, 22 settembre 2022, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
1. In premessa
L’entrata in vigore del Codice della Crisi, tra i molti elementi di novità, ha portato con sé una specifica disciplina, posta dagli artt. da 120-bis a 120-quinquies ([1]), dedicata alla posizione dei soci nella regolazione della crisi e dell’insolvenza della società debitrice ([2]).
Il legislatore del Codice [che con il D. Lgs. n. 83/2022 ha incorporato le regole di attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 (“Direttiva Insolvency”)] fa certamente un passo avanti, nella direzione di porre un vero diritto societario della crisi, rispetto alla legge fallimentare, tentando di dare sistemazione, con disciplina sicuramente trans-tipica ([3]), ai frequenti attriti che si verificano nella partecipazione dei soci alla regolazione della crisi della loro società, specialmente quando la regolazione avvenga tramite uno strumento “negoziale” (id est: che preveda una proposta da sottoporre a tutti/alcuni creditori, una loro approvazione/accettazione, un piano in grado di assicurare l’esecuzione della proposta) ([4]).
È noto, infatti, che la crisi, specie quando questa sia già degenerata in insolvenza e, comunque, quando si accompagni ad un azzeramento del capitale sociale, ponga i soci nella condizione di sfruttare un potere, derivante dall’esercizio dei diritti sociali assicurati dalle partecipazioni sociali, irrazionalmente (ancora) allocato nelle loro mani ([5]). Forte è dunque il rischio, innanzitutto, di un comportamento opportunistico dei soci, che si traduca in uno scambio tra l’esercizio dei diritti sociali nell’interesse (prioritario: cfr. art. 4 c. 2°) dei creditori e l’estrazione dal piano, a loro beneficio – e nonostante la sostanziale perdita della proprietà della società –, di risorse (o vantaggi: si pensi all’attribuzione di prebende derivanti dalla conservazione di incarichi di amministratore o para-consulenziali nella società risanata) altrimenti destinate ai creditori ([6]).
D’altra parte, tuttavia, il legislatore vuole anche evitare che i soci (o alcuni di loro) vengano in realtà sacrificati dallo strumento di regolazione della crisi in maniera eccedente rispetto a quanto sarebbe in astratto imposto dall’entità del patrimonio sociale, magari capace di esibire un residuo attivo anche all’esito di un percorso liquidatorio, o comunque rispetto a quanto sarebbe veramente necessario per dare la giusta soddisfazione ai creditori sociali (specie qualora la regolazione della crisi diventi occasione anche per “regolare i conti” all’interno della compagine sociale).
Queste due contrapposte esigenze – reprimere l’opportunismo ed evitare il mal-trattamento (di alcuni) dei soci – stanno alla base delle regole di seguito esaminate.
2. Contro l’opportunismo dei soci: regole di governance
Innanzitutto, e sulla scia di quanto già aveva fatto il D. Lgs. n. 5/2006 (che aveva invertito il rapporto tra regola e deroga presente nell’originario testo della legge fallimentare), ai sensi del comma 1° dell’art. 120-bis, il potere di decidere sia l’an, sia il quomodo della regolazione della crisi passa esclusivamente all’organo di amministrazione, con l’esclusione, dunque, della possibilità che lo statuto riservi all’assemblea detto potere, come invece l’art. 152 l. fall. consentiva.
Si tratta di scelta normativa del tutto comprensibile, dall’un lato, in linea anche con le norme che, in tutti tipi societari, riservano all’organo di amministrazione l’istituzione di adeguati assetti organizzativi, specie se si riconduca a decisione attinente a detti assetti anche la scelta dello strumento più adatto alla regolazione della crisi della società; dall’altro lato, coerente con quell’art. 2086 c.c. che, al comma 2°, obbliga l’imprenditore (e, per esso, il suo organo di amministrazione) ad “attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale” ([7]).
L’art. 120-bis, comma 1°, peraltro, dovrebbe applicarsi anche alla liquidazione giudiziale (come lascia intendere l’art. 40 c. 2°), ma il condizionale è d’obbligo ([8]) a causa dell’incerto perimetro che l’ultima versione del CCII traccia attorno alla fattispecie degli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”.
Dall’una parte, infatti, l’art. 2, lett. m-bis), definisce detti “strumenti” come “le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa … oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività che, a richiesta del debitore, possono essere preceduti dalla composizione negoziata della crisi”, ciò che consente di ritenere che anche la liquidazione giudiziale, in quanto procedura volta alla liquidazione del patrimonio (e che, a richiesta del debitore, può essere preceduta dalla composizione negoziata della crisi: v. art. 23 c. 2°, lett. “d”), costituisca strumento di regolazione dell’insolvenza (se non della crisi). In questa direzione si collocano anche le rubriche del Titolo III (che si riferisce indistintamente agli “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, e che pone regole anche per la liquidazione giudiziale) e del Titolo IV (che, a proposito di accordi, piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, concordato preventivo, parla di “strumenti di regolazione della crisi”, senza alcun riferimento a quell’insolvenza che costituisce il solo presupposto oggettivo della liquidazione giudiziale).
Dall’altra parte, invece, è evidente che numerose norme contenute nel Capo IV del Titolo III assumono una distinzione tra strumenti di regolazione (della crisi e dell’insolvenza) e liquidazione giudiziale ([9]), sì che dovrebbe logicamente escludersi che la seconda appartenga al genus dei primi ([10]), e lo stesso art. 40 – che, come visto, richiama al comma 2° l’art. 120-bis – reca in rubrica il binomio “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” e “liquidazione giudiziale”.
Ce né abbastanza, sembra, per non avere le idee chiare sul punto. Non ci sono ragioni, tuttavia, per non applicare – se del caso per analogia e nei limiti della compatibilità ([11]) – il comma 1° dell’art. 120-bis, nella parte in cui attribuisce “in via esclusiva” agli amministratori la competenza sulla decisione, anche alla presentazione di una domanda di apertura della liquidazione giudiziale. D’altronde, si tratta pur sempre di una decisione di governo della crisi della società debitrice che sconta normalmente una valutazione circa la mancanza di alternative “negoziali”, condotta nel solco di un’analisi (quanto meno) sulla fattibilità di piani alternativi e sulla convenienza per la massa dei creditori.
Se si condivide questa opzione interpretativa, si deduce altresì che l’apertura della liquidazione giudiziale su istanza della società debitrice non richiede alcun previo intervento assembleare, pur affiancandosi alla competenza dell’organo di amministrazione quella degli “organi e delle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza” ai sensi dell’art. 37 c. 2°.
Sempre a margine della liquidazione giudiziale, se si considera applicabile anche a questa l’art. 120-bis c. 1°, resta un poco eccentrico (o forse semplicemente dimenticato) l’art. 265 per il concordato nella liquidazione giudiziale, che continua a ricalcare le orme dell’art. 152 l. fall. ([12]), con l’esplicita previsione della possibilità che lo statuto restituisca all’assemblea il potere di deciderne la proposta, pur se in questo caso, ovviamente, in presenza di una liquidazione giudiziale già aperta, non si pone un problema di tempestività della reazione allo stato di crisi dell’imprenditore.
In ogni caso, i soci sono poi destinatari di uno specifico flusso informativo imposto agli amministratori dal comma 3° dell’art. 120-bis ([13]), norma che pone una disciplina piuttosto generica, specialmente in ordine alla periodicità dell’informazione ed al suo veicolo (in particolare, resta il dubbio se, nei tipi societari che lo prevedano, l’informazione debba passare attraverso l’organo assembleare – come sembra preferibile – o vada indirizzata direttamente ai soci, con tutte le incertezze in ordine alla loro identificazione, specialmente nel tipo S.p.A.).
All’organo di amministrazione spetta dunque il potere (quasi) esclusivo di decidere se affrontare la crisi dell’impresa sociale con un tipico strumento previsto dal Codice, e allo stesso organo (e qui in maniera veramente “esclusiva”) è attribuito il compito di costruire il piano in grado di dare esecuzione alla proposta approvata dai creditori, piano che può prevedere modificazioni statutarie “che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”.
Il contenuto del piano, dunque, si estende, dal pur ampio spettro offerto dall’art. 160 l. fall., sino a comprendere la possibilità di comprimere “direttamente” i diritti dei soci, con una plastica rappresentazione della subordinazione dei loro interessi a quelli dei creditori (ma con le cautele che vedremo al successivo par. 5).
Se si muove, inoltre, da un principio di equivalenza tra proposta principale (del debitore) e proposta concorrente (anche presentata dai soci ai sensi dell’art. 120-bis c. 5°: v. infra, al par. 4), deve ritenersi che la facoltà di incidere direttamente sui “diritti di partecipazione dei soci” non attenga ai poteri degli amministratori ma dipenda dalle potenzialità di adeguamento della struttura societaria alle esigenze di soddisfacimento dei creditori che si dispiegano sin dalla presentazione di una domanda di accesso ad un strumento di regolazione della crisi d’impresa, potenzialità messe dal legislatore a disposizione di chiunque (società debitrice e creditori concorrenti) si predisponga a presentare una proposta di regolazione ai creditori. Dunque, anche ad una proposta concorrente di concordato preventivo o ad un piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione ([14]), che incidano direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, si applicheranno le cautele previste in tal caso dall’art. 120-ter in materia di loro classificazione.
A fronte di siffatto ampliamento degli strumenti messi a disposizione della società debitrice (e non solo, come visto) per regolare la propria crisi, anche incidendo sulla sua struttura organizzativa, il legislatore non affronta con sufficiente chiarezza il (fondamentale) tema delle modalità con le quali dovrebbero essere deliberate le modificazioni statutarie contenute nel piano.
L’art. 120-quinquies, sul punto, lascia comprendere che l’assemblea dei soci ([15]) è – anche qui – tagliata fuori, ma il suo primo comma non brilla per rigore del lessico normativo. Da un lato, dovrebbe essere il provvedimento di omologazione a “determina[re] la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie dei termini previsti nel piano”, lasciando intendere, quindi, che la stessa sentenza di omologazione sia in grado di sostituire la deliberazione assembleare (o consiliare, su delega) normalmente richiesta per la modificazione dello statuto di s.r.l. e di S.p.A. All’organo di amministrazione sarebbe soltanto “demanda[ta] l’adozione di ogni atto necessario a darvi esecuzione”, come potrebbe essere l’offerta delle azioni di nuova emissione ai soggetti che si siano impegnati nel piano a dare esecuzione all’aumento di capitale sociale.
Poi, però, si legge anche che lo stesso provvedimento di omologazione dovrebbe autorizzare gli amministratori a “porre in essere … le ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano”.
Insomma, tra una sentenza che “determina” e degli amministratori che “pongono in essere”, non si capisce chi deliberi, se del caso nelle forme di cui all’art. 2346 c.c., le modificazioni statutarie necessarie a dare esecuzione al piano di regolazione della crisi.
Come anticipato, il lessico colloquiale del legislatore lascia l’interprete in mezzo al guado. Può aiutare a sciogliere il dubbio il comma 2° dell’art. 120-quinquies, che ricalca il comma 3° dell’art. 2346 c.c. con la funzione di ribadire l’esclusione di ogni intervento dell’assemblea dei soci e per individuare nel tribunale che ha disposto l’omologazione il giudice competente a rimediare al diniego di iscrizione del notaio. Se, dunque, viene implicitamente contemplato l’intervento del notaio, sarà allora verosimile che sussista comunque una deliberazione dell’organo di amministrazione da verbalizzare in forma di atto pubblico, nelle forme (e con i controlli) di cui all’art. 2346 c.c., senza che la sentenza di omologazione tenga il luogo della deliberazione stessa.
Se del caso con un’interpretazione ortopedica (ma neppure troppo, considerata l’atecnicità del lessico del legislatore), si dovrà pertanto ritenere che il provvedimento di omologazione non determinerà in sé le modificazioni statutarie previste dal piano ma autorizzerà gli amministratori – che pertanto non avranno un potere originario e conseguente all’omologazione in sé dello strumento di regolazione della crisi - ad adottare le deliberazioni necessarie ad apportare allo statuto della società debitrice quelle modificazioni che gli stessi amministratori abbiano individuate nel piano; con un ulteriore avanzamento, comunque, nella direzione della funzionalizzazione dell’operato degli amministratori nel prioritario interesse dei creditori richiesto dall’art. 4 c. 2°, lett. c) ([16]).
Resta da capire, visto che l’art. 120-bis dovrebbe applicarsi a tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, chi sia competente ad adottare le modificazioni statutarie se del caso richieste da un piano attestato di risanamento ([17]), per definizione privo di un giudizio di omologazione che consenta l’applicazione dell’art. 120-quinquies. Si apriranno qui due alternative: da un lato, si potrà ritenere che resti immutata la competenza assembleare (o dei soci, nelle società di persone) generalmente prevista dagli artt. 2365 e 2479 c. 4° c.c., muovendo dalla constatazione che la traslazione del potere di modificazione dello statuto dall’assemblea dei soci all’organo di amministrazione richiede comunque un provvedimento di omologazione; da un altro lato, invece, potrà trovare rinnovato vigore – e con maggior convincimento, alla luce dello spostamento dell’equilibrio del potere a pro degli amministratori di cui si è sinora trattato – quella tesi che già prima del Codice riservava comunque agli amministratori il potere di dare esecuzione agli atti previsti dal piano, anche se integranti una modificazione dello statuto sociale ([18]).
In ogni caso, ad evitare che scelte di governo della crisi sgradite ai soci, sia nel ricorso ad uno strumento di regolazione della crisi, sia nel confezionamento del piano, possano indurli ad una reazione avversa sulla composizione dell’organo di amministrazione, il comma 4° dell’art. 120-bis blinda gli amministratori – che pur cesseranno dall’incarico alla scadenza del loro mandato – con la previsione di una stringente disciplina in materia di loro revoca, sostanzialmente coincidente con quella prevista dall’art. 2400 c. 2° c.c. per la revoca dei sindaci (necessità di una giusta causa approvata con decreto dal tribunale) ([19]); e non costituisce mai giusta causa di revoca “la presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenza delle condizioni di legge” ([20]). Si tratta di una disciplina che amplifica il distacco dell’organo di gestione della società dalla proprietà del capitale sociale, incentivando l’allineamento del primo alla missione del conseguimento prioritario dell’interesse dei creditori sociali assegnatagli dall’art. 4 c. 2°, lett. c), in una sempre più spinta direzione di superamento del principio di neutralità organizzativa dei tipi societari che siano toccati dalla crisi dell’impresa ([21]).
3 segue: regole sulle attribuzioni ai soci nel concordato
Uno dei temi “classici” su cui dottrina e giurisprudenza si sono confrontate negli ultimi anni consiste(va?) nella individuazione delle regole di distribuzione del plusvalore concordatario, specialmente nell’alternativa tra la rigorosa applicazione dell’art. 2741 c.c. e dell’ordine “forte” delle cause di prelazione e – di converso – la libera disponibilità, da parte del debitore, di detto plusvalore.
Nella vivacità del dibattito entravano anche le aspettative dei soci a conservare qualcosa delle loro partecipazioni all’esito del percorso di ristrutturazione della società partecipata. Non c’è dubbio, infatti, che, in una rigorosa applicazione della regola di priorità assoluta, qualora si considerino i soci come portatori di ultima istanza di pretese sul plusvalore generato dalla regolazione della crisi, la concretizzazione di loro pur minime aspettative di conservare la partecipazione sociale avrebbe dovuto presupporre – a stretto rigore - l’integrale soddisfazione di tutti i creditori sociali (anche postergati), ciò che, dunque, di norma avrebbe dovuto determinare il loro squeeze out dalla società.
Questa conclusione, tuttavia, nel previgente assetto normativo, caratterizzato dalla conservazione in capo ai soci del potere correlato all’esercizio dei diritti sociali e dalla competenza assembleare in materia di modificazioni statutarie (salvo quanto già previsto dall’art. 185 c. 6° l. fall.), avrebbe smorzato gli incentivi alla costruzione di piani in continuità diretta, anche quando sarebbero andati a beneficio della massa dei creditori, specie considerata l’allocazione del potere (ancora oggi, peraltro) in capo all’assemblea dei soci di deliberare l’anticipato scioglimento della società.
In realtà, nel previgente sistema normativo della crisi, l’art. 182-sexies l. fall., non accompagnato da una disciplina quale quella oggi posta dall’art. 120-quater, lanciava messaggi di segno opposto: il capitale sociale, durante il percorso di ristrutturazione della società, poteva essere congelato, per tornare intatto (e con esso le relative partecipazioni sociali ante ristrutturazione) allorché lo sbilancio patrimoniale fosse stato rimediato (non da riduzione/aumento del capitale sociale ma) dalla falcidia del passivo conseguente all’omologazione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Insomma, alla soluzione della crisi avrebbero potuto provvedere innanzitutto i creditori, non necessariamente i soci ([22]).
Oggi le cose sono cambiate, nonostante la disciplina dell’art. 182-sexies l. fall. sia stata sostanzialmente ripetuta agli artt. 64 e 89 del CCII (quindi nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti, del concordato preventivo e – giusta il richiamo contenuto all’art. 64-bis CCII – dei piani di ristrutturazione soggetti a omologazione).
Infatti, l’art. 120-quater CCII pone una rigorosa disciplina applicabile all’ipotesi in cui il piano di concordato preveda che “il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda”.
Innanzitutto, sembra porsi un tema di definizione della fattispecie di riferimento, perché la topografia della norma (inserita in un capo dedicato al concordato preventivo, ma nell’ambito di una sezione che porta in rubrica gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza) induce il dubbio se il concordato – non meglio qualificato dal legislatore – sia solo quello preventivo o anche quello nella liquidazione giudiziale ([23]). Ritengo preferibile un’interpretazione estensiva, se ed in quanto i problemi affrontati dall’art. 120-quater CCII possano presentarsi anche nel concordato liquidatorio.
Non c’è dubbio, invece, che la disciplina posta dall’art. ult. cit. non si applichi agli accordi di ristrutturazione dei debiti, verosimilmente in considerazione del minore potere di coercizione riservato al debitore sulle pretese dei creditori. Va peraltro ricordato che l’art. 61 CCII riconosce in tutti gli accordi di ristrutturazione che prevedano la continuità aziendale la possibilità di estenderne l’efficacia – alle condizioni previste dalla norma – anche ai creditori non aderenti e la maggioranza richiesta (all’interno della categoria in cui interviene il principio maggioritario), normalmente fissata dall’art. 61 c. 2°, lett. c), al 75%, scende al 60% se l’accordo sia stipulato all’esito di un percorso di composizione negoziata della crisi ai sensi dell’art. 23 c. 2°, lett. b), CCII e il raggiungimento dell’accordo risulti dalla relazione finale dell’esperto. La mancata applicazione dell’art. 120-quater ad uno strumento in cui un principio maggioritario sempre più spinto può così incidere sulle pretese dei creditori, quindi, rende l’accordo di ristrutturazione dei debiti strumento vieppiù competitivo rispetto al concordato preventivo ([24]).
Parimenti, non si pone un problema di disciplina delle attribuzioni ai soci nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione ([25]), per il quale si prevede espressamente che il valore generato dal piano possa essere distribuito (anche a beneficio dei soci) “in deroga agli articoli 2740 e 2741 del codice civile e alle disposizioni che regolano la graduazione delle cause legittime di prelazione” e che, comunque, richiede l’approvazione unanime delle classi votanti (mentre il presupposto di applicazione dell’art. 120-quater consiste nel “dissenso di una o più classi di creditori”).
Sempre a proposito della individuazione della fattispecie coinvolta dall’applicazione della norma, il comma 2° dell’art. 120-quater ha cura di precisare che: “Per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguente all’omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che acquisiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimento o di versamenti a fondo perduto” ([26]). Dunque, le “attribuzioni a soci” di cui alla rubrica della norma non corrispondono necessariamente ad un’estrazione di risorse dal patrimonio della società debitrice e a favore dei soci ma consistono anche soltanto nella conservazione, eventualmente parziale, della partecipazione al capitale sociale dei soci anteriori, consentita, come scritto, dall’operatività dell’art. 89 CCII. La precisazione del comma 2°, invece, con il riferimento alle “partecipazioni”, sembra escludere che la norma si applichi anche al rimborso dei finanziamenti dei soci che risultino postergati ex art. 2467 c.c., al quale, nel concordato preventivo, si applicheranno quindi le sole cautele previste dall’art. 84 c. 6° CCII.
Per determinare il “valore riservato ai soci”, tuttavia, occorrerà guardare al netto risultante dalla differenza tra il valore della partecipazione all’esito del ripristino dell’equilibrio patrimoniale conseguente all’omologazione del concordato e gli apporti dei soci al patrimonio della società previsti dal piano “in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto” ([27]). In altri termini, i soci, per conservare le loro partecipazioni sociali, dovranno sostanzialmente ricomprarsele ad un prezzo congruo (il valore che avranno post money), come da tempo propugnato da attenta dottrina ([28]). Si tratta di soluzione lineare, che consente di neutralizzare l’inconveniente derivante dal fatto che il valore delle partecipazioni sociali post omologazione non è una variabile indipendente dal contributo dei soci ma ne costituisce una derivata (maggiore il contributo dei soci al successo del piano, maggiore il valore delle partecipazioni sociali).
Va peraltro precisato che l’art. 120-quater non si pone come disciplina del piano (in grado di integrare il contenuto dell’art. 87) ma piuttosto dell’omologazione del concordato, disciplina che trova applicazione solo se la proposta concordataria sia stata approvata con il “dissenso di una o più classi di creditori”. Dunque, considerato che di norma la conservazione di un valore positivo da parte delle partecipazioni sociali richiede un piano con continuità aziendale diretta, l’art. 120-quater va in realtà ad integrare l’art. 112, il cui comma 2° si applica per l’appunto all’ipotesi in cui il concordato in continuità aziendale sia stato approvato con il dissenso di una o più classi.
Vero è, peraltro, che il debitore, se è sicuro dell’approvazione del piano con il consenso unanime delle classi di votanti, dovrebbe trovare ragionevole optare per il piano di ristrutturazione omologato (che può comunque virare al concordato preventivo in caso di dissenso di una o più classi: cfr. art. 64-quater), piuttosto che per il concordato preventivo; la scelta dello strumento concordatario, dunque, dovrebbe dipendere dalla previsione di una “approvazione” con classi dissenzienti ([29]), sì che buon senso vorrà che il piano di concordato, a prescindere dall’esito della votazione, sia ex ante confezionato nel rispetto delle regole poste dall’art. 120-quater.
Guardando infine alla disciplina, l’art. ult. cit., richiede, nel corso del giudizio di omologazione, un’ulteriore verifica circa il livello di soddisfacimento della classe dissenziente, sulla base di regole che dipendono dalla collocazione, nella proposta concordataria, di detta classe.
Innanzitutto, se la classe dissenziente non è quella di infimo rango, l’omologazione del concordato con attribuzioni ai soci è possibile “se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci”.
Il legislatore richiede quindi un arzigogolato giudizio comparativo ed ipotetico ([30]) che assuma la risalita del valore riservato ai soci a beneficio delle classi (non dissenzienti) di crediti di rango inferiore a quella opponente e di pari rango. Si pone però il dubbio circa le modalità di ripartizione fra le classi del valore (“complessivamente riservato ai soci”) in risalita: probabilmente, nel silenzio del legislatore, si dovrà immaginare che detto valore sia idealmente distribuito nel rispetto dell’ordine forte delle cause di prelazione e, dunque, innanzitutto andrà attribuito alle classi di crediti di rango pari alla dissenziente (anche qui, sulla base di quale regola di distribuzione, se le classi di pari rango sono più di una?) e quindi alle inferiori classi dissenzienti, sulla base di una regola di priorità assoluta.
A questo punto, il giudizio si spinge al confronto tra il livello di soddisfacimento della classe dissenziente e quello delle classi non dissenzienti, equipollenti o sottostanti, arricchite dall’ipotetica risalita del valore attribuito ai soci. Infatti, occorrerà verificare che, nonostante la lievitazione di queste ultime classi, ancora sia rispettata la regola di priorità relativa, nel senso che il trattamento riservato alla classe dissenziente dovrà essere ipoteticamente (almeno) “altrettanto favorevole” rispetto a quello riservato alle classi (non dissenzienti) del medesimo rango, al lordo del valore in risalita, mentre rispetto a quello delle classi di rango inferiore dovrà essere comunque “più favorevole” ([31]), nonostante il loro ipotetico arricchimento.
A grandi linee, dunque, il legislatore prevede, in questa prima ipotesi (del dissenso proveniente da una classe che non sia l’infima), che le attribuzioni ai soci siano lecite a condizione che siano “pagate” dai creditori equiordinati o sottostanti alla classe dissenziente ([32]).
La regola cambia radicalmente se il dissenso proviene dalla classe collocata in coda alla proposta (“Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente”). In tal caso, il concordato potrà essere omologato solo “quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci”. Il giudizio comparativo, in questa ipotesi, è quindi più semplice (sempre al di là delle incertezze che saranno certamente generate dalla determinazione dei “valori” da comparare) ([33]) e si deve fare tra grandezze assolute: la massa delle risorse destinate al soddisfacimento dell’ultima classe di creditori verso il valore delle partecipazioni sociali post omologazione, al netto dei contributi dei soci al piano. Così posta, tuttavia, si tratta di regola dalla razionalità sfuggente: il livello massimo delle attribuzioni ai soci dipenderà soltanto dalle dimensioni dell’ultima classe di crediti e quindi anche dalla numerosità dei creditori ivi allocati. Se si considera che per l’omologazione di un concordato in continuità aziendale non è più richiesta l’approvazione della proposta da parte di una maggioranza di crediti (cfr. art. 109 c. 5°) e, alle condizioni poste dall’art. 112 c. 2°, lett. d), seconda parte, neppure di classi, sembra che la norma consenta arbitraggi non commendevoli nella formazione delle classi, finalizzati alla massima soddisfazione dei soci, più che dei creditori.
Di certo, qui non si richiede il rispetto di una regola di priorità relativa ([34]), che non può applicarsi nel confronto tra grandezze disomogenee (una percentuale - di soddisfacimento dei crediti dell’ultima classe – verso un dato assoluto - il valore delle partecipazioni sociali) ([35]).
Sembra, tuttavia, che un limite invalicabile nella costruzione di un piano che preveda “attribuzioni ai soci” (nel senso anzidetto), anche a prescindere dall’approvazione della proposta con l’unanimità o non delle classi dei creditori (e quindi con valutazione da farsi già in sede di ammissione alla procedura di concordato preventivo), sia quello posto dall’art. 84 c. 6° CCII, che consente al debitore di disporre della provvista concordataria a prescindere dal “rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione” solo nei limiti del “valore eccedente quello di liquidazione”. I soci, in altri termini, non potranno mai attingere, neppure nella forma del valore effettivo delle loro partecipazioni post omologazione, al valore di liquidazione del patrimonio sociale (in maniera coerente, d’altra parte, con il principio posto dall’art. 2491 c 2° c.c.).
In ultima analisi, al di là della farraginosità della disciplina (e delle complicazioni ed incertezze che la sua applicazione comporterà, anche solo nella determinazione dei vari “valori” che entrano in gioco), resta il sapore (amaro) di una disparità di trattamento dell’infima classe dissenziente (che può essere sacrificata sull’altare delle attribuzioni ai soci), rispetto alle classi dissenzienti ma sovrastanti (che in nulla devono contribuire all’assegnazione di un valore ai soci), disparità poco giustificabile con la banale constatazione che la regola di priorità relativa, cui si ispira il trattamento dell’ipotesi della classe dissenziente superiore, “risulta … inapplicabile in caso di dissenso dell’unica classe di creditori collocata al rango immediatamente superiore a quello dei soci” ([36]), e che affida agli operatori un sistema di distribuzione delle limitate risorse del debitore affidato quasi al caso ([37]), piuttosto che ad una percepibile razionalità.
Infine, non va dimenticato che la disciplina posta dall’art. 120-quater si applica anche (in quanto compatibile) ad “imprenditori individuali o collettivi diversi dalle società e dai professionisti”. Poche parole, che dovrebbero costituire attuazione dell’art. 2 par. 1, n. 9), della Direttiva Insolvency ([38]), lasciate sbrigativamente all’ultimo comma della norma, ma in grado di creare grandi incertezze ([39]).
Non è questa la sede per approfondire le implicazioni dell’ultimo comma dell’art. 120-quater (qui si vorrebbe discettare solo di soci e società), ma il riferimento all’imprenditore individuale, in una disciplina posta per le “attribuzioni ai soci”, può lasciare a prima vista sconcertati. In realtà, per trovare un senso alla criptica norma, occorre immaginare un piano di concordato in continuità diretta di un imprenditore individuale, ove l’art. 120-quater potrà trovare applicazione sostituendo al “valore delle attribuzioni” il valore as a going concern dell’impresa lasciata all’imprenditore, al netto delle contribuzioni di questo alla provvista concordataria. Si tratta di regola estremamente importante, che da un certo punto di vista introduce anche nel concordato in continuità aziendale diretta un limite alla ritenzione, da parte dell’imprenditore, dei beni aziendali necessari alla prosecuzione dell’attività economica, regola assente nella legge fallimentare e che, anche per questo, avrebbe certo meritato una riflessione e un’esposizione maggiormente consapevole da parte del legislatore, non soltanto un’applicazione, nel limite della compatibilità, di una norma che si occupa di tutt’altro.
Senza contare che, se si pone per l’imprenditore individuale il principio per cui i beni aziendali (e non) conservati devono essere “pagati” con apporti (di terzi, considerato che tutto ciò che resta all’imprenditore individuale sembra destinato ad essere considerato un’“attribuzione”), non si vede proprio perché lo stesso principio non debba valere per l’imprenditore in forma societaria, a prescindere dal valore effettivo delle partecipazioni sociali.
Non è questa la sede per approfondire tali fondamentali aspetti, ma resta l’impressione che l’ultima comma dell’art. 120-quater costituisca fonte poco meditata di grandi problemi.
4. Contro il mal trattamento dei soci
Non sempre, come anticipato, occorre tutelare la massa dei creditori dalle aspirazioni dei soci a rientrare nel possesso del valore della “loro” società. Alle volte, sono i soci stessi a rischiare di vedere pregiudicate le loro ragioni, senza che ciò s’imponga per la soddisfazione dei creditori sociali. Non va dimenticato, infatti, che i creditori sono titolari di pretese fisse ([40]) e, pertanto, qualora vengano integralmente soddisfatti dallo strumento di regolazione della crisi, qualunque valore residuo del patrimonio sociale deve essere destinato ai soci. Inoltre, in presenza di una dialettica interna alla compagine sociale (anche la più banale: maggioranza vs. minoranza), c’è la possibilità che la crisi si trasformi in un’opportunità di regolamento dei conti interni, specie considerate le possibilità offerte dalla disciplina posta dall’art. 120-bis per modificazioni statutarie che possono incidere “direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”, sulla base di un piano rimesso alla volontà dell’organo di amministrazione (se non di creditori che si facciano promotori di una proposta concorrente).
I soci, dunque, devono potersi difendere sia dai creditori sociali, sia dagli altri soci, in relazione a piani di ristrutturazione comunque veicolati dall’organo di amministrazione o tramite una proposta concorrente.
Quanto al primo fronte, due sono le linee di difesa. Innanzitutto, ai sensi del comma 3° dell’art. 120-quater, “i soci possono opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria”.
Mi sembra che si tratti di regola assoluta, che, nonostante l’eccentrica sua posizione (la norma nulla ha a che fare con le “attribuzioni ai soci” di cui alla rubrica dell’art. 120-quater), debba trovare applicazione in tutti i concordati. Il pensiero corre, innanzitutto, al concordato nella liquidazione giudiziale su proposta di terzi e a quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, a proposito dell’omologo concordato fallimentare, aveva negato ai soci della società fallita la legittimazione all’opposizione all’omologazione ([41]), ma non può escludersi un’analoga esigenza di tutela dei soci anche in presenza di una proposta concorrente nel concordato preventivo.
È ben possibile, infatti, che una soluzione negoziata della crisi, in particolare se rimessa alla disponibilità di terzi, generi risorse magari sufficienti all’integrale soddisfacimento dei creditori sociali ma comunque complessivamente inferiori al valore che sarebbe in grado di esprimere una liquidazione del patrimonio sociale. Ciò, ovviamente, corrisponderebbe ad un’espropriazione del valore delle partecipazioni sociali non giustificato dalle esigenze della regolazione della crisi e, dunque, anche alla luce delle decisioni CEDU sul sacrificio del diritto di proprietà ([42]), non accettabile.
Ad ovviare a questo rischio, sinora lasciato all’iniziativa officiosa dell’Autorità Giudiziaria in chiave anti-abusiva ([43]), l’art. 120-quater, comma 3°, legittima i soci ad opporsi all’omologazione di qualsiasi concordato se sussista un (loro) “pregiudizio rispetto all’alternativa liquidatoria”, inteso, per l’appunto, come generazione subottimale di valore. Dovendosi ritenere che il “pregiudizio” vada coordinato con il principio dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (che comunque sovraintende anche al processo di omologazione del concordato) ([44]), il pregiudizio legittimante è solo quello che va ad incidere su un ipotetico residuo finale di liquidazione. Se, dunque, la provvista concordataria generata dallo strumento di regolazione della crisi sia subottimale, ma con esclusivo pregiudizio per i creditori (qualora l’alternativa liquidatoria non porterebbe comunque alla loro integrale soddisfazione), allora dubito che i soci potrebbero legittimamente presentarsi quali opponenti nel giudizio di omologazione del concordato.
Resta da chiedersi quale sia l’“alternativa liquidatoria” cui correlare l’eventuale pregiudizio. Ormai ritengo superata la tesi per cui l’aggettivo debba ricondurre ad una soluzione disgregativa dell’organizzazione imprenditoriale ([45]), tesi che non convinceva neppure sotto l’egida della legge fallimentare. Dunque, il valore con il quale confrontare la provvista concordataria generata dallo strumento di regolazione della crisi sarà quello del patrimonio aziendale (e sociale) valutato as a going concern, quindi in una prospettiva di continuità aziendale indiretta (quale preferibilmente da percorrersi anche nel caso di apertura di una liquidazione giudiziale: cfr. art. 241 c. 1°).
Sempre a pro dei soci, e ad evitare la proposizione di piani di concordato subottimali, l’art. 120-bis, al comma 2°, consente loro di presentare proposte concorrenti “ai sensi dell’articolo 90”, e quindi nell’ambito del concordato preventivo ([46]) e del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. A maggior ragione, tuttavia, deve ritenersi che analoga legittimazione abbiano i soci nel concordato nella liquidazione giudiziale, e che in tale ambito vadano considerati “terzi” ai sensi dell’art. 240 c. 1° CCII.
A differenza del concordato nella liquidazione giudiziale, tuttavia, nel concordato preventivo i soci sono legittimati alla presentazione di una loro proposta solo se rappresentino – anche cumulativamente (“La domanda è sottoscritta da ciascun socio proponente”) - almeno il dieci per cento del capitale sociale. Il legislatore, quindi, confida nella competizione per evitare il mal trattamento dei soci, che potranno difendersi da eventuali proposte della società cui partecipano rilanciando con una loro autonoma proposta di concordato o con un alternativo piano di ristrutturazione da omologare.
Considerato che la competizione si aprirebbe tra società e soci, è verosimile immaginare un contrasto interno alla compagine sociale, nella dialettica maggioranza vs. minoranza, e si giustifica quindi il fatto che la partecipazione sociale legittimante sia piuttosto bassa, sì che la disciplina va a configurarsi come un ulteriore “diritto della minoranza” ([47]).
L’istituto delle proposte concorrenti non ha dato sinora grande prova di sé, un po’ per una disciplina perfettibile (ma lasciata pressoché intatta nell’art. 90) e in grado quindi di determinare un costo dell’incertezza disincentivante le iniziative dei creditori, un po’ per una legittimazione riservata a chi accumuli “almeno il dieci per cento dei crediti”: si tratta di una soglia forse troppo elevata che, a certe condizioni, può consentire addirittura la sostanziale “occupazione” della società debitrice da parte dei maggiori tra i creditori, in grado di imporre un loro Chief Restructuring Officer e, pertanto, di costruire una proposta del debitore (e dunque non concorrente) ab origine orientata al loro interesse ([48]).
Vedremo se questa ulteriore legittimazione dei soci alla presentazione di proposte concorrenti sarà in grado di rivitalizzare l’istituto, anche se è lecito immaginare che il ricorso a questo istituto non sarà tanto più frequente di quanto registrato sino all’entrata in vigore del Codice della Crisi.
Piuttosto, se i soci interessati a presentare una proposta concorrente sono espressione della minoranza della compagine sociale, questi verranno spesso – e specialmente in una S.p.A. – lasciati all’oscuro dei dati aziendali e contabili per acquisire una veritiera rappresentazione della situazione patrimoniale della società, sia dal lato dei valori aziendali (specialmente se impliciti), sia dal lato della massa passiva (specialmente se potenziale). All’asimmetria informativa dovrebbe rimediare il diritto di accesso riconosciuto dall’art. 92 c. 3°, che pone un corrispondente obbligo in capo al commissario giudiziale ma a beneficio dei soli “creditori che ne fanno richiesta”. Per allineare la legittimazione dei soci a presentare proposte concorrenti con il diritto all’informazione occorrerà, quindi, (modificare l’art. 92 cit. o) accogliere della norma un’interpretazione estensiva (per non dire ortopedica), che assicuri anche ai soci quel diritto all’informazione, eventualmente riservata, imprescindibile per consentire l’effettivo esercizio della facoltà di reazione loro offerta dal comma 5° dell’art. 120-bis ([49]).
5. La classificazione dei soci
L’ampia possibilità consentita dallo strumento concordatario di incidere sulla struttura organizzativa della società debitrice, finanche con il sacrificio dei diritti di partecipazione dei soci, ha suggerito al legislatore di riconoscere loro, quali “parti interessate” ai sensi dell’art. 9, par. 2, della Direttiva Insolvency, un potere di voice, attraverso il loro inserimento in classi, chiamate a partecipare – nel senso tra poco esposto – al procedimento di approvazione della proposta di ristrutturazione del debito.
Prima di affrontare l’esegesi dell’art. 120-ter, per l’appunto dedicato al “classamento dei soci” ([50]), non si può non evidenziare il disinvolto uso che il legislatore del Codice della Crisi ha fatto dell’istituto delle classi, a ciò certo indotto dal generoso ricorso alle stesse previsto dalla Direttiva Insolvency (si vedano, in particolare, i suoi artt. 9 e 11).
Piace qui ricordare che le classi dei creditori entrarono nella legge fallimentare ([51]), novellata (dapprima) dal D.L. n. 35/2005 e quindi dal D. Lgs. n. 5/2006, come tecnica di superamento del rigore della par condicio creditorum, consentendo il riconoscimento di un trattamento differenziato tra creditori di pari rango ma inseriti in classi diverse: la par condicio, da regola assoluta a valere sul piano orizzontale della distribuzione delle limitate risorse del debitore, diventava così regola relativa, a valere solo all’interno di ogni classe di creditori, e non più al livello dell’intero rango.
Laddove la loro estensione d’utilizzo era asservita a scopi diversi (si pensi agli accordi di ristrutturazione dei debiti ad efficacia estesa, già previsti dall’art. 182-septies l. fall., ove le “classi” servivano a far operare il principio maggioritario), il legislatore aveva avuto l’accortezza di modificarne la denominazione in “categorie”.
Nel nuovo Codice della Crisi, invece, le classi conoscono una diffusione che va oltre la precisa e limitata esigenza di relativizzazione della par condicio creditorum e diventano parte imprescindibile del procedimento di approvazione della proposta di concordato preventivo in continuità aziendale (nel quale le classi sono obbligatorie: cfr. art. 85 c. 3°), ove vanno di fatto a mediare (sulla scia di quanto previsto dalla Direttiva Insolvency per la c.d. ristrutturazione trasversale: cfr. art. 11) un principio maggioritario ormai destinato soprattutto ad operare all’interno di ogni classe ([52]), e non più (salvo che nel concordato liquidatorio: cfr. art. 109) al livello dell’intera massa dei crediti ammessi al voto.
Il problema, al quale qui, ratione materiae, si può solo fare un cenno fugace, è che il Codice, come già la legge fallimentare, continua a conoscere la sola regola, nella formazione delle classi, consistente nella omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici [v., oggi, l’art. 2, lett. r), CCII], fermo ovviamente il rispetto dell’ordine delle cause di prelazione (cfr. art. 85 c. 4° CCII).
Tuttavia, la regola della omogeneità costituisce di norma solo un limite inferiore, nel senso che una classe che contenga posizioni disomogenee dovrà essere spacchettata in più classi, con un incremento del loro numero fino al raggiungimento del requisito dell’omogeneità interna. Ma se è sufficiente che la maggioranza si formi solo all’interno di una classe, affinché si proceda all’omologazione di un concordato in continuità aziendale [alle condizioni previste dall’art. 112 c. 2°, lett. d), parte seconda, CCII], sarà forte, per il debitore, la tentazione di aumentare, non diminuire, il loro numero, anche senza la necessità di differenziare il trattamento tra diverse classi formate da crediti di pari rango ([53]), al solo fine di governare nella maniera (per lui) più conveniente possibile il procedimento di approvazione della proposta concordataria ([54]).
D’altra parte, maggiore sarà il numero delle classi, maggiore la probabilità che si verifichi il requisito dell’omogeneità degli interessi, sino al paradosso per cui la massima omogeneità si avrà in una proposta di concordato con tante classi (unipersonali) quanti siano i creditori. E se le classi, ormai polifunzionali (dalla relativizzazione della par condicio creditorum al trattamento dei crediti privilegiati, alla soluzione dei conflitti d’interesse, alla pressoché loro totale insignificanza – nel concordato semplificato), hanno perduto la loro anima (a cosa servono, infine?), al di là dell’omogeneità degli interessi (se mai questo sarà il problema nella formazione delle classi), sarà vieppiù difficile per l’autorità giudiziaria disporre di un criterio di valutazione della “corretta formazione delle classi” [imprescindibile ai fini dell’omologazione: v. art. 112 c. 1°, lett. d), CCII].
Il ragionamento sulla funzione delle classi nel nuovo Codice della Crisi richiederebbe ben altro sforzo interpretativo e argomentativo. Tornando, quindi, all’oggetto della presente opinione, si ricorda ancora che anche nella regolazione delle posizioni dei soci ([55]) queste classi bonnes à tout faire trovano uno spazio applicativo, per quanto piuttosto oscuro.
Innanzitutto, il comma 1° dell’art. 120-ter CCII prevede la possibilità che la proposta concordataria o il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione ([56]) contenga una o più classi di soci “se esistono soci ai quali lo statuto, anche a seguito delle modifiche previste dal piano, riconosce diritti diversi”. A contrario, quindi, se tutti i soci abbiano gli stessi diritti (salvo, ovviamente, le differenze derivanti dalla misura della partecipazione sociale), non sarà mai possibile costruire classi facoltative di soci. D’altra parte, vedremo a breve che la formazione di classi di soci è in grado normalmente di ostacolare, non di agevolare, l’approvazione della proposta concordataria, sì che è lecito immaginare che, laddove facoltative, il redattore della proposta concordataria o del piano di ristrutturazione si terrà alla larga dalle classi dei soci.
Venendo comunque all’analisi della fattispecie facoltizzante la formazione di classi di soci (non obbligatorie), sembra che i “diritti diversi” riconosciuti dallo statuto ai soci dipendano dall’esistenza di speciali categorie di azioni o quote (ai sensi dell’art. 26 c. 2° D.L. n. 179/2012) ovvero, nella s.r.l., dall’esistenza di soci con particolari diritti ex art. 2468 c. 3° c.c. Fatta questa constatazione, sfugge la ragione per cui questi soci debbano (poter) essere inseriti in classi e così partecipare al procedimento di approvazione della proposta di concordato o del piano di ristrutturazione, specie considerato che una condizione (negativa) affinché si applichi la disciplina in esame è che il piano non preveda modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci (in tal caso, infatti, si cadrebbe nella diversa ipotesi della classificazione obbligatoria di cui al comma 2° dell’art. 120-ter CCII). Parimenti sfugge se ad ogni categoria di strumenti finanziari (o ad ogni socio con particolari diritti) debba poi corrispondere una classe e, così, se, inseriti in classe i soci di speciale categoria, possano (o debbano?) a quel punto essere classificati anche i soci “ordinari” ([57]). Insomma, non sono ben chiari né la ratio né l’ambito di applicazione né l’operatività della norma, pur se è lecito immaginare che scarso sarà il ricorso alle classi facoltative dei soci.
Pari aspettativa, ovviamente, non è possibile avere laddove sia obbligatorio formare classi di soci, ciò che avviene in due casi ben distinti, entrambi contemplati dal comma 2° dell’art. 120-ter.
Innanzitutto, un occhio di riguardo ai mercati non guasta mai, e dunque l’obbligatorietà di formazione delle classi di soci scatta tutte le volte che la società interessata dalla regolazione della crisi faccia ricorso al mercato del capitale di rischio ([58]). Dato questo presupposto, resta da capire se tutti i soci, anche se titolari di strumenti finanziari incorporanti diritti diversi, debbano essere inseriti in un’unica mega-classe o se, come sembra preferibile, l’omogeneità debba essere riferita non tanto allo status socii in sé ma, piuttosto, al contenuto di diritti degli strumenti finanziari, sì che ci dovranno essere tante classi quante siano le categorie di azioni e di strumenti finanziari (a mo’ di assemblee speciali ex art. 2376 c.c.).
Decisamente più problematica la seconda ipotesi di classificazione obbligatoria dei soci, riferita al caso in cui il piano preveda “modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci”. Innanzitutto, non può tacersi un certo stupore a fronte dell’utilizzo di un lessico traslato dalla lettera g) dell’art. 2437 c. 1° c.c. ([59]), con il dubbio (fra i tanti) che l’art. 120-ter faccia rientrare i diritti di voto in quei “diritti di partecipazione” che l’art. 2437 cit. tiene distinti dai primi. L’art. 120-ter, poi, porta necessariamente con sé anche tutte le perplessità evidenziate dagli interpreti a proposito dell’ampiezza (e direzione: si pensi alle modifiche – solo peggiorative o anche migliorative? – in materia di diritto agli utili) delle modificazioni rilevanti al fine dell’attivazione del diritto di recesso ([60]) e la stessa Suprema Corte, intervenuta sull’argomento, non ha dipanato tutti i dubbi ([61]).
Se, poi, il comma 1° dell’art. 120-ter si riferisce espressamente ai diritti dei soci riconosciuti dallo statuto, analogo riferimento alla fonte statutaria dei “diritti di partecipazione dei soci” non è evocata dal comma 2°. E non è difficile immaginare una modificazione di siffatti diritti di partecipazione che non passi attraverso una modificazione statutaria ([62]): forse che tutte le volte che viene deliberato un aumento di capitale sociale con esclusione del diritto d’opzione, previsto dal piano e al servizio del cavaliere bianco o di una conversione del debito in equity, non abbiamo una diluizione dei diritti di partecipazione dei soci e, dunque, una loro (peggiorativa) modificazione? O la necessità di una modificazione statutaria che incida sui diritti attribuiti (non ai soci, salvo quanto previsto dall’art. 2468 c. 3° c.c., ma) agli strumenti finanziari deve desumersi (solo) dall’avverbio “direttamente”?
Sembra evidente che la norma si presterà a plurime interpretazioni ed è quindi in grado di creare un’incertezza sulla legittimità dei piani di concordato e di ristrutturazione (oltre al relativo contenzioso) di cui certo non si avvertiva il bisogno.
Ma non è finita: il trattamento dei soci attraverso la loro obbligatoria classificazione, nel caso in cui il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui loro diritti di partecipazione, si sostituisce o si aggiunge al diritto di recesso, qualora dette modificazioni passino effettivamente attraverso variazioni statutarie, con conseguente sussunzione della fattispecie nell’ambito di applicazione (anche) dell’art. 2437 c. 1°, lett. g), c.c.?
Non sembra che l’obbligo di classificazione dei soci possa sostituire il loro diritto di recesso, sempre ammesso, nei casi previsti dalla legge, anche se il trigger dipenda da un atto dell’organo di amministrazione, adottato ai sensi dell’art. 120-quinquies, e non da una deliberazione assembleare. D’altra parte, dove il legislatore ha voluto incidere sul diritto di recesso dei soci lo ha fatto espressamente, come accade nell’art. 116, il cui ultimo comma, a proposito delle operazioni di trasformazione, fusione o scissione della società debitrice, sospende il diritto di recesso dei soci “fino all’attuazione del piano”; con ogni conseguente valenza negativa (della sospensione/sostituzione del diritto di recesso) da attribuirsi al silenzio invece lasciato in parte qua dall’art. 120-ter.
Da ultimo, resta da chiedersi come incidano le classi dei soci nel procedimento di approvazione del concordato e del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. Sul punto, assumendo che l’esigenza di regolazione della posizione dei soci interverrà probabilmente solo laddove il piano preveda la continuità aziendale (per lo più diretta), si ricorda che per un concordato preventivo in continuità aziendale vigono tre diverse regole di approvazione della proposta concordataria, in nessuna delle quali rileva la maggioranza di crediti ([63]): di norma si richiede (i) l’approvazione unanime di tutte le classi (cfr. art. 109 c. 5°); alle condizioni di cui all’art. 112 c. 2°, è sufficiente l’approvazione (ii) da parte della maggioranza delle classi, “purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione”, o, addirittura, (iii) da parte di una sola classe (o più classi che non raggiungano la maggioranza), purché almeno una delle classi aderenti sia formata da creditori che (in uno dei tanti giudizi ipotetici cui sarà chiamato il tribunale in sede di omologazione) “sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione” ([64]).
Nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, invece, interviene la sola regola dell’unanimità delle classi (cfr art. 64-bis c. 1°), senza quell’apertura ad una possibile approvazione senza maggioranze (sintomatica, per vero, della irrilevanza della massa dei creditori, forse ritenuta – dal legislatore – non così razionale nella tutela dei propri diritti) invece tipica del concordato preventivo.
Ricordato che manca un requisito di approvazione del concordato in continuità aziendale che riguardi la totalità dei crediti ammessi al voto, i voti dei soci rilevano solo all’interno della classe in cui sono inseriti (come avviene anche per i creditori), dove pesano “in misura proporzionale alla quota di capitale posseduta anteriormente alla presentazione della domanda” (art. 120-ter c. 3°), con regola che sterilizza, al fine del voto, eventuali operazioni sul capitale sociale che intervengano tra il deposito della domanda di accesso allo strumento di regolazione della crisi e la sua omologazione.
Ai fini della votazione interna alle classi dei soci, inoltre, il silenzio del socio vale assenso, in maniera tale che l’eventuale disinteresse della compagine sociale non possa giocare contro una soluzione della crisi magari soddisfacente per la massa dei creditori. Chiamati al voto all’interno della classe saranno tutti i soci classificati, anche se titolari di strumenti finanziari che, nell’organizzazione interna del tipo societario emittente, non attribuiscano diritto di voto ([65]), assimilando anche per quest’aspetto le classi di soci alle assemblee speciali di cui all’art. 2376 c.c.
D’altra parte, il fatto che i soci siano chiamati al voto non significa necessariamente che gli stessi siano destinatari della proposta concordataria e che ad essi sia assicurata una qualche “utilità” (cfr. art. 84 c. 3°), né dovrà essere quindi rispettata alcuna priorità nel loro trattamento a seconda del contenuto di diritti dei relativi strumenti finanziari. Le classi dei soci, infatti, servono solo a farli partecipare al procedimento di approvazione del piano di ristrutturazione, non a farli godere degli output generati dalla regolazione della crisi della loro società ([66]).
Guardando, poi, a come giochi il voto dei soci nel meccanismo di approvazione del concordato preventivo o del piano di ristrutturazione, è evidente che maggiori saranno le classi (anche dei soci), più probabile sarà la possibilità del dissenso anche di una sola di esse, con l’impossibilità di omologare un piano di ristrutturazione dei debiti ex art. 64-bis e la necessità di rispettare le più stringenti condizioni dell’art. 112 c. 2° per l’omologazione di un concordato preventivo in continuità aziendale. Dal che l’evidente disincentivo alla creazione di classi di soci, se il debitore non vi sia obbligato ai sensi del comma 2° dell’art. 120-ter.
Infatti, anche ai fini dell’omologazione di un concordato con classi dissenzienti, in mancanza della maggioranza di classi, occorrerà l’adesione di (almeno) una classe di creditori “che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione”, rendendo così irrilevante l’eventuale approvazione di una classe di soci.
Il solo caso in cui possa tornare utile l’incremento delle classi di soci (quindi, anche se la loro formazione sia solo facoltativa) è se si punti sin dall’inizio alla maggioranza di classi di cui alla prima parte della lettera d) dell’art. 112 c. 2°, maggioranza cui effettivamente potrebbero concorrere anche le classi di soci, ma si tratta di previsione di evento difficilmente governabile e, comunque, anche nel caso di omologazione del concordato a maggioranza di classi, occorre sempre che tra le classi assenzienti ce ne sia almeno una formata da “creditori titolari di diritti di prelazione” [cfr. art. 112 c. 2°, lett. d), parte 1^, CCII].
6. Conclusioni ovvero, meglio, impressioni iniziali (con una proposta)
Sembra prematuro esporre “conclusioni” a proposito di un testo normativo ancora grondante d’inchiostro e così complesso come il Codice della Crisi, testo, peraltro – dai rumors in circolazione, destinato ad un’ennesima “correzione”.
La prima lettura che sta alla base delle opinioni testé esposte consente soltanto di esprimere conclusivamente (id est, al termine dello scritto) acerbe impressioni, a proposito della disciplina consegnata agli operatori circa la posizione dei soci negli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza.
Premesso che una disciplina della posizione dei soci nel processo di ristrutturazione delle società in crisi era senz’altro opportuna, al di là dei problemi interpretativi che pone una tecnica redazionale perfettibile, le regole in materia di governance poste dall’art. 120-bis sono coerenti sia con i doveri di tempestiva reazione allo stato di crisi imposti agli amministratori delle società dall’art. 2086 c. 2° c.c. e dall’art. 3 CCII, sia con la traslazione degli interessi tutelati dall’ordinamento, imposta dalla crisi, da quelli dei soci a quelli dei creditori sociali, con conseguente mutamento degli obiettivi dei quali si fa portatore l’organo di amministrazione.
Più problematica, invece, la parte della disciplina che si occupa dei sacrifici dei diritti di partecipazione dei soci, disciplina che, con il ricorso alla formazione di classi di soci, aggiunge alla loro tutela tramite opposizione all’omologazione (possibile alle condizioni poste dall’art. 120-quater c. 3°, meglio sopra precisate) un potere quasi di veto, il cui esercizio tramite il dissenso di classe non sembra sindacabile ed è in grado provocare l’insuccesso del piano di ristrutturazione (che rischia di non ricevere l’adesione unanime delle classi votanti) o la necessità di procedere all’omologazione del concordato preventivo alle (più) stringenti condizioni poste dall’art. 112 c. 2°. E sembra anche che la tutela offerta ai soci sacrificati, tramite la loro partecipazione al procedimento di approvazione dello strumento di regolazione della crisi, non faccia altro che aggiungersi ad un diritto di recesso che continua a fare capolino tra i casi previsti dagli artt. 2437 e 2473 c.c. [e, perché no, anche dall’art. 2497-quater, in particolare alla lettera c)].
Ma le maggiori perplessità riguardano l’art. 120-quater, norma che forse neppure ci chiedeva l’Unione Europea ([67]), destinata a complicare in maniera importante l’operatività specialmente del concordato preventivo, considerato che, laddove non ci sono classi dissenzienti (tipicamente, nel piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione), l’art. ult. cit. semplicemente non si applica. E poiché la norma impone agli amministratori, forti delle competenze loro riservate dall’art. 120-bis, di annichilire il valore delle partecipazioni sociali tutte le volte che i soci non vogliano (o non possano) apportare contributi al successo del piano, sarà lecito attendersi che i soci schiacciati fuori dalla società votino in maniera “punitiva” contro l’approvazione del piano stesso.
Se è percepibile l’aspirazione del legislatore a rendere partecipi i soci di un qualche (non meglio identificabile) ordine di priorità ([68]), al di là della precaria traduzione dell’aspirazione in regole comprensibili e di certa attuazione, resta dunque che la norma, per fare “giustizia” (redistributiva), mette in crisi l’“efficienza”, perché introduce un potente disincentivo alla presentazione di piani di concordato in continuità aziendale diretta, ove è normale che i vecchi soci aspirino a restare, almeno in parte, “padroni” della loro società ([69]).
Parimenti, sull’altare della giustizia redistributiva si consuma il sacrificio del migliore soddisfacimento dei creditori, la cui stella polare è già piuttosto affievolita nel firmamento della crisi d’impresa ([70]). Se, infatti, un piano di concordato preventivo in continuità diretta sia in grado di assicurare un soddisfacimento della massa dei creditori anche migliore rispetto a qualunque alternativa liquidatoria (e quindi addirittura esuberante rispetto all’obiettivo minimo dell’equivalenza del risultato, imposto dall’art. 84 c. 1°), ciò non sarà sufficiente a rendere ammissibile il concordato, che dovrà prevedere anche un giusto contributo dei soci (o, come visto, la loro “espulsione” dalla società, con i problemi imposti dall’art. 120-ter), in mancanza del quale (e non è sempre detto che i soci, anche nelle imprese superiori alle minori, possano mettere a disposizione molto più del loro personale contributo all’organizzazione d’impresa) ([71]) morirà Sansone (l’imprenditore) con tutti i Filistei (i creditori e, se si vuole, anche l’impresa in sé).
Si ha quindi l’impressione che una regola così farraginosa, pregna di difficoltà interpretative ed operative, innalzerà senz’altro il costo e il rischio delle ristrutturazioni delle imprese in crisi e, pertanto, il margine atteso dai loro protagonisti affinché a dette ristrutturazioni si prestino, senza che si rinvengano particolari benefici compensativi.
Forse, un meccanismo per cui i creditori non integralmente soddisfatti ricevano per legge un’opzione call sulle partecipazioni lasciate ai soci ad un prezzo pari al valore complessivo degli apporti di questi ultimi potrebbe sia incentivare i soci a pagare il prezzo “giusto” delle loro partecipazioni (al quale i creditori non eserciterebbero il diritto di opzione), sia lasciare comunque ai soci la speranza di restare a bordo della loro società anche in mancanza di apporti significativi (confidando nel fatto che i creditori si accontentino di incassare qualcosa del loro credito, senza voler pagare, anche poco, per diventare soci).
C’è da augurarsi che, almeno sul punto, la parola “fine” non sia stata già davvero scritta.
* Una prima versione dello scritto è apparsa sulle Società, n. 8-9/2022. La presente versione è destinata, con qualche successiva aggiunta, a un volume collettaneo a cura di Stefano Ambrosini.
[1] In mancanza di diversa indicazione, gli articoli citati nel testo si riferiscono al Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (“CCII”) approvato dal D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, e ss.mm.
[2] Se si guarda alla topografia del CCII, considerata l’ampiezza della rubrica della Sezione VI-bis (“Strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società”), desta qualche perplessità la sua collocazione in coda al Capo III (del Titolo IV), dedicato al solo concordato preventivo, che tuttavia costituirà probabilmente la procedura che più delle altre subirà l’applicazione delle norme ivi previste.
[3] Seppure di normale applicazione nelle società di capitali.
[4] Cfr. L. Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in Riv. dir. soc., 2020, p. 239 ss, ove, a p. 318, lamentava che “il vuoto del CCI [ante D. Lgs. n. 83/2022, n.d.r.] sul punto è sconcertante”.
[5] In termini di “disallineamento tra potere e rischio”, cfr. I. Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, Milano, 2020, p. 16 ss.
[6] Cfr. “Direttiva Insolvency”, Considerando n. 57, per cui gli Stati membri dovrebbero garantire che i soci (“detentori di strumenti di capitale”) “non possano impedire irragionevolmente l’adozione di un piano di ristrutturazione che ripristinerebbe la sostenibilità economica del debitore”.
[7] V. la Relazione illustrativa al D. Lgs. n. 83/2022 (“Relazione Illustrativa”), p. 74 della versione edita da www.ilcaso.it.
[8] Minori dubbi avevo espresso nella precedente versione del presente contributo, apparsa sulle Società n. 8-9/2022.
[9] Si veda, ad es., l’art. 37, il cui comma 1° si applica agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza ed il comma 2° alla liquidazione giudiziale.
[10] La confusione è aumentata dal fatto che l’art. 39 introduce l’ulteriore concetto di “procedura d’insolvenza” che, pur contrapponendosi agli strumenti di regolazione, sembra rientrare comunque nella definizione di strumento di regolazione posta dall’art. 2, lett. m-bis).
[11] Si può dubitare, ad es., della necessità di depositare nel registro delle imprese la decisione approvata dall’organo di amministrazione, se recante l’unica opzione della domanda di apertura della liquidazione giudiziale.
[12] Cfr. S. Ambrosini, Il Codice della Crisi dopo il D. Lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in Ristrutturazioni Aziendali, 17.07.2022, p. 7.
[13] “Gli amministratori sono tenuti a informare i soci dell’avvenuta decisione di accedere a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza e a riferire periodicamente del suo andamento”.
[14] Absit la tentazione di affrontare in questa sede gli innumerevoli problemi che dipendono dal richiamo dell’art. 90 da parte dell’art. 64-bis c. 9°, con l’applicazione (anche) al piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione della disciplina in materia di proposte concorrenti.
[15] E i soci in quanto tali, nelle società di persone. Ci si potrebbe chiedere se, in queste società, ove operi l’amministrazione disgiuntiva, la competenza “esclusiva” degli amministratori implichi anche una deroga implicita al meccanismo dell’opposizione degli amministratori e della seguente investitura di tutti i soci ex art. 2257 c. 3° c.c. nell’adozione della decisione opposta.
[16] Si segnala, invece, il diverso orientamento della Relazione Illustrativa, per la quale l’art. 120-quinquies “esclude la necessità di loro [dei soci, n.d.r.] deliberazioni al fine dell’attuazione dello strumento omologato, attribuendo i relativi poteri al tribunale, per le modificazioni statutarie che essendo previste in modo specifico dal piano non richiedono alcuna decisione discrezionale, e per tutte le altre, in via generale, agli amministratori”. Sembra invece maggiormente plausibile ritenere che gli amministratori ricevano dalla norma un potere “derivato”, che trova fonte nel provvedimento di omologazione, anche perché non è così semplice immaginare modificazioni statutarie così dettagliate nel piano da essere self-executing.
[17] Pur esso compreso tra gli “strumenti di regolazione della crisi” di cui all’art. 120-bis CCII: cfr. art. 56 CCII. Lo stesso dubbio, peraltro, si potrebbe porre anche per l’accordo sottoscritto dall’esperto ai sensi dell’art. 23 c. 1°, lett. c), CCII.
[18] Cfr. G. Ferri jr., La struttura finanziaria della società in crisi, in Riv. dir. soc., 2012, p. 482.; Id., Ristrutturazioni societarie e competenze organizzative, in Riv. soc., 2019, p. 247 s. Opta per una tesi più stringente, da ultimo (ma con riferimenti anteriori al D.Lgs. n. 83/20222), F. Viola, Il ruolo dell’assemblea dei soci nelle società in concordato preventivo, in ODC n. 1/2022, p. 273 ss.
[19] Si tratta di disciplina che già L. Stanghellini, op. cit., p. 313, auspicava de jure condendo, prima di avere occasione di fare la parte del legislatore quale membro della Commissione Pagni.
[20] Potrà essere quindi oggetto di indagine da parte del tribunale, chiamato ad approvare con decreto la deliberazione di revoca degli amministratori, la sussistenza del presupposto oggettivo richiesto per il ricorso allo strumento regolatorio, in mancanza del quale potranno dirsi assenti le “condizioni di legge” e dunque riscontrabile in detto ingiustificato ricorso l’eventuale giusta causa di revoca.
[21] Sul “principio di neutralità” cfr., ex multis, A. Nigro, Il “diritto societario della crisi”: nuovi orizzonti, in Riv. Soc., 2018, p. 1212 ss.
[22] Cfr. D. Galletti, Regole di priorità e distribuzione del plusvalore concordatario: due passi indietro ed un’occasione importante perduta, nel Fallimentarista, 06.04.2022, p. 1. V. anche l’obiter dictum di Cass. civ., sez. I, 26 maggio 2022, n. 17155 (est. Vella), ove si afferma che l’APR è “regola per vero non sempre applicata nel diritto interno fino alle sue estreme conseguenze nei riguardi dei soci, ai fini della loro ‘permanenza’ nel capitale sociale” (ovviamente, nel vigore della legge fallimentare).
[23] Nessun dubbio, invece, circa l’applicabilità della norma al concordato minore, considerato l’esplicito riferimento alle imprese minori contenuto nel comma 2° dell’art. 120-quater CCII. Ritengo invece inapplicabile l’art. 120-quater CCII al concordato semplificato di cui all’art. 25-sexies CCII, anche per la sola ragione che l’applicazione della norma presuppone un’approvazione della proposta concordataria (senza l’unanimità delle classi) che nel concordato semplificato (in cui i creditori non votano) semplicemente non c’è.
[24] Cfr. S. Ambrosini, op. cit., p. 7: “sarebbe stato opportuno rendere applicabile la norma anche agli accordi di ristrutturazione a efficacia estesa”.
[25] In realtà, la differenza in parte qua tra concordato preventivo e piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione sembra sfumare, quanto all’applicazione dell’art. 120-quater CCII, perché – come si vedrà nel testo – la norma opera effettivamente solo se il concordato sia approvato senza approvazione di tutte le classi, approvazione unanime richiesta invece sempre dal piano di ristrutturazione (cfr. art. 64-bis c. 1 CCII). Resta che si sceglierà verosimilmente lo strumento del concordato preventivo, in luogo del più agile piano di ristrutturazione, se si mette nel conto un dissenso, più o meno ampio, tra le classi ammesse al voto.
[26] “oppure, per le imprese minori, anche in altra forma”.
[27] Mi sembra certo che in questi apporti debbano essere considerati anche i finanziamenti eseguiti dai soci e prededucibili ai sensi degli artt. 22 c. 1°, lett. a), e 102 CCII, se destinati ad essere utilizzati per l’esecuzione di un aumento di capitale sociale. Maggiori dubbi, invece, nel caso di impegno dei soci alla conversione in capitale sociale di finanziamenti da loro erogati prima del ricorso allo strumento di regolazione della crisi, e magari corrispondenti a crediti postergati ex art. 2467 c.c.
[28] Cfr. D. Vattermoli, Concordato in continuità aziendale, Absolute Priority rule e New Value Exception, in Riv. dir. comm, 2014, I, p. 352; v. anche F. Viola, Rapporti tra creditori e tra soci e creditori nella distribuzione del patrimonio di società in concordato preventivo, tra priorità assoluta e relativa, in Rivista ODC, n. 3/2020, p. 871 ss.
[29] A stretto rigore, considerato l’art. 109 c. 5° (“Il concordato in continuità aziendale è approvato se tutte le classi votano a favore”), gli artt. 112 c. 2° e 120-quater consentono l’omologazione di un concordato preventivo non approvato.
[30] Che non sembra richiesto dalla Direttiva Insolvency, nel cui Considerando n. 56 si legge soltanto che gli Stati membri “dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti”; ma delle regole che consentano tale deroga non c’è traccia nell’articolato della Direttiva, né nell’art. 11 (“Ristrutturazione trasversale dei debiti”) né nell’art. 12 (“Detentori di strumenti di capitale”).
[31] La norma corrisponde, a grandi linee, alla trascrizione della regola di priorità relativa posta dalla Direttiva Insolvency, all’art. 11 par. 1, lett. c).
[32] Resta dubbio il funzionamento del meccanismo in caso di più classi dissenzienti: qui, probabilmente, si dovranno svolgere tanti giudizi ipotetici quante siano le classi dissenzienti.
[33] A proposito dei problemi insiti nella valutazione di partecipazioni sociali di società in crisi ed in ristrutturazione, cfr. M. Maugeri, Partecipazione sociale e valore dell’impresa in crisi, in ODCC n. 1-2021, p. 15 ss.; v. anche D. Galletti, op. cit, p. 2 s.
[34] L’art. 120-quater, consentendo di attribuire risorse ai soci in assenza dell’integrale soddisfacimento dei creditori, presuppone ovviamente che non si applichi la Regola di Priorità Assoluta.
[35] Ben segnala la difficoltà di porre una (qualsiasi) regola di priorità tra grandezze disomogenee G. Lener, Considerazioni intorno al plusvalore da continuità e alla “distribuzione” del patrimonio (tra regole di priorità assoluta e regole di priorità relativa), in Diritto della Crisi, 31.01.2022, p. 25 s.
[36] Relazione Illustrativa, p. 75 della versione edita da www.ilcaso.it.
[37] E all’abilità dei consulenti dell’imprenditore in crisi. Inutile tacere che il nuovo Codice della Crisi, tra le mille pieghe delle norme e la proliferazione degli strumenti di regolazione della crisi, costituisce per i professionisti della crisi una palestra d’ardimento estremamente stimolante, nella quale si auspica che ci si eserciti alla massimizzazione e alla migliore distribuzione del valore che detti strumenti possono generare, piuttosto che alla maggiore distrazione di vantaggi privati dagli obiettivi del (migliore) soddisfacimento dei creditori e della conservazione degli organismi produttivi vitali.
[38] Cfr. Relazione Illustrativa, p. 75.
[39] Si potrebbe ben dire: “never was so much owed by so many [problems] to so few [words]”.
[40] Si veda anche la Direttiva Insolvency, che, all’art. 11 par. 1, lett. d), stabilisce che “nessuna classe di parti interessate può ricevere o conservare in base al piano di ristrutturazione più dell’importo integrale dei crediti”.
[41] Cfr. Cass. civ., sez. I, 31 ottobre 2016, n. 22045; va peraltro ricordato che la Corte rimetteva ad un autonomo giudizio di abusività dello strumento concordatario il caso del “sacrificio sproporzionato” del fallito rispetto a quanto necessario all’integrale soddisfacimento della massa creditoria (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25318).
[42] V. CEDU, 14 marzo 2019, caso Arnaboldi c. Italia, 43422/07. In argomento v. anche CGUE 21 maggio 2019, in C235/17, Commissione UE c. Ungheria, quale diretta applicazione degli artt. 1 del Protocollo addizionale CEDU e 17 della Carta dei diritti fondamentali UE contro ogni forma di espropriazione senza indennizzo. Cfr. A. Santoni, Gli azionisti e i detentori di strumenti di capitale nella Proposta di Direttiva in materia di crisi d’impresa, in Riv. dir. comm., 2018, I, p. 371 ss.; I. Donati, Crisi d’impresa e diritto di proprietà. Dalla responsabilità patrimoniale all’assenza di pregiudizio, in Riv. soc., 2020, p. 197 ss.; L. Stanghellini, op. cit., p. 298 ss. Il principio, inoltre, è ripreso da Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25318.
[43] Cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25318.
[44] Cfr. Cass. civ., sez. I, 31 ottobre 2016, n. 22045.
[45] Si vedano oggi, ad es., l’art. 84 c. 1°, ove, a proposito delle finalità del concordato preventivo, si fa riferimento al “soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale mediante la continuità aziendale”; l’art. 25-septies, con la sua “liquidazione del patrimonio” che ben può prevedere la cessione di un’azienda in esercizio. Anche la Direttiva Insolvency, al Considerando n 52, al fine del “migliore soddisfacimento dei creditori”, richiede che “nessun creditore dissenziente esca dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione, sia essa una liquidazione per settore o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale”.
[46] De jure condendo, si tratta di soluzione difensiva già propugnata da A. Santoni, op. cit., p. 364 ss.
[47] In realtà, poiché l’art. 120-bis distacca gli amministratori dai soci, si può immaginare anche che i primi si facciano portatori di interessi “altri”, rispetto a quelli di tutti i soci (ad es., di una componente di creditori forti), sì che la competizione tra società, che formula la proposta di concordato principale, e soci, legittimati alla proposta concorrente, non necessariamente implichi una faglia interna alla compagine sociale.
[48] Si tratta di situazione, peraltro, che può generare conflitti tra creditori, oggi governati, con forse eccessivo rigore (e grande incertezza applicativa), dal’art. 109 c. 6°.
[49] È questa l’opzione interpretativa accolta da S. Ambrosini, op. cit., p. 7, per il quale “in relazione all’accesso alle informazioni [da parte dei soci, n.d.r.] parrebbe applicabile, ancorché non espressamente richiamato, l’art. 92”.
[50] Il legislatore ha infine sdoganato anche questa infelice formulazione lessicale, che sembrava dovesse essere riservata al solo Catasto, ignorando che nel più comune (e corretto) sostantivo “classificazione” sta il classes facere di latina memoria.
[51] Dopo una loro fugace apparizione nell’art. 4-bis del D.L. n. 347/2003.
[52] In realtà, ai fini dell’approvazione del concordato in continuità aziendale, può rilevare anche una maggioranza di classi, nella particolare ipotesi prevista dall’art. 112 c. 2°, lett. d), prima parte.
[53] La formazione di classi consente, non impone, “trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse” (cfr. art. 85 c. 1°).
[54] Ragionamento opposto, ovviamente, va fatto per il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, per il quale l’art. 64-bis c. 1° richiede sempre l’adesione unanime delle classi votanti, ciò che indurrà ad una loro rarefazione. Considerata la maggiore flessibilità della sua disciplina e la maggiore libertà lasciata al debitore, sia nella predisposizione del piano (non soggetto ai vincoli degli artt. 2740 e 2741 c.c.: cfr. art. ult. cit.), sia nella gestione dell’impresa (sottoposta al più blando controllo previsto dal comma 6° dell’art. 64-bis), è lecito attendersi che il debitore si troverà ex ante dinanzi ad un imbarazzante trade-off: puntare sull’unanimità delle classi nel piano di ristrutturazione (salvo virare al concordato preventivo ex art. 64-quater, se l’unanimità non sia raggiunta) o predisporre numerose classi in una proposta di concordato preventivo mettendo nel conto il dissenso di almeno una di esse ma la possibilità di omologazione del concordato alle condizioni di cui al comma 2° dell’art. 112.
[55] E dei titolari di strumenti finanziari assimilabili a capitale di rischio (più precisamente, che non “attribuisc[a]no il diritto incondizionato al rimborso anche parziale dell’apporto”).
[56] La norma fa in realtà riferimento, in generale, a qualsiasi “strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza” ma sembra che non ci sia spazio per (vere, id est incidenti sulle regole di omologazione dello strumento) classi se non nei concordati e nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione.
[57] Per vero, la Relazione Illustrativa, a pag. 74, riferisce: “In presenza di diritti diversi ed ulteriori riconosciuti ai soci dallo statuto originario o come modificato a seguito della ristrutturazione, il classamento richiede la formazione di una pluralità di classi corrispondenti”.
[58] La Relazione Illustrativa, in realtà, riferiva l’obbligo anche alle “grandi imprese”, di cui non c’è traccia nel testo normativo.
[59] L’art. 120-ter c. 2° CCII trova probabilmente origine nella definizione di “parti interessate” contenuta all’art. 2 par. 1, n. 2) della Direttiva Insolvecy, tra le quali stanno anche “i detentori di strumenti di capitale, sui cui … interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione”, considerato che poi l’art. 9 par. 2 richiede (con possibilità di deroga) che “le parti interessate abbiano diritto di voto sull’adozione di un piano di ristrutturazione”.
[60] Cfr. da ultimo, S. Addamo, Diritto di recesso e modifica dei diritti di voto e di partecipazione, Milano, 2022.
[61] Cfr. Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2019, n 13845, in questa Rivista, 2019, p. 936 ss., con nota di A. Busani e D. Corsico, Il “punto g)” del recesso (ovvero: quando c’è modifica dei “diritti di partecipazione” del socio di S.p.A.).
[62] Modificazioni che, sembra di capire, per M. Fabiani, L’avvio del codice della crisi, in Diritto della Crisi, 05.05.2022, p. 19, possono addirittura consistere in una vera e propria espropriazione delle partecipazioni sociali (ovvero nel “trasferimento delle azioni o quote della società cedente”).
[63] Nel confronto con il concordato preventivo, il concordato nella liquidazione giudiziale, con le sue regole di approvazione sostanzialmente immutate dalla legge fallimentare (maggioranza di crediti e maggioranza di classi: cfr. art. 244 c. 1°), sembra un reperto archeologico, riemerso quasi intatto dalle ceneri di un vulcano in eruzione.
[64] La lettera d) del comma 2° dell’art. 112, dedicato all’approvazione del concordato in continuità aziendale con classi dissenzienti, riporta la trascrizione pressoché integrale dell’art. 11 par. 1, lett. b), della Direttiva Insolvency, in materia di c.d. ristrutturazione trasversale dei debiti.
[65] V. Relazione Illustrativa, p. 75: “La formazione delle classi imposta dal comma 2 consente ai soci di esprimere il diritto di voto sulla proposta, in misura proporzionale alla partecipazione al capitale e indipendentemente dai diritti di voto loro riconosciuti dallo statuto”.
[66] Non può escludersi in assoluto, peraltro, che tra le “attribuzioni ai soci” di cui all’art. 120-quater, alle condizioni previste dal’art. ult. cit., ci sia una vera e propria “utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile” (cfr. art. 84 c. 3°), sì da renderli anch’essi destinatari della proposta di ristrutturazione.
[67] Per G. Lener, op. cit., p. 20, l’art. 120-quater sarebbe imposto dall’art. 11 par. 2, Direttiva Insolvency, ma sembra che l’obbligo di attuazione dia per scontato il thema demonstrandum, ovvero il fatto che una regola di priorità possa riguardare, oltre ai creditori, anche i soci. E, comunque, l’obbligo era di attuazione facoltativa (“gli Stati membri possono prevedere …”) ed espressamente derogabile (ai sensi del comma 2° dello stesso art. 11 par. 2 cit.).
[68] Cfr. M. Fabiani, op. cit., p. 18: “Per consentire ai soci di partecipare alla distribuzione delle risorse generate dal plusvalore da continuità occorre che il piano e la proposta ne prevedano l’inclusione in una o più classi votanti”.
[69] Evidenzia correttamente il trade-off tra APR e conservazione dell’impresa S. Pacchi, Par condicio e Relative Priority Rule. Molto da tempo è mutato nella disciplina della crisi d’impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 06.01.2022, p. 26 [“la Relative Priority Rule può indurre i soci a collaborare perché il costo della crisi e allo stesso tempo i benefici conseguiti dalla continuità aziendale vengono spalmati su un numero più ampio di portatori di interessi … se fino all’omologazione il patrimonio (…) appartiene soltanto ai creditori anteriori, dopo l’omologa i flussi della continuità devono essere destinati a chi ha collaborato partecipando al rischio della continuità … il socio, se non ha la possibilità di mantenere la proprietà, non ha quasi mai la volontà di collaborare alla conservazione dell’azienda”]. Nel senso testé indicato, si veda anche il Considerando n. 56 della Direttiva Insolvency: “Gli stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti”.
[70] Il tramonto del MSC si deve soprattutto all’art. 84 c. 1°, per il quale costituisce una finalità del concordato preventivo “il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale mediante la continuità aziendale”.
[71] Nelle sole imprese minori, infatti, ai sensi dell’art. 120-quater c. 2°, gli apporti ai fini della ristrutturazione possono avvenire “anche in altra forma”, diversa da conferimenti o versamenti a fondo perduto.