Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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I rapporti fra l’impresa in composizione negoziata e i creditori bancari dopo il decreto correttivo del 2024 (con una digressione sui finanziamenti abusivi).


Stefano Ambrosini
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Politica finanziaria e rilevazione dei costi del dissesto: dalla contabilita’ classica alla teoria del valore per battere sul tempo la crisi d’impresa


Serena Maurutto

Data pubblicazione
18 agosto 2022

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Sommario: 1. L’importanza della prospettiva finanziaria nella gestione dell’impresa. – 2. Valore versus profitto come nuovo obiettivo dell’impresa. – 3. Il superamento della contabilità classica e gli strumenti di misurazione del valore. – 4. Il legame tra struttura finanziaria e valore dell’impresa nelle principali teorie manageriali. – 5. I costi del dissesto e la necessità di una corretta rilevazione e monitoraggio nel contesto di crisi. – 6. Approccio del valore, ottimizzazione della struttura finanziaria e monitoraggio dei costi del dissesto: l’utilizzo della prospettiva aziendalistica tra early warning e adeguati assetti oltre la natura e la dimensione dell’impresa.


1. L’importanza della prospettiva finanziaria nella gestione dell’impresa

Tra gli studiosi di economia d’impresa e di corporate finance da anni si dibatte per cercare di identificare quale dovrebbe essere l’obiettivo finale dell’impresa, rispetto al quale dovrebbero essere preordinate e orientate tutte le decisioni. Nel contesto di un’economia di mercato si va da qualche tempo diffondendo la teoria del valore, in base alla quale il suddetto obiettivo non dovrebbe più coincidere con la massimizzazione del profitto, ma con la massimizzazione del valore del capitale economico dell’impresa[1].

Secondo tale teoria, di matrice squisitamente finanziaria, esistono una serie di elementi che condizionano, in senso negativo o positivo, la vita dell’impresa e, di conseguenza, la capacità della governance e del management team di perseguire correttamente e con i giusti strumenti la massimizzazione del valore del capitale, superando la prospettiva di lettura dei risultati meramente contabile, elementi cui è strettamente correlata la capacità dell’impresa di continuare nel tempo. Questi elementi sono intrinsecamente connessi con il processo di valutazione economica e decisionale sottostante alla scelta degli investimenti.

La lettura dell’impresa come sistema di impieghi implica la necessità di comprendere ex ante che ad ogni scelta aziendale corrisponde un output il cui rendimento deve essere almeno pari, ma preferibilmente superiore, al costo dello stesso, in quanto è intuibile che, in questa prospettiva, si crea valore solo quando il rendimento di un investimento è, appunto, pari o maggiore rispetto al costo delle risorse impiegate per esso.

La formula di base che ci consente di iniziare a pensare in prospettiva di creazione di valore è, infatti, la seguente:

 

R/i > 0

Dove

R = rendimento del capitale investito

i = costo delle risorse finanziarie impiegate

 

Da questa semplice espressione è facile capire come le politiche di crescita aziendali siano strettamente correlate alle politiche di finanziamento esterno, vale a dire alle combinazioni di attività finanziarie tra investitori e portatori di capitale di debito e alla capacità dell’impresa di ottimizzare il mix delle fonti medesime.

L’ottimizzazione del portafoglio di fonti finanziarie esterne passa attraverso la valutazione di due caratteristiche fondamentali, l’una simbiotica rispetto all’altra: i) la dimensione del livello ottimale per dimensione del mix di fonti, (quantum); ii) la definizione della composizione ottimale, ossia la scelta della diversa natura e qualità delle fonti che comporranno la struttura finanziaria.

Si tratta, necessariamente, di perseguire un obiettivo intermedio rispetto a quello di massimizzazione del valore dell’impresa, nonché evidentemente funzionale ad esso: l’ottimizzazione della struttura finanziaria aziendale.

La ricerca costante di condizioni di ottimalità nel leverage passa, a sua volta, attraverso una verifica che riguarda sia i fabbisogni addizionali di risorse per la gestione (flussi), sia il livello complessivo di fondi che devono esser presenti nell’impresa (stock).

È bene, a riprova di coò, sottolineare che nonostante le decisioni di finanziamento operino in prospettiva incrementale, i.e. di flusso, la soddisfazione piena della funzione operativa cui è preposta l’attività d’impresa passa anche attraverso la massimizzazione delle condizioni di efficienza nella gestione dei fondi, ovvero attraverso la minimizzazione del costo complessivo delle risorse finanziarie che vengono messe a disposizione dell’azienda, a prescindere dall’entità globale dei fondi di cui l’azienda stessa intende avvalersi.

Il rispetto di queste due condizioni richiede, dal punto di vista pratico, di applicare due regole fondamentali e di sottoporle costantemente a misurazione: i) il rendimento marginale del capitale deve essere uguale o maggiore rispetto al suo costo marginale; ii) il costo, tanto marginale quanto totale, del capitale deve essere ridotto al minimo in corrispondenza del fabbisogno finanziario dell’impresa.

Se, dunque, l’obiettivo di ottimizzazione del livello di leva finanziaria viene utilizzato come strumento di valutazione e selezione degli investimenti dell’impresa, appare chiaro che un investimento debba essere accettato solo laddove il suo rendimento lordo sia superiore al costo del debito.

È tuttavia necessario riflettere su un ulteriore aspetto, proprio al fine di meglio inquadrare lo specifico contesto in cui il presente elaborato si inserisce, ovvero quello della prevenzione e della gestione della crisi aziendale. In particolare, va detto che, se nel funzionamento virtuoso della logica di investimento sopra citata, ovvero di verifica delle condizioni per cui R > i, il meccanismo stesso della leva suggerirebbe – ceteris paribus – di aumentare la quota di debito posto a finanziamento degli impieghi profittevoli, tale indicazione incontra un limite evidente nell’accrescimento della percezione del rischio da parte di soci e azionisti che potrebbero essere portati perciò a chiedere saggi di remunerazione sempre più elevati. L’evento dannoso temuto dagli share holders si verificherebbe quando il differenziale negativo tra rendimento del capitale investito e costo del debito (R < i) si verificasse: in tal caso, la distruzione di valore ricadrebbe sulla proprietà e verrebbe amplificata dall’aumento del rapporto del debito sui mezzi propri (D/E).

Alla luce delle prime assunzioni che hanno costituito l’oggetto della presente premessa, è possibile concludere che l’ottimizzazione dei benefici determinati da un corretto utilizzo della leva finanziaria in ottica di creazione incrementale del valore dell’impresa e di conservazione dell’on going concern, non possa che coincidere con la ricerca del punto di equilibrio tra la crescita in termini di performance per i soci/azionisti (i.e. incremento del reddito in percentuale del capitale proprio) e il rischio conseguente all’aumento del livello di indebitamento (i.e. del rapporto D/E) che si traduce, a sua volta, in incremento del grado di volatilità della performance medesima.

In un contesto di dissesto conclamato o, ancor più utilmente, di semplice tensione o crisi iniziale, gli strumenti di misurazione e gestione del rapporto tra fonti e impieghi, così come la corretta rilevazione dei costi connessi a determinati livelli di indebitamento e al rischio di dissesto stesso, grazie all’approccio finanziario della teoria di creazione del valore ad essi sottostante, potrebbe a parere di chi scrive rivelarsi essenziale nel contesto di una più efficace gestione della crisi d’impresa. Nel corso dell’elaborato cercheremo di comprendere come questo può avvenire.

 

2. Valore versus profitto come nuovo obiettivo dell’impresa.

Chi scrive appoggia pienamente l’opinione di quanti[2] ritengono che il concetto di valore, quale obiettivo guida delle azioni del management, rappresenti un approccio “tecnicamente” più evoluto rispetto allo scopo di massimizzazione del profitto.

La massimizzazione della ricchezza dei soci/azionisti di un’impresa, cioè del cosiddetto valore attuale netto, è nozione senza dubbio molto meno ambigua rispetto a quella di profitto, e, soprattutto, possiede una valenza operativa tutt’altro che trascurabile, in quanto tiene in considerazione sia la distribuzione temporale dei risultati aziendali, sia il rischio ad essi associato: declina, cioè, nel proprio approccio di computo delle performance aziendali attese, le condizioni di incertezza in cui l’impresa fisiologicamente opera e, nel contempo, anche le caratteristiche di inefficienza e di non perfetta trasparenza dei mercati che inevitabilmente costituiscono l’attuale contesto competitivo.

L’introduzione di tali elementi di incertezza avviene attraverso il processo di attualizzazione, che consiste nell’applicazione ai flussi di cassa di un coefficiente che rappresenta, a decurtazione degli stessi, la sintesi numerica delle condizioni di rischio cui l’attività d’impresa sottostante è correlata e della diversa distribuzione temporale dei flussi medesimi. La funzione del tasso di attualizzazione è infatti non soltanto quella di rendere omogenei temporalmente grandezze monetarie che si manifestano in momenti futuri differenti, ma anche di rendere equiparabili un livello di remunerazione di pertinenza del capitale impiegato in un determinato investimento ad alternative di investimento che possono essere fatte rientrare in una stessa classe di rischio.

Continuare a ritenere, come facevano i fondatori della Teoria Neoclassica, che lo scopo ultimo dell’agire aziendale coincida con la massimizzazione del profitto, risulta oggi più che mai anacronistico in quanto, oltre a non tener conto del rischio che fisiologicamente permea l’attività imprenditoriale, presenta diverse altri limiti, tra i quali devono essere ricordati almeno i seguenti: i) esclusione di tutte le imprese che non nascono per generare profitti. Basti pensare al cosiddetto “terzo settore” e alle organizzazioni no profit che comunque rappresentano esempi di impresa; ii) adozione di un approccio tipicamente di breve termine, quando invece le imprese devono orientarsi a ricercare la sostenibilità nel tempo delle strategie utilizzate[3].

In termini generali e di prima approssimazione, la formula di calcolo del capitale economico di un’impresa può essere definita come segue:


 

In essa si dimostra come il valore (W) che identifica la ricchezza prodotta per gli azionisti (Capitale Economico) può essere definito analiticamente come somma di flussi che, nel caso in esame coincidono con i dividendi. Dj, infatti, sono i dividendi futuri attualizzati, ovvero la parte di utile che sarà distribuito agli azionisti e Keè il costo del capitale proprio (equity) dell’impresa a cui sono scontati.

Il valore si crea attraverso la generazione di flussi che devono scontare un certo livello di rischio che, a sua volta, deve divenire il presupposto di selezione del set di risorse necessarie a implementare gli impieghi. A tale rischio è evidentemente correlato il rendimento atteso tanto dai soci quanto dagli altri apportatori di capitale non di rischio come saggio di remunerazione delle risorse “prestate” all’azienda.

Come brevemente anticipato in premessa, una ulteriore formulazione che viene definita comunemente quale equazione base del valore è la seguente:

 

W = R/i

 

Tale equazione condivide con la precedente la logica di fondo assumendo, tuttavia, a parziale rinnovamento prospettico una prospettiva di continuità a condizioni di cosiddetta rendita perpetua, secondo cui, ipotizzando l’invarianza dei parametri (R) e (i) in un numero infinito di periodi: in questo caso il valore (W) coincide con il rapporto tra uh dato medio di rendimento e un certo tasso di rischio.

Lo scopo delle imprese diventa, pertanto, la ricerca sistematica di tutte le opportunità di investimento che risultino funzionali per la crescita del capitale economico (W), tipicamente dato dal rapporto tra (R), il reddito medio normale atteso, ed (i), il tasso di capitalizzazione. Parametri, questi, cui si possono attribuire varie connotazioni, a seconda, ad esempio, che per (R) ci si riferisca a flussi di reddito o di cassa – in funzione della natura del metodo di computo sotteso, rispettivamente, reddituale o finanziario – oppure che con (i) ci si riferisca al costo del capitale dell’impresa o al costo del capitale proprio con varie formulazioni, o essere equivalente al tasso d’interesse in caso di condizioni di efficienza e razionalità di mercato.

Se il valore del capitale economico è funzione del rapporto che vede al nominatore il reddito normale atteso e al di sotto della frazione un coerente tasso di capitalizzazione, è evidente che l’aumento del valore dell’impresa passi attraverso un incremento di reddito, ovvero di flussi, oppure attraverso la diminuzione del rischio o, ancor meglio, da una combinazione di entrambe le situazioni[4].

Il perseguimento dello scopo di massimizzazione del valore del capitale economico dell’impresa, superando, come visto, i postulati della Teoria Neoclassica si innesta invece nel contesto della Teoria di Creazione di Valore la quale, appunto, consente di guidare le decisioni manageriali e di verificare gli effetti di tali assunzioni. Tale approccio si declina attraverso una ricerca continua di investimenti che si dimostrino capaci di generare una variazione positiva del valore del capitale e, proprio a supporto di tale risultato, passa necessariamente attraverso il vaglio costante delle varie aree strategiche d’affari in cui già è attiva l’impresa, in modo da monitorare efficacemente la propensione di tali aree a far crescere, mantenere o distruggere il valore aziendale.

Ecco perché la prospettiva del valore non assume una valenza strategica per l’impresa soltanto a livello di monitoraggio e misurazione, ma svolge un ruolo fondamentale a livello gestionale, in quanto è strumento di declinazione operativa che orienta tutte l decisioni quotidiane dell’agire imprenditoriale.

Proprio in questa doppia prospettiva, gestionale e di controllo, la teoria di creazione di valore – con il suo scopo finale di generazione di nuovo valore, in senso incrementale, e con gli obiettivi intermedi di scelta di una struttura finanziaria ottimale, di cui si leggerà nel proseguo – si dimostra un approccio utile anche nel contesto della prevenzione della crisi d’azienda e della gestione in early stage della medesima, con evidenti benefici in termini di riduzione e di contenimento degli effetti di deflagrazione del dissesto i cui riflessi potrebbero ragionevolmente riguardare anche la responsabilità degli organi di governance[5], giungendo a contenere il perimetro di cosiddetta imputabilità.

Se, infine, l’approccio suggerito dalla massimizzazione del valore del capitale economico dell’impresa si innesta su una logica di tipo incrementale, in quanto lavora sulle variazioni di ricchezza nel tempo, è evidente che un simile obiettivo richieda al management di superare un modello di gestione tradizionale imperniato su un approccio meramente contabile di interpretazione dei risultati aziendali, in favore di un nuovo “stile” di amministrazione e controllo che sia in grado di intercettare le opportunità che si dimostrino concretamente idonee a produrre performance che dovranno successivamente essere misurate in ottica differenziale.

Nel dettaglio, la misurazione del valore creato sotto tale prospettiva incrementale può essere ottenuta distintamente qualora riferibile ad un unico anno o, invece, ad una pluralità di periodi.

Nel primo caso, la variazione di ricchezza è data dalla somma dei seguenti elementi: i) variazione nel periodo del valore del capitale economico (comunemente ; cui va aggiunto il dividendo distribuito nel periodo (d); e dedotto l’eventuale aumento di capitale a pagamento, al netto dei rimborsi ( ).

Laddove, invece, il riferimento temporale coincida con più periodi (ossia con un certo numero di anni) il valore creato può essere computato attraverso la seguente formula:

 

) + (Wnvn – W0)

Dove: dt è il dividendo dell’anno; Ctè l’aumento di capitale a pagamento del medesimo periodo; Wnè il valore finale dell’impresa; W0è il valore odierno dell’impresa; vne vt sono i fattori di attualizzazione.

 

3. Il superamento della contabilità classica e gli strumenti di misurazione del valore.

.In questo paragrafo si cercherà di rappresentare il passaggio essenziale che è necessario compiere per passare dalla prospettiva di lettura dell’azienda meramente contabile, all’ approccio del valore.

Si è già detto che secondo questa seconda interpretazione il valore coincide con la somma di una serie di flussi di reddito futuri, attualizzati con un coefficiente che esprime il costo del capitale nel lungo periodo, ovvero, in altri termini il rendimento che l’impresa deve ottenere per remunerare il capitale come conseguenza del rischio insito nella propria attività.

Secondo suddetta interpretazione, è possibile dunque riscrivere i principali aggregati iscritti a bilancio, cioè – lato attivo – il capitale investito e – lato passivo – il debito e il patrimonio netto. Tali aggregati nella teoria del valore assumono le vesti, rispettivamente, di Valore dell’impresa, Valore del debito e capitale economico. Riportiamo graficamente tale passaggio nello schema seguente:


 

 

Nella tabella posta sulla destra è possibile osservare che il valore dell’attivo si determina attraverso l’attualizzazione dei Flussi di cassa Operativi (FCFOj) – ossia quelli che derivano dall’esercizio dell’attività caratteristica dell’impresa – al costo del capitale, assumendo una logica che viene definita asset side in quanto non considera gli effetti delle scelte relative alla struttura finanziaria.

Il pareggio di bilancio tra attivo e passivo di stato patrimoniale consente, inoltre, di determinare il valore dell’impresa anche come somma del Capitale economico e del Valore del Debito, dove Fj sono i Flussi futuri a servizio del debito.

Nell’ambito dell’attività d’impresa si realizza sia la creazione di valore, sia la sua distribuzione: una parte del valore prodotto viene, infatti, distribuito ad una serie di portatori di interesse, gli stakeholders (dipendenti, banche, soci finanziatori, collettività). Ecco perché, sotto questa lente, la teoria del valore ci consente di valutare quali sono le anomalie distributive in senso soggettivo, ovvero le situazioni, propedeutiche alla crisi, in cui i flussi destinati alla soddisfazione degli interessi dei terzi – in primis i titolari di crediti – non sono capienti.

Le distonie di distribuzione, come vedremo nel paragrafo dedicato, si manifestano proprio attraverso i costi di dissesto, che sono il segnale che “qualcosa non va” e che questo “qualcosa” è stato percepito sia all’interno sia all’esterno dell’impresa, da uno o più stakeholders, generando una serie di reazioni attuali o semplicemente potenziali.

Per comprendere a fondo l’approccio prima di tutto culturale, che sottende al cambiamento di mentalitànecessario a completare il passaggio dalla contabilità classica alla logica del valore, e coglierne successivamente le valenze pratiche anche nel contesto della rilevazione precoce del dissesto, si propone di seguito uno schema in cui la correlazione deterministica tra elementi contabili e valore viene reinterpretata attraverso l’identificazione soggettiva dei destinatari cui le risorse impiegate nell’azienda e il loro equivalente in termini di valore sono dirette. La differenza tra costi e ricavi genera il profitto (valore) dell’impresa.


 

 

4. Il legame tra struttura finanziaria e valore dell’impresa nelle principali teorie manageriali.

 Come premesso nelle sezioni precedenti dell’elaborato, tra gli obiettivi intermedi che consentono al management aziendale di perseguire la strada della creazione di valore, si trova soprattutto quello dell’ottimizzazione della struttura finanziaria, esplicabile attraverso un set di decisioni di natura operativa e concreta che si connotano per l’evidente strumentalità rispetto all’obiettivo primario suddetto.

Negli anni si sono succedute diverse scuole di pensiero il cui avvicendamento e adattamento continuo alle mutate condizioni di mercato e di contesto economico ha condotto ad una acquisizione indiscussa: le scelte attinenti alla struttura finanziaria di un’impresa condizionano il valore dell’azienda stessa e il livello di indebitamento, nel rapporto tra debito e mezzi propri, svolge un ruolo importante ma differente sull’andamento della struttura complessiva dei costi.

In questo paragrafo si affronterà, ripercorrendo delle principali acquisizioni delle varie scuole di pensiero, il tema delle correlazioni esistenti tra struttura finanziaria e valore dell’impresa, insieme alle influenze che un determinato livello di indebitamento svolge sulla percezione del rischio d’impresa e sul costo del capitale.

Nel paragrafo successivo, il focus sarà l’identificazione e l’analisi dei costi specifici che si generano quando, superati determinati livelli di indebitamento, la percezione del rischio di fallimento dell’impresa prevale sui benefici indotti dall’indebitamento stesso. Ciò, in coerenza con l’obiettivo dichiarato in premessa del presente elaborato, ci consentirà di osservare come la corretta rilevazione di tali costi può svolgere un ruolo rilevante nella gestione preventiva del dissesto e nel contenimento degli effetti negativi e di contagio del medesimo.

Le teorie finanziarie hanno concepito, nel tempo, modelli di comportamento diversi nel tentativo di riconoscere e interpretare le relazioni esistenti tra valore dell’impresa e struttura del capitale. Nonostante alcune di esse risultino, ad oggi, anacronistiche e poco concrete, la rilevanza della prospettiva assunta offre ancora degli spunti di riflessione che conservano un notevole pregio scientifico che fa ritenere opportuno, a chi scrive, effettuarne una, seppur breve, introduzione.

Il primo modello di analisi delle correlazioni tra struttura finanziaria e valore dell’impresa è stato elaborato negli anni ’60 del secolo scorso da Modigliani e Miller cui va riconosciuto il merito di aver aperto un interessante dibattito sul tema e di aver avuto un forte impatto sulla finanza d’impresa, arrivando a influenzare la successiva definizione di metodi di valutazione aziendale.

I due studiosi hanno voluto dimostrare che, in presenza di alcune imprescindibili circostanze, tanto il valore di mercato di un’impresa quanto il costo del capitale non sono influenzati dalla struttura finanziaria. Ciò, in altri termini, significa che la composizione e le modifiche del mix di finanziamenti non hanno riflessi sul valore dell’impresa che rimarrebbe, pertanto, il risultato esclusivo del reddito operativo e del rischio ad esso associato.

Le ipotesi sottese al funzionamento del modello di Modigliani e Miller, sono le seguenti: presenza di mercati perfetti; assenza di costi di transazione; assenza del rischio di fallimento; assenza di asimmetrie informative; assenza di limiti di importo e soggettivi nei prestiti e parità di condizioni; esistenza di due sole tipologie di strumenti finanziari, azioni e obbligazioni; redditi futuri costanti; reddito operativo indipendente dalla struttura finanziaria; assenza di imposte sul reddito d’impresa; massimizzazione del valore come obiettivo del management.

La tesi sostiene, in sintesi, che in un contesto di mercato perfetto e in presenza delle suddette condizioni restrittive, il costo medio ponderato del capitale non è funzione della struttura finanziaria, ma dipende unicamente dal reddito operativo e, pertanto, non esiste per l’impresa una struttura finanziaria ottimale, in quanto essa non svolge alcun effetto sul valore dell’impresa che è determinato unicamente dalle attività reali in cui essa ha investito. In definitiva, secondo gli autori del modello, le decisioni di finanziamento e quelle di investimento possono essere trattate separatamente.


 

Figura 1

 

 

Tali assunzioni sono rappresentate graficamente nell’immagine sopra riportata (Figura 1) dove si trovano raffigurati gli andamenti dei saggi di rendimento al variare del livello di indebitamento.


 Nell’exhibit sottostante (Figura 2), invece, si rileva il comportamento del costo medio ponderato del capitale in funzione del variare del costo del capitale.

Figura 2

 

 

Negli anni successivi, diversi studiosi si sono nuovamente occupati del tema. I loro sforzi sono confluiti in una seconda importante teoria che viene comunemente definita come posizione tradizionale, nella quale si attua una reinterpretazione della precedente tesi di M&M[6].

Il primo elemento di novità introdotto è la previsione della presenza di mercati finanziari imperfetti in cui, evidentemente, vengono meno le condizioni restrittive poste alla base del modello precedente. I “tradizionalisti”, affermando che il ricorso al debito è una forma di copertura finanziaria che per sua natura ha un costo minore rispetto al capitale proprio, condividono con il modello precedente l’opinione secondo la quale il reddito operativo non subisca influenza alcuna dalle scelte di struttura finanziaria e sostengono che all’aumentare del livello di leverage si registrino due effetti contrapposti: fino a livelli contenuti di indebitamento, la progressiva sostituzione dei mezzi propri con il debito produce un risparmio che viene solo parzialmente assorbito dall’aumento del tasso di rendimento atteso dagli azionisti/soci, con conseguente altrettanto progressiva diminuzione del costo medio ponderato del capitale; tuttavia, oltre a quella che questi autori definiscono la soglia di indebitamento fisiologico per l’impresa, la crescita del rischio finanziario cui sono sottoposti i soci/azionisti induce gli stessi a richiedere tassi di rendimento sempre più significativi e tali da azzerare e a superare il risparmio marginale indotto dal relativo minor costo del debito.Va detto, inoltre, che a livelli di leverage particolarmente elevati, anche il costo del debito tende ad aumentare, per effetto compensativo della riallocazione del rischio fallimento avvertito anche dai portatoti di capitale di debito, con un conseguente incremento esponenziale del costo medio ponderato del capitale.

Sulla scorta degli andamenti segnalati dai tradizionalisti, è possibile affermare che il costo medio ponderato del capitale, in funzione del livello di struttura finanziaria, può raggiungere un punto di minimo, oltrepassato il quale cresce in misura più che proporzionale, come si evidenzia nel grafico riportato a pagina seguente (Figura 3).


Figura 3

 

 

 

 Rispetto ai postulati di Modigliani e Miller, la posizione tradizionale giunge a una serie di conclusioni sequenziali che risultano riassumibili come segue: i) la struttura finanziaria è in grado di influenzare il valore globale dell’impresa in quanto è stato constatato che il costo medio ponderato del capitale raggiunge un punto di minimo (non ancora analitica- mente identificato se non attraverso un approccio di tipo intuitivo, in ordine al trasferimento del rischio) proprio in coincidenza con un livello ottimale di indebitamento, punto in cui il valore dell’impresa è, invece, al suo massimo; ii) la coincidenza tra capitale medio ponderato minimo e valore dell’impresa massimo si realizza solo nel caso in cui la struttura finanziaria non influenzi il reddito operativo; iii) laddove, al contrario, il reddito operativo fosse influenzato dalla struttura finanziaria, non si potrebbe più essere certi che la massimizzazione del valore globale dell’impresa coincida con la minimizzazione del costo medio ponderato del capitale.

 

 

 

 

 


Figura4

 

 

Osserviamo infine, ancora una volta avvalendoci dell’ausilio della rappresentazione grafica a pagina precedente (Figura 4), quali sono le differenze che distinguono il modello di Modigliani e Miller rispetto a quello tradizionale.

A conclusione di questa, pur breve ma utile, rassegna delle principali tesi sviluppate dagli studiosi che nel corso del secolo precedente si sono occupati di analizzare le correlazioni tra struttura finanziaria e valore dell’impresa, è opportuno mettere in luce quali siano i limiti sostanziali della tesi di Modigliani e Miller, nel tentativo di ricomporre ad unità i postulati della stessa con le assunzioni della posizione che abbiamo definito tradizionale.

Le ipotesi poste alla base del modello M&M che appaiono del tutto insostenibili sono almeno due: l’esclusione di imposte sul reddito delle società e la mancata previsione del rischio di dissesto. Qualora venissero eliminate anche soltanto queste due restrizioni, la funzione esplicativa dell’andamento del costo del capitale medio ponderato si allineerebbe con quanto teorizzato dai tradizionalisti, assumendo cioè la forma di una curva concava verso l’alto. Questo comportamento può essere ora riletto come risultato delle seguenti relazioni: i) entro una certa soglia di leverage predomina l’effetto imposte, in funzione del differente trattamento fiscale che subiscono gli interessi sul debito rispetto al reddito da capitale proprio e, in particolare, della deducibilità dei primi; ii) quando i livelli di indebitamento assumono dimensioni importanti, l’effetto del rischio fallimento diviene preponderante e l’accelerazione del tasso di rendimento atteso dai soci/azionisti è tale da annullare completamente l’effetto dello scudo fiscale inducendo un progressivo aumento del costo medio ponderato del capitale.

Tali conclusioni possono essere da ultimo confermate leggendo la formula con la quale comunemente viene calcolato il costo medio ponderato del capitale in presenza di indebitamento e di imposte sul reddito delle società, ove è possibile identificare espressamente quali variabili e parametri ne determinano la misurazione, nonché le relazioni sottostanti:

 

WACC = Ke * E/Il + Kd * (1- T) * D/Il

 

Dove Keè il tasso di rendimento atteso sui mezzi propri, E sono i mezzi propri, Il è il valore dell’impresa levered (ovvero E+D), T è l’aliquota fiscale applicata al reddito d’impresa e D è il debito esterno.

 

5. I costi del dissesto e la necessità di una corretta rilevazione e monitoraggio nel contesto di crisi.

Come è stato brevemente anticipato, i costi del dissesto rappresentano la manifestazione diretta, o indiretta, di una sensazione di insoddisfazione da parte di alcune categorie di stakeholder che reagiscono a seguito di un allentamento della fiducia nei confronti dell’impresa a fronte della percezione del rischio di non veder soddisfatti gli interessi che tali categorie di soggetti possiedono nei confronti della stessa. Tale senso di insoddisfazione e sfiducia crescono con un tasso che è esponenziale rispetto all’aumento del rischio che l’impresa cada in dissesto.

La traduzione pratica di tale contagioso malessere non è altro che un aggravamento di costi che già sono espliciti e rilevati ma anche di componenti latenti e non immediatamente percepite come gravami il cui effetto spesso è pericolosamente trascurato.

Se, infatti, non appare difficile riconoscere i costi del dissesto diretti, non altrettanto si può affermare circa i costi del dissesto indiretti[7]. I costi diretti rappresentano i costi legali e amministrativi relativi al processo di ristrutturazione o liquidazione. L’evidenza empirica ha messo in luce un’incidenza non così rilevante di tali oneri sul valore dell’azienda.

I costi indiretti contengono elementi di opacità che ne rendono spesso non così immediata l’identificazione e, soprattutto, la loro quantificazione.

Come prima introduzione al tema, e in termini ancora del tutto generali, è possibile includere in questa componente una serie combinata di problemi relazionali, organizzativi e gestionali, tra i quali:la perdita di credibilità nei confronti delle controparti esterne all’impresa (clienti), che possono dubitare della continuità aziendale iniziare a rivolgersi ad altre imprese; la reazione di fornitori che, a fronte del rischio di mancato pagamento, possono richiedere modifiche nei termini di pagamento; le condotte dei finanziatori che, alla luce di un rischio crescente, come vedremo più nel dettaglio in seguito, possono richiedere un maggior costo del capitale di debito se non addirittura il rientro immediato anche solo parziale del capitale stesso (revoca del finanziamento); le azioni dei dipendenti che possono iniziare a ricercare un altro impiego associando al rischio di dissesto la perdita di quello attuale.

Infine, lo stesso organo di governo dell’impresa è costretto ad intensificare le relazioni nei confronti delle controparti esterne per consentire il normale svolgimento dell’attività e la sopravvivenza dell’impresa. Inoltre, quando un’impresa è in difficoltà non è facile reperire i crediti di natura finanziaria, poiché i finanziatori diventano più esigenti e impongono le relative garanzie.

Tutte queste situazioni insieme finiscono con l’appesantire in misura più che proporzionale la gestione, assorbendo l’attenzione del management e distraendolo dalla propria funzione gestoria ordinaria e riducendo, allo stesso tempo, le probabilità di riconoscere e cogliere opportunità favorevoli allo sviluppo.

Seguendo la prospettiva soggettiva di creazione e distribuzione del valore dell’impresa, si cercherà di identificare le principali categorie di costi del dissesto, classificandole, appunto, in funzione dei rispettivi originators.

In caso di dissesto, infatti, gli stakeholders che compongono l’ecosistema aziendale, interno ed esterno, subiscono anch’essi gli effetti, temporanei o meno, della crisi e, detta in termini più coerenti rispetto alla ratio del presente elaborato, avvertendo le conseguenze della distruzione di valore innescata, innescano tutta una serie di condotte e decisioni che hanno come fine quello di tutelare istanze sempre più “personalistiche”.

I costi del dissesto non sono altro, in questi termini, che l’epifania del malessere avvertito dai portatori di interessi che, cercando di proteggersi dal rischio di non veder soddisfatte le proprie ragioni – in particolare creditizie, ma non solo -, riallocano anticipatamente il potenziale o incipiente danno proprio sull’impresa, con evidenti risultati amplificatori della tensione accumulata.

Tra gli eventi che si pongono alla base di questo effetto a catena, vi è senz’altro l’aumento del debito che, superata una certa soglia di gap rispetto ai mezzi propri (D/E) provoca una pericolosa combinazione di risultati: andamento esponenziale della probabilità di cadere in dissesto; aumento altrettanto esponenziale dei costi che al dissesto-fallimento si accompagnano, con evidenti riflessi pesantemente negativi sul valore dell’impresa e sul costo del capitale.

La matrix comune delle diverse categorie dei costi tipici e specifici della situazione di crisi non è altro che una situazione di conflitto di interessi tra varie categorie di stakeholders da un lato, e l’impresa, dall’altro, da cui gemmano una serie di vischiosità che, a loro volta, producono effetti negativi di termini di inefficienza ed inefficacia. Si tratta soprattutto di rallentamenti che pregiudicano i processi operativi, le scelte di investimento e quelle finanziarie.

Se è doveroso sottolineare che tali situazioni di conflittualità si radicano anche in contesti di aziende sane e fanno, in certa misura, parte della fisiologia imprenditoriale, è altrettanto vero che in situazioni di criticità si registra un’esasperazione della contrapposizione di interessi che diventano sempre più egoistici.

Gli azionisti o soci, per esempio, capita che comincino a perseguire interessi esclusivamente personali e una serie di correlate attività, quali, ad esempio: i) l’attuazione di investimenti particolarmente rischiosi, nella speranza che si verifichino in pratica i risultati dichiarati dalla regola che correla la crescita dei livelli di rischio all’aumento del saggio di rendimento; ii) la rinuncia a versare ulteriore capitale di rischio, con riduzione della possibilità di cogliere opportunità reali e concrete di investimento.

Al tempo stesso, i prestatori di capitale, quando iniziano a percepire che l’impresa è in difficoltà, tendono a mettere in atto tutta una serie di iniziative i cui effetti dovrebbero coincidere con un controbilanciamento, quanto meno parziale, delle perdite attese: per esempio, applicando condizioni più pesanti, in termini di interessi e garanzie collaterali sia in fase di rinnovo delle linee di credito già esistenti sia per i nuovi affidamenti, fino all’ingerenza sulla gestione aziendale. In quest’ultimo caso è frequente che nella stesura di nuovi rapporti contrattuali, così come di rinegoziazione di contratti già in essere, vengano introdotte clausole particolari che impongono al management un certo tipo di condivisione di informazioni circa il loro operato, se non addirittura di sottoporre un certo tipo di decisioni al controllo preventivo dell’istituto.

Tali condotte, se dal lato dei prestatori di capitali rappresentano delle leve cosiddette di salvaguardia, dal lato dell’impresa diventano specifici oneri aggiuntivi che possono essere ricondotti all’interno di due macro-categorie: i) costi di controllo; ii) inefficienze del processo gestionale.

I costi di controllo rappresentano una categoria da tenere in particolare osservazione, in quanto si tratta di out put che vengono rilevati nella quasi totalità delle situazioni di crisi in cui intervengono con precise dinamiche e che, in quanto portatori di effetti di vastissima portata, devono essere ben riconosciuti.

Innanzitutto, va detto che i costi del controllo, o agency costs[8], in quanto clausole di salvaguardia dei diritti dei creditori, possiedono una rilevanza autonoma rispetto alla situazione di crisi, al netto della quale comunque trovano terreno per attecchire, in quanto sono direttamente correlati alla definizione della struttura finanziaria ottimale.

Laddove, infatti, gli stakeholders di natura finanziaria siano vari (di norma, soci, banche e titolari di obbligazioni) è frequente che la percezione della probabilità che si generino conflitti di interessi provochi la richiesta da parte di queste stesse classi di trovare degli strumenti adeguati di tutela dei propri diritti nei confronti dell’operato della governance aziendale. Tali necessità si fanno sempre più concrete e pressanti all’aumentare del rapporto di D/E e, come contraltare, traducendosi in un aumento spesso più che proporzionale dei costi, tali covenants finiscono con l’erodere ulteriormente il valore dell’impresa.

Proviamo a meglio comprendere le dinamiche di queste condotte confliggenti e degli effetti ad esse connessi: il management aziendale, così come la proprietà, se non altro fino a certi livelli di controllo, si prestano, pur con riluttanza, a fornire le informazioni e a favorire il monitoraggio dei creditori, in quanto spesso è il solo modo per impedire che vengano applicati costi sensibilmente più gravosi al rimborso del debito (in particolare, maggiorazione di interessi); i creditori che attuano tali strategie di controllo, ne beneficiano in termini di fiducia grazie ad una progressiva riduzione di opacità nella conoscenza della modalità di conduzione dell’impresa.

Tuttavia, il recupero della fiducia non avviene con una progressione tale da compensare gli effetti negativi indotti dagli oneri del controllo medesimo: detto in altri termini, il costo incrementale del controllo, oltre un certo livello di ingerenza, cresce così tanto da erodere completamente gli effetti positivi di quella che possiamo definire una “co-conduzione” aziendale o addirittura una “marcatura a uomo”.

Va detto anche che il livello di ingerenza e gli effetti negativi mutano anche in funzione delle attività che del controllo costituiscono l’oggetto: se, infatti, è vero che le procedure di verifica che riguardano l’ordinaria gestione aziendale e le decisioni di finanziamento sviluppano oneri non così sostenuti, non si può affermare altrettanto riguardo alle verifiche che presuppongono come target le scelte in tema di investimento o la funzione produttiva.

Un elemento che gioca a favore del contenimento di entrambe le declinazioni di costo è, d’altra parte, connesso alla disponibilità del management aziendale, o dei professionisti terzi incaricati, a produrre nel modo più esaustivo e tempestivo possibile il set di informazioni che i controller richiedono.

Le riflessioni e gli elementi analizzati sino ad ora, in tema di agency costs, ci consentono a questo punto di giungere alla conclusione che a tali costi può essere assegnato un tipico modello comportamentale, ovvero di riscontrare le seguenti evidenze: l’aumento progressivo dei costi di controllo, in funzione dell’incremento dei debiti dell’azienda e, di conseguenza, i costi di controllo a loro volta spingono per una riduzione del livello di indebitamento, per cui possiamo, in sintesi, affermare che la struttura finanziaria ottimale si posizionerà a un livello più basso.

La relazione è chiara: a livelli bassi di indebitamento, tanto il rischio finanziario quale quello di veder nascere conflitti di interessi tra categorie di stakeholders assumono livelli fisiologici e gestibili, in risposta ai quali rischi il livello di controllo richiesto ha un costo marginale di scarso rilievo. Laddove, tuttavia, il rapporto tra D/E assuma proporzioni importanti, che vengono percepite come straordinarie e patologiche, i creditori appesantiscono i controlli, per frequenza, quantità e qualità, proprio per ridurre la probabilità di veder compromessi i propri interessi, con l’effetto di scaricare sull’impresa un incremento più che proporzionale dei costi del dissesto.

Procedendo con la prospettiva soggettiva nell’elencazione dei costi del dissesto, vanno menzionati gli oneri che sorgono a causa del conflitto di interessi non tra azionisti/soci e impresa o tra portatori di capitale di debito e impresa, ma tra apportatori di capitale proprio e di debito, i cui riflessi, in termini di efficienza e inefficacia, sono tutt’altro che semplici da identificare.

Oltre a queste tipologie e manifestazioni di costi del dissesto, vi sono altri oneri che di accompagnano alla percezione della crisi aziendale e che riguardano altri portatori di interessi.

Un esempio è quell’insieme di costi che si generano a causa della difficoltà crescente da parte dell’impresa a garantire ai clienti un determinato livello di qualità nel rapporto prodotto-servizio: anche se molte volte il rischio di non ricevere standard adeguati di fornitura o prestazione è solo frutto della percezione del cliente, capita che per il timore, per esempio, di non ricevere più un servizio di manutenzione e assistenza post-vendita, inizino a cercare nuovi fornitori o, per esempio, richiedano condizioni di prezzo o pagamento più onerose per l’impresa.

La situazione di dissesto o di tensione, inoltre, distoglie il management e il personale, in generale, dai propri compiti tipici, impegnandolo spesso proprio nella gestione delle distonie che si generano nella conduzione dei rapporti esterni, con clienti, fornitori e creditori.

Infine, si aggiungono tutta una serie di costi di natura giuridico-professionale, giudiziale e amministrativa che si generano, da un lato, dalla necessità dell’impresa di farsi assistere da professionisti specializzati e, dall’altro, dalla necessità di rispondere attraverso questi ultimi anche alle prime aggressioni dei creditori o clienti insoddisfatti.

Come già detto, questi ultimi costi, che appartengono alla sotto-categoria dei costi diretti del dissesto, a differenza di quelli indiretti si manifestano quando la crisi è già in atto.

I costi indiretti, invece, si generano quando si avverte come imminente la manifestazione della crisi e sono quindi correlati ad un fenomeno di percezione che rischia di scatenare la deflagrazione proprio in conseguenza del mancato controllo delle logiche stesse di innesco: ecco il motivo per il quale, pur nell’indubbia complessità di riconoscimento e di quantificazione di tali costi, diventa essenziale quanto meno imparare a identificarne il pattern comportamentale e a comprenderne l’eziologia per tempo, in modo da ridurne quanto più possibile propagazione e contagio.

 

6. Approccio del valore, ottimizzazione della struttura finanziaria e monitoraggio dei costi del dissesto: l’utilizzo della prospettiva aziendalistica tra early warning e adeguati assetti oltre la natura e la dimensione dell’impresa.

L’obiettivo della ricerca di una struttura finanziaria “ottimale” e le ragioni che debbono spingere l’impresa a mantenere una coerenza delle scelte di gestione con il sovra-sistema finanziario di riferimento, trovano il loro fondamento nella stessa “ragion d’essere” dell’impresa: la creazione di valore.

La coincidenza tra benessere dell’impresa e soddisfazione delle attese degli stakeholders ha progressivamente spostato l’attenzione degli economisti dalla massimizzazione del valore alla sua ottimizzazione, come elemento fondamentale di salvaguardia del principio di continuità entro il quale un ruolo fondamentale è svolto proprio dalla politica finanziaria, quale determinante delle scelte dell’organo di governo in una gestione d’impresa effettivamente orientata ad una crescita sostenibile nel lungo periodo.

E se la premessa della teoria di creazione del valore risiede, in nuce, nella capacità dell’impresa di ottenere un rendimento del capitale superiore al suo costo, risulterà ineluttabilmente correlata la costruzione di una struttura finanziaria che, svolgendo una funzione di regolamento della capacità competitiva, possa contribuire al processo di ottimizzazione delle molteplici variabili in gioco nel processo di incremento del valore economico dell’impresa.

La definizione di una struttura finanziaria ottimale, ovvero coerente con gli obiettivi dell’impresa, è altresì passaggio necessario per non deludere i portatori di interesse che, essendo titolari di crediti, dipendono essi stessi dalle situazioni di equilibrio/squilibrio di liquidità aziendale. Abbiamo infatti osservato come al superamento di determinati livelli di leverage sorgano una serie di costi connessi tipicamente alla percezione del rischio che l’impresa versi in stato di insolvenza.

Nel contesto della gestione e, soprattutto, della prevenzione, della crisi d’impresa che il legislatore oggi costantemente richiama quale dovere indefettibile in capo alla governance aziendale, l’approccio del valore con i relativi strumenti operativi svolge un ruolo essenziale nell’efficacia dei meccanismi preventivi stessi.

Nell’ambito della rilevazione tempestiva della crisi, dotarsi di strumenti di misurazione e verifica efficaci al fine del riconoscimento di andamenti distonici rispetto all’obiettivo finale dell’azienda e, pertanto, potenzialmente etichettabili come primi segnali di crisi, potrebbe rivelarsi di estrema utilità.

Chi scrive, ritiene che lo sviluppo di un’adeguata cultura finanziaria nel management aziendale sia un passaggio necessario proprio come presupposto comune per l’adeguatezza degli assetti, indipendentemente dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. Una coerente ed efficace sintesi tra il suddetto switch culturale e la funzione di rilevazione tempestiva della crisi potrebbe essere la definizione di una politica finanziaria che consente di identificare, misurare e sottoporre a verifica, in termini statici e dinamici, i fondamentali ambiti decisionali dell’azienda.

In tal senso, si ritiene utile proporre un’equazione che rappresenti le relazioni da monitorare nell’ambito delle singole componenti che dovrebbero determinare la complessiva politica di investimenti aziendali. Tali componenti sono: i) le scelte che coinvolgono l’ottimizzazione dei profitti lordi; ii) le politiche di autofinanziamento, di distribuzione dei dividendi e del relativo trade-off; iii) le decisioni relative al ricorso al finanziamento esterno; iv) l’eventuale scelta di impieghi in attività finanziaria.

Letta in termini di combinazione di variabili decisionali, la formulazione della politica finanziaria aziendale può coincidere con un’equazione in cui i suddetti ambiti decisionali trovano un perimetro di interrelazione ed equilibrio. Si ritiene che un’equazione coerente con questo approccio possa essere la seguente:

 

I = p *

In cui:

I = politica degli investimenti e dei disinvestimenti

p = scelte relative all’ottimizzazione dei profitti lordi

d = decisioni relative a distribuzione di dividendi e autofinanziamento

f = decisioni relative agli investimenti in attività finanziarie

D = decisioni relative al ricorso al finanziamento esterno

 

Dalla lettura della formula proposta risulta chiara non soltanto la natura della relazione tra le varie componenti e la politica di investimento, ma anche l’esistenza di interrelazioni endogene, ossia di connessioni che legano tra esse le singole componenti: emerge, per esempio, che le decisioni di ricorrere al finanziamento esterno siano condizionate tanto dai fabbisogni di investimento, quanto dalla disponibilità di dividendi e di autofinanziamento; che le scelte di investimento sono a loro volta condizionate dal ricorso al debito e dalle scelte inerenti all’ottimizzazione della struttura del capitale; infine, che la ritenzione degli utili entro un processo di accumulazione interna non possa non tener conto dagli interventi tesi all’ottimizzazione dei profitti, dalla distribuzione dei dividendi e da costo del capitale.

Un modello di controllo come quello proposto è senza dubbio declinabile in qualsiasi contesto aziendale, indipendentemente dal settore, dalla fase del ciclo di vita, dalla forma giuridica dell’impresa. Ciò che appare ancora più degno di nota è che la formulazione di una politica finanziaria interfunzionale e cross section è indipendente dalla natura e dalla dimensione dell’impresa, ovvero dalle due caratteristiche rispetto alle quali l’art. 2086 c.c.condiziona l’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e, di conseguenza, definisce in maniera opaca il perimetro della conseguente responsabilità degli amministratori per non aver adottato modelli adeguati e non aver rilevato tempestivamente la crisi[9].

In tal senso, un’equazione matematica che raffigura i legami che si sviluppano tra i fondamentali ambiti decisionali in cui si dipana l’agire imprenditoriale nel contesto dell’impresa come sistema vitale di interessi, potrebbe diventare il minimo comun denominatore come base di partenza per una modello di gestione effettivamente coerente con l’obbligo di prevenzione e rilevazione precoce della crisi.



[1] Per un approfondimento dei principi che regolano la teoria e delle relazioni che legano i fattori determinanti del valore con le politiche e le strategie dell’impresa si legga, tra tutti, L. Guatri, La teoria di creazione del valore. Una via europea, Milano, 1991; per la valutazione del capitale economico dell’impresa si veda, dello stesso autore, Il metodo reddituale per la valutazione delle aziende. Nuovi orientamenti, Milano 1996, e Valore e “intangibles” nella misura della performance aziendale, Milano, 1997.

 

[2] Cfr. A. Rappaport, Le Strategie del valore, Milano, 1989; L. Guatri, La teoria di creazione del valore. Una via Europea, Milano, 1991, p.6.; A. Renoldi, Valore dell’impresa, creazione di valore e struttura del capitale, Milano, 1997, p. 9 e ss.

[3] «Le imprese in genere sono disposte a sopportare perdite in alcuni periodi (tra cui di norma la fase iniziale) con la prospettiva di entrare in nuovi mercati o ampliare la propria quota nel mercato di appartenenza e quindi generare maggiori profitti». Così A. Danovi, Dai documenti contabili alle valutazioni gestionali: la teoria di creazione del valore, in Elementi di bilancio e finanza aziendale per giuristi, Milano, 2001, p. 55 e ss.

[4] «Generalmente l’imprenditore ha un maggiore controllo su (R) rispetto ad (i) perché i flussi sono determinabili con una certa precisione, come si è visto nel capitolo precedente. Nella quantificazione di (i), invece, non sempre è agevole calcolare il costo del capitale proprio mentre è più facile determinare quello del capitale di debito per il quale il tasso di interesse pagato può essere utilizzato quale valida proxy. Ciò fa sì che mentre è facile accorgersi di una riduzione del valore dell’impresa in presenza di una diminuzione dei flussi, non vale altrettanto in caso di un aumento del rischio»: così A. Danovi, Op.cit., Milano, 2001, p. 58 e ss.

 

 

[5] Si rammenta, infatti, che con l’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e la riforma della disciplina fallimentare sono state introdotte importanti novità in tema di responsabilità degli organi di gestione e controllo dell’impresa.A partire dal dettato dell’art. 2086 c.c. che stabilisce un obbligo, in capo alla governance«di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». L’art. 378 del nuovo Codice, inoltre, nel contesto dell’azione di responsabilità definisce il perimetro entro il quale deve essere determinato il danno da liquidare, corrispondente alla differenza tra i netti patrimoniali. Proprio in riscontro a tali previsioni normative, diventa essenziale per la governance adottare dei metodi aziendalistici efficaci e basati su strumenti razionali e coerenti con il sistema impresa, in grado, cioè, di gestire e misurare le conseguenze delle decisioni manageriali nella misura più coerente possibile proprio rispetto alla natura e alle dimensioni delle attività aziendali medesime. Si legga, sul tema degli adeguati assetti e degli approcci aziendalistici per una lettura gestionale degli stessi P. Bastia, Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, in Ristrutturazioni Aziendali, 2021, ove è proposto un interessante modello di promozione dell’impresa manageriale proprio in funzione della rilevazione tempestiva della crisi, ovvero come approccio utile alla identificazione di «soluzioni di prevenzione e di sistemazione delle criticità operative e dei rischi pregiudizievoli per la continuità aziendale». Tale modello passa attraverso l’adozione di paradigmi aziendalistici in quanto, con riferimento alla natura dell’impresa, di cui all’art. 2086 c.c., Bastia ritiene che in relazione ad essa il concetto di adeguatezza consista «nella sua capacità di coordinamento di attività integrate dal punto di vista tecnico-economico, più efficiente a date condizioni rispetto al coordinamento del mercato e in chiave moderna e strategica può essere colta nella “catena del valore” (value chain), vale a dire nella filiera di processi coordinati (commerciali, produttivi, logistici, amministrativi, progettuali), sia all’interno dei propri confini legali (con propri dipendenti econ propri beni iscritti a patrimonio), sia all’esterno, qualora svolga un’attività di regia di attività esternalizzate, produttive e commerciali. Ne consegue che il fabbisogno organizzativo non solo sarà maggiore, ma sarà anche specificato nei suoi contenuti dal modello di business e dalla base tecnologica su cui si fonda». Dello stesso autore si ricorda anche il contributo dal titolo Gli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili nelle imprese: criteri di progettazione, ibid., 2021.

Si legga, inoltre, ancora sul tema degli aspetti di applicazione concreta degli adeguati assetti, A. Panizza, Adeguati aspetti organizzativi, amministrativi e contabili: aspetti (teorici ed) operativi, in Ristrutturazioni Aziendali, 2021, contributo destinato a un volume collettaneo sull’adeguatezza degli assetti aziendali a cura di Stefano Ambrosini; A. Lolli – M.G. Paolucci, L’adeguatezza degli assetti nel codice della crisi d’impresa, in IlCaso.it, 2020, n.845.

 

[6] Oltre alla posizione tradizionale, molte altre teorie si sono avvicendate nel corso del tempo alimentando il dibattito tra gli studiosi della materia. In questa sede, data la ridotta funzionalità degli assunti delle stesse rispetto al tema dell’elaborato, ci si limita consapevolmente all’analisi della teoria che per prima ha riconosciuto l’esistenza di imperfezioni del mercato e la conseguente non irrilevanza della struttura finanziaria rispetto al valore dell’impresa. Per quanto riguarda le altre scuole di pensiero, il lettore che desiderasse approfondire l’argomento può trovarne un inquadramento sistematico e aggiornato in D. Venanzi, La scelta della struttura finanziaria, teoria ed evidenza pratica, Torino, 1999. Per quanto riguarda, invece, le singole teorie, si rimanda alle opere degli autori a cui sono attribuite, iniziando con H. De Angelo-R.W. Masulis, Optimal capital structure under corporate and personal taxation, in Journal of Financial Economics, n. 8, 1980, in cui con riferimento all’esistenza di scudi fiscali differenti dal debito gli autori si riferiscono alla possibilità, molto verosimile, che l’impresa possa beneficiare, congiuntamente alla deducibilità degli oneri finanziari, anche dello stanziamento, per esempio, di ammortamenti anticipati, ovvero di altri benefici fiscali connessi alle caratteristiche della propria attività od agli investimenti effettuati: in tale situazione si identifica la possibilità che il vantaggio fiscale generato dall’indebitamento sia variabile da impresa a impresa (assunto del tutto condivisibile), possa assumere valori più o meno elevati a seconda della capacità di assorbimento e contribuisca quindi ad individuare una struttura finanziaria ottimale differente per ogni impresa; proseguendo con E.O. Fisher- R. Heinkel-J. Zechner, Dynamic capital structure choice: theory and tests, in Journal of Finance, n. 1, 1989, dove si leggono interessanti osservazioni sul ruolo dei costi transazionali; e ancora con S.C. Myers, The capital Structure Puzzle, in Journal of Financial Economics, n. 5, 1977, in cui viene fondata la teoria dell’ordine di scelta, nota come POH (Pecking Order Hypothesis) secondo la quale le imprese, nell’effettuare la scelta della struttura finanziaria, seguirebbero una precisa gerarchia nell’utilizzo delle fonti di finanziamento in ragione di una precisa strategia di autosufficienza finanziaria che, in definitiva, si concretizza nel più ampio obiettivo di sopravvivenza dell’impresa; si rinvia inoltre allo studio della cosiddetta teoria manageriale il cui maggior contribuito può essere verosimilmente assegnato a G. Donaldson, Corporate debt capacity, Harward Press, 1961, e della teoria delle asimmetrie informative di S.C. Myers-N.S. Majluf, Corporate financing and investment decisions when firms have information that investors do not have, in Journal of Financial Economics, n. 13, 1984; da ultimo, si suggerisce l’approfondimento della teoria dei costi transazionali, proposta da O.E. Williamson, Corporate finance and corporate governance, in Journal of Finance, n. 3, 1988, che considera il debito e il capitale proprio strumenti alternativi di governo della transazione, che in questo caso riguarda la fornitura delle risorse finanziarie.

[7] Il rischio legato alla probabilità che l’impresa diventi insolvente è stato quantificato in un costo (bankruptcy cost) scomponibile in due differenti componenti, i costi diretti e i costi indiretti. Si veda in tal senso S.A. Ross-R.W. Westerfield-J.F. Jaffe, Finanza Aziendale, p. 553 ss.

 

 

[8] Il modello di base, elaborato da Jensen e Meckling sotto il nome di Agency Theory, si basa sull’esistenza di costi di agenzia che azionisti e creditori dovrebbero sostenere per limitare l’ambito di discrezionalità del management e ridurre il rischio di comportamenti sub-ottimali. Secondo tale teoria l’organo di governo, proprietario di una quota dell’impresa, ha una curva di utilità che esprime (in un contesto uniperiodale caratterizzato da assenza di imposte, debito commerciale e titoli particolari, come azioni privilegiate o obbligazioni convertibili) il tasso marginale di sostituzione tra vantaggi pecuniari (la quota di valore dell’impresa) e vantaggi non pecuniari (benefit, tangibili e non, economici e di status). Nel caso di risorse finanziarie limitate (che impongono quindi un ricorso al mercato per l’investimento aggiuntivo, per esempio attraverso l’emissione di azioni), al fine di massimizzare la propria utilità, il management può avere interesse a consumare in forma di benefit una quota superiore dei flussi di cassa prodotti di quanto non farebbe se fosse l’unico proprietario, generando quindi sub-ottimi decisionali. Secondo il pensiero degli autori, la scelta della struttura finanziaria ottimale deriva dal trade-off tra costi di agenzia del debito e costi di agenzia dell’equity. Il modello ipotizza che il proprietario-imprenditore abbia fondi propri limitati per finanziare tutte le opportunità di investimento profittevoli e che pertanto la loro realizzazione richieda il ricorso al finanziamento esterno (debito o azioni). La presenza di debito rischioso comporta incentivi al management a porre in atto decisioni che determinano redistribuzione di ricchezza a danno dei creditori: realizzazione di investimenti ad alto rischio con VAN negativo, rinuncia a investimenti profittevoli che richiedono un aumento di capitale proprio, distribuzione di dividendi, rinvio del fallimento. In presenza di questo rischio, la contrattazione del debito diventa più costosa, per effetto di comportamenti cautelativi da parte di potenziali creditori. Si legga M.C. JENSEN-W.H. MECKLING, Theory Of The Firm: Managerial Behaviour, agency costs and ownership structure, in Journal of Financial Economics, n. 3, 1976.

 

[9] Sul tema della responsabilità degli amministratori alla luce delle nuove disposizioni del codice della crisi, con riferimento alle attività di prevenzione e rilevazione tempestiva del dissesto, si legga, tra i più recenti e significativi contributi: S. Ambrosini, Doveri degli amministratori e azioni di responsabilità alla luce del codice della crisi e della “mini riforma” del 2021, in dirittobancario.it, 2022.