, 30 giugno 2021, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
Sommario: 1. Premessa. – 2. La valorizzazione del fattore lavoro e l’impostazione della Direttiva 1023/2019. – 3. Un sistema di allerta per informare i lavoratori. – 4. La proposta di discontinuità gestionale con entrata dei lavoratori. – 5. Il lungo cammino delle ERT e dei WBO. – 6. I WBO in Italia. – 7. I WBO inquadrati in seno alle procedure concorsuali esistenti tra soddisfacimento dei creditori e continuità dell’impresa. – 8.I WBO nel concordato fallimentare. – 9. I WBO in un piano di concordato preventivo. – 10. La ristrutturazione aziendale con i WBO. – 11. Conclusioni.
* Il presente contributo è destinato al volume collettaneo “Le soluzioni negoziate della crisi d’impresa”, a cura di Stefano Ambrosini, in corso di pubblicazione per i tipi della Giappichelli.
1. Premessa.
Il danno che hanno subito le imprese in questa stagione pandemica ci pone di fronte a un caso di evidenti esternalità negative che possono essere gestite dallo Stato [1] attraverso l’attività legislativa supportata sia dall’interpretazione equilibrata del Giudice che da un lavoro attento dei professionisti.
Nelle fasi di grave crisi, oltre a leggi adeguate, sono infatti necessarie infrastrutture istituzionali, giudiziarie e professionali organizzate e formate [2] perché l’attività loro richiesta è maggiore e la velocità delle decisioni determina l’efficacia di ogni strumento.
Per quanto riguarda l’azione legislativa è importante non trascurare che la competizione tra ordinamenti giuridici è rafforzata dall’attuale crisi di dimensione globale, perché un intervento legislativo efficace porta alla ripresa di un’economia, altrimenti determinandosi una retrocessione nello scacchiere internazionale.
Legislatori, regolatori finanziari e organizzazioni internazionali hanno risposto al Coronavirus con un pacchetto di misure legali, economiche e finanziarie [3]. Molti di loro hanno proposto o implementato modifiche temporanee ai loro quadri in materia di insolvenza discutendo se l’uso del sistema fallimentare debba essere la soluzione ottimale per affrontare le aziende colpite dalla pandemia, altri hanno introdotto misure straordinarie di carattere emergenziale e quindi temporaneo [4].
I legislatori sono dinanzi ad una sfida importante [5] perché devono tener conto dell’ambito di applicazione.
È sufficiente una moratoria per congelare la situazione o sono indispensabili anche di nuovi strumenti con cui gestire velocemente la crisi? A chi dovrebbero applicarsi? A tutte le imprese, indipendentemente dalla loro dimensione e natura? E poi, a tutti coloro che oggi si dichiarano in crisi o solo a coloro che risultano essere “vittime” della pandemia? Regole con un orizzonte ristretto possono essere di scarsa utilità, così come regole troppo ampie possono avere conseguenze imprevedibili.
Nella corretta soluzione di questo problema sta l’utilità dello strumento prescelto che, se adottato tempestivamente, dovrebbe avere la capacità di offrire soluzioni chiare, veloci, efficienti ed economiche, riducendo così anche i costi di applicazione.
In ogni caso è urgente intervenire, in particolare per tutelare le piccole e medie imprese [6], perché in uno stato di emergenza come quello attuale, l’ordinamento della crisi, finalizzato principalmente alla tutela del creditore e rispettosa del mantenimento dell’equilibrio competitivo, è moderatamente incline a tutelare l’attività economica comprimendo i diritti di credito ed è parca di strumenti adeguati ad aiutare le imprese. Vi è poi un ulteriore problema che non è possibile ignorare: quello dell’equilibrio tra gli interessi in gioco.
In una situazione di crisi generalizzata, il legislatore ha, infatti, il compito di realizzare il più efficiente equilibrio tra l’interesse dei debitori (quello della continuità) e l’interesse dei creditori (quello ad ottenere soddisfacimento), perché in questo equilibrio riposa l’interesse generale. Ecco, in sintesi, il problema: né eliminare subito il debitore che oggi, a causa del Coronavirus, è in crisi di liquidità, né convertire i creditori in debitori [7]. In entrambi i casi, si distruggono posti di lavoro. Pertanto, il principio della ripartizione delle perdite tra tutti gli stakeholders dell’impresa deve essere regolato con estrema cautela.
Il programma deve essere volto alla tutela e al recupero delle attività produttive degne di essere preservate. La selezione è, infatti, imprescindibile onde evitare l’aggravamento della situazione economica con la dispersione di tante risorse che potrebbero invece essere impiegate in attività recuperabili. La sostenibilità deve essere verificata in ogni operazione conservativa.
A tal fine, nella ricerca di misure efficaci, è però necessario anche verificare se le regole dell’ordinamento della crisi possano consentire l’utilizzo di strumenti, talvolta non sufficientemente sviluppati fino ad oggi, ma tuttavia, almeno potenzialmente, idonei a conciliare gli interessi dei vari stakeholders – creditori finanziari, fornitori, lavoratori e collettività – con quello del complesso aziendale alla continuità.
Stiamo vivendo una stagione in cui, per realizzare una sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo, è necessario infatti evitare “la veduta corta” [8] esplorando percorsi che recuperino e valorizzino – secondo canoni raccomandati recentemente dal legislatore Unionale – l’apporto degli stakeholders. Tra questi i Workers buyout (d’ora innanzi WBO) presentano diversi profili a ciò funzionali [9]. Grazie a questo strumento, infatti, i lavoratori, da una parte, creano un’alternativa occupazionale, salvaguardano il know how acquisito, garantiscono la continuazione delle attività e la valorizzazione degli asset aziendali, talvolta tutelano una produzione tipica che potrebbe andare perduta, altre volte ancora assicurano la proprietà di un’impresa tradizionalmente o strutturalmente legata a un certo territorio.
2. La valorizzazione del fattore lavoro e l’impostazione della Direttiva 1023/2019
In questa ottica il fattore lavoro, sul quale per primo ricadono gli effetti della crisi dell’impresa, può costituire un riferimento per disegnare una soluzione che concili l’istanza di continuità sia rispetto all’occupazione sia al complesso aziendale nell’ottica della tutela dei rapporti economici costituzionalmente protetti dal Titolo III della Costituzione.
Stiamo vivendo una stagione nella quale – e la citazione si colloca in uno scritto di pochi anni fa [10] – “diventano sempre più forti le istanze di un ripensamento dell’impresa secondo canoni comunitari, innervati su una ricomposizione dei rapporti con tutti gli stakeholders; ed è evidente il ruolo di inevitabile protagonista ricoperto dal fattore lavoro, da un lato principale destinatario dei tristemente noti effetti della crisi, e dall’altro prioritario riferimento per uscirne il prima possibile”.
L’apparato produttivo rilevato dai dipendenti per continuare l’attività nella quale erano impiegati, può diventare – a patto di rivedere il sistema informativo interno all’impresa – la soluzione sostenibile per comporre alcune crisi d’impresa. Si tratta del WBO, strumento idoneo ad affrontare anche ulteriori scenari: quello in cui manca l’individuazione (da parte dell’imprenditore) di un successore alla guida dell’azienda oppure quello di aziende confiscate.
Lo scenario oggetto di questo studio – quello della regolamentazione della crisi d’impresa – ha visto la nascita dei WBO. Sulla base del nostro Ordinamento della crisi – alla luce sia della legge fallimentare vigente che del Codice della crisi – questo strumento può trovare spazio non solo nella procedura liquidativa “maggiore” (fallimento/liquidazione giudiziale) ma anche in quella di concordato preventivo ed, in particolare, in quello in continuità indiretta.
Nel fallimento i WBO possono essere preparati/agevolati, mantenendo interinalmente attiva l’azienda, con l’esercizio provvisorio o con l’affitto d’azienda.
Nel concordato preventivo, invece, il percorso può estrinsecarsi o in una proposta concorrente o nella partecipazione alla gara di acquisto.
In queste procedure concorsuali l’acquisizione vede come interlocutore – a seconda della procedura in cui ci si muova – o il liquidatore o il curatore fallimentare o lo stesso proprietario.
Oggi l’affermazione senza preconcetti di un simile processo di valorizzazione della forza lavoro può costituire solida garanzia per una sostenibilità di lungo periodo [11].
Non è da trascurare, infatti, che questo orientamento è in linea con quanto preannunciato dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 14 marzo 2014 [12] e affermato nettamente dalla Direttiva Insolvency 1023/2019 [13] che, ancorché ad oggi non recepita dall’ordinamento italiano, costituisce la bussola per l’interpretazione delle norme del diritto nazionale [14]. Se al centro della Direttiva è colui che svolge un’attività economica produttiva di beni o di servizi e, come tale, inserito nel genus dell’imprenditore sia esso un esercente una professione “liberale” [15] o, invece, un’impresa, occorre dire che l’immagine che pervade la Direttiva è quella di un soggetto ammantato da una intensa colorazione sociale [16].
Risalta il rimando continuo ai lavoratori, ai posti di lavoro, agli stakeholders in nome e a vantaggio dei quali la ristrutturazione dovrebbe essere operata [17] in quanto strumento per tutelare i posti di lavoro e preservare l’attività imprenditoriale [18].
Si tratta di richiami che aprono a modalità di coinvolgimento dei dipendenti nell’interesse della stessa attività che nell’attuale situazione post pandemica devono essere oggetto di attenta valutazione per gli orizzonti che possono aprire. È in gioco non solo il diritto dei lavoratori al trattamento economico, agli orari, all’organizzazione del lavoro ma, soprattutto, l’imperativo di favorire la sopravvivenza delle imprese stesse e, di conseguenza, l’occupazione.
Oggi, è infatti necessario rimodulare efficacemente le dinamiche delle relazioni industriali e individuare nuovi paradigmi operativi per concretizzare le prospettive evocate in sede teorica.
3. Un sistema di allerta per informare i lavoratori
A dimostrazione della centralità ricoperta dai prestatori di lavoro, la Direttiva dipana innanzi tutto lo schema dell’allerta in funzione del loro interesse all’informazione [19].
Prendendo le mosse dalle situazioni di fatto che emergono in tutti i Paesi e che evidenziano una tardiva adozione dello strumento per risolvere la crisi, l’Unione Europea, facendo propri gli standard elaborati da Organismi internazionali – quali il Financial stability Forum, Uncitral, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale – pone l’allerta come meccanismo sul quale costruire una rinnovata cultura della crisi che, se deve privilegiare, ove possibile e attraverso rapide e poco costose soluzioni stragiudiziali, la continuità, – non però finalizzata alla conservazione della titolarità dell’imprenditore ma come strumento per il benessere di tutti gli stakeholders – consenta, nei restanti casi, un accesso rapido alla procedura liquidativa che può, grazie a meccanismi di conservazione “attiva” dei valori aziendali, sfociare in una trasmissione unitaria dell’unità produttiva o di suoi rami.
In ogni caso è determinante il tempestivo accesso per incrementare la recovery per i creditori e velocizzare (nelle procedure di ristrutturazione) il ritorno all’equilibrio finanziario dell’impresa. L’allerta precoce costituisce, quindi, il punto di snodo della Direttiva (art. 3), imprescindibile per impostare un efficace percorso per la continuità e costituisce la piattaforma sulla quale la Direttiva dipana le linee per armonizzare all’interno dell’Unione Europea le procedure di ristrutturazione preventiva.
Implementato secondo le esigenze di ciascun Stato, il sistema di allerta concepito dalla Direttiva è declinato in meccanismi che scattino al momento del verificarsi di inadempimenti; con consulenza fornita da organizzazioni pubbliche e private; con incentivi per i creditori che collaborino; con strutture informative accessibili, soprattutto a tutela dei lavoratori per i quali gli Stati possono creare supporti per valutare la situazione economica del debitore. In queste previsioni risaltano esclusivamente gli strumenti di allerta esterni affidati ai creditori, mentre nessun cenno è fatto ai compiti e doveri di coloro che all’interno dell’impresa recepiscono i primi segnali di crisi. In sostanza non si rinviene nessun sistema di induzione verso l’emersione tempestiva della crisi.
È in giuoco il confronto tra interesse dell’impresa alla riservatezza di notizie che possono nuocerle; interesse/diritto dell’imprenditore a scegliere quando e come affrontare la crisi; interesse degli stakeholders a non vedersi appesantiti oltre misura dai riflessi negativi della crisi. Dinanzi a queste opzioni appare chiara la scelta della Direttiva che pone in primo piano “l’approccio propositivo e collaborativo, rispetto a quello impositivo e sanzionatorio, adottando una visione ‘sociale’ dell’impresa in crisi, nella quale si stagliano, accanto ai ruoli tradizionali del debitore e dei creditori (sia pure in una progressione di tutele decrescenti) le figure dei lavoratori, degli altri stakeholders e degli stessi soci (…)” [20].
Il legislatore Europeo vuole mettere dinanzi alle proprie responsabilità i principali protagonisti di una crisi – gestori, controllori e creditori – e a tal fine utilizza strumenti diversamente affilati, collocati all’interno della fucina del sistema di Allerta. Nell’intento di agevolare la composizione della crisi, il Legislatore, inoltre, prevede “servizi di consulenza forniti da organizzazioni pubbliche o private” (art. 3, par. 2, lett. b).
Per quanto riguarda i segnali interni la Direttiva pare voler dire che questi non devono costituire un piano inclinato verso la pubblicità negativa dell’impresa bensì un momento in cui raccogliere informazioni consigliando o inducendo a comportamenti necessari/dovuti.
Il sistema si immagina composito e multilivello. La informazione è la pietra angolare della Direttiva, la quale ripartisce, per quanto riguarda l’allerta, gli oneri di comunicazione tra debitore-contabili-autorità fiscali e di sicurezza sociale. Destinatari delle informazioni devono essere soprattutto il debitore e i rappresentanti dei lavoratori. Questi ultimi – e la possibilità conferma la visione sociale dell’impresa – possono essere anche supportati, probabilmente dagli stessi organismi che forniscono consulenza, nella valutazione dello stato dell’impresa al fine di una più consapevole e informata contrattazione.
Dalla lettura dell’art. 3 della Direttiva ricaviamo la percezione di un approccio quasi di soft law. Nessun cenno a Giudici o Tribunali. Piuttosto un invito ad un’assunzione tempestiva di consapevolezza “attiva” non solo da parte dell’impresa ma anche dei lavoratori che possono concorrere a spingere i gestori a programmare immediatamente una soluzione della crisi.
A tal fine la Direttiva (art. 4, par. 8) prevede che: “Gli Stati membri possono altresì prevedere che il quadro di ristrutturazione preventiva previsto a norma della presente direttiva sia disponibile su richiesta dei creditori e dei rappresentanti dei lavoratori, previo accordo del debitore”.
Probabilmente è questa la traccia che il nostro Legislatore dovrebbe seguire prendendo atto della necessità da un lato di un sistema di spinte – però semplice e senza “spauracchi” sanzionatori – verso la tempestiva emersione della crisi e dall’altro di un dialogo con lavoratori e altri stakeholders costruito sull’informazione, la collaborazione e la concertazione finalizzate alla prosecuzione dell’attività se pure con una discontinuità gestionale che possa valorizzare skills e conoscenze.
È indubbio, così, che la Direttiva apre alla valorizzazione di prospettive di salvaguardia dell’attività economica che nel nostro Paese, se pur talvolta praticate, sono da ritenersi ad oggi non ancora sufficientemente esplorate nonostante che l’ordinamento concorsuale – sia quello vigente che quello prossimo venturo – presenti varie brecce applicative.
4. La proposta di discontinuità gestionale con entrata dei lavoratori
Il particolare momento storico-economico impone di rimeditare tappe e strumenti concorsuali [21]. Sulla scia delle tendenze marcate in sede Unionale all’approccio precoce alle ristrutturazioni per le quali i lavoratori possono farsi parte attiva, propongo così di riflettere su quel modello per la continuità che vede i lavoratori impegnati nell’acquisizione dell’azienda dell’impresa in crisi attraverso la costituzione di una cooperativa di lavoro. Si tratta del Workers buyout [22](d’ora innanzi WBO).
Con questa operazione di acquisizione siamo all’interno dello strumento del buy out che può variamente declinarsi a seconda del soggetto che porta a compimento l’operazione.
Così possiamo avere un Management buy out quando è il gruppo dei manager che acquista l’azienda in cui lavora. Ha successo perché i soggetti conoscono a fondo l’impresa. Può invece presentarsi come Leveraged buy out quando un gruppo di investitori professionali (un fondo di venture capital e private equity) acquista la società con lo scopo di rivenderla dopo averne incrementato il valore. Possono essere amichevoli o ostili a seconda che la società approvi o meno l’acquisizione.
Può poi trattarsi di Family buyout a cui si ricorre nel passaggio intergenerazionale in aziende a conduzione familiare. Infine, i WBO in cui i soggetti promotori sono i dipendenti. Con questa espressione indichiamo, dunque, un’operazione di acquisizione del capitale di un’impresa da parte dei lavoratori.
Questi ultimi, grazie ad una serie di strumenti e al sostegno di attori sociali ed economici, decidono di acquistare l’azienda o rami di essa – quando questa è in crisi e la proprietà non sia in grado di formulare un piano di continuità – trasformandola in cooperativa e divenendo essi stessi imprenditori [23].
L’operazione di acquisizione dell’azienda in esame si distingue, quindi, sia per le parti che vi partecipano (da una parte l’imprenditore e dall’altra coloro che fino a quel momento erano alle sue dipendenze in quanto lavoratori), sia per la forma organizzativa dell’attività (la cooperativa) che subentra alla precedente e che consente si possa sommare nei partecipanti la qualifica di socio con quella di lavoratore, venendo così ciascuno ad essere nel contempo datore di lavoro di tutti, gestore dell’impresa e lavoratore.
Con i WBO non abbiamo dinanzi soltanto il processo per cui i lavoratori diventano imprenditori per rilevare il complesso aziendale nel quale prestavano la propria attività, bensì anche l’assunzione di un ruolo da parte del modello societario cooperativo nel percorso di conservazione di imprese in crisi. Il tema del WBO schiude, quindi, lo scenario della nascita di una nuova “soggettività d’impresa” e di un nuovo soggetto, “il lavoratore associato”, socio della cooperativa di lavoro.
5. Il lungo cammino delle ERT e dei WBO
È del 1819 il primo caso in cui i lavoratori di una fabbrica inglese di tabacco decidono di occupare lo stabilimento per iniziare a produrre in maniera del tutto indipendente [24].
Questa forma di acquisto e conversione aziendale, spesso erroneamente considerata sullo stesso piano del WBO, si è affermata poi in SudAmerica (Argentina) a cavallo degli anni 2001-2002 [25] dove prende il nome di ERT (Empresas recuperadas por sus trabajadores) [26]. I lavoratori occupavano lo stabilimento e proseguivano la produzione senza alcuna trattativa con i precedenti proprietari [27]. Ricordo l’impresa di ceramica della Patagonia Zanon e l’hotel Bauen in Buenos Aires [28].
All’origine dell’esperienza argentina vi è un conflitto tra diritto al lavoro e al sostentamento da un lato e diritto di proprietà dall’altro. È lo scontro tra necessità e prerogative: le necessità materiali di sopravvivenza dei lavoratori e le prerogative degli imprenditori che sulla proprietà dell’azienda ergevano il diritto di disporne discrezionalmente e senza confrontarsi con le aspettative della collettività.
Il fenomeno, che in quegli anni si è propagato in quasi tutta l’America Latina, vedeva l’occupazione di aziende di imprese fallite da parte dei lavoratori, che di fatto riprendevano o continuavano la gestione, contrastando la procedura concorsuale che si era aperta ma senza un titolo che avesse trasferito la proprietà dei beni con conseguente onere di soddisfare i creditori né un’autorizzazione giudiziale che avesse disposto circa la prosecuzione dell’attività [29]. La vertenza aveva come parti i lavoratori, la procedura e i creditori.
E ciò, nonostante che la legge argentina preveda la possibilità che i lavoratori presentino una richiesta di proseguire l’attività organizzandosi in cooperativa e, comunque, esercitando l’attività per un tempo stabilito, sotto il controllo del giudice, e a vantaggio di tutti i creditori concorsuali [30].
Opposto, quindi, il percorso del movimento de las Empresas recuperadas por los trabajadores per il quale la costituzione della cooperativa era un posterius dopo l’occupazione dell’azienda e una gestione politica dell’impresa [31] per la cui legittimazione veniva poi promulgata una legge per conferire loro il titolo di “soggetti esproprianti” con il diritto di trasferire la proprietà di quei beni senza passare attraverso il processo di liquidazione.
Questi processi, incoraggiati da alcuni movimenti e partiti politici, erano in contrasto con la Costituzione, e con la legge sui fallimenti [32]. Secondo quegli ordinamenti della crisi quando un’impresa è dichiarata fallita, il suo proprietario viene spossessato dei suoi beni, che vengono amministrati da un funzionario giudiziario, il trustee, e liquidati in un procedimento diretto dal giudice e nel rispetto dei diritti costituzionalmente protetti delle parti. I percorsi delle empresas recuperadas – lontani quindi da quelli dei WBO – rompono questi schemi giuridico-concorsuali annoverandosi nell’ambito delle espropriazioni.
Mentre in Argentina così le imprese recuperate nascono quasi esclusivamente nel conflitto tra lavoratori e proprietà e/o istituzioni, in Italia, invece, le esperienze di WBO sorgono prevalentemente attraverso un passaggio di proprietà che porta alla trasformazione dell’impresa da società di capitale a società cooperativa attraverso un processo di tipo tecnico all’interno del sistema cooperativo [33]. Se pure talvolta il conflitto è presente, in quanto portato della crisi dell’impresa e della paventata sua cessazione, questo ha trovato talora la sua composizione nell’accettazione della soluzione del buy out e nella creazione della cooperativa [34].
6. I WBO in Italia
In Italia il fenomeno può essere fatto risalire al 1874 quando il proprietario di una fabbrica di stoviglie e maioliche dona l’impresa ai lavoratori che la trasformano nella Cooperativa ceramica d’Imola, diventando così la più antica cooperativa italiana di produzione e lavoro [35].
Per quanto riguarda il contesto giuridico, il riconoscimento della possibilità da parte dei lavoratori di acquisire la proprietà di un’impresa preesistente e il sostegno economico alla conversione sono stati istituiti solo negli anni Ottanta dello scorso secolo. La vicenda del Wbo è legata sia all’andamento dei cicli economici – vi si ricorre quando scarse sono le soluzioni all’interno della stessa impresa o delle imprese del settore – sia all’evoluzione dell’ordinamento della crisi da una parte che della cooperativa dall’altra.
È del 1985 – siamo in piena crisi petrolifera – la legge Marcora (legge n. 49/1985) che ha promosso la costituzione di cooperative da parte di lavoratori licenziati, cassaintegrati o dipendenti di aziende in crisi o in procedure concorsuali attraverso un fondo di rotazione per il finanziamento di progetti presentati da società cooperative (fondo gestito principalmente da Cooperazione Finanza Industria – CFI, società cooperativa partecipata e vigilata dal MISE, investitore istituzionale), nonché attraverso un fondo statale speciale per gli interventi a salvaguardia dei livelli occupazionali tramite l’assunzione da parte dei lavoratori di opportune iniziative imprenditoriali in forma cooperativa.
Con questa legge veniva riconosciuta la possibilità di costituire società finanziarie che avrebbero ricevuto contributi pubblici a fondo perduto per intervenire nel capitale di rischio di nuove cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione o comunque espulsi dal circuito produttivo.
A questo scopo le associazioni cooperative ed i sindacati dettero vita ad una sola società, CFI, che poteva sottoscrivere capitale sociale della nuova cooperativa pari a tre volte il capitale sottoscritto dai soci. Con questa operazione lo Stato sostituiva un costo certo (la cassa integrazione) con una scommessa sui lavoratori, che, se vinta, avrebbe trasformato l’intervento dello Stato in una partecipazione.
Nel dettaglio, la legge favoriva la creazione di nuovi strumenti di finanziamento per le imprese cooperative e prevedeva l’erogazione di contributi secondo un rapporto di 3:1 fra quanto versato dallo Stato e quanto versato dai lavoratori. A questa previsione si aggiunge nel 1991 la L. 223 che prevedeva la possibilità di anticipare l’indennità di mobilità per versarla a titolo di capitale sociale della cooperativa.
Alla fine degli anni ’90, il quadro normativo della Legge Marcora veniva temporaneamente sospeso a causa di una pronuncia dell’Unione europea secondo la quale il regime messo in atto dalla legge italiana violava le regole di concorrenza.
Una rivitalizzazione della Legge Marcora fu determinata, nel 1992, dalla L. 59 che – introducendo nuove norme in materia di società cooperativa – disciplinò la figura del socio sovventore quale socio a tutti gli effetti della cooperativa (ispirandosi appunto al modello che di questa categoria di soci si incontrava nelle società finanziarie previste dalla legge n. 49/1985) e dell’azionista di partecipazione cooperativa. Inoltre, la legge n. 59/1992, all’art. 11, fornisce la possibilità alle associazioni cooperative di dare vita a strumenti finanziari per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, le cui risorse sono fornite dalle stesse cooperative tenute a versare ai fondi mutualistici il 3% degli utili annuali.
Il 5 marzo 2001, poi, giunge una riforma della Legge Marcora, la legge n. 57/2001, basata sull’aggiunta di due nuovi articoli. Con questo intervento veniva modificata la mission della Legge Marcora che aveva rappresentato una forte innovazione nel. Nostro Ordinamento. L’art. 7, comma 1, limita il finanziamento di un WBO da parte dello Stato portandolo entro il limite del rapporto 1:1. Tale finanziamento deve essere restituito dai dipendenti entro un periodo di 7/10 anni.
L’art. 17, comma 5, consente poi al WBO di avere un socio finanziatore come membro della cooperativa per l’intera durata dell’investimento. Il socio finanziatore può essere una persona giuridica, una cooperativa o una qualsiasi altra entità avente “interessi finanziari”, anziché mutualistici. La quota di voto di un socio finanziatore in assemblea non può superare un terzo del totale. Questa figura di socio permette, così, anche ai consorzi finanziatori di partecipare al processo decisionale e alla gestione delle cooperative finanziate [36].
Siccome il processo di WBO è anche frutto di un meccanismo negoziato tra lavoratori, Stato e settore cooperativo, lo Stato ha messo a disposizione due fondi per le operazioni di WBO, al fine di promuovere e assicurare i livelli di occupazione e di favorire la conversione di aziende in cooperative, soprattutto in tempi di crisi [37]: (a) Foncooper, un fondo di rotazione costituito da prestiti a basso interesse (controllato dalla Banca Nazionale del Lavoro), e (b) il “Fondo Speciale per la salvaguardia dei livelli occupazionali” (“Fondo Speciale”) per lo sviluppo di nuove cooperative, messo a disposizione delle istituzioni finanziarie che hanno il compito di gestire il fondo per conto dello Stato. Questi fondi hanno contribuito alla capitalizzazione delle nuove cooperative sotto forma di capitale sociale o di debito.
L’investitore istituzionale principale e storico per il sostegno e il finanziamento di WBO in Italia è, comunque, Cooperazione Finanza Impresa (CFI), che è stata gestore del Fondo Speciale, ad oggi l’unica cooperativa finanziaria per la gestione degli interventi previsti dalla legge Marcora. Numerose sono state le collaborazioni tra CFI e istituzioni, sindacati, autorità locali e operatori nazionali e regionali [38].
La Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue (Legacoop), la Confederazione Cooperative Italiane (Confcooperative) ed altre federazioni hanno messo a disposizione finanziamenti in capitale sociale o di debito soprattutto attraverso i fondi mutualistici del movimento cooperativo (Fici, 2013), ma anche assistenza tecnica e accesso al know-how, spesso in sinergia con CFI ed altre organizzazioni.
Lo strumento dei WBO è quindi strettamente legato a quello della cooperativa valorizzato anche dagli organi dell’Unione europea riprendendo le linee della Legge Marcora. Così, nel Parere reso il 12 aprile 2012 [39] dal Comitato economico e sociale europeo (CESE) sul tema “Cooperative e ristrutturazione” [40] viene posto l’accento sulla resistenza delle cooperative “alle ‘turbolenze’ della crisi rispetto alle imprese convenzionali attive negli stessi settori e sugli stessi territori” e sulla capacità delle cooperative sociali di adottare un approccio a lungo termine per conseguire la sostenibilità economica e sociale per i membri delle cooperative, pronte a sacrificare la remunerazione del capitale pur di mantenere l’occupazione e gli investimenti. Sulla stessa linea già si era posta la Commissione Europea [41] protesa a favorire la ristrutturazione responsabile dell’impresa grazie alla partecipazione e al coinvolgimento dei lavoratori e che sfociava nellaRisoluzione del Parlamento europeo del 2 luglio 2013 sul contributo delle cooperative al superamento della crisi [42] dove viene sottolineato come il modello cooperativo “promuova l’esistenza di cooperative caratterizzate da un approccio intergenerazionale a lungo termine e radicate nell’economica locale, che aiutino lo sviluppo sostenibile locale ed evitino le delocalizzazioni”. A tal fine la Risoluzione del Parlamento Europeo promuoveva il sostegno alle cooperative di lavoro e ai worker buyout, di linea di bilancio dell’UE che prevedesse opportuni strumenti finanziari e la creazione, con la partecipazione della Banca europea per gli investimenti (BEI), delle parti sociali e degli stakeholder del movimento cooperativo, di un meccanismo europeo volto a promuovere lo sviluppo delle cooperative e, in particolare, le riconversioni di imprese in cooperative anche, ad esempio, attraverso lo strumento dei fondi mutualistici.
Quasi in contemporanea con le spinte Unionali, il nostro legislatore, nel 2013, interveniva con il d.l. 145 – il c.d. Decreto Destinazione Italia – (conv. nella legge n. 9/2014) che prevedeva “Misure per favorire la risoluzione di crisi aziendali e difendere l’occupazione”, all’interno delle quali istituiva la prelazione per l’affitto d’azienda o vendita di aziende o rami di imprese in crisi.
Al fine di favorire lo sviluppo economico e la crescita dei livelli di occupazione nel Paese, con decreto del Ministro dello sviluppo economico 4 dicembre 2014 è stato istituito, ai sensi di quanto previsto all’art. 1, comma 845, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 e ss.mm.ii., un apposito regime di aiuto finalizzato a promuovere la nascita e lo sviluppo di società cooperative di piccola e media dimensione.
A favore delle cooperative costituite dai lavoratori è stato inoltre previsto il diritto di “prelazione” per l’affitto o l’acquisto di aziende in fallimento o altra procedura concorsuale, ed è stato anche riconosciuto il diritto di ottenere, “all’atto dell’aggiudicazione dell’affitto o della vendita”, l’anticipazione in unica soluzione delle somme altrimenti riconosciute per il loro trattamento di disoccupazione nel caso di interruzione del rapporto di lavoro (Naspi), con vincolo di destinarle alla capitalizzazione della cooperativa [43].
Da ultimo, in piena pandemia, intervenivano due importanti disposizioni: l’art. 39, comma 5-bis, del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 – cosiddetto “decreto Rilancio” (convertito con modificazioni nella legge 17 luglio 2020, n. 77) – ampliava le risorse pubbliche con un ulteriore stanziamento di 15 milioni di euro destinati al sostegno di queste iniziative e, poco dopo, il decreto del Ministero dello sviluppo economico 4 gennaio 2021 (Nuova Marcora) istituiva un nuovo regime di aiuto volto a rafforzare il sostegno alla nascita, allo sviluppo e al consolidamento delle società cooperative.
L’ultimo intervento agevolativo prevede che la procedura di concessione del finanziamento agevolato a favore delle società cooperative continui ad essere gestita dalle società finanziarie partecipate dal Ministero a cui è affidata l’attuazione degli interventi ai sensi della citata legge n. 49/1985, al fine di assicurare al “piano d’impresa” delle società cooperative un’adeguata ed equilibrata copertura finanziaria, sia in termini di mezzi propri sia di indebitamento a medio lungo termine.
Anche con questi interventi emergenziali – nel quadro di una rinnovata gestione democratica dell’impresa – si rimarca, dunque, la potenzialità di questi strumenti.
7. I WBO inquadrati in seno alle procedure concorsuali esistenti tra soddisfacimento dei creditori e continuità dell’impresa
I WBO sono, infatti, interventi che, in situazioni di crisi dell’impresa, possono essere realizzati o all’interno di un fallimento o di un concordato preventivo, entrambe procedure concorsuali che consentono, se del caso avvalendosi di strumenti che possono facilitare l’operazione, il trasferimento del complesso aziendale o di suoi rami in funzione della conservazione dei valori produttivi.
Le rammentate procedure che, a partire dagli interventi riformatori del 2005-2006, sono state incise da continui e significativi rinnovamenti, non hanno tuttavia dato i risultati attesi, risultando ancora marginali i casi nei quali è stata assicurata la continuità e troppo frequenti all’opposto quelli di vendite atomistiche.
Ritengo quindi che sia utile soffermarsi brevemente sulla vigente disciplina concorsuale per individuare aperture e fragilità rispetto all’utilizzo dei WBO.
Come è noto dai primi anni duemila il diritto della crisi ha dismesso la veste di law of morality per indossare quella di law of continuity [44]. Questo settore del diritto è da allora indirizzato verso l’obbiettivo della continuità quale mezzo per soddisfare meglio i creditori, nonché per evitare l’impoverimento del tessuto economico e di tutti gli stakeholders derivante dalla cessazione delle imprese in crisi “recuperabili” [45].
La prima ondata riformatrice del nostro sistema concorsuale prendeva, infatti, le mosse da una diffusa denuncia di inadeguatezza della legge fallimentare del 1942 che non tutelava né l’impresa in un tentativo, se pur difficile, di recupero, né i creditori nell’aspirazione ad un soddisfacimento adeguato sia per la somma-percentuale che per il tempo che impiegavano ad ottenerla. La disfunzione appariva legata all’idea attorno alla quale risultava impostata la disciplina, protesa alla monetizzazione del patrimonio per il recupero di somme di denaro anziché allo sfruttamento dei valori aziendali per conservare un bene utile per i creditori e per il mercato.
Questa visione emergeva non solo nel fallimento, volto alla vendita atomistica e, quindi, alla disgregazione dell’azienda ma anche nella procedura c.d. minore (concordato preventivo) priva di un supporto normativo elastico che consentisse una soluzione alternativa ed efficace alla procedura maggiore.
Così, nel 2005-2006, il riformatore compiva una svolta nella predisposizione di strumenti duttili, aperti alla ristrutturazione così come alla cessione, legati però, ove possibile, da un comune obiettivo: la conservazione dei valori ancora esistenti.
Se al centro dell’intervento normativo vi era la convinzione che la conservazione dei complessi produttivi trovasse la sua sede “naturale” negli strumenti di prevenzione cionondimeno quell’obbiettivo poteva essere perseguito perfino nel fallimento – grazie ad una propedeutica “amministrazione (o amministrazione/liquidazione) strategica” fondata sul necessario accordo tra curatore, comitato dei creditori e giudice delegato [46] – e la conseguente vendita unitaria del complesso produttivo.
L’obbiettivo di pervenire alla conservazione del complesso produttivo viene, quindi, a permeare di sé non solo gli strumenti compositivi ma anche quelli liquidativi.
È questo un percorso utile a tutelare gli interessi di tutti gli stakeholders conducendo nel fallimento alla conservazione/continuità indiretta secondo uno schema concepito dal d.lgs. n. 270/1999, recepito dal riformatore del 2005-2006 per il fallimento, calato ma non sufficientemente chiarito nelle sue sfaccettate potenzialità – per la continuità sia diretta che indiretta – nel modello concordatario di cui all’art. 186-bis e finalmente affinato nel Codice della crisi (art. 84, comma 2).
Nel fallimento l’operazione sarebbe possibile quando il curatore rintracci un imprenditore interessato ad acquistare l’azienda per immetterla nel proprio ciclo produttivo. È questo l’ambito nei quali fino ad oggi i WBO hanno trovato possibilità di realizzazione.
Questo è l’obbiettivo assegnato come prioritario al curatore che può avvalersi dell’esercizio provvisorio (art. 104 l. fall.) o della meno rischiosa alternativa dell’affitto d’azienda (art. 104-bis l. fall.), strumenti entrambi che possono fungere da “apripista” per una vendita unitaria o per un concordato fallimentare. Si tratta di strumenti che, se virtuosamente combinati, possono dar vita a un “programma catartico di ‘restart’” [47] nel quale i WBO possono trovare spazio.
8. I WBO nel concordato fallimentare
Il concordato fallimentare, completando l’idea riformatrice del 2005-2006, doveva costituire lo strumento di pungolo indiretto nei confronti dell’imprenditore reticente ad assumere una decisione tempestiva e preventiva per risolvere la crisi [48] e, dall’altra, l’opportunità per conservare i valori produttivi nonché come occasione d’investimento [49] e di vivacizzazione del mercato.
Questa procedura sarebbe il terreno di elezione dei WBO [50]. Sicuramente nei dipendenti sono presenti: professionalità arricchite dall’esperienza maturata in quel settore, possesso delle informazioni necessarie per una proposta di concordato fallimentare, aspirazione alla costruzione di una “partecipazione democratica” all’impresa acquistata dalla cooperativa costituita ad hoc.
Ove il nostro Ordinamento recepisse il modello di allerta tracciato dalla Direttiva Insolvency e basato sull’informativa soprattutto fornita ai dipendenti potremmo giungere a quella pressione sulla proprietà per risolvere tempestivamente la crisi e, ove possibile, alla realizzazione di WBO.
Nascerebbe, inevitabilmente una <collaborazione costretta>, ossia “forme di coinvolgimento dei dipendenti come tappe di percorsi di fuoriuscita da situazioni di crisi aziendale” [51]. Le aspettative, però, – al pari di quelle riposte nelle proposte concorrenti [52] che, ex art. 3, d.l. n. 83/2015, sono disciplinate nell’art. 163 l. fall. e nell’art. 91 CCII – sono andate tuttavia deluse [53].
Pare doveroso interrogarsi sui motivi dell’insuccesso, alcuni dei quali sono legati a specifiche norme che regolano questa procedura, mentre altri derivano dall’impostazione del nuovo sistema.
Fin dall’inizio – del resto – venivano individuati alcuni “tarli” nella disciplina riformata che avrebbero potuto vanificare l’aspirazione del legislatore [54]. In primo luogo, uno dei tratti caratteristici del rinnovato concordato fallimentare – l’accelerazione impressa alle proposte concordatarie che potrebbero giungere fin dal giorno successivo al deposito della sentenza di fallimento – si è scontrato con l’esigenza del proponente di avere un quadro verosimile dello stato passivo che in quella fase precoce, manca. Risulta, allora, più conveniente per l’aspirante proponente attendere il programma di liquidazione – depositato dal curatore entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario – dove l’attivo fallimentare viene chiaramente esposto.
Al proponente/terzo manca spesso una conoscenza dei dati contabili, finanziari ed economici delle imprese dichiarate fallite cosicché tali interventi si possono avere solo quando il Tribunale abbia messo a disposizione i dati economici dei fallimenti aperti.
In sintesi, l’istituto non ha potuto funzionare come celere mezzo d’intervento in un fallimento appena aperto. Tale intervento ben potrebbe essere però svolto per esempio dai lavoratori ove i flussi informativi sull’andamento gestionale si dirigessero puntualmente verso di loro.
In secondo luogo, la proposta del terzo/creditore è apparsa difficilmente praticabile vuoi per lo stesso status del soggetto proponente, vuoi per il contrasto che fatalmente sorge tra proponente e fallito, vuoi per la difficile soluzione della concorrenza tra proposte di terzi con quella del fallito. Ritengo che il contrasto con il fallito, spesso inevitabile, potrebbe essere gestito – ove proponenti del concordato fossero i lavoratori – attraverso una forma di transeunte partecipazione nell’impresa dei lavoratori. Questa forma di “collaborazione” potrebbe realizzarsi più facilmente ove la proprietà non avesse alcun piano concordatario alternativo.
Senza dubbio è da considerare che il lavoratore-proponente è portatore di un interesse sicuramente confliggente con quello degli altri creditori avendo deciso di indossare sopra la “giubba” di lavoratore quella di investitore/imprenditore rilevando un patrimonio sul quale insistono i diritti di credito che lui stesso dovrà soddisfare. Il congegno che può appunto contemperare la tutela dell’uno con quella degli altri creditori può riposare nella continuità dell’attività che assicura la permanenza dell’interlocutore economico, “datore di lavoro e di contratti”.
In sostanza, ritengo che il “progetto” di concordato fallimentare (formulato nel 2006) come strumento per l’investimento in aziende in crisi e per la continuità dell’attività produttiva sia realizzabile proprio con i WBO certamente a patto che il legislatore prenda una posizione netta sulla collocazione dell’impresa.
Il legislatore voleva aderire alla visione liberista per cui una volta persa la partita, il patrimonio è nella completa disponibilità dei creditori [55] o voleva continuare nella visione proprietaria – sulla quale poggia la disciplina dell’impresa ripresa, se vogliamo, nell’inquadramento dello spossessamento fallimentare – per cui il residuo eccedente l’importo delle obbligazioni da soddisfare ritorna al debitore?
Non ci possiamo nascondere che il nuovo concordato fallimentare, ancor oggi calato in una disciplina concorsuale fortemente agganciata alla visione proprietaria dell’impresa, ha costituito un impedimento al salto culturale proposto dalla riforma.
L’attrattiva esercitata dal concordato preventivo – comunque adottato in ritardo dagli imprenditori – fa sì che l’approdo al fallimento avvenga quando i patrimoni aziendali sono ormai erosi e non presentano alcun elemento di significatività, scoraggiando chiunque a sperimentare una proposta concordataria.
Gli attesi investimenti nelle imprese in crisi sono così tuttora assenti nella scena economica. Per un verso non è ancora avvenuto il cambio culturale che avrebbe dovuto stimolare gli imprenditori non solo verso un “corretto” utilizzo degli strumenti preventivi ma anche verso il fallimento in proprio.
Di conseguenza fino ad oggi permane la diffidenza del mercato nei confronti di realtà aziendali immesse in un percorso concorsual-giudiziario-liquidativo che è privo di incentivi e che nell’immaginario collettivo conserva comunque connotazioni denigratorie. Questi pregiudizi – in presenza di un complesso aziendale viable – non si riscontrano nell’investitore-lavoratore spinto dall’obbiettivo di conservare la fonte di lavoro e non attratti da benefici di breve periodo come lo sono i terzi-investitori, per giunta privi normalmente di programmi industriali.
9. I WBO in un piano di concordato preventivo
Un’alternativa per la praticabilità di WBO potrebbe essere (almeno sulla base delle disposizioni di legge) anche il concordato preventivo utilizzando il modello concordatario in continuità indiretta – se pur con costi superiori rispetto al concordato fallimentare – che potrebbe essere utilizzato o grazie alla negoziazione del piano con l’impresa debitrice o avvalendosi dell’art. 163 l. fall. che consente la proposta concorrente del creditore.
La norma non lo dice che il debitore deve già essere stato ammesso al concordato, ma ciò si evince dalla collocazione delle norme e dal loro contenuto. Anzi c’è di più. Possiamo, infatti, osservare che la norma (art. 163, comma 4) suppone – ed è comprensibile – un deposito della proposta concorrente quando il commissario ha già redatto la relazione ex art. 172 (“La relazione di cui al comma terzo dell’articolo 161 può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può essere omessa qualora non ve ne siano”). Ovviamente se il creditore si fosse “attrezzato” per tempo e volesse presentare prima la sua proposta, dovrebbe accollarsi il costo di una completa attestazione di fattibilità, il che costituisce un indubbio disincentivo.
In ogni modo il sentiero non sarebbe, rispetto al concordato fallimentare, scevro di difficoltà perché quest’ultimo offre un vantaggio competitivo non da poco giacché, nella presentazione della proposta di concordato fallimentare, il proponente è totalmente autonomo dal debitore – la sua è una domanda e non una mera proposta concorrente – non essendo costretto a effettuare “rilanci” per assicurarsi la prevalenza.
Nel concordato preventivo la gestione della crisi spetta all’imprenditore-debitoreche allora è l’unico legittimato a presentare la domanda giudiziale per chiedere al giudice di tentare la composizione di essa con il concordato preventivo (anche nella versione in bianco ex art. 161, comma 6, l. fall.).
Ai creditori spetta soltanto il diritto di presentare, a determinate condizioni e dopo che il debitore è stato ammesso alla procedura (ai sensi dell’art. 163, comma 1, l. fall.), una proposta corredata del piano – e, se del caso, di un’attestazione completa o integrativa della relazione del commissario giudiziale – alternativa a quella del debitore. I creditori, in sostanza, si introducono in un concordato già aperto e fino a quando è aperto.
Come deve leggersi la scelta legislativa? Siccome in conseguenza alla presentazione della proposta concordataria il patrimonio del debitore viene messo a disposizione dei creditori questi possono concepire soluzioni diverse per raggiungere un miglior soddisfacimento [56].
La legge (art. 163) equipara la posizione del debitore e quella creditore. Di conseguenza alla proposta concorrente sono destinate ad applicarsi tutte le regole poste per la proposta del debitore. Deve essere avanzata con ricorso e deve avere il contenuto delineato dall’art. 160. Inoltre deve indicare l’utilità specifica ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore [57].
Il creditore – a differenza di ciò che avviene nel concordato fallimentare – può ottenere informazioni sulla cui base possa svolgere una due diligence ai fini della predisposizione di una sua proposta. La norma nell’art. 165 legittima, infatti, il commissario a svolgere il delicato compito di fornire le informazioni relative alla situazione patrimoniale e finanziaria. La norma citata presidia, infatti, tale diritto all’informazione, se pur circondando il flusso informativo proveniente dal commissario giudiziale da cautele, eventualmente anche da obblighi di riservatezza e in ogni caso limitando una sua successiva proposta di concordato fallimentare così come fosse presentata da soggetti relazionati con il debitore.
Con rispetto alla proposta di concordato preventivo, è vero che l’art. 163, come abbiamo già detto, fissa nel 40% e nel 30% (a seconda che la proposta del debitore poggi su un piano liquidativo o in continuità) la percentuale minima che il debitore deve offrire per non subire la concorrenza del creditore, per cui si potrebbe pensare che quest’ultimo debba intervenire sol per offrire di più, ma in realtà, dal momento che la proposta concorrente può poggiare su un piano avente un diverso indirizzo (liquidativo piuttosto che in continuità) di quello del debitore, non limiterei la comparazione all’elemento, sicuramente più eclatante ma per vero non assolutamente determinante, dell’importo del soddisfacimento, dovendo essere preso in considerazione il tempo, le modalità di soddisfacimento, gli elementi di rischio.
Per la proposta di concordato preventivo del creditore – come già rilevato – la legge ha precisato che può prevedere la presenza di un terzo (qui il terzo compare ma soltanto come assuntore) e/o avere ad oggetto un’operazione straordinaria di aumento di capitale con limitazione o esclusione del diritto d’opzione.
Il legislatore non apre tuttavia le porte dell’impresa in crisi (o insolvente) ai creditori, come del resto avviene in altre legislazioni.
Nel concordato preventivo vi è una verifica giudiziale delle condizioni e un successivo esame di fattibilità del commissario, dopo di che tutte le proposte giungono dinanzi ai creditori.
Il creditore non ha un “tempo infinito” per riflettere “sul da farsi” perché sarà già stata fissata la data per l’adunanza dei creditori – adesso la convocazione dei creditori, ordinata dal Tribunale col decreto di apertura del concordato, deve avvenire non più entro gli originari trenta giorni, bensì entro i centoventi giorni dalla data del provvedimento di ammissione (art. 163, comma 2, n. 2) – e, quindi, la sua proposta dovrà arrivare prima dell’adunanza (più esattamente “non oltre trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori”) per dar modo al commissario giudiziale di redigere su di essa una relazione integrativa da depositare in cancelleria e comunicare ai creditori almeno dieci gg. prima dell’adunanza.
Questa costituisce il momento centrale dal punto di vista del negozio concordatario in quanto è in quella sede – ricevuta e visionata la relazione del commissario con eventuali integrazioni – che i creditori esprimono la propria volontà. Il voto giunge dopo l’illustrazione della o delle proposte e il dibattito. Il sigillo giudiziale dell’omologazione non può intervenire in assenza della votazione così come in mancanza di assenso espresso dalla maggioranza prevista.
Tutte le proposte(anche quelle concorrenti, quindi) devono essere comunicate ai creditori, dal commissario giudiziale. A proposito della parità di voti raggiunta dalle diverse proposte “prevale quella del debitore” e in caso di parità tra le proposte quella presentata per prima.
L’impostazione del legislatore italiano è quindi tutt’oggi ancorata all’attribuzione dell’iniziativa al debitore in via esclusiva [58]. In verità il cammino verso l’apertura dell’iniziativa ai creditori – e non della semplice concorrenza come l’art. 163 l. fall. ammette – si prevede ancora lungo. Segnali, sia pur deboli, giungono però dalla Spagna e dall’Uruguay (Ordinamento largamente ispirato alla legislazione spagnola). Durante “el estado de alarma”, precisamente il 7 maggio 2020 fu approvato (con il r.d. n. 1/2020) il Texto Refundido de la Ley Concursal, che è entrato in vigore il 1° settembre. All’art. 315, disciplinando la proposta di convenio, si prevede che “1. El deudor y los acreedores cuyos créditos superen una quinta parte de la masa pasiva podrán presentar propuesta de convenio en las condiciones de tiempo, forma y contenido establecidas en esta ley. 2. En ningún caso podrá presentarse propuesta de convenio si el concursado hubiera solicitado la liquidación de la masa activa”.
La disposizione, – calata in un ordinamento della crisi proteso ad accelerare l’assunzione di misure idonee al superamento della crisi – pur assegnando al debitore la scelta tra liquidare o tentare un convenio, presenta un ampliamento della legittimazione che potrebbe fungere da apripista per superare la barriera dell’unicità dell’iniziativa. Su questa scia, infatti, si pone l’anteproyecto uruguaiano per la riforma della Ley de concursos y reorganización empresarial (No. 18.387) redatto da Ricardo Olivera García. Riconoscendo che la legge vigente mostra, soprattutto in materia concordataria, “cierta rigidez respecto a la iniciativa y oportunidad de celebración de este convenio, lo cual perjudica la eficiencia del procedimiento, limitando los contenidos del convenio y conduciendo muchas veces a la etapa de liquidación de la empresa, cuando aún pueden existir alternativas más eficientes que permitan preservar mejor el valor de la unidad económica”, prevede la possibilità che la proposta, previa approvazione da parte dell’assemblea dei creditori, sia presentata, oltre che dal debitore, anche da creditori che superino il 25% della passività fallimentare.
Recenti riforme seguono l’impostazione italiana. Mi riferisco al Brasile dove dal 24 gennaio 2021, vige una nuova legge fallimentare (Lei de Falência, Recuperação Judicial e Extrajudicial n. 1 4.112/20201) [59] che riformato la legge n. 11.101 del 9 febbraio 2005.
Nella procedura di Recuperação Judicial, – procedura simile al nostro concordato preventivo – il cui obiettivo è quello di consentire il risanamento dell’impresa evitandone la chiusura, con perdita di posti di lavoro e dispersione di attivi attraverso la rinegoziazione del debito, in termini di durata e stralcio, da attuare sotto il controllo dell’autorità giudiziaria, è prevista la possibilità che anche i creditori possano proporre un piano di recupero, alternativo a quello del debitore qualora questi non sia stato in grado, allo scadere del termine concesso, di presentare un proprio piano o il piano non sia stato approvato.
In tal caso l’assemblea dei creditori, con una maggioranza di almeno il 25% dei debiti o del 35% dei creditori presenti all’assemblea, assegna un termine di 30 giorni per la presentazione del nuovo piano che deve essere poi approvato nei successivi 60 giorni. Notiamo, quindi, che permane anche in questa Riforma, nonostante l’apparente apertura a cedere il monopolio del debitore, la dipendenza dell’iniziativa del creditore all’insuccesso o alla rinuncia del debitore a lanciare una proposta di composizione della crisi.
Eppure, in una stagione in cui si è verificata da più parti una spinta verso gli strumenti d’allerta, l’allargamento dei soggetti legittimati alla domanda concordataria potrebbe costituire una strategia per spogliarli del manto coattivo e ricondurli nel binario della Direttiva che punta soprattutto a un regime di informazione.
10. La ristrutturazione aziendale con i WBO
I WBO comportano per lo più una ristrutturazione o riconversione (si parla anche di Impresa rigenerata)di un complesso aziendale “recuperato” con il mantenimento di un polo economico che altrimenti, per indisponibilità di chances di continuità diretta da parte della struttura proprietaria e organizzativa precedente, sarebbe uscito dal mercato.
Allo stesso tempo, però, sarà indispensabile la riformulazione del business, vuoi perché per la dimensione dell’investimento possibile, occorre o ridurre l’attività ad uno o più rami o riprogettare la struttura produttiva rendendola armonica con la capacità finanziaria. Il ridimensionamento investe spesso anche il lavoro sia perché spesso il turnaround dell’attività richiede un ridimensionamento dell’occupazione, sia per l’impegno finanziario necessario.
In tal senso si può parlare di impresa rigenerata perché la conservazione passa da una riconfigurazione/ristrutturazione che può essere comparata a una “nuova nascita” [60].
Lo strumento dei WBO incrocia, quindi, il tema della valorizzazione del recupero dell’impresa viable che negli ultimi anni ha visto una concentrazione degli sforzi dei legislatori per cercare di far “quadrare il cerchio” che vede da una parte il diritto dei creditori al soddisfacimento e dall’altra l’interesse sociale della collettività alla continuità degli organismi produttivi.
I WBO sono strumenti adatti alla situazione attuale. È da considerare, inoltre, il risparmio che queste operazioni concedono allo Stato: un lavoratore licenziato costa dai 30 ai 40mila euro di ammortizzatori sociali, soldi a fondo perduto. Attraverso il WBO i contributi si trasformano in capitale e la società rigenerata continua a versare contributi previdenziali.
L’operazione di WBO si caratterizza per un ridotto ricorso alla leva finanziaria dal momento che nella maggioranza dei casi il problema dell’azienda target è l’eccessivo livello di indebitamento. Il ricorso alla leva può essere evitato grazie all’intervento di intermediari specializzati, tra cui una serie di investitori istituzionali e finanziatori che apportano le risorse finanziarie necessarie per effettuare l’operazione.
11. Conclusioni
Negli ultimi 30 anni i Workers buyout hanno permesso il salvataggio di 15mila posti di lavoro. Il modello cooperativo con la sua dinamicità, la sua capacità di adattarsi al cambiamento per flessibilità e sostegno di reti locali, è quanto mai interessante per l’intera economia europea ed è naturalmente nella visione dell’economia sociale di mercato, che l’Europa lo rivendica come suo modello.
Restano soluzioni ancora poco conosciute, soluzioni che per quanto istituzionalizzate dalla legge Marcora e per quanto costituiscano “modelli sostenibili” per risolvere una crisi d’impresa, faticano a diventare uno strumento condiviso di politica economica e sindacale.
I WBO non devono, però, neppure essere considerati troppo entusiasticamente “la panacea di tutti i mali” [61] valutandoli soltanto sotto il profilo di strumento che offre una partecipazione – e, quindi, un’occasione di crescita – agli stakeholders ritenuti più deboli e più colpiti dalla crisi, o lasciandosi semplicemente attrarre da uno strumento nuovo e ancora, almeno in certe aree geografiche e/o professionali, poco esplorato.
I WBO impongono una doverosa, attenta e ponderata, valutazione delle reali possibilità di rigenerazione dell’impresa. I professionisti sono messi alla prova in termini di tempo che devono dedicare a questa operazione e di formazione perché i lavoratori si aprono infatti a nuove forme di rischio e responsabilità mettendoci proprie risorse ed è importante che questo avvenga alla luce di una seria e rigorosa valutazione prognostica delle condizioni dell’impresa, operative e di mercato. Quell’analisi sull’azienda e sull’impresa che deve guidare il professionista nella selezione dello strumento per risolvere la crisi diventa, è in questo caso e a maggior ragione, imprescindibile e propedeutica a qualsiasi ipotesi di un piano di WBO.
Parimenti però i WBO non devono essere guardati con diffidenza “a prescindere” o sostenendo una quasi inevitabile vocazione all’insuccesso, o peggio al default, a causa della facile carenza di managerialità e della difficoltà a reperire finanziamenti o guardando con malcelata diffidenza alla transizione di questo particolare stakeholder dalla posizione di chi offre la propria attività lavorativa in cambio di un salario a quella di colui che, diventando partecipe al capitale dell’impresa, proporrà (pur rimanendo anche lavoratore) occasioni di lavoro. Per quanto riguarda l’aspetto relativo ai default, da statistiche recenti risulta che in questi campioni oscilla tra il 10 e il 30 per cento dei casi. Il dato sembra particolarmente significativo se si considera che le iniziative nascono da imprese in crisi. Ciò rivela, così, che le operazioni di recupero sono il frutto (anche) di una ripianificazione finanziaria dell’impresa successiva alla crisi, che consente di ottimizzare i risultati riportandola in condizione di ricreare la continuità e ritornare a produrre reddito.
* Il presente contributo è destinato al volume collettaneo “Le soluzioni negoziate della crisi d’impresa”, a cura di Stefano Ambrosini, in corso di pubblicazione per i tipi della Giappichelli. Il lavoro ha tratto spunto dal webinar, organizzato da AOID (Associazione Osservatorio internazionale sul debito) il 5 maggio 2021 su “Workers buyout – Una alternativa per uscire dalla crisi” coordinato dalla sottoscritta e con la partecipazione di Olmo Gazzarri, Francesca Montalti e Alessandro Viola di Legacoop.
[1] A. Díaz Y-L. Puch, Economía de tiempos de pandemia, in www.nadaesgratis.es.; G. Limitone, L’accompagnamento fuori della crisi con l’aiuto dell’OCC-Covid-19, www.ilcaso.it, 18 aprile 2020, 2 ss.
[2] In una comparazione tra crisi europee e crisi
asiatica del 2009, S. Hagan, Restructuring
corporate debt in the context of a systemic crisis, in https://scholarship.law.duke.edu/cgi/
viewcontent.cgi?article=1582&context=lcp, 4, osserva che: “Perhaps
more than any other legal framework, an effective insolvency system requires a
competent institutional infrastructure composed not only of the judiciary, but
also of professional trustees. As the experience of Asia demonstrates, an
insolvency law is as weak as the weakest institution that is charged with
implementing it”.
[2] La Banca Mondiale con Insol international, ha redatto una guida sulle misure adottabili con l’indicazione dei Paesi che le hanno introdotte, v. World Bank Group and INSOL International, Global Guide: Measures Adopted to Support Distressed Businesses Through the Covid-19 Crisis (April 2020), available at: https://www.insol.org/library/opendownload/1511.
[3] Sul danno alle imprese provocato dal virus e sulle misure di sostegno emanate dagli Stati v. la Nota della Commissione Europea Corporate solvency of European enterprises: state of play del 1° febbraio 2021. Da ultimo v. anche European Systemic Risk Board, Prevention and management of a large number of corporate insolvencies, April 2021, in http://www.esrb.europa.eu.
[4] Per una raccolta in continuo aggiornamento delle prime misure adottate da molti paesi a sostegno delle aziende colpite dalla pandemia di Covid-19, INSOL – World Bank Group, Global Guide: Measures adopted to support distressed businesses through the COVID-19 crisis, leggibile in http://insol-techlibrary.s3.amazonaws.com. Sui provvedimenti emergenziali assunti dal Governo italiano per “tamponare” gli effetti negativi prodotti sulle imprese (e l’economia) si rinvia a AA.VV., Crisi d’impresa ed emergenza sanitaria, diretto da S. Ambrosini e S. Pacchi, Bologna, 2020 e AA.VV., Finanziamenti e diritto della crisi nell’emergenza, a cura di S. Pacchi e A. Pisaneschi, Torino, 2020.
[5] Una selezione dei problemi che in questa pandemia il legislatore deve affrontare, è stata compiuta da A. Rojo, Reflexiones sobre el Derecho concursal de emergencia, in https://www.blog.fder.uam.es/2020/05/11/reflexiones-sobre-el-derecho-concursal-de-emergencia/.
[6] “While larger companies face the special situation with the help of advisers and bargaining power vis-à-vis counterparties, politicians and tax administrations and still have credit absorption capacity to use public liquidity assistance, the situation looks much more pessimistic for the many hundreds of thousands of small businesses in Europe with little or no relevant financial reserves” (S. Madaus-B. Wessels, COVID-19 Urges legislators to adapt insolvency legislation, in https://congressus-ceril.s3-eu-west-.pdf, 2).
[7] A. Rojo, Reflexiones sobre el Derecho concursal de emergencia, cit.
[8] Il riferimento è a T. Padoa-Schioppa, La veduta corta, Bologna, 2009, che, commentando la crisi di quegli anni si dichiarava convinto che “la radice più profonda della crisi in atto sia ‘la veduta corta di una spanna’ l’accorciarsi dell’orizzonte temporale dei mercati, dei governi, della comunicazione, delle imprese, delle stesse famiglie”.
[9] Anche R. Genco-P.L. Morara-F. Vella, Lavoratori che” si ricomprano” l’azienda, modello per la crisi,in www.lavoce.it,23 luglio 2020, se pur critici nei confronti della governance della cooperativa, vedono nei WBO strumenti adatti al particolare momento.
[10] F. Vella, Introduzione a Fondazione Unipolis, La partecipazione dei lavoratori nelle imprese, Bologna, 2017, 9.
[11] F. Vella, Introduzione, cit., 9.
[12] Sulla Raccomandazione, S. Pacchi, La Raccomandazione della Commissione UE su un nuovo approccio all’insolvenza anche alla luce di una prima lettura del Regolamento UE 848/2015, in Giust. civ., 2015, p. 537; U. Macrì, La Raccomandazione della Commissione UE su un nuovo approccio all’insolvenza. Un commento a prima lettura, in Fallimento, 2014, p. 398; G. Lo Cascio, Il rischio d’insolvenza nell’attuale concezione della Commissione europea, in Fallimento, 2014, p. 734; G. Corno, Un altro (significativo) passo avanti a livello comunitario verso l’armonizzazione di alcuni aspetti della normativa in materia di crisi d’impresa. La Raccomandazione della Commissione Europea 12 marzo 2014 e il possibile impatto sulla normativa italiana, in www.ilfallimentarista.it, 20 giugno 2014; F. Di Marzio, Su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza, in Giustiziacivile.com, 28 aprile 2014.
[13] Sulla Direttiva Insolvency, ex multis, L. Panzani, Il preventive restructuring framework nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, in www.ilcaso.it, ottobre 2019; A. Nigro, La proposta di direttiva comunitaria in materia di disciplina della crisi delle imprese, in Riv. dir. comm., 2017, I, p. 201 ss.;S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2019/1023, in Dir. fall., 2019, I, p. 1259 ss.;L. Stanghellini, La proposta di Direttiva UE in materia di insolvenza, in Fallimento, 2017, p. 873 ss.;P. Vella, I quadri di ristrutturazione preventiva nella Direttiva UE 2019/1023 e nel diritto nazionale, ivi, 2020, p. 1033 ss.Per un commento puntuale articolo per articolo, C. G.PAULUS – R. DAMMAN, European Preventive Restructuring: Directive (EU) 2019/1023, Oxford, 2021. Il termine per il recepimento della Direttiva è fissato al 17 luglio 2021 (art. 34 della Direttiva 1023/2019). L’Italia (come Irlanda, Cipro, Finlandia, Danimarca, Repubblica Ceca, Lettonia, Lussemburgo, Slovenia, Spagna) ha presentato alla Commissione Europea domanda motivata per differire di un anno detto termine. Non hanno utilizzato la facoltà di proroga: Austria, Francia, Grecia e Portogallo.
[14] Sul punto P. Vella, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fallimento,2020, p. 748 e nota 8 ove richiami della Corte di Giustizia.
[15] Sull’inserimento da parte della Direttiva del professionista nell’ambito degli imprenditori v. S. Pacchi, La ristrutturazione dell’impresa come strumento per la continuità nella Direttiva ecc.,cit., p. 1260.
[16] S. Pacchi, La Raccomandazione della Commissione UE ecc., cit., p. 1278; P. Vella, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 ecc.,cit., p. 756.
[17] Sul tema cfr. il Considerando 10 della Direttiva: “Tutte le operazioni di ristrutturazione, in particolare quelle di grandi dimensioni che generano un impatto significativo, dovrebbero basarsi su un dialogo con i portatori di interessi. Tale dialogo dovrebbe riguardare la scelta delle misure previste in relazione agli obiettivi dell’operazione di ristrutturazione, come pure sulle opzioni alternative, e dovrebbero garantire l’adeguata partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori come previsto dal diritto dell’Unione e nazionale”.
[18] L’obbiettivo è affermato puntualmente nell’art. 4 par. 1 della Direttiva.
[19] Le disposizioni cui faccio riferimento sono contenute nei paragrafi 3, 4 e 5 dell’art. 3 della Direttiva che prevedono: “Gli Stati membri provvedono affinché i debitori e i rappresentanti dei lavoratori abbiano accesso a informazioni pertinenti e aggiornate sugli strumenti di allerta precoce disponibili, come pure sulle procedure e alle misure di ristrutturazione e di esdebitazione. Gli Stati membri provvedono affinché le informazioni sull’accesso agli strumenti di allerta precoce siano pubblicamente disponibili online, specialmente per le PMI, siano facilmente accessibili e di agevole consultazione. Gli Stati membri possono fornire sostegno ai rappresentanti dei lavoratori nella valutazione della situazione economica del debitore”.
[20] P. VELLA, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Fallimento, 2020, p. 756.
[21] Come evidenziato anche dal Gruppo dei Trenta presieduto da Mario Draghi e Raghuram Rajan, la stagione pandemica induce a rivedere la logica e la meccanica delle legislazioni sulla crisi di impresa.
[22] Recentemente sul tema del WBO, E. Pagani, Il Workers buyout quale possibile strumento di risoluzione della crisi della piccola e media impresa italiana,in www.ilcaso.it, 1° ottobre 2020.
[23] M.C. Cataudella, Workers buyout e soci lavoratori di cooperativa, in G. Zilio Grandi-M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma Jobs Act, Padova, 2016, pp. 437-450; A. Bernardi-S. Monni, The co-operative firm. Keywords, Roma, Tre-Press, 2016; M. Vieta, The Italian Road to Creating Worker Cooperatives from Worker Buyouts: Italy’s Worker-Recuperated Enterprises and the Legge Marcora Framework, Euricse Working Paper n. 78, 2015.
[24] H. Miranda Lorenzo, Cooperativas y autogestión en las visiones de Marx, Engels y Lenin, in C. Piñeiro Harnecker, Cooperativas y socialismo. Una mirada desde Cuba, Editorial Caminos, La Habana, 2011.
[25] Nel
2001 in Argentina la crisi da finanziaria, conducendo il paese a tassi di
disoccupazione vicini al 20%, determinava una grave crisi sociale (dato
reperibile in http://data.world
bank.org/indicator/SL.UEM.TOTL.ZS?end=2014&locations=AR&start=1991&view=chart).
Si verificava una fuga incontrollata di capitali, al punto che gli imprenditori
argentini, in risposta agli investimenti fraudolenti degli anni precedenti,
chiudevano gli stabilimenti senza preavviso, onde evitare di pagare i salari
arretrati ai lavoratori. Nascevano conseguentemente diversi movimenti di
protesta contro il governo Menem, ma anche diversi tentativi dal basso di ricostruzione
di un tessuto socioeconomico attraverso cooperative di consumo e forme di
solidarietà diffusa. In questo quadro politico-economico-sociale si inseriscono
i movimenti delle ERT. Per
questa ricostruzione, A. Ruggeri, Reflexiones
sobre la autogestión en las empresas recuperadas
argentinas, in Estudios,
2011, no 1-1, pp. 60-79 (leggibile in:http://www.recuperadas
doc.com.ar/04reflexiones_sobre_la_autogestion_en_las_empresas_recuperadas_argentinas.pdf). Sulle imprese
recuperate ricca è la letteratura, non tanto italiana, quanto soprattutto in
lingua spagnola, A. Marchetti, Fabbriche
aperte. L’esperienza delle imrese recuperate dai lavoratori in Argentina, Bologna,
2013.
[26] Quello di “Empresas recuperadas” è un termine coniato dagli stessi lavoratori argentini che cercavano di mantenere in piedi le loro fonti di lavoro, A. Ruggeri, Reflexiones sobre la autogestión ecc.,cit., p. 63.
[27] È all’interno delle scienze sociali che il tema desta particolare interesse: A. Marchetti, Fabbriche aperte. L’esperienza delle imprese recuperate in Argentina, Bologna, 2013. Per un inquadramento storico-politico del movimento delle imprese recuperate in Argentina, J. Sermasi, Imprese recuperate in Argentina: pratiche collettive di reazione alla disoccupazione, 20 maggio 2012,in www.euronomade.info.
[28] Per un’analisi di questi due casi, A. Marchetti, Fabbriche aperte. L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, cit., p. 157 ss.
[29] La Legge argentina prevede eccezionalmente l’esercizio dell’impresa in procedura: soltanto quando 1) dalla mancata prosecuzione potrebbe derivare un grave danno per l’interesse dei creditori o 2) per evitare l’interruzione di un processo produttivo in corso, obbligando il sindico ed il giudice ad una preventiva analisi della situazione che include: I) la possibilità di continuare ad operare senza incorrere in nuove responsabilità, II) la formulazione di un piano industriale, III) la selezione del personale, IV) il regime di amministrazione e V) il modo in cui saranno pagate le passività del fallimento con il risultato della prosecuzione dell’attività.
[30] E.D. Truffat, La Ley 26.684: ¿Argentina 1Q84?”; F. Junyent Bas, La adquisición de la empresa por la cooperativa de trabajo A propósito del fallo “Nutrimentos S.A.” I. Parte,in Diario Comercial, Económico y Empresarial Nro 75 – 18 maggio 2016. In senso fortemente critico della legge, A. Dasso, La inmortalidad de la empresa por la vía de la cooperativa de trabajadores, in Revista Societaria y Concursal, Errepar, Julio 2011.
[31] Per l’ottenimento delle sovvenzioni; la dichiarazione di pubblica utilità degli immobili, dei macchinari e dei marchi; la concessione del diritto di occupazione e uso per diversi anni.All’opposto il caso del “Diario Comercio y Justicia”, della provincia di Córdoba, dove è stata seguita rigorosamente la procedura stabilita dalla legge, ricevendo un contributo dal governo nazionale. Sul punto D. Roque Vítolo, ¿Empresas recuperadas o expropriación sin pago?, reperibile in https://www.ambito.com/economia/empresas-recuperadas-o-expropiacion-pago-n3254175. Da segnalare, infatti, che in Argentina, fino all’entrata in vigore della Legge 26.684, pur mancando una disposizione specifica riferita alle cooperative, queste potevano comunque partecipare alla procedura concordataria. Il comma 1 dell’art. 48 della Ley de concursos y quiebras,n. 24.522prevedeva, infatti, la domanda dei “creditori e terzi interessati ad acquisire le azioni o quote rappresentative del capitale del fallito, al fine di formulare una proposta di concordato preventivo”. L’art. 48 della L. 24.522 consentiva che qualsiasi società costituita in forma cooperativa, compresa quella composta da tutto o parte del personale del fallito, potesse farlo anche a parità di altri ricorrenti. L’art. 48 della Legge 24522 disciplinava il metodo del c.d. cramdown (assolutamente diverso da quello sancito nel nostro ordinamento concorsuale). Quando la proposta del debitore non veniva approvata dalla maggioranza e il fallimento sarebbe stato inevitabile, il giudice apre un periodo di attesa, durante il quale gli interessati possono acquisire la società in corso. L’ostacolo all’applicazione del cramdown a beneficio del i lavoratori è che stanno ancora lavorando (la prosecuzione dell’impresa è automatica) e, quindi, i loro crediti non sono ancora scaduti. La successiva legge 26.6844, modificando l’art. 48 della legge 24.522, consente alla cooperativa di lavoro composta da lavoratori della stessa azienda – compresa la cooperativa in formazione – l’iscrizione nel registro dei richiedenti l’acquisto delle azioni o quote della società debitrice attraverso la formulazione di proposte di concordato preventivo. La previsione (contenuta in un nuovo art. 48 bis) obbliga il giudice a disporre la liquidazione della liquidazione di tutti i crediti che corrisponderebbero ai lavoratori partecipi alla cooperativa onde consentire di utilizzarli per l’acquisto dell’azienda. Una volta omologato il concordato, il contratto di lavoro dei lavoratori verrà sciolto e i crediti di lavoro verranno trasferiti a favore della cooperativa, divenendo quote del capitale sociale della stessa.
[32] “The movement of worker-led factories and enterprises represents a very important departure from the norm of traditional Argentine labor relations” (P. Ranis, Argentina’s Worker-Occupied Factories and Enterprises, in https://pranis.ws.gc.cuny.edu, 2012/08.
[33] M. Semenzin, Riprendiamoci il lavoro. Imprese recuperate e autogestite tra Argentina e Italia, Verona, 2019.
[34] G. Orlando, Le imprese recuperate in Italia. Teoria, storia e primi materiali empirici, in Rassegna italiana di sociologia, 2017,p. 661 ss.
[35] S. Monni-G. Novelli-L. Pera-A. Realini, Workers’ buyout: definizioni e caratteristiche in P. Demartini-S. Monni, Workers’ buyout Corporate Governance e sistemi di controllo, Roma, TrE-Press, 2017, 8-15.
[36] A. Fici, La riforma del diritto societario e l’identità delle cooperative sociali,in Impresa sociale, n. 68, 2013; Id., Italy, in D. Carcogna-A. Fici-H. Henrÿ (a cura di), International Handbook of Cooperative Law, Heidelberg, pp. 479-502; M. Vieta, Workers Buyout, in A. Bernardi-S. Monni (a cura di), Impresa cooperativa: Parole chiave, Roma, 2015.
[37] M. Vieta, The Italian Road to Creating Worker Cooperatives from Worker Buyouts: Italy’s Worker-Recuperated Enterprises ecc., cit.
[38] M. Vieta, The Italian Road to Creating Worker Cooperatives from Worker Buyouts: Italy’s Worker-Recuperated Enterprises, ecc., cit.
[39] Parere 2012/C 191/05 del quale Relatrice era Zvolská e Correlatore Olsson. Faceva seguito una Proposta di risoluzione del Parlamento Europeo (2012/2321 INI) “Sul contributo delle cooperative al superamento della crisi” esorta gli Stati membri, da una parte, a rivedere la normativa sulle cooperative per adottare una politica organica atta a sostenere il modello imprenditoriale cooperativo e dall’altra ad assumere una politica organica atta a sostenere il modello imprenditoriale cooperativo.
[40] Pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Ue del 29/6/2012.
[41] COM (2001) 366 “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”. Dove si osservava che “I dipendenti sono particolarmente interessati alla sopravvivenza della loro impresa e hanno spesso una buona conoscenza del settore in cui lavorano. Spesso, però, non dispongono di mezzi finanziari adeguati e dell’assistenza necessaria per riprendere e gestire un’impresa. Una preparazione attenta e graduale dei trasferimenti ai lavoratori, organizzati in forma di cooperativa, può migliorare i tassi di sopravvivenza”.Successivamente la Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia della Commissione europea elaborava la relazione sul “contributo delle cooperative al superamento della crisi” discussa e approvata nella seduta del 12 giugno 2013 n. A7-0222/2013. In tale relazione si rileva che le cooperative, unitamente alle altre imprese dell’economia sociale, svolgono un ruolo essenziale nell’economia europea, specie in tempi di crisi, in quanto coniugano redditività e solidarietà, creano posti di lavoro di alta qualità, rafforzano la coesione sociale, economica e regionale e generano capitale sociale. Si osserva che nell’UE le cooperative stanno acquisendo sempre maggiore importanza e che si contano ca. 160.000 imprese cooperative di proprietà di 123 milioni di soci che danno lavoro a 5,4 milioni di persone; che ca. 50.000 di esse operano nell’industria e nei servizi e occupano 1,4 milioni di persone; che le cooperative contribuiscono in media per il 5% circa al PIL di ciascuno Stato membro; inoltre, si constata che negli ultimi anni sono state costituite diverse centinaia di imprese cooperative industriali e di servizi come conseguenza della ristrutturazione delle imprese in crisi o senza successori, salvando e riqualificando così le attività economiche e i posti di lavoro locali.
[42] (2012/2321(INI)).Muovendo da questo apprezzamento il Parlamento Europeo esorta la Commissione Europea a concentrarsi in particolare sulla trasformazione in cooperative delle industrie e delle imprese di servizi in crisi o senza successori creando servizi specificamente preposti a tale compito. In questa Risoluzione del Parlamento Europeo si fa specifico riferimento al trasferimento di un’impresa ai dipendenti mediante la creazione di una cooperativa e altre forme di azionariato dei dipendenti come idoneo strumento per garantire la continuità aziendale. Questa forma di soluzione alle crisi e alla mancanza di successione si inserisce in una nuova cultura di gestione sostenibile dell’impresa che richiede formazione specifica nei professionisti, politiche che agevolino le iniziative dei dipendenti per la partecipazione al capitale e agli utili delle loro imprese e predisposizione di fondi strutturali.
[43] Sul tema della costituzione della cooperativa dopo l’apertura della procedura concorsuale e della partecipazione esclusiva in essa dei soli dipendenti, F. Lamanna, Las prelazione a favore delle cooperative di ex dipendenti,in www.ilfallimentarista.it, 9 giugno 2017.
[44] B. Wessels, Europe deserves a new approach to insolvency proceedings,in European Company law, 2007, vol. 4, issue 6, p. 253.
[45] Se pure – per dirla con le parole di U. Apice, Le imprese tra diritto e letteratura, in Ora legale news, 21 aprile 2021 che nota nel Codice della crisi un ritorno al passato grazie alla “presenza pervasiva dell’autorità giudiziaria” – con “‘alternanza di durezze e mitezze’, a seconda che prevalga l’interesse del ceto imprenditoriale creditorio, che è quello di ottenere il soddisfacimento, più rapido possibile, del proprio credito, o l’interesse della comunità nel suo complesso alla tutela dell’ordine economico ivi compresi il mantenimento dell’occupazione e la continuità aziendale”. Scettico sul conseguito superamento della cultura che vede nel fallimento un evento da guardare con sospetto, perché conseguenza di una “colpa” dell’imprenditore, v. anche G. Portonera, Dal “fallimento” alla “liquidazione giudiziale”: “cos’è mai un nome?”, in Brunoleonimedia.it, 18 gennaio 2021.
[46] A. Didone, Ragionevole durata del (giusto) processo concorsuale,in A. Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2009, p. 37.
[47] F. Fimmanò, La resilienza dell’impresa di fronte alla crisi da CORONAVIRUS mediante affitto d’azienda alla NEWCO-START UP, autofallimento e concordato “PROGRAMMATI”, www.ilcaso.it, 1° aprile 2020, 8.
[48] Come è noto l’art. 124 l. fall. amplia l’area dei soggetti legittimati, ponendo nel contempo il debitore in posizione di retroguardia. La competizione tra contendenti – debitore da una parte e creditori/terzi dall’altra – dovrebbe: a) spingere il debitore a porre mano per tempo alla crisi; b) vivacizzare il mercato delle aziende in crisi; c) favorire una rapida sistemazione dell’insolvenza e quindi, d) determinare, grazie al fresh start, un ritorno all’iniziativa economica.
[49] A. La Malfa, L’ammissione alla procedura,in L. Ghia-C. Piccininni-F. Severini (a cura di), Trattato delle procedure concorsuali,IV, Torino, 2011, 5; S. Pacchi-L. D’Orazio, Il concordato fallimentare,in O. Cagnasso-L. Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali,Tomo II, Torino, 2016; S. Pacchi (a cura di), Il concordato fallimentare, La disciplina del nuovo diritto concorsuale: da mezzo di cessazione del fallimento a strumento d’investimento, Milano, 2008.
[50] Sono questi percorsi che già alla luce della Legge Marcora erano ipotizzabili. Già l’art. 14 della legge n. 49/1985 – la c.d. legge Marcora – prevedeva, infatti, a favore di cooperative di lavoratori dipendenti da imprese soggette a procedure concorsuali, ammessi al trattamento della cassa integrazione guadagni e che abbiano in affitto, e più in generale in gestione, anche parziale, le aziende di appartenenza, un diritto di prelazione in caso di vendita coattiva delle stesse. In seguito, l’art. 3 della legge n. 223/1991 e l’art. 47 della legge n. 428/1990 disciplinavano la circolazione coattiva di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a procedure concorsuali. In particolare, la legge n. 223/1991 sanciva espressamente l’ammissibilità dell’affitto e della vendita unitaria del complesso aziendale nel fallimento di imprese dotate dei requisiti dimensionali per accedere al trattamento di cassa integrazione straordinaria ed ha legato funzionalmente i due istituti utilizzando come giuntura il diritto di prelazione a favore dell’affittuario in funzione della successiva alienazione.
[51] F. Vella, Introduzione, cit., 14 richiamandosi a Tiziano Treu.
[52] Sull’insuccesso delle proposte concorrenti e sull’interesse ad un ripensamento vedi, da ultimo, R. Ranalli, Gli ostacoli normativi e culturali, alle proposte concorrenti nel concordato preventivo in continuità,in Fallimento, 2021, p. 5 ss. e S. Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in www.ilcaso.it, 2 giugno 2021, in particolare a p. 5 ss.
[53] M. Fabiani, Il concordato fallimentare,in Trattato Vassalli,II, Il processo di fallimento,Torino, 2014, II, p. 860 ss.; S. Ambrosini, L’emersione tempestiva della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “progetto Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo, in www.ilcaso.it, 2 giugno 2021, 8-9.
[54] L. D’Orazio, Le procedure di negoziazione della crisi d’impresa, Milano, 2013, p. 621.
[55] B. Libonati, Prospettive di riforma sulla crisi d’impresa, in Giur. comm., 2001, I, p. 330; L. Stanghellini, Le crisi d’impresa tra diritto ed economia, Bologna, 2007, p. 226.
[56] A. Nigro-D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese3, Bologna, 2016.
[57] Ricordo anche – per sottolineare questa equiparazione – la facoltà espressamente prevista per il creditore di inserire nella proposta un assuntore o modifiche di capitali. Sono percorsi che risultano esemplificativamente dall’art. 160 per la proposta del debitore e che ora espressamente indicati per la proposta del creditore.
[58] Sulla stessa linea della riserva dell’iniziativa al debitore troviamo la Francia. In America Latina nonostante le ripetute riforme per lo più orientate o al Bankruptcy Code o alla Ley concursal spagnola, ancora prevalente è questa posizione di chiusura. Sia il Perù che ilCile che, pur dotato di un sistema concorsuale all’avanguardia (L. 20.720) per quanto riguarda il sistema delle ristrutturazioni, sta discutendo in Parlamento una riforma per favorire principalmente PMI e MIPES, il creditore può chiedere solo la liquidazione concorsuale, ma niente di più. Come in Italia, il creditore cileno non può presentare direttamente una proposta di concordato preventivo (convenio judicial preventivo), però ha la facoltà – dimostrando l’esistenza di uno stato d’insolvenza – di richiedere al tribunale che ordini al debitore di presentare una proposta concordataria. Ciò non implica tuttavia la possibilità per il creditore di formulare il piano concordatario. Dinanzi all’intimazione del giudice per la presentazione del concordato il debitore può avvalersi di un procedimento alternativo, richiedendo alla giunta dei creditori di designare un esperto facilitatore che, nel termine di trenta giorni dalla sua nomina, deve valutare la situazione legale, contabile, economica e finanziaria del debitore e proporre ai suoi creditori un concordato che sia più vantaggioso del fallimento o, in caso contrario, sollecitare al tribunale la dichiarazione di fallimento, che a quel punto dovrà essere dichiarato senza ulteriori formalità. L’ordinamento argentino conosce nel procedimento preventivo l’accordo presentato da un terzo (quello che in quel Paese è stato impropriamente denominato cramdown) che ha avuto due interventi legislativi, il secondo dei quali plaudito da chi vedeva nel trasferimento dell’impresa insolvente a un nuovo imprenditore, prima del fallimento, un “arbitrio preventivo”. Il suo svolgimento ha “un cronogramma prolisso”. In caso di mancato raggiungimento delle maggioranze previste per legge, o quando in qualche maniera il concorso è venuto meno e produrrebbe il fallimento, il giudice emana un bando con il quale gli interessati possono acquisire il 100% del capitale della società debitrice. Si tratta di un procedimento che in sintesi costituisce una specie di “secondo giro del concordato preventivo”. Gli interessati, creditori o meno, debbono iscriversi nel procedimento. Ciascuno di essi, nel termine previsto dalla legge, deve formulare una proposta di accordo ai creditori e chi per primo ottiene il consenso secondo le maggioranze previste per il primo giro, si aggiudica le partecipazioni della società. Si applica esclusivamente alle società di capitali (s.r.l. e s.p.a. incluse le società di questo tipo con partecipazione statale) salvo quando si tratti di piccoli concorsi. La regolamentazione dell’istituto prevede la valutazione dell’impresa da parte di un valutatore. Se il risultato della valutazione è positivo, nel senso di dare un valore che supera il passivo concorsuale, in accordo alla formula di determinazione del valore stabilita dalla legge, il “cramdista” che avesse ottenuto l’approvazione deve pagare ai vecchi soci o azionisti il valore residuale delle loro quote o azioni, salvo che questi accettino un pagamento inferiore. La disciplina originaria contenuta nella l. 24.522 escludeva dall’intervento del procedimento ex art. 48 la società debitrice, mentre la riforma introdotta dalla l. 24.589 permette che questa competa con i terzi a parità di condizioni.
[59] Il
testo coordinato della nuova legge brasiliana è scaricabile da:
https://www2.camara.
leg.br/legin/fed/lei/2005/lei-11101-9-fevereiro-2005-535663-norma-pl.html
[60] P. De Micheli-S. Imbruglia-A. Misiani, Se chiudi ti compro. Le imprese rigenerate dai lavoratori, Firenze, 2017.
[61] R. Genco-P.L. Morara-F. Vella, Lavoratori che “si ricomprano” l’azienda, modello per la crisi,in www.lavoce.it, 23 luglio 2020.