Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

Le società a partecipazione pubblica di fronte alla emersione della crisi, tra TUSP e CC.II.


Alida Paluchowski

Data pubblicazione
30 agosto 2022

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Sommario: 1. Le società a partecipazione pubblica e le problematiche tradizionali con riferimento alla crisi di impresa; 1.1. Il T.U. n. 175 del 2016, il suo correttivo d.lgs n. 100 del 2017 e le società a partecipazione pubblica in crisi; 1.2. I piani speciali di risanamento e di ristrutturazione del T.U.; 1.3. Il possibile rapporto fra i piani del T.U. S.P. e gli istituti del CC.II. (La composizione negoziata ed i piani attestati o fondanti l’accordo di ristrutturazione); 1.4. La sottoposizione delle società pubbliche a concordato preventivo, fallimento ed amministrazione straordinaria ex art. 14 del d.lgs 175 del 2016. Cenni.


1. Le società a partecipazione pubblica e le problematiche tradizionali con riferimento alla crisi di impresa.

Le società partecipate dalle amministrazioni pubbliche sono molto numerose in Italia soprattutto nel comparto delle amministrazioni locali e nel tempo vi sono stati numerosi interventi per razionalizzare il settore, per aumentarne la trasparenza, per ridurre il numero di tali partecipate soprattutto con lo scopo di contenere la spesa pubblica[1]. L’utilizzazione delle società a partecipazione pubblica e a controllo pubblico per effettuare la gestione di servizi di interesse generale per la collettività in diversi casi è risultata una prassi virtuosa ed ha risposto a criteri di economicità e di buon funzionamento, per i comuni però, statisticamente ha costituito più frequentemente una modalità per “aggirare” i vincoli imposti alla gestione delle risorse pubbliche ed ha determinato così l’insorgere di numerosi casi di inefficienza o di ingenti perdite economiche, tanto che l’esigenza di una riforma fin dal 2006 si è affermata con insistenza. Uno dei fini perseguiti ed auspicati dalla riforma invocata, tra l’altro, era quello di evitare delle distorsioni della concorrenza nel mercato all’affermarsi della libertà dello stesso e della parità e reciprocità di condizioni fra le imprese dei paesi appartenenti all’Unione Europea [2]). Dal punto di vista numerico la realtà delle partecipazioni è certamente imponente. Nel rapporto Istat del 30 dicembre 2020 emerge che le società partecipate pubbliche attive nel 2018 erano 6.085, operanti nel settore dell’industria e dei servizi con un totale di 887.059 addetti. Le partecipate locali erano 4240 ed impiegavano 415.243 addetti. Le imprese a controllo pubblico erano 3585, con un totale di 587.890 addetti e una dimensione media di 164 addetti pro capite.

L’importanza del fenomeno è collegata anche alla osservazione che al loro interno le società a controllo pubblico contengono le c.d. società in House providing, [3], che possono essere esclusivamente società di capitali, in genere sempre s.p.a., ed esercitano su incarico dell’ente pubblico, direttamente o in direttamente, tramite affidamento, attività tipiche dell’ente che possono essere sia produttive sia strumentali. Costituiscono una modalità possibile di organizzazione dell’ente che deve perseguire la razionalità, l’efficienza e la economicità, come principio di buona amministrazione costituzionalmente sancito e in questa prospettiva può scegliere di erogare sia servizi di gestione interna che in favore dei cittadini, non direttamente ma tramite la società in house. Secondo la Cassazione le menzionate società hanno tre elementi caratterizzanti fissi, il primo sono i soci di natura esclusivamente pubblica, il secondo lo svolgimento ed esercizio dell’attività d’impresa prevalentemente in favore dei soci pubblici medesimi ed il terzo la circostanza che il controllo sia analogo, ovvero uguale a quello che il socio esercita sui propri uffici interni [4]).

Il dibattito sul quesito in ordine alla sorte in caso di crisi ed in particolare alla assoggettabilità di tali società alle procedure concorsuali si è sviluppato per anni, benché fin dal 1979 la corte di cassazione avesse ritenuto che la partecipazione di un ente pubblico al capitale sociale non comportasse certo la sottrazione della società partecipata alle procedure concorsuali, se questa era un imprenditore commerciale [5]). La soluzione positiva del quesito suindicato nasceva dalla osservazione che le società, anche se partecipate dall’ente pubblico, non mutano la propria natura giuridica di diritto privato, il che le rende soggette a fallimento ai sensi dell’articolo uno della legge fallimentare stessa, argomento rafforzato dalla formulazione dell’articolo 4 della legge 70 del 1975, in forza del quale nessun ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge. In generale si riteneva poi che l’esenzione dalle procedure concorsuali delle società a partecipazione pubblica avrebbe pregiudicato l’interesse dei creditori e l’interesse pubblico stesso e quindi, in definitiva, l’interesse della stessa società [6]).

Successivamente è stato ribadito l’assoggettamento a procedura fallimentare anche se, a seguito della comparsa in ambito comunitario della nozione di organismo di diritto pubblico, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno iniziato a dubitarne, in considerazione della tipologia pubblicistica e della loro funzionalità[7]). In base al riscontro della tipologia pubblicistica dell’interesse perseguito [8] )si cominciò a perorare l’adozione di una concezione sostanzialistica del rapporto, cosicché si riteneva di dover riqualificare la società quale ente pubblico quando in essa fossero riscontrabili degli indici rivelatori di una sostanza pubblicistica tale da giustificare l’esclusione dal fallimento e dal concordato preventivo. Tale posizione era particolarmente attiva con riferimento alle citate società in House, che si constatano ad esempio quando si realizza la detenzione della maggioranza del capitale sociale da parte di un ente pubblico o vi è un’influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società imprenditore commerciale. Queste ultime società come già detto rispondono spesso ad una logica di esternalizzazione sotto forma societaria di alcuni aspetti (servizi come i trasporti, pulizia, fornitura di energia o teleriscaldamento,ecc.) dell’attività della pubblica amministrazione, ciò in particolare per conferire uniformità alla disciplina soprattutto dei servizi a rilevanza economica nel cui ambito le società di capitali sono l’unica forma di gestione organizzativa ammessa[9]).

Attraverso il metodo interpretativo cosiddetto “funzionale”, affermatosi anche esso accanto a quello sostanzialistico, invece, si è ritenuto di individuare la disciplina pubblicistica o privatistica applicabile e l’interesse pubblico tutelato, esonerando la società dalle procedure concorsuali se la stessa fosse stata affidataria di un servizio pubblico essenziale, che sarebbe ovviamente stato pregiudicato ed inibito ineludibilmente nel suo perseguimento dalla dichiarazione di fallimento. C’era quindi, prima della riforma, la volontà dichiarata di parte della dottrina di introdurre delle deroghe alla disciplina privatistica anche in materia di crisi d’impresa, sottraendo al fallimento le società la cui esistenza era necessaria per l’ente territoriale, per lo svolgimento di determinati servizi pubblici essenziali destinati al soddisfacimento di bisogni della collettività (un’ipotesi classica era quella del servizio di raccolta dei rifiuti o del servizio di trasporto pubblico [10]). Questa era quindi la situazione non univoca della dottrina prima della legge delega, con una cesura parziale fra giurisprudenza e dottrina.  


1.1. Il T.U. n. 175 del 2016, il suo correttivo d.lgs n. 100 del 2017 e le società a partecipazione pubblica in crisi.

L’incertezza delle soluzioni suggerite, ha indotto il legislatore nel 2015 a elaborare una legge delega la 7 ago. 2015 n. 124 per la redazione di un testo unico in materia di società a partecipazione pubblica che è sfociato nel decreto legislativo 19 agosto 2016 numero 175, il quale ha risolto ex professo molti dei problemi che fino a quel momento si erano presentati, con l’obiettivo dichiarato di razionalizzare il fenomeno della partecipazione pubblica[11]) per consentire una gestione più efficiente e contenere la spesa pubblica.

Benché l’articolo 18 della legge delega avesse previsto la possibilità di introdurre delle deroghe alla disciplina privatistica ordinaria in materia di crisi d’impresa, il legislatore delegato ha invece compiuto una scelta drastica e coerente con i tre scopi della legge già citati, efficienza, tutela della concorrenza e risparmio della spesa pubblica, infatti l’articolo 14 comma uno del decreto legislativo 175 ha disposto l’applicazione a tutte le società a partecipazione pubblica e a controllo pubblico, senza distinzioni di sorta o proporzionalità, delle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo, precisando che, ove ne ricorrano i presupposti dimensionali, le società possono essere sottoposte anche all’amministrazione straordinaria. La scelta è stata complessa anche perché l’ipotesi di partenza resa possibile dal tenore della legge delega era quella di allargare il trattamento previsto per la gestione delle crisi delle società bancarie alle partecipate pubbliche ed era stato proposto inizialmente un testo, poi non approvato, che almeno per le società in House, imponeva un trattamento derogatorio, posto che erano società soggette a cosiddetto controllo analogo[12]) e la deroga avrebbe comportato la sottoposizione a liquidazione coatta amministrativa o ad amministrazione straordinaria, procedure ovviamente di natura amministrativa [13]). Per altro a dimostrare la condivisione del pensiero esposto dal legislatore delegato, la stessa Corte Suprema di Cassazione ha ribadito che le società in House sono soggette a fallimento, nel 2017 [14]) con una pronuncia che da un lato valorizza la circostanza che l’art. 1 della legge fallimentare esclude dal fallimento gli enti pubblici e non le società pubbliche che, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs 175 del 2016 sono soggette a fallimento, concordato preventivo e amministrazione straordinaria, mentre le norme specifiche che regolano la costituzione della società, la partecipazione pubblica al suo capitale e la designazione dei suoi organi non sono idonee a sottrarre la società al suo modo ordinario di agire e porsi sul mercato, che è privatistico. Le norme particolari citate non possono pertanto, secondo la Suprema Corte, incidere ed inibire l’affidamento dei terzi contraenti previsto dal codice civile. Poiché il controllo riguarda di regola il complesso dei rapporti fra la società e l’ente locale o lo Stato che in essa partecipa e non i suoi rapporti con i terzi ed il mercato e le responsabilità che da essi sorgono, la circostanza che i soggetti siano iscritti al registro delle imprese induce l’aspettativa che ad essi si applichino le norme civili ordinarie. Conseguentemente la Corte ne ha dedotto una maggiore coerenza del sistema se esse vengono ad essere soggette a fallimento.

Ad integrazione della scelta, invero drastica, di sottoporre a fallimento le imprese a partecipazione o controllo pubblico, l’articolo 6 e l’articolo 14 del testo unico hanno previsto, in netto anticipo sui tempi, la necessità di predisporre degli specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale, e dettato delle particolari regole, definite dai primi commentatori di “allerta”, che ricordano la precedente versione del titolo secondo del codice della crisi, hanno imposto, poi, dei divieti di ripianamento delle perdite, ciò in aperta deroga rispetto alle disposizioni del diritto civile comune. Il significato del sinergico porsi di queste disposizioni si rinviene nel giudizio assolutamente negativo che il legislatore ha formulato nei confronti dell’esistenza di società a controllo pubblico in perdita, soprattutto se la stessa si protrae nel tempo, ciò nel duplice intento di mantenere un rapporto corretto di concorrenza con le imprese private e dall’altro di gestire in maniera economica e sana le risorse pubbliche. La perdita strutturale è identificata in una perdita che si protrae, ai sensi dell’art. 14 co. 5 per tre anni consecutivi, ovverosia per tre esercizi in continuità fra loro. Il timore del mantenimento sine die di partecipazioni in società in perdita strutturale inizialmente era fugato dal divieto posto dall’art 14 co. 5 di effettuare, conferimenti, erogare finanziamenti, rilasciare garanzie alle società partecipate e, tra le altre operazioni, attuare aumenti di capitale in favore di tali società. Il decreto correttivo ha ampliato tale divieto sostituendo il termine effettuare con quello più specifico di sottoscrivere, al fine di evitare che i soci enti pubblici sottoscrivessero, come accadeva sovente, il capitale, senza che poi effettivamente il versamento fosse compiuto, cosicchè la società in perdita appariva avere la copertura delle perdite, senza che in realtà avesse le disponibilità finanziarie necessarie in quanto il capitale non veniva versato[15] ).

Soprattutto per le società in House[16]) come si è detto, parte della dottrina aveva ritenuto che l’articolo 14 non si applicasse e quindi l’opzione delle procedure concorsuali ordinarie non fosse adottabile, ma la lettura combinata del primo comma e del sesto comma di tale articolo ha finito per escludere i dubbi iniziali, in quanto l’articolo 14 co. 6, stabilisce che nei cinque anni successivi alla dichiarazione di fallimento di una società a controllo pubblico, titolare di affidamenti diretti, le pubbliche amministrazioni controllanti non possono costituire nuove società né acquisire o mantenere partecipazioni in (altre) società qualora le stesse gestiscano i medesimi servizi di quella dichiarata fallita. Risulta evidente, perciò che la soluzione fallimentare è presunta come una di quelle applicabili. Essa pertanto si applica anche nell’ipotesi di controllo analogo, più sopra descritto, previsto dall’articolo due comma uno decreto legislativo 175 lettera C. Tale controllo può essere esercitato anche da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata in modo analogo dall’amministrazione partecipante. La lettera D prevede lo stesso tipo di controllo analogo ma in forma congiunta quindi nell’ipotesi in cui l’amministrazione eserciti insieme ad altre amministrazioni su una società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Infatti la società in House prevista dal medesimo art. 2 lettera O, è società sottoposta a controllo analogo semplice o congiunto, nella quale il capitale privato partecipa solo ai sensi dell’art. 16 co. 1 ovvero nelle forme prescritte dalla legge che non comportino controllo o potere di veto, né esercizio di una influenza determinante sulla società controllata (attività che svolge istituzionalmente e necessariamente l’ente controllante perché la società possa dirsi In house). La società riceve allora affidamenti diretti di contratti pubblici dalle amministrazioni che esercitano il menzionato controllo analogo. L’80 % del loro fatturato per statuto deve essere relativo ai contratti diretti affidati dagli enti controllanti e il mancato rispetto di tale limite costituisce grave irregolarità ex art. 2409 c.c..

La crisi finanziaria è un pericolo immanente nelle società partecipate o controllate pubbliche, poiché, tra le altre cose, di regola la gestione dell’attività di interesse, affidata dall’ente, ha prezzi che non consentono di perseguire margini economici tali da garantire sempre la economicità della gestione. Proprio per questo è il settore dove il concetto di tempestiva emersione della crisi è stato invocato per primo rendendo, la sua ricerca efficace una prassi obbligatoria per tutti gli organi di gestione ante litteram.  


1.2. I piani speciali di risanamento e di ristrutturazione del T.U.

Il testo unico di riforma della disciplina delle società pubbliche è stato integrato e corretto con il decreto legislativo 16 giugno 2017 numero 100, che ha introdotto una particolare serie di disposizioni che riguardano gli obblighi e i poteri degli organi amministrativi delle società pubbliche al fine di giungere ad una gestione efficiente ed efficace che sia in grado, applicando con diuturna costanza le regole dettate, di intercettare, non appena si manifestino, sintomi di crisi, al fine di farla emergere e cercarne una soluzione celere attraverso l’utilizzo degli strumenti previsti dalla legge. Non vi è dubbio che questa disciplina abbia anticipato in larga misura nel nostro sistema concorsuale l’applicazione degli strumenti di allerta che il titolo secondo del codice della crisi, aveva pensato nella versione di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019 numero 14 attuativo della legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 [17]). Come è noto, oggi, quegli strumenti non entreranno mai in vigore col codice della crisi, né successivamente, come inizialmente previsto nel 2023. Essi sono stati espunti dal testo legislativo n. 83 del giugno 2022 e sostituiti, anche in seguito alla presa d’atto della modifica della situazione economica e finanziaria mondiale attuata a seguito della pandemia da covid 19 e della necessità di individuare degli strumenti estremamente flessibili per farvi fronte, dal complesso degli articoli del decreto legge 118 del 2021, che ha introdotto nel nostro ordinamento la composizione negoziata della crisi recepita, poi, proprio nel titolo II del nuovo CC.II.. Quest’ultima, come noto, è uno strumento dichiaratamente non concorsuale, appositamente ideato per propiziare l’emersione anticipata della crisi e per cercarne la soluzione. Essa si ricollega intimamente alla nuova stesura degli articoli 3 e 4 del codice della crisi che hanno specificato ed imposto una serie di doveri etici sistematici all’imprenditore (e quando lo stesso è gestito in forma collettiva agli amministratori,) volti a declinare i suoi doveri sia prima che la crisi si manifesti, quando l’impresa cioè è in bonis, sia successivamente, mano a mano che la crisi si evidenzia e si aggrava.

Gli assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati, imposti nel 2019 ad ogni tipo di imprenditore, attraverso la modifica dell’articolo 2086 del codice civile e degli articoli ad esso correlati, sono stati prescritti e rimodulati proprio in funzione della rilevazione tempestiva della crisi, al fine di intercettare gli squilibri di carattere patrimoniale, economico-finanziario che, coniugati con le specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività svolta dal debitore, portano ad una crisi che può sfociare addirittura nell’insolvenza. Nella composizione negoziata vi è, come noto, l’obbligo del rilievo della non sostenibilità dei debiti e dell’assenza di prospettive di continuità aziendale per i 12 mesi successivi di attività dell’impresa; gli assetti adeguati che sono uno strumento funzionale a tali rilievi devono consentire, attraverso la creazione di sistemi evoluti di controllo a vari livelli di attività e di penetrazione, di avere i dati necessari per poter seguire la lista di controllo particolareggiata denominata check list che consente di effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento. In connessione con tali obblighi vi sono i doveri specifici “etico-comportamentali “ ispirati sempre dalla buona fede, di illustrare la propria situazione di base in modo completo veritiero e trasparente ai creditori, di assumere tempestivamente le iniziative idonee per una rapida procedura e per non pregiudicare i diritti dei creditori ed infine l’obbligo di gestire il patrimonio o l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori (ovverossia non nel loro esclusivo interesse, aspirazione evidentemente utopica perché non si può ragionevolmente chiedere all’imprenditore di pretermettere completamente i propri interessi privati, ma prevalentemente nel loro interesse che è quello al mantenimento della garanzia generica delle loro obbligazioni che il patrimonio sociale costituisce, con l’incentivo implicito al mantenimento del complesso aziendale funzionante per assicurarne il maggior valore, di regola).

E’ evidente che questa normativa mostra molteplici punti di contatto con gli obblighi che, nell’ambito del decreto legislativo 175 del 2016 poi corretto nel 2017,sono stati posti a carico degli amministratori delle società a controllo pubblico, anzi a meglio esaminare le disposizioni del decreto 175, secondo una tesi, le similitudini si rinvengono non solo negli obblighi imposti agli organi amministrativi, ma in riferimento anche ai divieti imposti dalla riforma ai comportamenti dei soci pubblici che, in realtà con la loro influenza e direzione, determinano il comportamento di queste società in crisi [18]).

Il testo unico ha introdotto nelle società a controllo pubblico degli strumenti di “allerta particolari “che sono funzionali al tempestivo rilevamento della situazione di crisi, benché non vi sia all’interno del testo unico predetto una definizione precisa di crisi, concetto quindi che andava reperito altrove, impingendo probabilmente nella scienza aziendalistica. Si potrebbe ritenere, perciò, che all’entrata in vigore del codice della crisi la definizione specifica possa essere ivi rinvenuta in via analogica, allargandola anche alle società pubbliche. Ciò non perché il codice della crisi sostituisca la normativa speciale prevista per le società pubbliche, perché ciò è da escludere sicuramente, ma esso ha il potere certamente di fornire materiale interpretativo integrativo laddove la norma, che ha una ratio e quindi una finalità analoga largamente sovrapponibile, risulti carente nella sua stesura.

Tra gli strumenti di cui si discute il primo è certamente quello previsto dall’articolo 6 del testo unico che esplica i principi di organizzazione e gestione delle società a controllo pubblico [19]) indicando quattro possibili opzioni che integrano modalità di corretta gestione sociale e nel farlo stabilisce che tali società predispongano degli specifici programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale e ne informino l’assemblea annualmente nell’ambito della relazione sul governo societario di cui al co. 4, che viene pubblicata insieme al bilancio, rendendo così trasparente anche la situazione gestionale di ogni partecipata pubblica. Il programma di valutazione del rischio è in tutta evidenza l’imposizione di un obbligo di considerare e stimare in anticipo le linee di sviluppo del business e degli elementi che lo compongono (costi fissi, costi variabili, investimenti necessari) nonché le potenzialità negative o positive dell’andamento del mercato di riferimento nazionale ed anche internazionale, a seconda dell’ambito di sviluppo dell’attività. È un obbligo di monitoraggio permanente, che incombe sulle imprese pubbliche che, d’altra parte devono dotarsi di idonei strumenti per la previsione e stima del rischio che abbiano delle basi oggettive e condivisibili a livello di tecnica aziendale e perciò forniscano agli uffici interni che realizzano il monitoraggio societario della situazione ed il controllo specifico, gli elementi per suggerire l’approntamento di un piano di risanamento o meno[20] ). Del resto, che il modello dei programmi di valutazione del rischio si innesti in una volontà di controllo costante della situazione, meglio si comprende se si pone mente all’altro contenuto della riforma del 2016, che ha inteso creare una struttura di monitoraggio e verifica sulla attuazione del T.U. citato, la quale esercita di regola poteri ispettivi e di controllo nei confronti di tutte le partecipate pubbliche, che deve anche cercare di diffondere le best practices e controllare l’elenco di tutte le partecipate a livello nazionale, struttura che con il decreto ministeriale 16 maggio 2017 è stata individuata nel Dipartimento del Tesoro, Direzione VIII°[21].

È chiaro che l’imposizione sistematica ogni anno dell’obbligo di redigere i programmi di valutazione del rischio non ha tanto e solo la funzione di informare annualmente i soci di cosa stia succedendo[22]), quanto di fornire un mezzo per intercettare i presupposti per l’adozione di condotte che contrastino la crisi che si stia preparando ed evidenziando. La connessione funzionale è evidente leggendo l’articolo 14 del testo unico che si muove nella logica della necessità di prosecuzione dell’attività di impresa inscindibilmente connessa all’interesse pubblico alla esecuzione di quei servizi e contratti che sono stati affidati alla società controllata. Il co. 2, inserito dal d. lgs. correttivo n. 100 del 2017, stabilisce che se nell’ambito dei menzionati programmi di valutazione emergano uno o più indicatori di crisi aziendale, l’amministratore della società a controllo pubblico adotta (deve adottare), senza indugio, i provvedimenti necessari al fine di prevenire l’aggravamento della crisi, di correggerne gli effetti ed eliminarne le cause, attraverso un idoneo piano di risanamento. Anche qui è evidente l’anticipazione esplicita che, rispetto alla normativa poi contenuta negli articoli 3 e 4 del codice della crisi, il legislatore ha compiuto con riferimento alle sole società partecipate o controllate pubbliche. Vi è una chiara enunciazione compiuta almeno 4 anni prima che il decreto 118 del 2021 vedesse la luce, della logica che sottende ora proprio la composizione negoziata, segno che la novità contenuta in tale istituto, da molti ritenuta dirompente nel nostro ordinamento e determinata dalla eccezionalità pandemica e dalla direttiva 1023 della UE, è stata formulata dal legislatore in continuità con un indirizzo già espresso nel nostro ordinamento nazionale, sviluppandolo e completandolo, rendendolo meglio intelleggibile e concretamente realizzabile. Il legislatore aveva già ipotizzato infatti la necessità di apprestare mezzi di controllo adeguati ed in caso di rilevazione positiva di sintomi di crisi aziendale, di redazione immediata di un piano di risanamento, senza spiegarne tecnicamente i contenuti ma specificandone chiaramente le finalità: fermare l’aggravamento della situazione, correggere gli effetti della stessa ed eliminarne le cause per il futuro. (Finalità che sono rinvenibili anche nella composizione negoziata e che in essa si associano sinergicamente, in uscita dal procedimento, all’utilizzo di molti strumenti giurisdizionali o negoziali o misti, per raggiungere più facilmente il risultato del superamento della situazione di crisi.)  

Il comma 3 dell’art. 14 del T.U. peraltro chiarisce che la mancata adozione dei provvedimenti adeguati rileva ai sensi dell’articolo 2409 del codice civile quale grave irregolarità e quindi consente l’accesso al tribunale delle imprese eventualmente per l’ispezione e financo per la revoca dell’amministratore. Tale affermazione non è stata ripetuta nella composizione negoziata perché nel codice della crisi la necessità di adottare gli assetti adeguati fa parte ormai del DNA degli amministratori e degli organi di gestione, cosicchè appare evidente che da un lato la carenza della diligenza nell’apprestare assetti adeguati dell’amministratore risulta foriera di potenziale responsabilità economica dell’organo e che si applicano tutte le normative di settore, al ricorrere dei requisiti di legge, ivi compreso il 2409 c.c. se occorra per rimuovere chi non si trova in sintonia colla volontà di risanamento assunta dalla compagine sociale.

Nel testo dell’articolo 14 sono indicati quei divieti di comportamento da parte dei soci che indicano la direzione che il legislatore desidera che l’ente pubblico, che controlla la società, segua.

Vi è il divieto infatti di ripianamento delle perdite da parte dell’amministrazione pubblica (anche eventualmente con controllo congiunto) ugualmente se attuato in concomitanza con un aumento di capitale od un trasferimento straordinario di partecipazioni o il rilascio di garanzie, a meno che tale intervento sia accompagnato specificamente da un piano di ristrutturazione aziendale (previsto dal co. 4 del 14) dal quale risulti la sussistenza comprovata di concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte. Si deve trattare di un piano che sia risolutivo delle difficoltà in cui si trova la partecipata perché è la condizione che consente l’eccezione al divieto di compiere quelle operazioni che aumentano l’indebitamento pubblico, situazione che il legislatore col testo unico voleva fortemente contrastare. Tale piano deve essere approvato ai sensi del comma 2 ed eventualmente opera anche in deroga al comma 5 che stabilisce come già detto, che le amministrazioni non possono, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482 ter del codice civile sottoscrivere aumenti di capitale[23], effettuare trasferimenti straordinari, consentire aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate (con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito che sono di regola al di fuori della portata del T.U., ) che abbiano registrato per tre esercizi consecutivi perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali. Tali attività di intervento di sostegno finanziario si deve ritenere che siano possibili solo quando sono previste in un piano di risanamento, approvato dall’autorità di regolazione di settore ove esista, che sia comunicato alla Corte dei Conti con le modalità di cui all’articolo cinque e che contempli il raggiungimento dell’equilibrio finanziario in 3 anni.

Quale è la differenza fra i piani del comma 2 di risanamento e quelli del 4 di ristrutturazione aziendale è incerto, perché il legislatore non ha fornito consapevoli indizi circa l’interpretazione da dare ai termini utilizzati. La soluzione di ritenerli sostanzialmente identici non soddisfa completamente, ad avviso di chi scrive la obiettiva diversità degli effetti riscontrabile ictu oculi, visto che il piano di ristrutturazione permette di derogare tutti i limiti di intervento finanziario che sono la caratteristica principale della riforma attuata colla legge Madia. Non vi è dubbio che entrambi gli strumenti devono essere caratterizzati da flessibilità e indeterminatezza del contenuto, per poter far fronte alle esigenze le più varie, ma come minimo il piano di ristrutturazione deve consistere in un piano dotato di maggiore organicità e completezza, articolato chiaramente in fasi successive volte alla ristrutturazione del business per giungere al riequilibrio aziendale, dotato di una attendibilità e certezza in qualche modo effettivamente riscontrabile, visto che deve riuscire a concludersi, verosimilmente in tre anni nella sua forma speciale rivolta alle società in perdita sistematica. Una sorta di specie più complessa ed esaustiva nel più ampio genere del piano di risanamento generico[24]).    


1.3. Il possibile rapporto fra i piani del T.U. S.P. e gli istituti del CC.II. (La composizione negoziata ed i piani attestati o fondanti l’accordo di ristrutturazione).

La estrema genericità delle definizioni e dei contenuti consente di accostare i piani sino ad or esaminati ad alcuni degli strumenti con i quali si può chiudere, ora, anche la composizione negoziata per le imprese ordinarie o può essere affrontata la crisi in generale nel CC.II. Basta ricordare qui che gli strumenti per superare la crisi in uscita dalla composizione negoziata possono essere negoziali, come il contratto di cui al 23 comma 1 lettera a sottoscritto dal debitore e dai creditori (anche alcuni soltanto ) che deve essere implementato dalla relazione dell’esperto che sostiene la sua idoneità ad assicurare la continuità aziendale per almeno due anni, come la convenzione di moratoria di cui si è già accennato e come un accordo che ha gli stessi effetti del 166 lettera d e del 324, cioè salva i pagamenti effettuati e le garanzie concesse su beni del debitore in esecuzione del piano attestato di cui al 56 o 57 CC.II. Nessuna di queste soluzioni è astrattamente incompatibile colla soluzione della crisi più o meno grave della società a partecipazione o controllo pubblico, potendo ben rifluire nel piano di risanamento o di ristrutturazione speciale.

Poichè la finalità delle imprese pubbliche è quella di continuare a erogare il servizio affidato dall’ente pubblico, se vi è pericolo nella salvaguardia della continuità della prestazione del servizio di pubblico interesse (pericolo che può essere di sicurezza pubblica, di ordine pubblico o relativo alla sanità), su richiesta dell’amministrazione interessata può essere adottato, su proposta del ministro dell’economia con decreto del presidente del consiglio, un intervento di cui al primo periodo del primo comma. Ovvero si può procedere a sottoscrivere aumenti di capitale o effettuare trasferimenti straordinari o aperture di credito o rilasciare garanzie anche se si è in presenza di soggetti che da tre anni registrano risultati negativi e perdite di esercizio. Tutto ciò deve essere contenuto e reso condivisibile e comprensibile da un piano di ristrutturazione speciale appunto, senza il quale non è legittimo, piano che deve concludersi in tre anni, con il raggiungimento non solo dell’equilibrio finanziario, ma anche di quello economico, senza il quale il primo sarebbe incapace di determinare l’uscita dalla crisi. Si tratta in tutta evidenza di una eccezione particolarmente difficile da integrare data la gravità degli interessi che devono essere posti in pericolo e la loro tassatività e che legittima, ancora una volta solo l’intervento finanziario del socio pubblico.

La singolarità della serie di disposizioni appena citate sta nel fatto che non solo nella legge non è indicato cosa voglia dire crisi, ma non sono nemmeno identificati i cosiddetti indicatori di crisi aziendale al cui riscontro corrisponde l’attivarsi dell’obbligo di redigere il piano di risanamento, tanto che la crisi potrebbe mutuarsi ora, integrativamente, come definizione dallo stesso CC.II, art. 2 comma 1 lettera a), come stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi, e gli indicatori di crisi possono essere semplicemente ricavabili dalla prassi e dalle best practices dei dottori commercialisti, intendendosi così quegli indici di bilancio che usualmente sono adottati per la disamina ed analisi dei bilanci e del loro andamento. Di regola i principali individuati dalla prassi sono sette, 1) l’esistenza di un patrimonio netto negativo o molto ridotto, (che incide direttamente sulla possibilità di continuità aziendale perché in caso di negatività obbliga allo scioglimento ), 2) il debt service cover ratio, ovvero il rapporto nei successivi sei mesi tra le entrate liquide e le uscite liquide, 3) l’indice di sostenibilità degli oneri finanziari, ovvero il rapporto tra gli oneri finanziari previsti ed i flussi di cassa previsti, 4) l’indice di ritorno liquido dell’attivo, ovvero il rapporto fra il cash flow ed il totale dell’attivo dello stato patrimoniale, 5) l’indice di adeguatezza patrimoniale, ovvero il rapporto fra patrimonio netto e totale dei debiti,6) l’indice di liquidità, ovvero il rapporto fra attivo a breve e passivo a breve e 7) l’indice di indebitamento previdenziale e tributario, ovvero il rapporto fra l’indebitamento previdenziale e tributario ed il totale attivo netto.

Sembra quindi chiaro che, in presenza di indici di crisi, che potrebbero essere ora individuati materialmente attraverso la strumentazione fornita all’imprenditore nella composizione negoziata della crisi, per esaminare le prospettive di concreta possibilità di risanamento, si deve attivare l’amministratore della partecipata o controllata pubblica. Si auspica qui anche la possibilità di utilizzare più propriamente la check list, l’analisi di sostenibilità del debito nei successivi 12 mesi, l’esecuzione del test pratico (non sembrando in astratto che l’utilizzo di tali strumenti debba essere esclusa dalla specialità della situazione in cui operano le imprese a controllo pubblico, trattandosi di strumenti individuati e costruiti per il perseguimento del medesimo fine cui è teso il programma di valutazione del rischio e caratterizzati dalla riservatezza del mezzo). Ciò che impedirebbe l’utilizzo sarebbe il condizionare l’utilizzo di tali strumenti alla presentazione formale “ogni anno” della richiesta di composizione negoziata, circostanza che sarebbe in ogni caso impedita dalla legge. Pertanto sarebbe estremamente utile il consentire specificamente l’utilizzo “libero”, a fini di prevenzione, ogni anno degli strumenti che la composizione negoziata ha ideato e messo a disposizione di chi voglia meglio ricercare o comprendere le ragioni di crisi della sua attività economica. In altre parole consentire l’utilizzo dei software specifici approntati dalla commissione che ha redatto le disposizioni sulla composizione negoziata ed indicati ed illustrati nel decreto dirigenziale e del protocollo accluso. Tale tema esula dalla soluzione del quesito se la logica particolare della disposizione del testo unico imponga o meno di considerare le imprese sottoposte a controllo pubblico non sottoponibili direttamente a composizione negoziata, essendo già previsto dalla legge speciale un mezzo tipico per intercettare e far emergere la crisi prima dell’accesso a qualsiasi procedura concorsuale, rinvenibile nel programma di valutazione del rischio annuale cui deve seguire l’adozione di un piano di risanamento o di ristrutturazione semplice o speciale. Indipendentemente da come si risolva tale interrogativo si deve considerare che i mezzi di ricerca forniti dal T.U del 2016 sono in parte situati ancora più a monte della composizione negoziata, essendo mezzi ordinari, periodici, obbligatori di indagine sugli eventuali sintomi di crisi, che possono sfociare in piani che di regola non sono configurati specificamente per coinvolgere i terzi, pur non dovendosi o potendosi escludere tale necessità.

Pur ritenendo che la normativa del CC.II. possa essere interpretativamente utilizzata a completamento di quella del Testo Unico, per riempire le molte lacune che la normativa pregressa presenta, non risulta condivisibile completamente la tesi di quella parte di dottrina che ritiene che le società pubbliche possono essere sottoposte a tutta la normativa del CC.II ed a tutta la normativa speciale di settore,[25] ). Sembra più aderente alla voluntas legis ed ad un risultato coerente sistematicamente colla singolarità di queste imprese che, ogni volta, si valutati la situazione, individuando la compatibilità o meno della normativa del CC.II., che è bene ricordare non ha abrogato le disposizioni delle imprese pubbliche, che restano speciali e perciò in definitiva prevalenti, rispetto a quelle del CC.II. e che si devono esaminare soprattutto alla luce della particolare esigenza di continuazione del servizio affidato che ha l’impresa a partecipazione o controllo pubblico. Quindi la composizione negoziata ad avviso di chi scrive dovrebbe essere ammessa se relativa ad una crisi sistematica generalizzata dell’impresa, non risolubile solo con l’apporto del socio pubblico e se subordinata ad una soluzione di continuità.

Se il “programma di valutazione del rischio” è in sé uno strumento di indagine neutro, occorre chiedersi a cosa servano e cosa siano il piano di risanamento del comma 2 ed il piano di ristrutturazione aziendale di cui al comma 4 dell’art. 14., se sono dei mezzi di intervento diversi tra loro e che tipo di relazione possono avere col piano attestato ex art. 56 o con l’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui al 57 CC.II.

Va condivisa certamente l’opinione di chi ritiene che il modello descritto consista in una prescrizione di metodo rivolta agli amministratori delle partecipate e controllate pubbliche, tesa in generale ad evitare interventi continui, improvvisati e non coerentemente organizzati. Non per niente lo scopo della riforma del testo unico era la razionalizzazione della gestione del settore e la riduzione della spesa, per cui si è alzata l’asticella dei controlli imposti agli amministratori, per giungere ad una individuazione di indicatori di crisi molto anticipata, probabilmente come si è detto, persino più a monte dell’attuale composizione negoziata, se possibile[26]).

La indeterminatezza contenutistica e la “neutralità” del T.U sulle imprese pubbliche, in merito agli strumenti di contrasto alla crisi, sono sicuramente tese a permettere la massima flessibilità di “riempimento” di questi “contenitori”, in quanto da calibrare sulla natura e dimensione dell’attività e sulle difficoltà rilevate nel caso concreto ed induce a ritenere che il piano di risanamento di cui al comma 2 dell’art. 14, sia un piano avente come scopo la rimozione delle ragioni di crisi ed il recupero dell’equilibrio economico e finanziario. Il suo contenuto specifico può essere mutuato ispirandosi alle fattispecie ed esperienze in cui si è applicato il piano attestato di cui al 56 CC.II., che è lo strumento più affine rinvenibile nell’ordinamento e pure la forma scritta che lo caratterizza non pare incompatibile, ma anzi necessaria ed indispensabile. Non vi è invece alcun obbligo di pubblicità per ottenere determinati effetti, come avviene invece per i vantaggi tributari del piano attestato, e probabilmente la sua riservatezza ben si associa alle esigenze delle imprese pubbliche in difficoltà.

Il piano di ristrutturazione citato nel 4 comma deve essere un atto nel quale, oltre a dimostrarsi le comprovate possibilità di recupero dell’equilibrio economico delle attività svolte, vi è la necessità di intervenire per ristrutturare l’azienda. Sembrerebbe, quindi, contenutisticamente diverso e più complesso di quello di risanamento, dovrebbe operare sull’organizzazione del lavoro, la struttura del business, pur nella continuità dell’attività di servizio pubblico affidata. Ma esso è sempre redatto ed approvato da parte dell’organo ammnistrativo, e proceduralmente non si distingue dalla ipotesi più semplice, di cui appare forse solo una versione più approfondita e complessa. Quindi non vi è certezza che la differente locuzione utilizzata dal legislatore, senza alcuna specificazione in più, indichi una differenza strutturale e di natura tra i due atti [27]) e non solo una differenza contenutistica legata alla diversità e maggiore difficoltà della situazione di base e degli effetti che può produrre il secondo.

Il terzo tipo di piano previsto dalla legge speciale riguarda il piano di risanamento che sia stato approvato dalla Autorità di settore se esistente e che sia stato comunicato alla competente sede regionale della Corte dei Conti [28]), il cui ambito di controllo oltre che meramente contabile potrebbe comportare anche una disamina delle capacità potenziali effettive del piano di ottenere il riequilibrio auspicato, il quale deve prevedere il raggiungimento del riequilibrio finanziario entro tre anni. Tale disposizione viene comunemente accomunata al divieto di effettuare conferimenti, erogare finanziamenti, e rilasciare garanzie in favore delle società partecipate che operino strutturalmente in perdita (cioè con tre anni di bilanci in perdita consecutivi) definite anche partecipate in stato di crisi qualificato. Proprio qui si è realizzata una modifica del correttivo d. lgs. 100 del 2017 che ha indicato e meglio specificato il divieto di “effettuare” aumenti di capitale utilizzando ora l’espressione tecnica “sottoscrivere” aumenti di capitale. Ciò ha reso inutili quelle condotte mediante le quali il capitale era sottoscritto dal socio pubblico che, poi, non provvedeva al versamento a causa del divieto, mantenendo però viva l’aspettativa dei terzi in ordine alla sottoscrizione ed all’imminente versamento. In questo caso i trasferimenti straordinari per il salvataggio dell’azienda si potranno effettuare solo se contenuti nel piano speciale di ristrutturazione teso al riequilibrio e risanamento.

Il procedimento e il piano previsto dal d. lgs 175 del 2016, rispetto a quello del piano attestato del CC-II si presenta, nella sua esile conformazione, del tutto speciale rispetto a quello formale del codice della crisi. Nella sua singolarità esso dovrebbe prevalere quale mezzo tipico per risanare la società sottoposta a controllo pubblico. In altre parole si tratta di uno strumento che viene adottato sulla sola iniziativa dell’organo gestorio e non deve necessariamente essere attestato da un professionista (non essendo previsto). Se ne deve dedurre che non si ha, in questo caso, nemmeno la certezza della veridicità dei dati contabili di partenza, la c.d. spalla di piano. Di contro, però vi deve necessariamente essere una continuità senza soluzioni fra le notizie finanziarie ed economiche di base che, insieme al bilancio ogni anno, devono essere presentate all’assemblea ed inserite nella relazione sul governo societario che viene resa pubblica erga omnes pubblicandola nel registro delle imprese col bilancio stesso. In sostanza si tratta di una ipotesi di ridotta intelligibilità del piano per i terzi, privi di uno strumento di disamina “imparziale ed esterna” della soluzione prospettata, ma va ricordato che esso non è rivolto istituzionalmente ad essi, intesi come tutti i creditori dell’imprenditore, per conquistarne la collaborazione come avviene in presenza della crisi ordinaria o in ambito concorsuale, ma più probabilmente è teso solo a informare e rassicurare l’ente pubblico che controlla la società e che ha affidato il servizio pubblico alla stessa, servizio che resta la sua attività principale, tanto che da esso deve ricavare almeno l’80 % del fatturato.

La differenza maggiore individuabile tra le due tipologie di piano (quello speciale del T.U. e quello del CC.II. ), sta nella incapacità del modello contenuto nel testo unico sulle società pubbliche di aprire il c.d. ombrello protettivo nei confronti delle revocatorie e delle condotte astrattamente idonee ad essere sussunte nel reato di bancarotta[29], situazione che certamente rende infinitamente meno appetibile la soluzione speciale rispetto a quella ordinaria, quando la stessa per la complessità della fattispecie (id est per la gravità della crisi )deve rivolgersi anche ai terzi.

Di contro la redazione dei piani di risanamento o di ristrutturazione speciali consente di legittimare degli interventi finanziari dei soci enti pubblici anche di ripianamento delle perdite che, in presenza di indicatori di crisi e senza redazione del piano sono invece illegittimi e ciò non solo per le imprese soggette a controllo pubblico, ma anche per le semplici partecipate. Come si è visto in precedenza la riforma tendeva a razionalizzare il settore ed a perseguire il risparmio, per questo sono stati assunti dei limiti di copertura delle perdite e di sostegno finanziario esterno che non possono intervenire ad libitum., come invece in passato purtroppo accadeva, soprattutto per le controllate degli enti pubblici territoriali.

In base a questa prima elementare disamina emerge che i piani speciali hanno un fine specifico (ricreare le condizioni per la fiducia del socio pubblico riportando l’equilibrio nell’attività imprenditoriale) ed una portata operativa limitata (legittimante per lo più gli interventi di sostegno economico finanziario del socio), per questo potrebbe essere ragionevole implementarne i contenuti e gli effetti combinandoli con i piani attestati del 56, (o con i piani posti a base dell’accordo di ristrutturazione a determinate condizioni di salvaguardia dei soci e dei loro apporti), al fine di allargarne gli effetti anche ai terzi ed ottenere così la collaborazione di altri soggetti utili per il superamento della crisi, al di là dell’ente controllante o partecipante. Quindi, in presenza di una crisi intensa che può risolversi solo con la concomitante rimessione dei debiti di terzi o la ristrutturazione dei debiti nei loro confronti (oltre che con il finanziamento del socio pubblico) si può ipotizzare l’ammissibilità di un piano attestato che dà maggiori garanzie, in quanto appunto attestato da un tecnico esterno ed imparziale, che consente di aprire l’ombrello protettivo (il quale favorisce poi in definitiva anche i versamenti (finanziamenti ) del socio pubblico, proteggendoli da revocatoria ad esempio). Naturalmente deve essere un piano di continuità, perché questa è l’ineludibile esigenza delle procedure che coinvolgano le controllate o partecipate pubbliche. Se così non fosse, bisognerebbe affermare che la crisi più grave può essere affrontata solo con un D.P. C.M. (decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), adottato su proposta del MEF al fine di salvaguardare la continuità aziendale che è vassalla al perseguimento dell’interesse pubblico che la società realizza. Tutto ciò dovrebbe concepirsi nell’ambito della “gestione amministrativa” favorendo un approccio c.d. funzionale nel dissesto delle società pubbliche. Pare, però, che la scelta di base di riconduzione ad unità del trattamento concorsuale delle società a partecipazione pubblica effettuata dalla riforma del 2016 completata nel 2017, deponga per la necessità di valutare bene la compatibilità di una soluzione come da ultimo ipotizzata. Risulta di difficile comprensione ed anche attuazione, un sistema a doppio binario, in cui il dissesto sia gestito in sede amministrativa se si opera nell’ambito dei piani dell’art. 56 e 57 CC.II. ed invece sia legittimamente gestito in sede giurisdizionale nell’ambito della normativa concorsuale, se si agisce nel concordato, nella liquidazione giudiziale e nell’amministrazione straordinaria. E’ una scelta di difficile comprensione, in presenza dell’intento di unificazione e razionalizzazione degli interventi e di ricerca di passaggi fluidi da una situazione di crisi all’altra che la direttiva Europea ha ormai inserito nella legislazione italiana e che la legge n. 83 del giugno 2022 ha fatto propria.  


1.4. La sottoposizione delle società pubbliche a concordato preventivo, fallimento ed amministrazione straordinaria ex art. 14 del d.lgs 175 del 2016. Cenni.

La scelta effettuata dalla riforma del 2016 e confermata dal correttivo del 2017, ha riconosciuto che la natura del socio partecipante non influisce sul regime concorsuale della partecipata che è e resta una impresa privata ai sensi del codice civile. Conseguentemente l’accesso al concordato preventivo, che non realizza uno spossessamento completo del debitore e ora persegue in principalità la continuità aziendale, essendo quello liquidatorio divenuto residuale e non incentivato dalle disposizioni legislative sul piano economico, sembra una scelta coerente. Tale strumento, infatti, dovrebbe per le sue caratteristiche consentire di perseguire l’interesse pubblico che è alla base del servizio pubblico essenziale e nel contempo può essere costruito tutelando anche gli interessi dei creditori ed il loro potenziale soddisfacimento. Lo strumento chiave è la suddivisione in classi, obbligatoria nel concordato preventivo in continuità e la possibilità di applicazione delle regole della ristrutturazione trasversale, che consente la distribuzione del patrimonio prodotto dalla ristrutturazione (cioè di quello diverso da quello di liquidazione) omettendo il pedissequo rispetto della absolute priority rule e creando modalità diverse di partecipazione alla strategia di superamento del dissesto. La completamente rinnovata considerazione dei soci nella legge riformata consente di prevedere per il socio pubblico comunque una recovery consistente ed ove si volesse ipotizzare comunque una costruzione strategica che lo voglia favorire in modo diretto e intenso, si deve ritenere perseguibile anche la possibilità di specifici patti paraconcordatari se dichiarati e noti a tutti i creditori (e quindi leciti).

Per meglio consentire la prosecuzione del servizio la legge ha posto anche l’art. 110 del codice dei contratti pubblici che permette alla società che sia ammessa ad un concordato in continuità di partecipare alle procedure di affidamento di concessioni ed appalti di lavori, forniture e servizi e di continuare la esecuzione di contratti già conclusi ma non ancora compiutamente eseguiti (senza necessità per di più di avvalimento di terzi).

La rimeditazione del concordato in continuità dopo il recepimento della direttiva 1023 UE, fa si che ad esso si applichi la regola in sede di ammissibilità ed omologazione della non deterrenza della soluzione proposta rispetto a quella liquidatoria giudiziale e che anche i complessi calcoli del 109 co. 5 per individuare le maggioranze in caso di suddivisione in classi trovino ospitalità. Di particolare interesse come si è detto è poi la serie di disposizioni che tutelano anche la recovery dei soci, posto che in questo caso i soci sono gli enti pubblici che affidano il servizio alla società e che vedono tutelati dalla prededucibilità anche i loro interventi di finanziamento a sostegno della uscita dalla crisi, circostanza che si trova in sintonia con l’intento di razionalizzazione degli interventi stessi e la volontà di riduzione della spesa pubblica che era alla base della riforma Madia.

La sottoposizione a fallimento, ovvero a liquidazione giudiziale è anche essa concretamente compatibile con la possibilità di prosecuzione dell’attività aziendale al momento dell’apertura della procedura previsto dal 211 del CCII e la ulteriore possibilità di esercizio provvisorio nel suo sviluppo su autorizzazione del giudice delegato, previsto dal comma 3 del medesimo articolo. È chiaro che la conduzione della procedura deve essere organizzata in modo da non danneggiare eccessivamente gli interessi privatistici dei creditori a causa della volontà ineludibile di assicurare la continuità di un servizio pubblico essenziale che crea non deve essere soggetto ad interruzione. In realtà il punto nodale è in questo caso il trovare l’equilibrio che consente la coesistenza tra gli interessi suddescritti evitandone la confliggenza. Vi deve essere l’esclusione di regola della cessazione dell’attività imprenditoriale immediata sic et simpliciter, ma non potendo essa durare in eterno per gli effetti di consumazione del patrimonio che alla continuità pura in perdita si ricollegano, si devono necessariamente ricercare soluzioni ad esempio di alienazione, preceduta eventualmente da affitto, che consentano il trasferimento dell’esercizio del servizio ad un soggetto affidabile che abbia i requisiti imposti dalla legge e dalla prudenza gestionale per esercitarlo. In questo caso la collaborazione positiva con il socio pubblico è da ritenersi ineliminabile, visto che senza il suo assenso il soggetto non potrebbe essere scelto, e probabilmente nemmeno i beni utilizzati dalla partecipata venduti, perché potrebbero essere anche essi essere stati affidati e non essere pertanto in proprietà[30]. In ogni caso poi si deve ricordare che, ove non si riuscisse nella tempestiva individuazione di una soluzione soddisfacente, pur in caso di pericolo per la sicurezza, l’ordine pubblico e/o la sanità non sarebbe in ogni caso utilizzabile l’ausilio eccezionale previsto dall’art. 14 comma 5 del testo unico. Tale strumento, di cui si è in precedenza parlato è concettualmente applicabile prima della apertura del fallimento, essendo teso a rimuovere i divieti di finanziamento- apporto del socio pubblico, ma non si giustifica dopo, quando il problema deve essere risolto colla appropriata gestione della procedura che deve avere in sè, ove il mercato concretamente lo permetta, le potenzialità per assicurare una soluzione compatibile con l’interesse pubblico stante anche l’appetibilità degli effetti dell’art. 110 del codice degli appalti sul mercato.

Un ultimo cenno merita la sottoponibilità, in presenza dei requisiti dimensionali legali, alla amministrazione straordinaria delle partecipate o controllate pubbliche. Quest’ultima è la procedura concorsuale che ha più punti di contatto colla realtà ideale in cui si muovono le partecipate pubbliche, l’applicazione è sancita dall’art. 14 e ben si comprende perché è deputata a difendere, con alterni e non particolarmente brillanti risultati, degli interessi pubblici, come la tutela di settori dell’economia e della produttività e la protezione dell’occupazione, con un atteggiamento recessivo nei confronti della tradizionale tutela dei creditori che è il nucleo fondante delle altre procedure concorsuale. La bifasicità della procedura di c.d Prodi bis in cui alla prima fase giudiziale, in cui si accerta la sussistenza delle prospettive di risanamento, segue una fase amministrativa, in cui l’impresa è gestita per questo scopo dichiarato da un commissario straordinario, seguendo un programma predisposto dallo stesso ed approvato dall’autorità amministrativa sorveglianza, con il parere del comitato di sorveglianza, programma che può essere di ristrutturazione o liquidatorio (ma sempre con azienda funzionante) si presta a perseguire anche l’interesse pubblico alla continuazione del servizio essenziale affidato alla società in crisi. Quindi non si rinvengono seri ostacoli concettuali alla applicazione piena della procedura. Nell’ambito della c.d. legge Marzano, ovvero della legge 39 del 2004, la necessità di perseguire l’interesse pubblico particolare va essere risolta solo su base amministrativa, poiché la legge è un esempio lampante di degiurisdizionalizzazione della materia concorsuale sulla convinzione che la gestione affidata ai poteri dell’esecutivo sia più celere ed efficiente. (convinzione non pacifica purtroppo sulla base dei riscontri pratici). Il ministero della Sviluppo economico ha finito per creare un ambiente protetto nel quale coltivare i tentativi di salvataggio (e non di risanamento) di grandi realtà economiche importanti per il Paese. Questo fa sì che sia la procedura ideale per sostenere l’esigenza di continuazione del servizio pubblico, ma difficilmente possa assicurare una qualche recovery consistente sia al socio pubblico (che in quanto tale è deputato alla sostanziale perdita di tutto l’investimento pregresso non essendo proprio ipotizzabile in concreto che vi sia recupero per i crediti chirografari ed a maggiore ragione per quelli che sono al di sotto di questi perché postergati) sia agli altri creditori, spesso anche se privilegiati od addirittura prededucibili.    


[1]) Si veda il dossier: Ricognizione degli assetti organizzativi delle principali società a partecipazione pubblica del Servizio per il controllo parlamentare. Camera dei deputati servizio studi, XVIII legislatura.

[2]) In tal senso; di M.V. FERRONI, Le procedure concorsuali del testo unico delle società a partecipazione pubblica, NOMOS, 2-2020.

[3]) Così definite per la prima volta dalla nota sentenza della Corte di Giustizia Europea c.d. Teckal del 18 novembre 1999, causa C-107/98.

[4]) Cfr. Cass. Sez. Un. 5 nov. 2013 n. 26283.

[5]) cfr. Cass. 10 gen. 1979 n. 58 in Il Fall., 1979, 593, che si occupava di una società per azioni concessionaria dello Stato per la costruzione e l'esercizio di un'autostrada, affermando che la stessa non perde la propria qualità di soggetto privato e quindi, se ne sussistono i presupposti può essere sottoposto ad amministrazione controllata, anche se degli enti pubblici sono suoi azionisti ed anche se il rapporto giuridico instaurato con gli utenti dell'autostrada sia configurato dal legislatore in termini pubblicisti come ammissione al godimento di un pubblico servizio. Successivamente Cass. 6 dic. 2012 n. 21991, ivi, 2013, 1273, con nota di Balestra che indagava i profili di inammissibilità di un concordato proposto da una società partecipata pubblica. In dottrina si veda R. RORDORF, Le società partecipata tra pubblico e privato, in Le società, 2000, 13.326; G. D’ATTORRE, la fallibilità delle società in mano pubblica, in il Fall., 2014 493 ed L. SALVATO, I requisiti di ammissione delle società pubbliche alle procedure concorsuali, in Dir. Fall., 2010, I, 603.

[6]) In tal senso lo scritto di D’ATTORRE, op. ul. Cit., 494.

[7]) In base alla ritenuta “neutralità delle forme” si è interrotto concettualmente, seppure non in modo completo, il nesso logico diretto che legava l'assunzione della forma societaria all'applicazione integrale del regime di diritto comune, sillogismo che era il perno irrinunciabile dell'impostazione tradizionale summenzionata. cfr. E. SCIARRA, Le società pubbliche e le crisi d'impresa: caratteri, limiti e incertezze di una riforma provvisoria, in www.federalismi.it, 16 novembre 2018,8.

[8]) Il c.d metodo tipologico pubblicistico, rappresentato in giurisprudenza da Trib. Santa Maria Capua Vetere 9 gen. 2009 in Il Fall., 2009, 713 con nota di G. D’ATTORRE, Le società in mano pubblica possono fallire?.

[9]) Cfr. F. GUERRERA, La società di capitali come formula organizzativa dei servizi pubblici locali dopo la riforma del diritto societario, in Società, 2005, 681.

[10]) In tal senso MV FERRONI, Le procedure…, 5.

[11]) La razionalizzazione delle società partecipate è oggetto degli articoli 20 e 24 del testo unico ed è riconnessa alla volontà di ridurre il numero delle partecipate espressa anche attraverso la precisazione contenuta nell'articolo quattro delle finalità perseguibili mediante l'acquisizione e la gestione di partecipazioni pubbliche e la necessità indicata all'articolo cinque degli obblighi di motivazione analitica per la costituzione della società o l'acquisto di una partecipazione, anche attraverso il solo aumento del capitale.

[12]) Si veda sul punto la ricostruzione proposta da M.V. FERRONI, op. ul. Cit., par. 3 e nota 20. In ordine al concetto di controllo analogo la stessa richiama in nota proprio lo scritto di E. CODAZZI, L'assetto organizzativo delle società sottoposte a controllo analogo: alcune considerazioni sul in house providing tra specialità della disciplina e proporzionalità delle deroghe, in il diritto dell'economia, 2-2019,127. Il controllo analogo è disegnato dall’art 2 della riforma e si sostanzia in un controllo sulla partecipata “analogo “a quello che la società esercita sui propri servizi, esercitando quindi una influenza determinante sulla scelta degli obiettivi strategici e e sulle principali decisioni fondanti la gestione della controllata.

[13]) Riferisce M.V. FERRONI, op. ul. Cit.7, che anche il parere sulla legge delegata del Consiglio di Stato aveva suggerito, quantomeno per le società a controllo pubblico e per le in House un trattamento diversificato e pure il parere della commissione bilanci della Camera dei deputati lo aveva ribadito, chiedendo un sistema di gestione della crisi diverso dalla applicazione integrale delle disposizioni concorsuali.

[14]) cfr. Cass. 7 feb. 2017 n. 3196 in www.dejure.it, ed in Giur. civile, 2018, 11.

[15]) Cfr. l’opinione di A, MANETTI, Cosa cambia dopo l’entrata in vigore del decreto correttivo del testo unico delle società a partecipazione pubblica (D,lgs. 100/2017)?, www.promopa.it.

[16]) Così C. ANGELICI, Tipicità e specialità delle società pubbliche in AA.VV. Le nuove società partecipate in house providing, Milano, 2017, 15.

[17]) L’enunciazione è di G, D’ATTORRE, Piani di risanamento e di ristrutturazione nelle società pubbliche. in Il Fall. 2018,

[18]) è di G. D’ATTORRE, Piani di risanamento …, in Il Fall., 2018, dello stesso autore si veda anche G. D’ATTORRE La governance delle società pubbliche, in Giur. Com. 2020, 262 e ss.

[19]) Ad implicita integrazione del dovere di adottare degli assetti adeguati per la gestione dell'impresa e la tempestiva rilevazione della crisi, dovere che come si è visto ora hanno tutti gli amministratori e gestori di società o imprese, per le società a controllo pubblico è stabilita la necessità di valutare l'opportunità di integrare, in considerazione delle dimensioni e delle caratteristiche organizzative, nonché dell'attività svolta, gli strumenti di governo societario con quattro possibili opzioni. La prima riguarda la possibilità di stabilire dei regolamenti interni volti a garantire la conformità dell'attività della società alle norme di tutela della concorrenza, comprese quelle in materia di concorrenza sleale, nonché alle norme di tutela della proprietà industriale o intellettuale. La seconda riguarda la possibilità di costituire un ufficio di controllo interno, strutturato secondo criteri di adeguatezza rispetto alle dimensioni e alla complessità dell'impresa sociale, che collabori con l'organo di controllo statutario, riscontrando tempestivamente le richieste da questo provenienti e trasmettendo periodicamente all'organo di controllo statutario delle relazioni sulla regolarità e l'efficienza della gestione. La terza ipotesi possibile è quella di dotarsi di codici di condotta propri o di aderire a codici di condotta collettivi aventi ad oggetto la disciplina dei comportamenti imprenditoriali nei confronti dei consumatori, degli utenti, dei dipendenti e dei collaboratori nonché verso altri portatori di legittimi interessi coinvolti nell'attività della società. La quarta opzione è quella di adottare dei programmi di responsabilità sociale dell'impresa, in conformità alle raccomandazioni della commissione dell'Unione Europea.

[20]) Hanno ipotizzato efficacemente i contenuti del programma di valutazione del rischio di crisi aziendale R. TISCINI, P. LISI, Il programma di valutazione del rischio di crisi quale strumento di analisi e salvaguardia dell’equilibrio economico-finanziario delle società a controllo pubblico, in F. FIMMANO’, A. CATRICALA’ a cura di, in Le Società pubbliche, Napoli, 2016, 793.

[21]) All’interno della Direzione ottava citata è stata poi costituita una struttura di indirizzo e monitoraggio che realizza dei rapporti sui risultati applicativi dell’art 24 del T.U. relativo alla Revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche. Da essi emerge ad esempio che la riforma non ha ottenuto nel breve periodo il raggiungimento del suo obiettivo che era quello di rendere conformi al modello del TU le partecipate pubbliche esistenti (32,.427 all’epoca del rapporto) in quanto il 46 % di esse pur difformi sono state mantenute tali dalle amministrazioni pubbliche partecipanti senza attuare alcuna razionalizzazione. Anche le procedure di alienazione e di recesso comunicate dagli enti partecipanti sono andate a buon fine solo per il 18 %.

[22]) Anche questa finalità è certamente esistente perché i soci sono gli enti pubblici e territoriali che affidano in gestione i servizi e devono essere resi edotti delle prospettive del loro investimento proprio nell’ottica di riduzione e “sanificazione” della spesa pubblica.

[23]) Non è dubbio che vi sia una incongruenza tra il divieto dell’art. 14 e la salvezza “pura” delle condotte previste dagli artt. 2447 e 2482 ter cc., cioè delle ipotesi di riduzione obbligatoria del capitale per perdite che hanno eroso il capitale minimo di legge. In tali casi soprattutto di fronte ad un patrimonio netto contabile negativo si deve ritenere interpretativamente che la ricapitalizzazione debba essere ritenuta possibile solo se connessa ad un piano ben strutturato di riequilibrio della situazione aziendale, in tal senso si esamini G. D’ATTORRE, Piani di risanamento e di ristrutturazione nelle società pubbliche, www.// altalex.com/documents/ news 2018/10/24.

[24]) Per la soluzione differenziata G.GUIZZI, M. ROSSI, La crisi di società a partecipazione pubblica in La governance delle società pubbliche nel d.lgs. n. 175 /2016 a cura di G. GUIZZI, 271 e ss., Milano, 2017, per la soluzione unitaria con identità sostanziale di contenuti vedi G. D’ATTORRE, I piani … op. ul. cit., 8.

[25]) Cfr. G. D’ATTORRE, Piani …., op. ul. Cit. 7, il quale afferma che tra le due discipline non sussiste incompatibilità ma possibilità di reciproca integrazione, con conseguente assoggettamento degli organi sociali agli obblighi ed ai vincoli imposti tanto da una quanto dall’altra normativa.

[26]) Cfr. G. GUIZZI, M. ROSSI, La crisi di società a partecipazione pubblica, in G. Guizzi, (a cura di) La Governance delle società pubbliche nel d.lgs. n. 175 /2016, Milano, 2017, 295 e ss.

[27]) In tal senso si condivide quanto rilevato sul punto da G. D’ATTORRE, Piani…, op. ul cit. 8, mentre M. IRRERA, S. Catalano, L’insolvenza delle società a partecipazione pubblica, www.dirittoeconomiaimpresa.it, 1,2019, affermano che si tratta di mero disallineamento terminologico e non di una precisa differenza di identità.

[28]) Nella recente deliberazione n. 1 del 2021 PRSE della Corte dei Conti sezione regionale di controllo del Piemonte, i magistrati contabili affermano che le amministrazioni pubbliche, socie delle controllate pubbliche, sono tenute ad adottare, nel caso di perduranti gravi criticità finanziarie e gestionali, nonostante gli interventi previsti nel piano di risanamento, i provvedimenti indicati dall’art. 14 co 1 del d.lgs. 175, cioè il ricorso alle procedure di liquidazione giudiziale. Ciò pone un tema che è affascinante, quello dell’ampiezza del controllo affidato al giudice contabile, della possibilità di suggerire od imporre modifiche ai piani predisposti dagli amministratori, di valutarne compiutamente l’adeguatezza e fattibilità, tema sul quale si interroga anche con sensibilità G. D’ATTORRE, Piani....,op. ul. cit., 14.

[29]) In tal senso conforme D’ATTORRE, Piani … op ul. cit., 10.

[30]) Sul punto si vedano le criticità enucleate da M.V. FERRONI, Le procedure…, 13.