sia consentita all’imprenditore (in bonis o in crisi), giacché la risposta senz’altro affermativa discende dal principio di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., bensì di appurare se i rimedi previsti dal codice della crisi si prestino alla prosecuzione dell’impresa attraverso l’esercizio di una diversa attività.
Orbene, nel parlare di continuità nelle sue varie declinazioni (e comunque nel sottointenderne il concetto, come nel caso degli artt. 12 e 56), le norme del codice sembrano riferirsi alla medesima attività imprenditoriale esercitata dal debitore prima del verificarsi della crisi, escludendosi con ciò che possa trattarsi di una nuova e diversa attività. La continuità aziendale, in altri termini, implica la prosecuzione diretta o indiretta della pregressa attività d’impresa; e non a caso la Corte di Cassazione, pronunciandosi in materia di concordato preventivo c.d. misto, ha di recente affermato che “ la continuità presuppone che la pregressa attività di impresa, pur potendo subire un ridimensionamento della sua consistenza quantitativa, prosegua con le peculiari caratteristiche già assunte e mantenga la sua identità sotto un profilo qualitativo, senza essere completamente destrutturata e sostituita con un’attività di impresa alta e differente da quella precedentemente svolta” (Cass., 8 gennaio 2025, n. 348).
In altri termini, affinché possa parlarsi di continuità vanno ravvisati – secondo la terminologia utilizzata dall’art. 2112, c. 5, c.c., in tema di trasferimento di ramo d’azienda – gli estremi di un’articolazione funzionalmente autonoma dell’attività economica precedentemente organizzata che conservi la propria identità, sicché non parrebbe configurabile una ristrutturazione basata sull’esercizio di un’attività d’impresa differente rispetto a quella svolta dall’imprenditore in crisi.
A meno di predicare, relativamente alla composizione negoziata (e al piano attestato di risanamento), una rilevanza talmente preponderante dell’obiettivo del risanamento da far premio sulla conservazione di detta identità, arrivando a configurare una continuità in senso solo soggettivo (il medesimo imprenditore che cessa un’attività e ne inizia una nuova che consente di ripianare almeno in parte l’esposizione debitoria). Il che, con riguardo quanto meno all’art. 12, deve però fare i conti con la necessaria perseguibilità del “risanamento dell’impresa”, che è cosa diversa – si torna a dire – dalla ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore.
3. Segue: … continuità “quiescente”, parziale e funzionale alla liquidazione.
Nell’ambito della continuità indiretta nel concordato preventivo è configurabile quella che potrebbe definirsi continuità “quiescente”, nel senso che nel piano di concordato può essere contemplata anche la “ripresa dell’attività” (art. 84, c. 2), da intendersi come temporaneamente interrotta e non già definitivamente cessata. E non sembrano esservi ragioni per negare al precetto una portata transtipica, tale da consentirne l’applicazione ad altri istituti codicistici, a cominciare dalla composizione negoziata: deponendo con buona probabilità in questo senso anche un’interpretazione costituzionalmente orientata.
In un’altra norma del codice, poi, è prevista la continuità in funzione della liquidazione. Il primo comma dell’art. 99, infatti, stabilisce, ai fini dell’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili, che il piano concordatario possa prevedere “la continuazione dell’attività aziendale, anche se unicamente in funzione della liquidazione”; a condizione – come precisato nell’ultima parte della disposizione – che ciò risulti funzionale alla miglior soddisfazione dei creditori. Si tratta qui, com’è chiaro, della prosecuzione dell’attività non già nella prospettiva della continuità aziendale, bensì strumentale a una più proficua liquidazione per i creditori (come nell’ipotesi di ultimazione di un compendio immobiliare in vista del suo miglior realizzo), vale a dire nell’ambito di un concordato pur sempre di tipo liquidatorio.
Ma la disciplina del concordato preventivo è stata anche, per così dire, la culla del dibattito sull’asserita necessità, con riferimento a quello che da lungo tempo viene denominato concordato “misto”, che la componente della continuità prevalesse su quella liquidatoria.
Il nodo è stato sciolto gordianamente – com’è da tutti risaputo – dal terzo comma dell’art. 84, ai sensi del quale nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità diretta o indiretta. Ciò ovviamente non significa che la residua attività possa tradursi in una parvenza di continuità, ma che essa deve al contrario riguardare una porzione significativa (dal punto di vista qualitativo, non anche quantitativo, per l’appunto) del nucleo aziendale, tale da consentire di escludere che la continuità sia stata artificiosamente creata allo scopo di eludere la ben più rigorosa disciplina del concordato liquidatorio. Il che val quanto dire che opera qui come altrove il chiaro limite del divieto di abuso dello strumento concordatario.
Il principio è oggi replicato anche dall’art. 285, c. 1, in tema di concordato di gruppo, dopo che il decreto correttivo del 2024 ha posto rimedio all’aporia di una norma che, non essendo stata prima di allora coordinata con il novellato art. 84, c. 3, richiedeva invece la continuità prevalente nell’ipotesi di piano di gruppo. Si applica pertanto la sola disciplina del concordato in continuità quando, confrontando i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con quelli scaturenti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti anche in misura non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità: norma, questa, la cui non impeccabile formulazione dipende dall’essere stata appunto capovolta nel suo significato precettivo rispetto all’impostazione originaria.
4. Continuità diretta, indiretta e parziale nella composizione negoziata…
L’istituto che appare pensato elettivamente per consentire all’imprenditore di proseguire la propria attività è la composizione negoziata.
Ed infatti, l’andamento delle trattative con i creditori rappresenta la “cartina di tornasole” della possibilità per il debitore, a dispetto della sua condizione, di restare, metaforicamente, sulla tolda della nave e di affrontare in prima persona il mare in burrasca, trovando ove possibile un accordo con il ceto creditorio mediante le soluzioni della crisi individuate da lui stesso e dai suoi consulenti con l’ausilio dell’esperto.
È nondimeno evidente che la perseguibilità del risanamento dell’impresa può in concreto postulare, al contrario, una discontinuità soggettiva, ogniqualvolta risulti preferibile - per non dire, in certi casi, indispensabile - che il capitano della nave, per restare in metafora, ceda ad altri il timone, propiziando il trasferimento dell’imbarcazione a un soggetto terzo.
La configurabilità di questo secondo scenario è quindi opportunamente prevista ex professo dalla legge, là dove si stabilisce che l’imprenditore può essere autorizzato dal tribunale a cedere a terzi l’azienda (art. 22, c. 1, lett. d).
La formulazione letterale del precetto – “autorizzare l'imprenditore a trasferire in qualunque forma l’azienda o uno o più suoi rami” – denota in primo luogo l’assenza della precisazione “in esercizio”, sebbene non sembri dubbio che debba trattarsi di un complesso produttivo in attività e comunque suscettibile di prossima riattivazione.
Per ciò che concerne l’espressione “in qualunque forma”, essa è del tutto analoga a quella adoperata dal legislatore all’art. 84: ai sensi del primo comma, infatti, la soddisfazione dei creditori nel concordato può avvenire mediante la continuità aziendale, la liquidazione del patrimonio, anche con cessione dei beni, l'attribuzione delle attività ad un assuntore o in qualsiasi altra forma. E tale espressione riecheggia quella utilizzata nel secondo comma, a mente del quale la continuità indiretta può realizzarsi ove sia prevista dal piano la gestione dell'azienda in esercizio (o la ripresa dell'attività da parte di soggetto diverso dal debitore) in forza di cessione, usufrutto, conferimento dell'azienda in una o più società, ovvero in forza di affitto, o “a qualunque altro titolo”.
La formulazione dell’art. 22 lascia peraltro aperto il dubbio circa la necessità di autorizzare anche il contratto di affitto di azienda: depone per la soluzione negativa il rilievo che non si versa in un’ipotesi di trasferimento in senso stretto (il codice civile per primo distingue fra trasferimento “della proprietà” e del “godimento dell’azienda”: art. 2556, c. 1), mentre potrebbe orientare, al contrario, per la soluzione affermativa l’utilizzo dell’espressione “in qualunque forma”, quindi anche a titolo temporaneo come appunto nel caso dell’affitto. In realtà, l’estensione alla fattispecie dell’affitto sembra preclusa dalla ratio dell’art. 22, c. 1, lett. d), che è quella di evitare gli effetti in termini di solidarietà passiva dell’art. 2560, c. 2, c.c.: disposizione notoriamente inapplicabile al caso di semplice affitto d’azienda.
Si tratta in ogni caso, anche aderendo alla tesi qui prospettata, di atto eccedente l’ordinaria amministrazione, come tale soggetto al vaglio dell’esperto ex art. 21.
L’art. 22, come si diceva, contempla la possibilità che oggetto di trasferimento sia anche soltanto un ramo aziendale, di tal che può aversi un complesso aziendale che in parte viene mantenuto in titolarità dall’imprenditore e in parte alienato a terzi (tipicamente, al fine di sostanziare la fattibilità economica della parte di piano in continuità diretta e di garantire il downpayement dei creditori).
Analogamente, non sembra potersi escludere sic et simpliciter – anche per via del principio della tendenziale discrezionalità delle scelte gestorie – l’ipotesi di alienazione di beni aziendali (non costituenti un ramo vero e proprio) finalizzata a sostenere la continuità e a ripianare almeno in parte l’esposizione debitoria. Di qui la configurabilità di una continuità aziendale solo parziale ma pur sempre idonea alla ragionevole perseguibilità del risanamento: naturalmente a condizione che i beni non destinati alla liquidazione risultino idonei a essere organizzati in funzione della prosecuzione (seppur riperimetrata) dell’attività.
5. Segue: … nel concordato preventivo…
Il concordato preventivo costituisce – com’è ben noto – il terreno di coltura per eccellenza della distinzione fra continuità diretta e indiretta: e ciò, sul piano normativo, fin dal momento in cui la legge delega n. 155/2017 ha sancito il principio della continuità in senso oggettivo (art. 2, c. 1, lett. g): “anche tramite un diverso imprenditore”).
Il secondo comma dell’art. 84 – com’è a tutti noto – enuclea due tipi di continuità: quella diretta e quella indiretta. La prima si caratterizza per il fatto che l’attività d’impresa viene proseguita da parte dello stesso imprenditore che ha presentato la domanda di concordato; la seconda per la circostanza che nel piano concordatario è prevista la gestione dell’azienda da parte di un soggetto terzo (e sul punto, notoriamente gravido di problematiche interpretative, sia consentito richiamare quanto diffusamente esposto nei precedenti scritti dell’autore, alcuni dei quali citati nella breve bibliografia inserita al termine del presente contributo).
In linea generale, la norma ha cura di precisare quali sono i valori tutelati dalla continuità (l’interesse dei creditori e, nella misura possibile, i posti di lavoro), mentre nei successivi commi 3 e 6 l’art. 84, rispettivamente, (i) richiede che nella proposta concordataria sia prevista un’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile (tale potendo essere anche la prosecuzione o la rinnovazione di rapporti contrattuali) e (ii) consente che il valore eccedente quello di liquidazione sia distribuito in deroga al criterio della priorità assoluta: essendo precisamente questi i due aspetti più rilevanti su cui la continuità incide in materia di trattamento dei creditori.
Con specifico riguardo all’ipotesi di continuità indiretta, merita ricordare che essa è la modalità che per definizione realizza quella discontinuità nella gestione dell’impresa che in determinati casi è vista dai creditori come elemento-chiave del tentativo di salvataggio, il che accade ogniqualvolta il debitore non goda della necessaria fiducia da parte di chi (a cominciare dagli istituti di credito) a tale salvataggio deve concretamente concorrere.
Sul piano esegetico, il secondo comma dell’art. 84 precisa che deve trattarsi di azienda “in esercizio”, il che val quanto dire che non può esservi continuità in presenza di un complesso aziendale inattivo: con l’eccezione – come si diceva – di un’attività temporaneamente ferma ma suscettibile di imminente ripresa, giacché in tal caso l’azienda si appresta a tornare, appunto, in esercizio. E non v’è motivo di pensare che lo stesso principio non sia applicabile anche alla continuità diretta, pena, a tacer d’altro, un’ingiustificata disparità di trattamento.
Quanto poi ai dubbi circa la disciplina applicabile alla dismissione dei cespiti facenti parte della componente liquidatoria del piano, alle persistenti lacune del codice della crisi ha posto in buona parte rimedio l’art. 114-bis, distinguendo le fattispecie a seconda che il soggetto che propone l’acquisto dei beni da liquidare o dell’azienda sia già stato o meno individuato (e quindi che il piano si basi o no sulla sua offerta).
E’ chiaro che le regole risultano più stringenti nel secondo caso, potendo il tribunale far luogo alla nomina di un liquidatore, il quale dovrà condurre le operazioni di liquidazione all’insegna dell’efficienza e della celerità, nonché del rispetto dei principi di pubblicità e di trasparenza. E ciò anche quando l’offerta riguardi bensì l’intero complesso aziendale in esercizio ma non anche la totalità dei beni dell’impresa (ad esempio perché l’altro ramo aziendale ha in precedenza cessato la propria attività e dev’essere quindi liquidato atomisticamente).
La norma riveste poi un interesse di carattere sistematico nella misura in cui sembra ammettere la possibilità che il piano concordatario non contempli né la continuità diretta, né l’offerta di un soggetto che proponga l’acquisto dell’azienda, ma che sia basato sulla motivata probabilità che sia possibile, successivamente all’ammissione al concordato, reperire sul mercato un soggetto che si renda disponibile a rilevare l’azienda alle esatte condizioni previste nella proposta e nel piano. Il che, seppur difficile da realizzarsi in concreto e comunque problematico da attestarsi, non può tuttavia escludersi a priori, tanto più al cospetto di una previsionem – l’art. 114-bis, appunto – che mostra di riferirsi precisamente a un caso del genere.
6. Segue: … e nel concordato semplificato
La norma di riferimento è qui, notoriamente, l’art. 25-septies, ai sensi del quale, quando il piano di liquidazione comprende un’offerta da parte di un soggetto individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore dell’azienda o di uno o più rami di essi, ovvero di specifici beni, il liquidatore dà esecuzione alla vendita previa verifica circa l’assenza di migliori soluzioni sul mercato (vendita cui fa luogo l’ausiliario ove sia previsto che il trasferimento avvenga prima dell’omologazione).
Non sembra peraltro che l’offerta di acquisto come componente del piano sia coessenziale alla possibilità di cedere l’azienda, potendo ciò accadere, probabilmente, su iniziativa del liquidatore anche in assenza di originaria pianificazione, purché ciò non arrechi pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale.
Dal disposto del precetto si ricava che nel concordato semplificato la liquidazione può essere tanto disgregativa quanto conservativa, vale a dire che i beni aziendali possono essere ceduti in modo atomistico o unitario. Nella seconda ipotesi vi è tendenziale coincidenza con la continuità indiretta, nel senso che l’attività d’impresa può essere proseguita dal cessionario a valle del trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa; né assume valenza ostativa rispetto a tale scenario la circostanza che la previsione di cui trattasi non riproduce l’espressione “azienda in esercizio” propria invece dell’art. 84, non scorgendosi oltretutto a quale ratio risponderebbe una lettura restrittiva e potenzialmente penalizzante per il ceto creditorio.
L’assunto richiede tuttavia una precisazione, la quale integra nel contempo un profilo distintivo rispetto al concordato preventivo con continuità indiretta. Ed invero, mentre nell’ambito di quest’ultimo la prosecuzione dell’attività è consustanziale alla fattispecie, nel concordato semplificato la circostanza è meramente eventuale, nel senso che nulla vieta che il cessionario dell’azienda, una volta corrisposto il prezzo contrattualmente stabilito, cessi l’attività smantellando l’azienda stessa, dal momento che l’unico focus è posto dalla norma sull’interesse dei creditori, da ritenersi già realizzato per effetto dell’avvenuto incameramento del suddetto prezzo.
E l’ipotesi testé prospettata, del resto, appare coerente con la finalità precipuamente liquidatoria dell’istituto, non a caso posta marcatamente in rilievo nella Relazione illustrativa al d.l. n. 118/2021 (e ribadita nella Relazione all’ultimo decreto correttivo). Come pure deve ritenersi consentito all’imprenditore trasferire un ramo d’azienda in esercizio e, ad un tempo, alienare in forma atomistica i cespiti che da tale perimetro fuoriescano.
Con il che risulta, in definitiva, senz’altro possibile enucleare un’ipotesi di continuità aziendale anche nel concordato semplificato, che per la ragione poc’anzi esposta può peraltro definirsi “continuità eventuale”: essa va dunque ad aggiungersi alle ipotesi di continuità diretta, indiretta, mista, non prevalente, quiescente, ecc., quali delineate nei paragrafi che precedono, arricchendo così ulteriormente un concetto che si conferma essere, nel codice della crisi, variamente declinabile, ma anche polisenso e polivalente.
Va invece esclusa la configurabilità di una continuità diretta (o di un affitto di azienda) se non (i) per un arco temporale alquanto limitato e – ciò che più conta – (ii) solo in chiave strettamente funzionale alla più proficua liquidazione, che resta la bussola cui operatori e interpreti devono guardare ogniqualvolta si ricorra a questo istituto concorsuale: istituto cui non a caso si perviene dopo che si sia verificata la non risanabilità dell’impresa nell’ambito della composizione negoziata o attraverso una delle soluzioni individuate ai sensi dell’art. 23, c. 1 e c. 2, lett. a) e b) (e a ben vedere precisamente in ciò risiede la spiegazione della mancata previsione della continuità diretta ad opera degli artt. 25-sexies e septies).
Il concordato semplificato, in ultima analisi, non può diventare, proprio in virtù delle sue peculiari caratteristiche, un rimedio bon à tout faire, né un generale salvacondotto per l’imprenditore che intenda impostare il piano di liquidazione facendovi rientrare forzosamente elementi di continuità diversi da quel trasferimento di azienda che deve avvenire – si torna a ripetere – in tempi compatibili con la vocazione liquidatoria dello strumento e dunque senza alterarne i tratti morfologici essenziali.
(*) Le considerazioni esposte nel testo riprendono, in buona parte, quelle svolte nell’ambito delle relazioni di apertura dei convegni di Monopoli (“Il cantiere della crisi d’impresa a un anno dal Correttivo”) del 19 settembre 2025, di Ferrara (“Continuità aziendale e responsabilità: strumenti, principi e scenari futuri”) del 20-21 novembre 2025 e di Bologna (“Protagonisti e percorsi nella composizione negoziata della crisi d’impresa”) del 12 dicembre 2025. Esse sono destinate a venire sviluppa-te in un più ampio contributo, con opportuno corredo di note, che sarà pubblicato su una rivista cartacea.
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