Recensione

Si è spento Giuseppe Niccolini


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Articolo

Il Codice della crisi dopo il d.lgs. 83/2022: la tormentata attuazione della direttiva europea in materia di "quadri di ristrutturazione preventiva" *


Lorenzo Stanghellini

Data pubblicazione
21 luglio 2022

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Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’origine del d.lgs. 83/2022: la Direttiva (UE) 2019/1023. – 3. La Direttiva e i “quadri di ristrutturazione preventiva”: un oggetto limitato ma trasversale. – 4. La Direttiva e i “quadri di ristrutturazione preventiva”: caratteri generali. – 5. La Direttiva: una serie di strumenti di intensità crescente. – 6. Il rapporto con il Codice della crisi e dell’insolvenza nella sua versione originaria (anche dopo il decreto correttivo del 2020) . – 7. Le possibili scelte per l’attuazione della Direttiva. – 8. Le scelte effettuate in concreto per l’attuazione della Direttiva: il d.lgs. 83/2022. – 9. Il nuovo sistema di tutela della continuità aziendale: una chiave di lettura. – 10. Il chiodo nel blocco di cemento.

(*) L’autore è membro del “Group of Experts on restructuring and insolvency law”, che ha collaborato con la Commissione europea nella redazione della proposta di direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza, ed è stato componente della commissione per l’elaborazione di proposte di interventi sul “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, nominata dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia con decreto 22 aprile 2021 e presieduta dalla Prof. Ilaria Pagni. Le opinioni sono ovviamente espresse a titolo personale.


1. Introduzione

Il 15 luglio 2022 il Codice della crisi e dell’insolvenza (CCII) è entrato in vigore. Nonostante i molti anni trascorsi dalla sua emanazione (gennaio 2019), non è stato dato agli operatori sufficiente tempo per studiarlo: il CCII, infatti, è stato profondamente modificato pochi giorni prima della sua entrata in vigore e, ancora poco conosciuto, è stato gettato nell’arena.

La modifica è stata dovuta alla necessità di adeguare il CCII alla Direttiva (UE) 2019/1023 entro il termine finale previsto per il suo recepimento da parte dello Stato italiano, che scadeva il 16 luglio 2022. Ciò è avvenuto mediante il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 1° luglio 2022 che, appunto, ha riscritto larghe parti del CCII.

Compito del presente scritto è, da un lato, spiegare le possibili cause di questo esito apparentemente paradossale (una vacatio legis di tre anni e mezzo, ma istituti sconosciuti comparsi nella Gazzetta ufficiale due settimane prima del loro avvio), dall’altro dare una prima ricostruzione del nuovo sistema, pieno di novità e non agevole da ricondurre a unità.

Soprattutto per gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, molti e con molte varianti, è utile tentare di rintracciare i temi fondamentali (continuità aziendale, apertura, approvazione, omologazione), trovando linee interpretative dirette che attraversino le norme in modo longitudinale, orientandosi tra articoli e commi spesso di complicata lettura.

 

2. L’origine del d.lgs. 83/2022: la Direttiva (UE) 2019/1023

Nel 2019, dopo sessanta anni dalla sua fondazione, l’Unione europea è intervenuta per la prima volta nella materia del diritto della crisi, dettando norme di ravvicinamento delle legislazioni dei paesi membri dell’Unione. I precedenti interventi in questa materia, infatti, avevano solo l’importante ma limitato scopo di coordinare le procedure concorsuali dei diversi Stati membri dell’Unione nel caso esse presentino profili transfrontalieri, sul presupposto che gli Stati erano liberi di decidere il contenuto delle loro norme interne[1].

La Direttiva (UE) 2019/1023 (di seguito, la “Direttiva”) detta norme sostanziali che si impongono agli Stati membri, mirando a rendere il loro sistema concorsuale più efficiente e conforme ad alcuni valori fondamentali. Ciò sul presupposto, condiviso da tutte le istituzioni europee, che una normativa concorsuale efficiente è una precondizione per il funzionamento di un mercato dei capitali unico a livello europeo[2].

La Direttiva investe tre ambiti:

(1)     i c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva” (“preventive restructuring frameworks”), cioè il sistema di strumenti e procedure che gli Stati membri sono tenuti a mettere a disposizione di tutti coloro che esercitano un’attività economica, al fine di consentire loro di gestire la crisi (Titolo II della Direttiva);

(2)     l’esdebitazione di tutti coloro che esercitano un’attività economica (Titolo III della Direttiva): non vi rientra dunque l’esdebitazione dei consumatori;

(3)     una serie di misure volte ad aumentare l’efficacia di tutte le procedure di ristrutturazione e di insolvenza (e dunque non soltanto dei “quadri di ristrutturazione preventiva”), fra i quali l’obbligo di formazione dei giudici e dei professionisti nominati dall’autorità giudiziaria (Titolo IV della Direttiva).

Il Codice della crisi e dell’insolvenza, approvato nel 2019 e oggetto di un intervento correttivo nel 2020[3], conteneva numerose disposizioni ricadenti in tutti e tre i predetti ambiti. Prima della sua entrata in vigore, dunque, esso doveva essere reso conforme alla Direttiva, se del caso mediante gli opportuni interventi di adeguamento. Proprio a questo fine il Parlamento, con legge 22 aprile 2021, n. 53 (“legge di delegazione europea 2019-2020”), ha delegato il Governo ad attuare la Direttiva mediante decreto legislativo. Nella legge delega, tuttavia, non era contenuto alcun criterio direttivo.

In attuazione della delega, nel giugno 2022 il Governo ha approvato le norme di recepimento della Direttiva, confluite nel lungo e articolato d.lgs. 83/2022, del quale si è detto[4]. All’esito di questo restyling, come detto, il CCII è entrato definitivamente in vigore.

Nel seguito di questo contributo si esaminerà solo la parte della Direttiva che riguarda i “quadri di ristrutturazione preventiva”, che è quella con il più elevato impatto sull’ordinamento nazionale. Ciò allo scopo di fornire una chiave di lettura delle nuove norme, risalendo alla loro origine.

 

3. La Direttiva e i “quadri di ristrutturazione preventiva”: un oggetto limitato ma trasversale

La Direttiva mira ad assicurare che nei paesi dell’Unione europea tutti coloro che esercitano un’attività economica abbiano la possibilità di ristrutturare il proprio indebitamento. Ciò quando, pur trovandosi il debitore in difficoltà finanziaria, l’attività svolta sia ancora economicamente produttiva o sia suscettibile di tornare a esserlo (si veda il Considerando 1 della Direttiva)[5]. L’obiettivo è, infatti, quello di offrire gli strumenti per evitare, se possibile, la disgregazione dei complessi produttivi, con la connessa distruzione di ricchezza, anche in danno dei creditori, e la perdita di posti di lavoro. La Direttiva non riguarda invece i casi in cui il debitore si proponga di liquidare il proprio patrimonio senza conservare, nemmeno in parte, la continuità aziendale.

Ai sensi della Direttiva, la continuità aziendale può essere mantenuta sia in forma diretta, cioè mediante esercizio dell’impresa da parte dello stesso debitore, sia in forma indiretta, mediante cessione parziale o totale dell’azienda. La ristrutturazione che consente di conseguire l’obiettivo della conservazione del valore aziendale è, infatti, definita come l’insieme delle misure che “includono la modifica della composizione, delle condizioni o della struttura delle attività e delle passività del debitore o di qualsiasi altra parte della struttura del capitale del debitore, quali la vendita di attività o parti dell'impresa, e, se previsto dal diritto nazionale, la vendita dell'impresa in regime di continuità aziendale, come pure eventuali cambiamenti operativi necessari, o una combinazione di questi elementi” (art. 2, par. 1, n. 1).

Due precisazioni sono necessarie:

1) la Direttiva lasciava agli Stati membri la scelta se considerare o meno “continuità aziendale” anche la continuità indiretta. L’Italia aveva già operato questa scelta con la l. 17 ottobre 2017, n. 155 (la legge delega da cui è scaturito il CCII), e questa scelta non è stata rimessa in discussione. Ne consegue che, nell’ordinamento italiano, le norme della Direttiva coprono la continuità aziendale sia diretta, sia indiretta;

2) oggetto della tutela della Direttiva non è soltanto l’attività d’impresa, ma – in continuità con la tradizione europea – ogni attività economica e dunque anche quella svolta dai lavoratori autonomi che, come è noto, non si avvalgono di un’organizzazione (art. 2222 c.c., in contrasto con l’art. 2082 c.c.), e persino dai professionisti intellettuali, sottratti alla disciplina e allo statuto dell’imprenditore per tradizione italiana (art. 2238 c.c.)[6].

Sono dunque disciplinate dalle norme di matrice europea le crisi degli imprenditori, commerciali e agricoli, dei lavoratori autonomi e dei professionisti intellettuali. Ciò premesso, per semplicità nel seguito userò le espressioni “imprenditore”, “impresa” e continuità “aziendale”, con l’avvertenza che esse devono intendersi riferite anche all’attività esercitata da queste ultime categorie di soggetti.

 

4. La Direttiva e i “quadri di ristrutturazione preventiva”: caratteri generali

L’obiettivo della ristrutturazione, come è noto, può essere conseguito sia mediante strumenti basati sull’accordo negoziale, sia mediante procedure capaci di vincolare, a determinate condizioni, i creditori o i soci dissenzienti.

In estrema sintesi, la Direttiva prevede:

- il mantenimento, da parte del debitore, del controllo parziale o totale del suo patrimonio e la gestione corrente dell'impresa durante il tentativo di ristrutturazione (art. 5); gli Stati membri possono prevedere la “nomina di un professionista nel campo della ristrutturazione per assistere il debitore e i creditori nel negoziare e redigere il piano” (art. 5, par. 3), e devono prevederla quando è disposto il blocco delle azioni esecutive o cautelari dei creditori o il piano debba essere omologato;

- la possibilità per il debitore di usufruire, su domanda, del blocco delle azioni dei creditori o di alcuni fra questi (art. 6); restano comunque esclusi dal blocco i crediti dei lavoratori;

- la possibilità di un’approvazione della proposta a maggioranza, con conseguente vincolo sia per i creditori dissenzienti di classi che abbiano approvato, sia – ed è conseguenza molto più forte e che perciò richiede una verifica più approfondita – per i creditori appartenenti a una classe che, a maggioranza, non ha approvato al piano (è la c.d. “ristrutturazione trasversale”) (art. 11);

- un possibile vincolo anche per i soci della società in ristrutturazione, che in nessun caso possono “impedire od ostacolare irragionevolmente” l’adozione e l’attuazione di un piano di ristrutturazione che sia nell’interesse di tutti gli interessati (art. 12);

- la protezione dei finanziamenti-ponte (c.d. temporanei) e dei nuovi finanziamenti (art. 17);

- esenzioni da revocatoria e azioni risarcitorie per operazioni sia in funzione, sia in esecuzione della ristrutturazione (art. 18);

- precisi obblighi per gli amministratori di società (anche se il testo italiano della Direttiva, per un’imperfetta traduzione di “directors”, si riferisce ai “dirigenti”), i quali devono gestire la società in crisi tenendo contro degli interessi dei creditori e di tutti i soggetti potenzialmente pregiudicati dalla crisi (art. 19).

Molto importanti (e all’origine del nuovo “piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione”, che più avanti esamineremo), sono le regole che presiedono al trattamento dei creditori e alla distribuzione del valore dell’impresa ristrutturata. Infatti:

a) se tutte le classi approvano la proposta, la distribuzione del valore dell’impresa ristrutturata è tendenzialmente libera, e la proposta deve rispettare solo il principio di assenza di un pregiudizio rispetto agli scenari alternativi, che qualunque creditore dissenziente può far valere (artt. 9 e 10);

b) se invece una o più classi non approvino la proposta, e si debba quindi procedere mediante la “ristrutturazione trasversale”, si applicano requisiti più rigorosi sulla distribuzione del surplus. Il piano deve infatti rispettare la c.d. regola della priorità relativa, e dunque deve assicurare “che le classi di voto dissenzienti di creditori interessati ricevano un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori” (art. 11, par. 1, lett. c) [7].

 

5. La Direttiva: una serie di strumenti di intensità crescente

In una visione sistematica d’insieme, la Direttiva prevede che il debitore possa accedere a una tutela a fasi, progressiva, in cui vi è una transizione fluida lungo i seguenti cinque grandi snodi, da collocare – questa volta – in ordine di invasività crescente:

1) mera esenzione da revocatoria di atti prodromici o attuativi della ristrutturazione (art. 18);

2) sospensione delle azioni di tutti i creditori o di alcuni di essi (art. 6);

3) protezione degli atti connessi all’acquisizione di finanziamenti-ponte e di finanziamenti in esecuzione della ristrutturazione, ed eventuale prededuzione di tali finanziamenti (art. 17);

4) vincolo per i creditori dissenzienti di una stessa classe (art. 9, par. 6, e art. 10);

5) vincolo per intere classi di creditori e per i soci della società in ristrutturazione (è la c.d. “ristrutturazione trasversale”: rispettivamente, art. 11 e art. 12).

La Direttiva prevede un ruolo limitato dell’autorità giudiziaria, che è chiamata a presidiare i momenti fondamentali della ristrutturazione, e un ruolo degli ausiliari da questa nominati che dovrebbe essere di ausilio e non solo di controllo (“assistere il debitore e i creditori nel negoziare e redigere il piano”).

La transizione è, come dicevo, fluida, nel senso che il debitore avvia la ristrutturazione senza dover essere costretto a scelte di campo iniziali, con la possibilità di adattare l’intensità degli strumenti (esenzioni, sospensione delle azioni dei creditori o di alcuni di questi, prededuzione, vincolo per creditori e soci, ecc.) alle risultanze delle analisi e delle interazioni con i creditori e gli altri soggetti interessati. Ciò è dimostrato dal fatto che al debitore e ai creditori sono riservate scelte anche fondamentali da compiere nel corso della procedura, come quella se chiedere o meno l’omologazione di una determinata ipotesi di ristrutturazione o – per i creditori e i rappresentanti dei lavoratori – presentare proposte alternative, sulle quali a seconda dei casi è necessario ottenere il consenso del debitore (consenso che, per le società, può essere espresso anche dagli amministratori).

 

6. Il rapporto con il Codice della crisi e dell’insolvenza nella sua versione originaria (anche dopo il decreto correttivo del 2020)

Quando il CCII fu adottato, nel gennaio 2019, non era coordinato con la Direttiva sotto l’aspetto dei “quadri di ristrutturazione preventiva”; ciò nonostante che i lavori di preparazione della Direttiva fossero pubblici, che nel novembre 2016 la Commissione europea avesse pubblicato una proposta che già anticipava tutti i temi poi confluiti nel testo definitivo, e che l’Italia – come tutti gli Stati membri dell’Unione europea – fosse stata direttamente coinvolta nei lavori.

Tra i diversi profili di mancanza di coordinamento, spiccavano:

1) i limiti di accesso al concordato con continuità aziendale previsti dall’originaria versione dell’art. 84 CCII. La Direttiva, in perfetta sintonia del resto con una recente sentenza della Cassazione, tutela la continuità aziendale in sé, non nel suo rapporto con il totale dei flussi e delle risorse messe a disposizione dei creditori: se un’impresa merita di essere conservata, non cessa di esserlo perché il debitore liquida beni non strategici[8];

2) la valutazione di fattibilità economica, richiesta dal CCII al giudice in sede di omologazione di accordi di ristrutturazione e persino in sede di ammissione al concordato preventivo: la Direttiva si limita a prevedere che il giudice possa rifiutare l’omologazione di concordati e accordi “privi della ragionevole prospettiva di evitare l’insolvenza”. Fra la positiva verifica di fattibilità economica e la verifica negativa dell’evidente inattuabilità del piano si colloca la massima parte dei casi reali, quelli in cui non vi sono certezze, ma possibilità. Per questi casi, il giudice deve omologare la proposta secondo la Direttiva ma non doveva farlo secondo l’impianto originario del CCII[9];

3) il mantenimento degli stringenti vincoli posti al trattamento dei creditori e alla distribuzione del valore creato dalla ristrutturazione, che la giurisprudenza formatasi sull’art. 160, comma 2, l. fall. aveva tratto dal principio secondo cui il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere “l'effetto di alterare l'ordine delle cause legittime di prelazione”[10]: la Direttiva prevede invece, come abbiamo visto, che la distribuzione del surplus da ristrutturazione sia del tutto libera se tutte le classi approvano la proposta, e sia soggetta al vincolo della c.d. “regola della priorità relativa”[11] in caso di mancata approvazione da parte di tutte le classi;

4) il fatto che solo i creditori dissenzienti inseriti in una classe dissenziente o che vantino il 20 per cento dei crediti ammessi al voto (art. 112 CCII), potessero contestare in sede di omologazione l’esistenza di un pregiudizio rispetto alla liquidazione o alle alternative concretamente praticabili, mentre la Direttiva (e le regole europee in materia di tutela del “diritto di proprietà”)[12] prevedono che ciascun creditore sia legittimato a  contestare il pregiudizio subito (Direttiva, art. 2 par. 1 n. 6);

5) la mancanza di meccanismi per il coinvolgimento dei soci nella votazione della ristrutturazione e l’assenza di strumenti idonei a superare la loro opposizione all’adozione o all’esecuzione di un piano di ristrutturazione (richiesti invece dalla Direttiva, art. 12).

Questi profili di conflitto sono rimasti intatti anche a seguito del d.lgs. 26 ottobre 2020 n. 147 (c.d. “decreto correttivo"), che pur modificando il CCII in modo non lieve, si fondava sulla l. 155/2017 e non poteva pertanto distaccarsene.

 

7. Le possibili scelte per l’attuazione della Direttiva[13]

La Direttiva, come è nella tradizione della normativa dell’Unione Europea, impone agli Stati membri degli obiettivi, lasciando gli Stati tendenzialmente liberi sui mezzi per conseguirli. Ciò in tre direzioni.

       In primo luogo, la Direttiva impone agli Stati membri di predisporre procedure e strumenti di ristrutturazione preventiva che rispettino alcuni principi minimi di efficacia, senza imporre un’armonizzazione dell’intero sistema di procedure e strumenti di gestione della crisi (si veda l’art. 4 e il Considerando 13).

       In secondo luogo, ai sensi dell’art. 4, par. 5, la Direttiva può essere attuata dagli Stati membri con un solo strumento o con più strumenti, a condizione che, in questo secondo caso, essi operino in modo coordinato, coerente e flessibile e consentano di adattare l’intensità dello strumento alle circostanze e alle reazioni dei creditori[14].

In terzo luogo, come detto, le procedure e gli strumenti di ristrutturazione preventiva che rispettino i principi della Direttiva devono essere resi disponibili a tutti i debitori che si propongano di proseguire, anche soltanto in parte, l’attività economica. Non sono invece coperti dalla Direttiva gli strumenti che mirino alla liquidazione totale del patrimonio.

In sede di recepimento, dunque, doveva essere effettuata la scelta fondamentale se attuare la Direttiva:

       a) mediante un solo strumento, e in tal caso:

                   a1) uno strumento di nuova creazione, oppure

                   a2) uno strumento già esistente (e nel caso, quale: ad esempio, accordo di ristrutturazione a efficacia estesa o concordato);

       b) mediante una pluralità di strumenti, in tal caso a condizione che i diritti e le garanzie previsti dalla Direttiva fossero accessibili al debitore e, laddove richiesto, a creditori e lavoratori.

In sostanza, l’unica condizione che avrebbe dovuto rispettare uno strumento unico sarebbe stata che esso assolvesse tutti i requisiti posti dalla Direttiva. Diversamente, attuando la Direttiva mediante il ricorso a più strumenti, sarebbe stato sufficiente che questi requisiti fossero rispettati in parte nell’uno e in parte nell’altro degli strumenti individuati, ma al tempo stesso sarebbe stato necessario che essi si integrassero fra loro per essere accessibili dal debitore in modo flessibile, dal punto di vista sostanziale e procedurale (Direttiva, art. 4, par. 5).

Le scelte di fondo sopra descritte stavano in relazione inversa fra innovatività e complessità: il recepimento della Direttiva mediante l’adozione di uno strumento di nuova creazione avrebbe avuto un impatto significativo sul sistema vigente (anche per la necessità di coordinarlo con tutti quelli esistenti e rimasti in vigore), ma sarebbe stato relativamente agevole; all’estremo opposto, invece, attuare la Direttiva mediante più strumenti di ristrutturazione già esistenti avrebbe avuto un minore impatto sistematico, ma sarebbe stato complesso dal punto di vista tecnico, in quanto gli adeguamenti avrebbero dovuto essere coordinati in un quadro unitario, anche al fine di assicurare la fluidità e modularità della ristrutturazione delle quali si è detto.

Come già detto, nessuna guida è giunta dalla legge delega 22 aprile 2021, n. 53 (“legge di delegazione europea 2019-2020”), che non indicava al Governo alcun criterio da seguire nell’attuare la Direttiva.

Mentre veniva elaborato il decreto di attuazione della Direttiva è stato, poi, emanato il d.l. 24 agosto 2021, n. 118, che ne ha costituito a tutti gli effetti un’anticipazione, come si può arguire dal fatto che la composizione negoziata si applica indistintamente a imprenditori commerciali e agricoli, dall’attenzione posta all’autodiagnosi del debitore (conforme all’art. 3 della Direttiva)[15] e dal ruolo, affidato all’esperto, di agevolare le trattative tra l’imprenditore, i creditori ed eventuali altri soggetti interessati, al fine di individuare una soluzione per il superamento delle condizioni di crisi (conforme all’art. 5, par. 3, della Direttiva).

 

8. Le scelte effettuate in concreto per l’attuazione della Direttiva: il d.lgs. 83/2022

Con il d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, il Governo ha scelto di attuare la direttiva mediante una pluralità di strumenti. Si è deciso, dunque, di adeguare gli strumenti già esistenti, con una sola, significativa eccezione.

Ciò ha comportato:

- un intervento alquanto pesante sul concordato preventivo, che è stato “frammentato” in due sottotipi molto diversi fra loro: il concordato con continuità aziendale, con il quale si è recepita una parte della Direttiva, e il concordato liquidatorio, rimasto legato all’originario impianto del CCII e alla l. 155/2017 che l’ha originato, ritenuta ancora vigente per effetto della perdurante efficacia della l. 20/2019 che consente fino al 2024 di adottare decreti correttivi e integrativi al CCII sulla base dei principi dettati dalla l. 155/2017[16];

- l’introduzione di un nuovo “piano di ristrutturazione soggetto a omologazione” (“PRO”), che consente al debitore, il quale mantiene una relativa libertà di gestione del proprio patrimonio, di raccogliere il consenso dei creditori su una proposta il cui contenuto è libero, e che diviene efficace (vincolando gli eventuali dissenzienti) se approvata da tutte le classi. Si tratta, in sostanza, di un concordato preventivo, in cui tuttavia – proprio perché tutte le classi hanno approvato la proposta – non opera alcun vincolo al trattamento dei creditori e alla distribuzione del valore (fermo restando il principio dell’assenza di pregiudizio rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale);

- l’ampliamento della legittimazione al voto sulle proposte del debitore (nel concordato o nel piano di ristrutturazione), che viene attribuito a tutti i creditori anche prelatizi, salvo che non ne sia previsto il pagamento sostanzialmente immediato, integrale e in denaro (pagamento che deve comunque essere obbligatoriamente previsto per i lavoratori dipendenti);

- la previsione di una nuova disciplina dei quadri di ristrutturazione preventiva delle società, che prevede nuovi obblighi degli amministratori, e la possibilità di intervenire sulla struttura della società con modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, previo loro coinvolgimento mediante inserimento in una o più classi.

La Direttiva (art. 4) consentiva di dare anche ai creditori e/o ai rappresentanti dei lavoratori la possibilità di avviare la ristrutturazione. Di questa opzione l’Italia non si è avvalsa, lasciando il debitore arbitro di iniziare la ristrutturazione, e dando ai creditori la sola possibilità di chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. Almeno per le imprese in forma societaria, tuttavia, gli effetti concreti di questa scelta devono essere valutati in modo equilibrato: secondo le norme societarie, infatti, sono gli amministratori ad avere l’iniziativa esclusiva di promuovere e disegnare soluzioni che massimizzino l’interesse degli stakeholders, anche quando esse incidano sulla struttura finanziaria e sui diritti dei soci (art. 120-bis CCII)[17]. Essi assumono dunque rilevanti responsabilità (civili e penali) qualora, potendolo fare, non si attivino, e tali responsabilità sarebbero evidenti qualora gli amministratori ricevessero precise sollecitazioni in questo senso da creditori o dai rappresentanti dei lavoratori.

 

9. Il nuovo sistema di tutela della continuità aziendale: una chiave di lettura

La Direttiva, nella sua parte relativa ai quadri di ristrutturazione preventiva, è stata dunque attuata mediante la previsione di:

1) strumenti puramente consensuali: gli accordi di ristrutturazione dei debiti, ordinari e agevolati (rispettivamente, art. 57 e 60 CCII);

2) strumenti idonei a vincolare una minoranza di creditori non consenzienti, inclusi in classi o categorie di creditori aderenti o consenzienti. Le modalità di raccolta del consenso della maggioranza dei creditori sono diverse:

                   2a) se il debitore è in grado di ottenere il consenso della maggioranza dei creditori con modalità di tipo privatistico, egli può utilizzare gli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa, che vincolano fino al 25 per cento dei non aderenti di ciascuna categoria, e fino al 40 per cento se l’accordo è stipulato dopo la composizione negoziata (rispettivamente, art. 61 e art. 23, comma 2, lett. b, CCII);

                   2b) se il debitore ritiene invece preferibile la ricerca del consenso mediante l’espressione del voto, egli può utilizzare il nuovo piano di ristrutturazione soggetto a omologazione, che può essere omologato se viene approvato da ciascuna classe[18] (artt. 64-bis e 64-ter CCII). Questo è lo strumento con cui l’Italia ha tradotto il principio di libera distribuzione del surplus da ristrutturazione quando tutti i creditori abbiano approvato la proposta, principio del quale si è detto in precedenza (supra, par. 4, in fine) e che è stato ritenuto incompatibile con i principi del concordato preventivo[19];

3) strumenti idonei a vincolare sia una minoranza di creditori inclusi in classi consenzienti, sia intere classi di creditori dissenzienti (c.d. “ristrutturazione trasversale”): concordato preventivo con continuità aziendale per gli imprenditori commerciali “sopra soglia” (art. 84 ss. CCII ) e concordato minore per tutti gli altri debitori (art. 74 ss. CCII).

A questi strumenti, già numerosi, si aggiunge il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio all’esito della composizione negoziata, che prescinde del tutto dal consenso dei creditori essendo fondato sul principio dell’assenza di pregiudizio (art. 25-sexies, comma 5, CCII), e che può essere utilizzato per il mantenimento della continuità aziendale in forma indiretta cioè mediante cessione dell’azienda in esercizio (art. 25-septies CCII).

Chiudono la panoplia degli strumenti anche il piano attestato di risanamento, che come è noto prevede per gli atti esecutivi di un accordo fra debitore e creditori esenzioni da revocatoria e da sanzioni penali in caso di successiva insolvenza, e la convenzione di moratoria, che vincola una minoranza di creditori a non esigere il credito, costituendo dunque uno “strumento-ponte per perseguire con altri mezzi la risoluzione della crisi”[20].

Una volta superata la fase dell’“accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza con riserva di deposito di documentazione” di cui agli artt. 44 ss. (nuova struttura del c.d. concordato in bianco), il passaggio dall’accordo di ristrutturazione al piano di ristrutturazione o al concordato implica l’avvio di una nuova procedura dall’inizio. Il passaggio dal piano di ristrutturazione al concordato, invece, è in qualche modo accelerato dalla possibilità che il debitore chieda la transizione al concordato in modo relativamente agevole (art. 64-quater CCII). Ciò, benché soddisfi solo in parte l’esigenza di fluidità voluta dalla Direttiva della quale si diceva, può costituire un elemento che rende attraente il piano di ristrutturazione: il debitore può infatti avviare in modo molto agile un’interlocuzione con i creditori, con vincoli gestionali assimilabili a quelli della composizione negoziata e, solo in caso di insuccesso, passare al concordato preventivo.

 

10. Il chiodo nel blocco di cemento

Il sistema, così brevemente descritto, è tuttavia molto complicato e non facile da decodificare, con una navigazione nelle norme che alla già rilevante complessità originaria del CCII (in cui la materia era divisa fra procedimento unitario e strumenti vari, con andata e ritorno fra avvio, struttura e omologazione) ha purtroppo aggiunto ulteriore complessità.

Si è perduta l’occasione di una semplificazione; forse, tuttavia, questa occasione già non c’era più: essa si era perduta, a mio avviso, quando nel 2015 si avviò un processo di irrigidimento della normativa e di rafforzamento dei poteri dell’autorità giudiziaria, processo che è proseguito tetragono nonostante l’avvio dei lavori per la Direttiva e la pubblicazione della proposta di Direttiva nel novembre 2016. Tale traiettoria è stata portata a destinazione con la legge delega 155/2017, i cui vertici (a mio avviso negativi) erano la disciplina del concordato con continuità aziendale (che ha prodotto il perverso art. 84 CCII nella sua versione originaria) e il giudizio di fattibilità economica attribuito al giudice.

Il sistema che oggi ne è venuto fuori – stretto fra l’attuazione della Direttiva in forza della l. 53/2021 priva di criteri direttivi, e la legge delega 155/2017 che è ancora (a torto o a ragione) ritenuta viva e vegeta, dato che consente decreti correttivi per due anni dall’entrata in vigore del CCII (e dunque fino al 2024) – è inevitabilmente complicato, essendo il risultato della composizione non sempre armoniosa di “anime” diverse.

La Direttiva, con la fiducia nell’autodeterminazione delle parti e la riconduzione dei poteri del giudice – almeno quando si tratta di una ristrutturazione in continuità aziendale – al ruolo di arbitro e non di valutatore, appare una sorta di “chiodo d’acciaio” piantato nel cemento del CCII: e purtroppo le crepe si vedono[21].



[1] A questo mirava infatti il Regolamento (CE) 2000/1346, relativo alle procedure di insolvenza, poi sostituito dal Regolamento (UE) 2015/848. L’armonizzazione delle procedure di crisi dal punto di vista sostanziale è stata completata solo per un particolare tipo di imprese (le banche), con la Direttiva (UE) 2014/59 (c.d. BRRD).

[2] Jean-Claude Juncker, Completing Europe's Economic and Monetary Union, redatto d’intesa con Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi e Martin Schulz (c.d. Five Presidents’ Report), del 22 giugno 2015 (https://ec.europa.eu/info/publications/five-presidents-report-completing-europes-economic-and-monetary-union_en).

[3] D.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147. Il decreto legislativo è stato emanato in attuazione della l. 8 marzo 2019, n. 20, che è tuttora vigente e che, come vedremo, ha indirettamente influenzato il processo di recepimento della Direttiva.

[4] Per una prima ma approfondita analisi del d.lgs. 83/2022 si veda Ambrosini, Il Codice della crisi dopo il d.lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), disponibile all’indirizzo https://ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it/Articolo/232.

[5]  La Direttiva ha lo scopo di garantire “alle imprese e agli imprenditori sani che sono in difficoltà finanziarie la possibilità di accedere a quadri nazionali efficaci in materia di ristrutturazione preventiva che consentano loro di continuare a operare” (Considerando 1).

[6] Secondo l’interpretazione che viene pacificamente data da dottrina e giurisprudenza, i lavoratori autonomi si caratterizzano per il fatto di esercitare un’attività economica senza il supporto di un’organizzazione di carattere aziendale. Se l’attività esercitata è qualificabile come professione intellettuale, inoltre, ai sensi dell’art. 2238 c.c. essi non assumono la qualità di imprenditori nemmeno in presenza di un’organizzazione che potrebbe essere astrattamente qualificabile come aziendale (si pensi ai grandi studi legali).

[7] Gli Stati membri hanno tuttavia la possibilità di optare per la c.d. absolute priority rule, secondo la quale Ii diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente [devono essere] pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione” (art. 11, par. 2).

[8] Secondo il testo originario dell’art. 84 CCII, un’impresa capace di pagare il 20% ai suoi creditori con i flussi dell’attività avrebbe potuto proporre un “concordato con continuità aziendale”, ma se essa avesse offerto il 50% liquidando anche gli immobili non strategici avrebbe dovuto proporre un concordato liquidatorio, perché il primo presupponeva che il pagamento dei creditori venisse “in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale”.

Al contrario, non ci sono vincoli quantitativi nella legge fallimentare. Si veda, in quest senso, Cass. 15 gennaio 2020, n. 734, che ha affermato che “il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell'impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell'attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso, dalla disciplina speciale prevista dalla L. Fall., art. 186-bis, che al comma 1 espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito; tale norma non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnato una diversa destinazione, ma una valutazione di idoneità dei beni sottratti alla liquidazione ad essere organizzati in funzione della continuazione, totale o parziale, della pregressa attività di impresa e ad assicurare, attraverso una simile organizzazione, il miglior soddisfacimento dei creditori”.

[9]L’art. 48, comma 3, CCII, in materia di omologazione del concordato e degli accordi di ristrutturazione, prevedeva: “Il tribunale verifica la regolarità della procedura, l’esito della votazione, l’ammissibilità della proposta e la fattibilità economica del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale (…)” (analoga verifica era prevista in sede di ammissione al concordato dall’art. 47, comma 1).

L’art. 10, par. 3, della Direttiva 1023/2019 prevede invece: “Gli Stati membri assicurano che l’autorità giudiziaria o amministrativa abbia la facoltà di rifiutare di omologare il piano di ristrutturazione che risulti privo della prospettiva ragionevole di impedire l’insolvenza del debitore o di garantire la sostenibilità economica dell’impresa”.

[10] Art. 160, comma 2, l. fall., ripreso dall’art. 85, comma 6, della versione originaria del CCII. La giurisprudenza aveva infatti ritenuto illegittime (e dunque non ammissibili, e non soltanto non omologabili se non approvate da tutte le classi) proposte di concordato che non distribuissero il patrimonio del debitore secondo un rigido ordine gerarchico (Cass. 8 giugno 2012, n. 9373). Era discusso se nel patrimonio del debitore, così inteso, rientrasse anche il plusvalore creato dalla futura continuità aziendale.

[11]Ciò salvo che lo Stato Membro eserciti l’opzione per la regola di priorità assoluta, prevista dall’art. 11 par. 2.

[12] Secondo varie pronunzie della Corte di Giustizia UE, il diritto alla verifica dell’assenza di pregiudizio è condizione di legittimità di qualunque normativa che incida su un diritto soggettivo, ai sensi dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea (“Carta di Nizza”) e dell’art. 1 protocollo addizionale CEDU sulla protezione del diritto di proprietà. Ciò sotto il profilo della spettanza della tutela mediante un “ricorso effettivo” individualmente azionabile: I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. soc., 2020, 164, ivi p. 197 ss.).

[13] Questo paragrafo riprende parte di un documento di lavoro redatto dall’autore assieme a Paola Vella.

[14] Si veda, al riguardo il Considerando 29, in relazione alle opzioni concesse alle parti durante la ristrutturazione; cfr., ad es., art. 4, par. 8 sulle proposte alternative e art. 11 sulla richiesta di omologazione di piani che implichino la “ristrutturazione trasversale” dei crediti, cioè, come si è detto, il vincolo di una o più classi dissenzienti.

[15] In questo senso, Fabiani, L’avvio del codice della crisi, 5 maggio 2022, in www.dirittodellacrisi.it, pp. 5-6.

[16] Art. 1, comma unico: “Il Governo, con la procedura indicata al comma 3 dell'articolo 1 della legge 19 ottobre 2017, n. 155, entro due anni dalla data di entrata in vigore dell'ultimo dei decreti legislativi adottati in attuazione della delega di cui alla medesima legge n. 155 del 2017 e nel rispetto dei principi e criteri direttivi da essa fissati, può adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi medesimi”.

[17] Ai sensi dell’art. 120-bis CCII, infatti, “l’accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è deciso, in via esclusiva, dagli amministratori unitamente al contenuto della proposta e alle condizioni del piano.

[18] All'interno di ciascuna classe l’approvazione avviene con due criteri alternativi: se è favorevole la maggioranza dei crediti ammessi al voto oppure se sono favorevoli i due terzi dei crediti dei creditori votanti, purché abbiano votato i creditori titolari di almeno la metà del totale dei crediti della medesima classe.

[19] In questo senso, Fabiani, L’avvio del codice della crisi, cit., par. 4. Pur rispettandone le premesse, volte alla tutela della coerenza del sistema, dissento da questa posizione, che ha portato all’introduzione di un nuovo (ed ennesimo) strumento in un sistema concorsuale già complesso.

[20] Così, efficacemente, Fabiani, L’avvio del codice della crisi, cit., p. 9.

[21] Un esempio di come l’attuazione “stretta” della Direttiva abbia prodotto crepe in un sistema pensato diversamente è l’art. 112: nel concordato con continuità aziendale (e nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione), ogni creditore è legittimato a opporsi all’omologazione allegando il pregiudizio che la proposta gli arreca rispetto alla liquidazione giudiziale (art. 112, comma 3, e art. 64-bis, comma 8, CCII); non così nel concordato liquidatorio, rimasto al vecchio criterio della legittimazione dei soli creditori inseriti in una classe dissenziente o che vantino il 20 per cento dei crediti ammessi al voto (art. 112, comma 5, CCII). Risultato sorprendente sol che si ponga mente al fatto che il controllo dell’assenza di pregiudizio è, come si è detto, condizione di legittimità della normativa ai sensi dell’art. 1 protocollo addizionale CEDU sulla protezione del diritto di proprietà (supra, nota 12).