, 23 maggio 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Sui contributi di A. Jorio ai nuovi “paradigmi” della disciplina concorsuale. – 2. Dalla “insolvenza” alla “crisi d’impresa”. – 3. La cultura d’impresa fra realismo e idealismo. – 4. Crisi e insolvenza nella riforma Cartabia al Codice della crisi. Il parere del Consiglio di Stato. – 5. Indici di allerta e assetti organizzativi. – 6. Brevi conclusioni sul dialogo giurisprudenza e dottrina e “distrazioni legislative”
* Relazione tenuta in Roma il 17
maggio 2022 nell’ambito
del convegno “Riforma Cartabia sulle crisi d’impresa: Cassazione e
Accademia a confronto”, in occasione della presentazione del volume Le crisi d’impresa e del consumatore dopo il
d.l. 118/2021. Liber amicorum per
Alberto Jorio, a cura di Stefano Ambrosini, Zanichelli, Bologna, 2021. Sabino Fortunato è Emerito di Diritto commerciale
nell’Università di Roma Tre.
1. Sui contributi di A. Jorio ai nuovi “paradigmi” della disciplina concorsuale.
L’occasione che ci viene offerta di onorare il percorso scientifico e culturale di un Maestro indiscutibile del diritto concorsuale, come Alberto Jorio, con la presentazione del Liber amicorum, curato con pregevole attenzione e abilità organizzativa dall’amico Stefano Ambrosini, consente di ripercorrere le categorie concettuali fondanti il mutamento di paradigma che – pur fra alterne vicende – ha accompagnato il processo riformatore della disciplina concorsuale in quest’ultimo ventennio.
Alla elaborazione di tali categorie, che possono a mio avviso individuarsi nella nozione della “crisi d’impresa”, e ancor più nella rilevazione anticipata della medesima attraverso i meccanismi di “allerta”, nonché nella formalizzazione degli “adeguati assetti organizzativi” imprenditoriali – emersa con prepotenza nella disciplina del Codice della Crisi benchè implicita nel concetto di impresa e di applicazione senz’altro più generale – ha dato un significativo contributo Alberto Jorio con le sue analisi del fenomeno e degli istituti concorsuali sempre lucide, chiare e sorrette da un forte senso pratico.
Basti ricordare la ricca monografia del 2000, comparsa nel Trattato Iudica-Zatti, Le crisi d’impresa. Il fallimento, che già nel titolo, e ancor più nel contenuto testuale, fa precedere al classico istituto fallimentare di origine medievale la più moderna accezione polisensa e plurale delle “crisi d’impresa”[1]; o ancora ai numerosi saggi, comparsi a più riprese in varie riviste, sulle procedure di allerta ispirate al modello francese[2], e ancor prima che di esse si cominciasse a discutere nelle Commissioni Trevisanato, insediate all’inizio del nuovo millennio, o se ne introducessero le prime formulazioni normative, dalle più rigide come quelle inserite nella versione originaria del Codice della Crisi alle più soft come quelle trasmigrate dal decreto-legge n. 118/2021 alla nuova versione del Codice della Crisi approvata nel Consiglio dei Ministri del 17 marzo 2022.
La consuetudine amicale con Alberto si è costruita proprio negli annosi lavori delle Commissioni che hanno progressivamente innovato il vecchio sistema della legge fallimentare, incentrato sulla statica nozione di insolvenza del debitore – come ci ricorda Bruno Inzitari nel bel saggio della raccolta del Liber amicorum dedicato all’onorato[3] – , oltre che negli incontri direttivi della Rivista di Giurisprudenza Commerciale, sotto la guida autorevole già di Vincenzo Buonocore e comunque e pur sempre di Renzo Costi, ed ovviamente nelle molteplici iniziative scientifiche e convegnistiche che ci hanno accomunato.
2. Dalla “insolvenza” alla “crisi d’impresa”.
La categoria della “crisi d’impresa” è stata la fattispecie ordinante – come ama definirla Bruno Inzitari – non solo del Codice della crisi del 2019, ma in verità – pur non ancora puntualmente definita a livello legislativo – dell’intero processo riformatore di quest’ultimo ventennio sino alla recente riforma Cartabia.
Il passaggio al nuovo paradigma, affacciatosi timidamente con la normativa sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, si è attuato con la modifica del concordato preventivo il cui presupposto oggettivo ha abbandonato la sola insolvenza per estendersi al più generale “stato di crisi” (art. 160, co. 1, l.f.) con la precisazione recata dal successivo comma 3 dell’art. 160 l.f. che “per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”, caratterizzando il primo come genus e il secondo come species al suo interno.
La pur non definita nozione di crisi ha avuto il merito non solo di far cambiare pelle al vecchio e rigido concordato preventivo, che era passato alle ortiche dopo i tentativi di un uso alternativo delle cd. procedure concorsuali minori degli anni Settanta del secolo scorso, ma anche di rendere centrale nella disciplina concorsuale il dialogo negoziale fra debitore in difficoltà e creditori nel perseguimento di un tentativo di soluzione concordata della crisi sotto varie forme, dal piano attestato all’accordo di ristrutturazione dei debiti, facendo uscire dalla clandestinità e illegalità (il cd. ombrello protettivo cui spesso si è richiamato Alberto Jorio) gli accordi stragiudiziali prefallimentari che dottrina e soprattutto giurisprudenza sanzionavano spesso alla stregua di veri e propri reati di bancarotta e che faticosamente si guadagnavano terreno attraverso il cd. London Approach delle convenzioni interbancarie. E così rendendo concettualmente residuale, come ultima spiaggia, la liquidazione fallimentare, capovolgendo l’impianto tradizionale.
La nozione di crisi ha consentito di ampliare lo spazio temporale delle decisioni alternative al fallimento, inglobando la cd. twilight zone, ed ha parzialmente inciso sulla stessa nozione di insolvenza.
Non va dimenticato che l’insolvenza si afferma pur sempre con le concezioni patrimonialistiche del rapporto debito-credito e l’abbandono delle più antiche concezioni soggettivistiche, ove il vincolo obbligatorio è costruito come vincolo individuale e personale fra debitore e creditore piuttosto che come vincolo fra i rispettivi patrimoni. L’insolvenza si rende autonoma dalla ben più statica cessazione dei pagamenti di origine francese, grazie all’essenziale contributo di Bonelli (il giurista della Banca d’Italia) che punta sul giudizio valutativo della capacità del debitore di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, come ci ha ricordato il compianto Giuseppe Terranova. Ed è anche per questo che l’insolvenza è nozione ricorrente non solo nel diritto concorsuale ma anche nel diritto civile delle obbligazioni come dei contratti, nozione coeva, e perciò anche unitaria (sottolinea Bruno Inzitari), all’adozione del codice civile del 1942 e della legge fallimentare di pari periodo. La rilevanza giuridica dell’insolvenza si nutre degli indici di esteriorizzazione, proprio perchè concepita come incapacità puntuale e definitiva del regolare adempimento. E sembra mantenere anche nel Codice della crisi le medesime connotazioni d’un tempo, benchè – come dicevo – una qualche influenza ha esercitato sulla sua qualificazione il concetto dinamico della crisi nei più recenti orientamenti giurisprudenziali (si pensi alla cd. “insolvenza imminente” o alla equivoca categoria della “insolvenza prospettica”) e nell’istituto della composizione negoziata della crisi, su cui occorrerà tornare fra breve. E l’insolvenza opera “oggettivamente”, disinteressandosi delle ragioni che hanno determinato l’incapacità definitiva all’adempimento regolare delle proprie obbligazioni, salvo che nella prospettiva della individuazione delle responsabilità, civili e penali, per il dissesto.
La nozione di crisi, mutuata dalle scienze aziendalistiche come spesso accade quando l’ordinamento tende ad abbandonare concetti normativi troppo generali ed astratti e ad elevare a rilevanza giuridica fatti più articolati e complessi benchè assunti e mediati da categorie di altri saperi extra-giuridici, piuttosto che alla insolvenza dell’obbligazione è legata alla disfunzione dell’attività economica programmata. Il vero paradigma innovativo della disciplina concorsuale sta nel passaggio definitivo dalla valutazione dell’obbligazione e degli atti/fatti singoli da cui essa si origina alla valutazione di una attività come complesso coordinato di atti, non solo realizzati, ma anche programmati per la produzione di nuova ricchezza. Nel che è insito da un canto un elemento dinamico che esige uno sguardo più largo, anche in termini temporali e quantitativi, per la valutazione della crisi d’impresa e d’altro canto un elemento ancor più prospettico che apre la via all’indagine sulla “continuità aziendale”.
La crisi, come nozione tributaria dell’attività economica, spiega perchè hanno acquisito rilievo giuridico l’individuazione delle “cause” – anche se non esteriorizzate – che hanno determinato lo squilibrio (economico, finanziario e financo patrimoniale) nonché la predisposizione dei “piani di risanamento” che su quelle cause devono fondare i progetti di recupero dell’equilibrio. Un rilievo non tanto in funzione della identificazione delle responsabilità, quanto in funzione delle ristrutturazioni da programmare, delle decisioni gestionali e strategiche da assumere. E spiega anche perchè il coinvolgimento soggettivo ai fini del “risanamento” può essere più ampio di quello tradizionale del rapporto debitore-creditore e perchè può diventare recessivo il criterio del “miglior soddisfacimento dei creditori”. Ricordo che il Considerando 2 della Direttiva Insolvency sottolinea come gli strumenti di risanamento preventivo sono finalizzati a “impedire la perdita di posti di lavoro nonché la perdita di conoscenze e competenze e massimizzare il valore totale per i creditori, rispetto a quanto avrebbero ricevuto in caso di liquidazione degli attivi”[4].
3. La cultura d’impresa fra realismo e idealismo.
Tutto questo, peraltro, comporta una rivoluzione mentale nella cultura d’impresa dei nostri imprenditori e dei suoi consulenti (e vedi da ultimo in questo senso un saggio stimolante di Stefania Pacchi[5]). Talvolta vi è come una sorta di fuga in avanti del legislatore rispetto a prassi consolidate ed esteriormente più rassicuranti; ma non credo vada dimenticata la lezione di Norberto Bobbio sulla funzione promozionale del diritto, con il suo precipitato costituzionale del ruolo delle istituzioni nella realizzazione del principio di eguaglianza sostanziale e che in campo economico può ben tradursi nel sistema di incentivi che spingano gli operatori verso comportamenti più virtuosi (e vedi in questa ottica il saggio di Simonetta Ronco nel Liber amicorum[6]).
Ovviamente è sempre necessaria, nell’affrontare i processi regolatori, una equilibrata mistura di realismo e di idealismo.
Sul versante del realismo vengono in mente due consuete affermazioni di Alberto Jorio, il quale ha spesso osservato che l’Italia è lunga, volendo con ciò alludere alla varietà dei comportamenti che contrassegnano le prassi imprenditoriali ma anche giurisprudenziali nelle differenti Regioni del nostro Paese; o ancora il richiamo a non essere troppo ottimisti sulla sollecitudine con cui i nostri imprenditori vorranno affrontare in via sufficientemente anticipata le crisi, poiché spesso si attiveranno quando l’acqua dell’insolvenza è alla gola. Di qui evidentemente l’invito all’adozione di concetti sufficientemente flessibili nella disciplina dei presupposti degli istituti concorsuali[7].
Sul versante dell’idealismo, tuttavia, pare corretto non rinunciare al costante tentativo di emersione anticipata della crisi d’impresa, affinché l’intervento di risanamento possa avere maggiori chance di positiva riuscita. E forse può valere la pena di accogliere il suggerimento del Consiglio di Stato reso nel suo recente Parere n. 832/2022 del 14 maggio 2022[8], con cui lamenta che è del tutto assente nello schema di decreto legislativo della riforma Cartabia, accanto all’impegno formativo degli “esperti indipendenti” della nuova composizione negoziata della crisi, “la previsione di una formazione rivolta verso gli imprenditori […] soprattutto verso le piccole e medie imprese e soprattutto in riferimento al nuovo percorso extragiudiziario della composizione negoziata della crisi”, da attribuire eventualmente alle Camere di Commercio (punto VI, p. 27 del Parere). Così pure manca una specifica previsione per la formazione dei magistrati che si occupano delle procedure della crisi e dell’insolvenza (punto VII, p. 28 s.).
4. Crisi e insolvenza nella riforma Cartabia al Codice della crisi. Il parere del Consiglio di Stato.
Queste chiavi di lettura possono aiutare a comprendere meglio la via intrapresa con la riforma Cartabia ovvero con l’abbandono delle rigidità del Codice della Crisi soprattutto nella burocratica interpretazione che offre della cd. composizione assistita della crisi e dei complicati indicatori o indici di allerta che ad essa avrebbero condotto l’imprenditore (meglio: taluni imprenditori), con il bando all’assistenza dei suoi advisor di fiducia e con l’esito kafkiano di una eventuale promozione della liquidazione giudiziaria a mani del Pubblico Ministero.
Alberto Jorio ha parlato in proposito, più che del venticello riformatore prospettato da Danilo Galletti, di un “forte vento di maestrale” che soffia – spazzandone via le nuvole – sulla riforma del Codice della Crisi del 2019[9], peraltro in molta parte non ancora entrato in vigore. Alle metafore meteorologiche si sono aggiunte quelle culinarie di Stefania Pacchi, che ha parlato dell’abbandono della tecnica del “bastone e la carota” a tutto vantaggio della sola “carota” nel decreto legge n. 118/2021 e nella proposta riforma (secondo alcuni controriforma: v. sempre Galletti) del Codice medesimo, o anche le metafore mitologiche di Lamanna per cui “Penelope disfa la tela del CCII”.
La verità è che subito dopo il suo varo, il Codice della crisi aveva sollevato molteplici critiche proprio nel modo di realizzare quella esigenza, pur da molti avvertita e da me stesso patrocinata già in uno dei due progetti di delega della prima Commissione Trevisanato, di anticipata emersione della crisi tramite gli istituti di allerta. E fin dal suo primo apparire, invece, il nuovo istituto della composizione negoziata della crisi aveva dato immediatamente a molti l’impressione di una più equilibrata e valida alternativa al meccanismo barocco di indicatori e indici di allerta e di composizione assistita disegnato nella versione originaria del Codice della crisi.
Uno dei primi rimedi apportati nella riforma Cartabia è proprio alla nozione di crisi, la cui definizione nel Codice appariva troppo appiattita su quella di insolvenza e ben lontana dalle fattispecie delineate in sede aziendalistica, con l’esito paradossale che la crisi diventava in quella prospettiva piuttosto una species dell’insolvenza; e non tanto perchè identificata nella “probabilità di insolvenza” (come anche suggerisce la direttiva comunitaria), ma perchè quella probabilità è declinata, quando si esaminano gli indicatori e gli indici di crisi codificati inizialmente, nel ristretto arco temporale dei sei mesi che avvicinano pericolosamente la crisi alla insolvenza prospettica se non imminente. Inoltre – osservavo in un mio saggio abbastanza critico su quella che ho definito la “commedia degli equivoci” – quella nozione risultava disallineata al concetto di “continuità aziendale” – peraltro erroneamente additata come perdita piuttosto che come pregiudizio – accolto in sede di principi di revisione contabile, anch’esso stranamente piegato in sede di Codice della crisi ad una ristretta prognosi semestrale, laddove tradizionalmente esso si valuta con uno sguardo più lungo che copre almeno i successivi dodici mesi al momento della redazione del bilancio dell’esercizio passato.
L’emendamento del decreto correttivo (d.lgs. 147/2020), che giustamente sostituiva alla generica “difficoltà” il più tecnicamente preciso “squilibrio economico-finanziario” e che pure continuava a tralasciare lo squilibrio patrimoniale benchè recuperato fra gli indicatori, è del tutto insufficiente a rendere giustizia alle numerose critiche che aveva assalito la definizione codicistica di crisi. Decisamente migliorativa è allora apparsa la definizione indicata nello schema di decreto legislativo attuativo della Direttiva Insolvency che identifica la crisi ne “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”, anche se non escluderei di recuperare in tale definizione il concetto di “squilibrio economico-finanziario e patrimoniale” peraltro già tenuto presente nella individuazione del presupposto oggettivo della composizione negoziata dal d.l. n. 118/2021 e dalla proposta di riforma Cartabia.
Il Consiglio di Stato, nel suo recente Parere, intercetta l’esigenza di tener conto della maturazione progressiva della crisi, come sottolineano gli aziendalisti, così da reputare “opportuna” una ulteriore integrazione “per mettere in risalto: che la definizione di “crisi” è riferibile ai possibili diversi gradi di intensità, dallo stato di pre-crisi alla crisi, alla insolvenza; che a tutte queste situazioni è riferibile un possibile percorso negoziato per il superamento della crisi; che il mancato superamento conduce agli istituti di regolazione della crisi, anche preventivi, per evitare l’insolvenza, nonché a quelli propri per regolare l’insolvenza”. E suggerisce allora una riformulazione del seguente tenore: “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza, che si manifesta con diversi gradi di intensità, attraverso l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”.
E quasi per trascinamento suggerisce altresì di innovare la stessa nozione di insolvenza, “per collegarla alla definizione di crisi proposta e alla negativa evoluzione dello stato di crisi, rispetto alla probabilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”, prospettandone una definizione del seguente tenore: “lo stato di crisi del debitore che si manifesta con gravi inadempimenti o altri fatti esteriori i quali dimostrino come altamente probabile che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”[10].
Mi permetto di segnalare che una tale impostazione – pur tenendo fede ai principi direttivi delle recenti deleghe che imponevano una distinta definizione di crisi e insolvenza – finisce in realtà per recuperare il vecchio e più corretto – a mio avviso – rapporto di genus a species della crisi rispetto alla insolvenza, esigenza avvertita anche da Filippo Lamanna quando ha addirittura proposto di mantenere una duplice formulazione della nozione di crisi, quella originaria e non definita dell’art. 160 l.f. e quella specifica del Codice della crisi. La soluzione del Consiglio di Stato mi pare significativa e prossima alle rivendicazioni delle scienze aziendalistiche: pone in evidenza la progressività dello stato di crisi, sino al suo stadio finale dell’insolvenza connotata da “gravi inadempimenti” o “altri fatti esteriori” indicativi di una “alta probabilità” della incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e così inglobando – a me pare – tanto la nozione di insolvenza imminente quanto quella di insolvenza prospettica.
Il terreno definitorio è certamente molto scivoloso, ma comprensibili esigenze di certezza militano in suo favore, per quanto possa ragionevolmente perseguirsi un tale risultato di stabilità. Ma ai fini della composizione negoziata (e in verità anche degli ulteriori molteplici cd. “quadri di ristrutturazione preventiva”) la distinzione fra crisi e insolvenza appare irrilevante, come pure ha di recente sottolineato Alberto Jorio, quando auspica “che, al di là dei nominalismi, l’applicazione pratica degli strumenti di intervento sappia e voglia distinguere unicamente tra i casi nei quali il (relativamente) rapido intervento stragiudiziale sia ritenuto possibile e quelli nei quali vi sia alta probabilità di insuccesso, ponendo quindi al centro non già la natura della crisi, ma la possibilità di risolverla rapidamente”[11].
E infatti è proprio la “ragionevole perseguibilità del risanamento dell’impresa” a costituire il necessario complemento “prospettico” del presupposto oggettivo della composizione negoziata, come anche – a mio avviso – degli altri strumenti riconducibili ai quadri di ristrutturazione preventiva. Assurgono a rilevanza giuridica non solo i bilanci consuntivi dell’impresa (benchè, quando d’esercizio, intrisi di valutazioni prospettate verso il futuro anche in forza della finanziarizzazione dell’economia che ci circonda); ma in via diretta i bilanci preventivi, destinati a programmare l’attività futura e sia pure del prossimo futuro. Certo, la crisi e l’insolvenza – quando affrontabile anch’essa con un ragionevole piano di risanamento – assumono distinta rilevanza nel fissare i doveri di comportamento del debitore nel corso delle trattative o delle procedure, come emerge con formule di non piana interpretazione dal proposto art. 21 nello schema di riforma del CCII. La composizione negoziata non sottrae la gestione anche straordinaria all’imprenditore, ma “lo stato di crisi” gli impone una gestione che eviti “pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività”; mentre la “insolvenza” sorretta da “concrete prospettive di risanamento” opera più radicalmente lo shift-duty di gestire l’impresa “nel prevalente interesse dei creditori”.
L’esperto indipendente, nominato per dirigere e agevolare le trattative, ha il difficile compito preliminare di valutare per un verso la consistenza della crisi/insolvenza del debitore e per altro verso la sussistenza di una concreta prospettiva di risanamento: valutazione che è tenuto a compiere inizialmente sulla base delle informazioni assunte dallo stesso imprenditore e – ove esistenti – dai componenti degli organi di controllo e del revisore legale (e v. art. 17, co. 5, schema di riforma CCII); ma che mi pare difficile da definire senza che si siano ascoltati – pur con la dovuta tempestività – quantomeno anche i principali creditori finanziari e commerciali dell’imprenditore.
Il d.l. 118/2021, ma anche l’art. 12 della riforma del CCII, prevedono quale presupposto oggettivo della composizione negoziata anche la cd. probabilità di crisi, da molti identificata con una sorta di “pre-crisi”. Il che ovviamente discende dall’aver connotato la crisi in termini di “probabilità d’insolvenza”, sì che la probabilità di crisi dovrebbe qualificarsi a ritroso come “la probabilità della probabilità dell’insolvenza”. Francamente non sono convinto che questo modo di regolare il fenomeno abbia un ragionevole fondamento. E intanto perchè a quel che pare anche la pre-crisi si caratterizzerebbe in forza di uno “squilibrio patrimoniale o economico finanziario” tale da innescare il processo di crisi secondo le sue fasi e i suoi gradi di intensità. Il suggerimento del Consiglio di Stato di integrare la nozione in sé di crisi con l’esplicito riferimento ai suoi “diversi gradi di intensità” a me pare sufficiente ad abbracciare la progressività dei vari stadi della crisi, anche quelli iniziali espressi da indici più soft che possono emergere da una attenta lettura degli indici di bilancio, pur non traducendosi ancora in inadempimenti o altri fatti manifesti. Il concetto di pre-crisi o di probabilità della crisi mi pare inutile e in parte contraddittorio; e probabilmente esso discende dall’esigenza di recuperare quegli indici soft, più interni alla struttura imprenditoriale che Paolo Montalenti additava come utili e opportuni nell’anticipata emersione dei segnali di crisi e che io stesso ritenevo impliciti nei segnali di pregiudizio alla continuità aziendale come emergono nella classificazione del principio di revisione ISA Italia 570, e che tuttavia potevano trovare la loro giustificazione a fronte della ristretta nozione di crisi, appiattita sull’insolvenza per spazio temporale e per qualità degli indicatori e degli indici, offerta dalla originaria versione del Codice della Crisi.
5. Indici di allerta e assetti organizzativi.
Il tema degli indici, o indicatori che dir si voglia, della crisi si lega strettamente all’adeguatezza degli assetti organizzativi, altro concetto chiave progressivamente affermatosi in sede di riforma della disciplina concorsuale[12]. E in questo senso si muove la riforma Cartabia quando, nell’integrare la formulazione dei principi generali del Codice nell’art. 3, dedicato agli obblighi relativi ad imprenditore individuale e collettivo alla adozione/istituzione di misure idonee o adeguati assetti organizzativi per la rilevazione tempestiva della crisi d’impresa, specifica ulteriormente, non già la concreta struttura di tali misure ed assetti, ma l’esito segnaletico cui essi devono tendere: a) “rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dall’imprenditore”; b) “verificare la non sostenibilità dei debiti e l’assenza di prospettive di continuità aziendale per i dodici mesi successivi e i segnali di allarme di cui al comma 4”, segnali che investono l’esistenza di esposizioni debitorie significative e scadute verso i lavoratori dell’impresa, i fornitori, gli intermediari bancari e finanziari e i creditori pubblici qualificati[13]; c) “ricavare le informazioni necessarie a seguire la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento di cui al comma 2 dell’articolo 13”.
Questa tecnica legislativa di articolare l’obbligo imprenditoriale degli adeguati assetti organizzativi mediante una clausola generale, che guarda ai risultati da conseguire piuttosto che al contenuto strutturale dell’obbligo, mantiene aperto lo spazio di discrezionalità gestoria sotto quest’ultimo profilo e mi riconferma nella possibilità di invocare la BJR nelle relative decisioni amministrative, come pure ribadito in due recenti sentenze/ordinanze del Tribunale di Roma da me favorevolmente commentate su Giurisprudenza Commerciale[14].
Anche l’attento Parere del consiglio di Stato mi sembra orientarsi in questa direzione, quando nel valutare il comportamento del debitore in fase di attuazione preventiva degli obblighi organizzativi e la sua rilevanza ai fini penalistici di bancarotta conseguente a liquidazione giudiziale, conclude nel senso che“la disciplina introdotta dallo schema di decreto rispetto a tutte le imprese e in riferimento agli obblighi di adottare misure e assetti organizzativi idonei a rilevare tempestivamente lo stato di crisi dell’impresa, non abbia ampliato i margini di discrezionalità dell’autorità giudiziaria penale nel sindacare, in un momento successivo e quando l’impresa sia in liquidazione, l’eventuale mancata considerazione da parte degli imprenditori dei segnali di allarme emersi nel momento iniziale della Crisi”, a tal fine sottolineando l’esistenza – accanto a segnali d’allarme puntuali (come le esposizioni debitorie scadute) – di un criterio elastico secondo cui gli squilibri “vanno comunque rapportati oltre che alle caratteristiche specifiche dell’impresa alla tipologia dell’attività del debitore”[15]. Insomma, osserva il Consiglio di Stato, “in questa direzione opera sicuramente il criterio elastico, che consente di rapportare gli squilibri emersi dai vari indicatori con le caratteristiche specifiche dell’impresa e con la tipologia dell’attività esercitata, così temperando la valenza del singolo segnale di allarme individuato dal comma 4”.
Non è certo questa l’occasione per una analisi approfondita dell’argomento né per motivare la preferenza verso la tesi che vede negli atti organizzativi d’impresa pur sempre atti gestori e nel principio di corretta amministrazione non un terzo genere di regole, che sfugga alla classificazione fra regole di merito e regole di legittimità dell’attività degli amministratori. Mi preme evidenziare il consueto senso pratico con cui anche di recente Alberto Jorio ha affrontato l’argomento nel saggio intitolato “Note minime su assetti organizzativi, responsabilità e quantificazione del danno risarcibile”[16]. Senza voler prendere posizione fra i due opposti schieramenti in un tema così divisivo, benchè mi sia parso pendere in qualche modo verso il riconoscimento della discrezionalità gestoria, il nostro onorato ha osservato che le ricadute in tema di responsabilità, collegate alla violazione del detto obbligo, probabilmente non dovrebbero essere particolarmente rilevanti, considerato che il curatore in sede di esercizio delle azioni di responsabilità finirà per far leva sulla violazione degli obblighi conservativi ex art. 2486 c.c. piuttosto che sulla violazione degli obblighi preventivi dell’adeguato assetto organizzativo.
6. Brevi conclusioni sul dialogo giurisprudenza e dottrina e “distrazioni legislative”.
È ora di avviarsi alla conclusione. Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha certamente il merito di raccogliere in un unitario tessuto sistematico, improntato a principi innovativi emersi nel lungo processo riformatore del diritto concorsuale nel nostro ordinamento, le nuove regole della crisi imprenditoriale, così quantomeno evitando le crepe interpretative che sono favorite dalla tecnica legislativa di tipo novellistico, con il travaso del vino nuovo negli otri vecchi.
È altresì vero che la sua elaborazione, spesso affrettata e non sempre per responsabilità della Commissione Rordorf ma anche piuttosto nutrita da uno spirito eccessivamente rigido e talvolta giustizialista, ha finito per imporre una opportuna battuta d’arresto nel corso della pandemia e di una crisi economica profonda, dal lungo ciclo che sembra ripresentarsi ogni centinaio d’anni. Ci siamo trovati ad una svolta epocale, coinvolti in un tentativo di un difficile adeguamento e di adeguatezza al rapido mutamento degli scenari socio-economici ed anche ora geo-politici. La riforma Cartabia sembra muoversi in una direzione più consona allo spirito dei tempi, benché le “distrazioni legislative” rendano spesso più tortuoso il percorso. A questo processo di adeguamento non ha mancato di offrire un contributo essenziale il dibattito dottrinale e giurisprudenziale intenso e pur articolato che si è sviluppato negli ultimi vent’anni e di cui è stato ed è attore principale l’amico Alberto Jorio, al quale va tutta la nostra riconoscenza.
[1] Da ultimo v. pure Sulle nozioni di crisi e di insolvenza prospettica, in Giur. comm., 2020, II, 1468 ss.
[2] Su allerta e dintorni, in Giur. comm., 2016, I, 261 ss.
[3] B. Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta…, ivi, 72 ss. Sul tema v. in precedenza, anche per riferimenti, S. Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in IlCaso.it, 14 gennaio 2019 (e ora in Diritto dell’impresa in crisi, Pisa, 2022, 1 ss.).
[4] Su questi vari profili mi permetto rinviare a S. Fortunato, Insolvenza, crisi e continuità aziendale nella riforma delle procedure concorsuali: ovvero la commedia degli equivoci, in Dir. fall., 2021, I, 3 ss.
[5]Le misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale ovvero i cambi di cultura sono sempre difficili, in Ristrutturazioni Aziendali, 9 agosto 2021.
[6] Prevenzione della crisi in Francia e in Italia: gli istituti dell’Allerta a confronto, ivi, 184 ss.
[7] E v. A. Jorio, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in Dir. fall., 2019, I, 283 ss.
[8] Vedilo riportato in https://ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it.
[9] Alcune riflessioni sulle misure urgenti: un forte vento di maestrale soffia sulla riforma!, in dirittodellacrisi.it, 1 ottobre 2021. Dello stesso Autore, di poco successivo, Qualche ulteriore considerazione sul d.l. 118/2021, e ora sulla legge 21 ottobre 2021, n. 147, in Ristrutturazioni Aziendali, 1° dicembre 2021.
[10] Il tentativo di delineare un percorso progressivo nella soluzione della crisi d’impresa si riflette altresì nella indicazione che ricollega la composizione negoziata, di iniziativa del solo debitore ed extragiudiziaria, ai “quadri di ristrutturazione preventiva” di fonte comunitaria. “Nello schema di decreto – osserva il CdS – la nuova definizione introdotta (art. 1, comma 1, lett. d) si chiude con la precisazione che tra i quadri non rientra la composizione negoziata. Tanto rispecchia il metodo prescelto dall’amministrazione di mettere in risalto la differenza tra uno strumento meramente negoziale, salvo i necessari innesti giurisdizionali, e gli altri strumenti, anche preventivi, nei quali assume prevalente rilievo, tra l’altro, la regolamentazione giudiziale. Nell’ottica assunta da questa Commissione speciale di far emergere anche nelle definizioni i collegamenti tra gli istituti regolati dal Codice, la definizione potrebbe essere così riformulata:
“le misure e le procedure volte al risanamento dell'impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, che, a richiesta del debitore, possono essere precedute dalla composizione negoziata della crisi”.
[11] A. Jorio, (nt. 9), par. 2.
[12] Su questa Rivista, in argomento, M. Onza, Gli “adeguati assetti” organizzativi: tra impresa, azienda e società (Appunti per uno studio), 11 ottobre 2021; S. Ambrosini, Appunti sui doveri degli amministratori di S.p.A. e sulle azioni di responsabilità alla luce del Codice della crisi e della “miniriforma” del 2021, 23 novembre 2021; nonché, in prospettiva aziendalistica, S. Maurutto – A. Turchi, Adeguatezza degli assetti e procedura d’allerta: i solvency tests della giurisprudenza statunitense come tentativo di quadratura del cerchio, 20 luglio 2021; P. Bastia, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, 27 luglio 2021; A. Panizza, Adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili: aspetti (teorici ed) operativi, 11 agosto 2021.
[13] Il comma 4 art. 3 novellando fa riferimento a : (i) “l’esistenza di debiti per retribuzioni scaduti da almeno trenta giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni”, (ii) “l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno novanta giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti”, (iii) “l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari che siano scadute da più di sessanta giorni o che abbiano superato da almeno sessanta giorni il limite degli affidamenti ottenuti in qualunque forma purchè rappresentino complessivamente almeno il cinque per cento del totale delle esposizioni”, (iv) “l’esistenza di una o più delle esposizioni debitorie previste dall’art. 25-novies, comma 1” (ovvero le esposizioni che abilitano le segnalazioni da parte dei creditori pubblici qualificati).
[14] Mi sia consentito rinviare a S. Fortunato, Assetti organizzativi e crisi d’impresa: una sintesi, in Le crisi d’impresa e del consumatore.Liber amicorum per Alberto Jorio, a cura di S. Ambrosini, Bologna, 2021, 744 ss. (oltre che in Orizzonti dir. comm., 2021, n. 2); nonché Id., Atti di organizzazione, principi di correttezza amministrativa e Business Judgment Rule, in Giur. comm., 2021, II, 1373 ss.
[15] Pur concordando con l’idea che la composizione negoziata, in quanto percorso e strumento extragiudiziario, possa e debba distinguersi dai quadri di ristrutturazione preventiva, il CdS ritiene che vada perseguita una maggiore integrazione del nuovo strumento extragiudiziario nella sistematica complessiva del Codice della crisi e in particolare avverte “l’esigenza di un raccordo con i principi generali del Codice”, laddove “lo schema di decreto legislativo ha introdotto un nuovo principio e ne ha sostituiti sette, riferendoli o solo direttamente ai quadri di ristrutturazione preventiva oppure, comunque, prescindendo dalla composizione negoziata”. Mi pare tuttavia che il mutamento della rubrica proposto nello schema (“Adeguatezza degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa”) meglio rifletta il contenuto del principio piuttosto che il ripristino della vecchia rubrica con la integrazione pur ora presente nello schema, come suggerito dal CdS (“Doveri del debitore in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa”).
[16] Vedilo in Giur. comm., 2021, I, 812 ss.