Giurisprudenza

Misure protettive atipiche nei confronti del garante


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Articolo

La nuova disciplina degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza delle società


Alessandro Nigro

Data pubblicazione
11 ottobre 2022

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1. Con il recente d.lgs. n. 83/2022, contenente modifiche al Codice della crisi e dell’insolvenza (d’ora in avanti CCI) in attuazione della direttiva UE n. 2019/1023, è stata introdotta, nel capo III del tit. IV, una sezione VI-bis, che reca disposizioni specifiche in ordine agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza[1] delle società. Si tratta di disposizioni importanti, perché destinate soprattutto a governare quel rapporto fra disciplina delle procedure di composizione della crisi delle imprese e disciplina delle operazioni straordinarie delle società che da tempo costituisce uno dei capitoli centrali (e più tormentati) del c.d. diritto societario della crisi.

 

 

A. Conviene cominciare con il ricordare che, prima del CCI, due ordini di problemi avevano impegnato la dottrina in materia:

- il primo era quello del coordinamento fra la normale spettanza all’assemblea straordinaria della competenza a deliberare le operazioni straordinarie e specificamente le operazioni sul capitale e le operazioni di trasformazione, fusione e scissione, e le regole in materia di competenza a decidere sulla proposta di concordato sia fallimentare che preventivo da parte della società, fissate dall’art. 152 l.fall. richiamato dall’art. 161 stessa legge (per i quali, salva diversa disposizione statutaria, la decisione spettava agli amministratori);

- il secondo era quello del coordinamento fra regole societarie e regole concorsuali in punto di tutele dei soci e dei creditori a fronte delle operazioni di trasformazione, fusione e scissione previste nella proposta di concordato.

Con riguardo al primo ordine di problemi, il coordinamento era ovviamente agevole quando lo statuto attribuisse all’assemblea la competenza a decidere sulla proposta di concordato; quando, come normalmente accadeva, lo statuto nulla dicesse sul punto e scattasse pertanto la regola di default, posta dall’art. 152 l. fall., che attribuiva tale competenza agli amministratori, si doveva stabilire se essa competenza assorbisse, come era stato sostenuto da una parte della dottrina, quella a decidere sull’operazione spettante all’assemblea. Ad avviso di chi scrive, non potevano sussistere dubbi: là dove la proposta di concordato, decisa dagli amministratori, contemplasse un’operazione straordinaria rispetto alla quale le regole del diritto societario generale prevedevano l’intervento dell’assemblea, la deliberazione degli amministratori doveva necessariamente essere seguita (o preceduta) da quella assembleare.

Il secondo ordine di problemi, nel regime della legge fallimentare, si era rivelato praticamente insuperabile[2].

B. Il CCI, nella sua versione originaria, non era intervenuto sul primo ordine di problemi, limitandosi a confermare nell’art. 265 la regola già posta dall’art. 152 l.fall. ed a riprodurre nell’art. 44, co. 5, per la domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione e per la domanda di concordato preventivo, il richiamo a quella regola, già contenuto nell’art. 161 l.fall. Era intervenuto solo sul secondo ordine di problemi con l’art. 116, che aveva “sposato” la linea dell’assorbimento.

C. Il decreto correttivo del 2022 è intervenuto invece sul primo ordine di problemi, con i nuovi artt. 120-bis ss. e prevedendo, nella disposizione relativa all’accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza - ora non più l’art. 44, ma l’art. 40 – il rinvio non più all’art. 265, ma, appunto, al nuovo art. 120-bis.

Un rinvio – è il caso di precisare – alla luce del quale è da ritenere che gli art. 120-bis ss. siano destinati a trovare applicazione solo agli strumenti specificamente contemplati appunto nell’art. 40, vale a dire il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione e il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (una figura, quest’ultima, “inventata” dal legislatore del decreto correttivo e da qualificare come un sottotipo di concordato preventivo).

Con il che il decreto correttivo ha inteso anche e proprio attuare la prima ricordata direttiva n. 2019/1023 sui c.d. “quadri di ristrutturazione preventiva”.

D. Qualche considerazione merita, in via preliminare, proprio il modo in cui il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva.

Il legislatore comunitario ha richiesto la predisposizione di meccanismi di ristrutturazione destinati a prevenire l’insolvenza (sul punto l’art. 1, § 1, lett. a) della direttiva è inequivocabile: vi si precisa, infatti, che essa direttiva stabilisce norme in materia di «quadri di ristrutturazione preventiva per il debitore che versa in difficoltà finanziarie e per il quale sussiste una probabilità di insolvenza, al fine di impedire l'insolvenza e di garantire la sostenibilità economica del debitore»). Il legislatore italiano ha invece “offerto” una articolata panoplia di meccanismi “ibridi”, accessibili anche dal debitore già insolvente ed utilizzabili anche in chiave puramente liquidatoria[3].

In ciò si annida, mi pare di poter dire, un vero e proprio “vizio genetico” della nuova normativa. La direttiva avrebbe dovuto essere attuata predisponendo uno o più meccanismi deputati esclusivamente alla ristrutturazione preventiva (anche su questo il testo delle norme comunitarie, in particolare dell’art. 4, mi sembrerebbe inequivocabile). Il legislatore italiano ha, invece, proceduto all’attuazione prevedendo e disciplinando due procedure che, a seconda della configurazione concreta che assumono, possono corrispondere ai meccanismi voluti dalla direttiva (concordato preventivo in continuità; accordi in continuità) o, invece, discostarsene completamente (concordato preventivo liquidatorio; accordi liquidatori). Strumenti “ibridi” si diceva, che sono stati però assoggettati, dalla normativa che qui interessa, ad una disciplina tendenzialmente identica, modellata sulle norme comunitarie[4]. Con il risultato, per fare un semplice esempio, che le regole poste dall’art. 120-bis dovrebbero valere sia quando lo strumento prescelto per superare la “crisi” in senso lato della società sia costituito da un concordato in continuità aziendale sia quando tale strumento sia costituito da un concordato puramente liquidatorio, il cui piano può ben prevedere operazioni straordinarie, ma rispetto alla cui struttura ed alle cui finalità le suddette regole (si pensi in particolare alla esclusione della possibilità di intervento dell’assemblea dei soci) sembrerebbero avere ben poco senso.

Tutto questo – oltre a determinare incongruenze nel dettato normativo – fa sorgere seri dubbi sul piano della stessa compatibilità con la direttiva della nuova disciplina complessivamente considerata.

 

2. A. Le regole fondamentali del nuovo regime emergono nitidamente dai primi due commi dell’art. 120-bis e dal primo comma, prima parte dell’art. 120-quinquies e possono essere così sintetizzate:

- compete esclusivamente agli amministratori della società debitrice la decisione sia sull’accesso allo strumento di regolazione sia sulla proposta e sulle condizioni del piano (lo statuto non potrebbe, quindi, attribuire la competenza all’assemblea; e, d’altra parte, è espressamente stabilito che per tutto il periodo fino all’omologazione gli amministratori non possono essere revocati se non per giusta causa[5];

- il piano può prevedere qualsiasi modificazione (ed anche più modificazioni) dello statuto di quella società;

- il provvedimento di omologazione dello strumento determina la modificazione statutaria nei termini previsti dal piano[6].

Queste regole - le quali, riecheggiando la costruzione prospettata da una parte della dottrina e ricordata prima, si traducono in un completo e drastico esautoramento dell’assemblea, secondo una logica allora nitidamente “punitiva” - sollevano molte perplessità sotto diversi profili.

Innanzi tutto, esse non sembrano affatto in linea con le previsioni della direttiva n. 2019/1023 che il legislatore del 2022, come si è già detto, avrebbe inteso attuare. Tale direttiva infatti, per un verso, stabilisce che i legislatori nazionali, ove non contemplino la collocazione degli azionisti in una apposita classe di creditori, debbano adottare altre misure per evitare che essi possano irragionevolmente impedire l’adozione o l’attuazione di un piano di ristrutturazione: art. 12, §§ 1 e 2[7].

E, per altro verso, consente sì ai legislatori nazionali, con l’art. 32, di derogare alla regola dell’intervento dell’assemblea ma con riferimento a talune specifiche operazioni, precisamente quelle di aumento e di riduzione del capitale (il richiamato art. 32 elenca scrupolosamente le relative norme della direttiva n. 2017/1132), con una deroga, oltretutto, limitata nel tempo (si veda anche il Considerando n. 96).

Orbene, da un lato ed in relazione alle previsioni dell’art. 12 della direttiva, la disciplina che stiamo considerando prevede proprio la obbligatoria collocazione in apposita classe dei soci interessati dalle modifiche statutarie previste nel piano (art. 120-ter); il che fa venire automaticamente meno l’esigenza di “altre” misure particolari a carico dei medesimi soci. Non solo: la formulazione di quelle previsioni evoca non già meccanismi di diretta attribuzione del potere decisionale ad organi diversi dall’assemblea o a soggetti esterni in chiave di prevenzione della possibilità stessa di comportamenti ostruzionistici da parte dei soci (con una evidentissima sproporzione, allora, fra il mezzo e il fine), bensì meccanismi “sanzionatori” di comportamenti ostruzionistici che risultino in concreto irragionevoli alla luce di una equilibrata considerazione di tutti gli interessi in gioco, compresi quelli degli stessi soci.

Dall’altro ed in relazione al disposto dell’art. 32, il nostro legislatore ha ritenuto di estendere la deroga a tutte le modificazioni statutarie e specificamente alle operazioni di fusione e di scissione (trascurando di considerare che l’art. 32 non menziona gli artt. 93 e 139, in materia rispettivamente di fusione e di scissione, fra le disposizioni della direttiva n. 2017/1132 a cui i legislatori nazionali possono derogare) e con una portata non circoscritta in termini temporali.

In secondo luogo. Nel nostro ordinamento l’attribuzione all’assemblea della competenza a decidere le modifiche statutarie, e più in generale le operazioni straordinarie, che incidano sui diritti partecipativi dei soci costituisce un vero e proprio principio di sistema. La regola di cui stiamo trattando concreta una deroga a tale principio tanto vistosa quanto priva di qualsiasi giustificazione.

Né potrebbe aiutare qui la nota costruzione dottrinale, secondo cui, una volta divenuta insolvente la società, dal punto di vista economico proprietari dell’impresa divengono, non più i soci, bensì i creditori, dei quali gli amministratori diverrebbero allora i “fiduciari”. Ciò per due semplici ragioni. La prima è che una simile costruzione, se potrebbe avere una qualche plausibilità sul piano economico, è inidonea a fondare alcunché sul piano giuridico (sul quale piano, indipendentemente dalla situazione patrimoniale e finanziaria della società, i soci sono e restano proprietari e le loro prerogative non vengono in principio toccate). La seconda ragione è che quella costruzione si colloca in una logica di soluzione dell’insolvenza, totalmente estranea alla logica della direttiva, che – come già sottolineato prima – è quella della prevenzione dell’insolvenza.

In terzo luogo. Nel nuovo assetto,come si è visto, la modifica statutaria è determinata non dalla decisione degli amministratori, ma dal provvedimento di omologazione: è il tribunale, cioè, che propriamente si “sostituisce” all’assemblea nei compiti propri di quest’ultima. Ora, in materia societaria, non è infrequente l’attribuzione all’autorità giudiziaria della competenza ad adottare misure in sostituzione dell’assemblea: si pensi alla previsione dell’art. 2487, co. 2 c.c., per la quale, ove l’assemblea convocata dagli amministratori per la nomina dei liquidatori, non si riunisca o non deliberi, il tribunale adotta con decreto le deliberazioni previste. Ma, come evidenzia l’esempio fatto, ciò avviene quando sia necessario sostituire un organo rimasto inerte. Nel nostro caso, la sostituzione è disposta per supplire ad un organo che la legge stessa ha privato delle sue funzioni, con una dislocazione di poteri, allora, che appare assai simile ad una espropriazione.

Una espropriazione la cui “radicalità”, per così dire, attinge vertici impressionanti, ove si consideri che la legge attribuisce al tribunale anche il potere di autorizzare, con lo stesso provvedimento di omologazione, gli amministratori a porre in essere ulteriori modificazioni statutarie eventualmente previste dal piano.

Infine. Tutte le considerazioni fin qui svolte parrebbero poter fondare seri dubbi di incostituzionalità delle disposizioni che stiamo considerando: per un verso, sotto il profilo del mancato rispetto della direttiva e quindi per violazione dell’art. 76 Cost.; per altro verso, sotto il profilo della irragionevolezza, e quindi per la violazione dell’art. 3 Cost.; e, per altro verso ancora, sotto il profilo della violazione dell’art. 42 Cost.

B. Gli amministratori sono dunque investiti del potere di decidere, in connessione con la proposta concordataria, qualunque modificazione statutaria, ivi comprese quelle relative al capitale, nonché fusioni, scissioni, trasformazioni[8].

Tale potere, ovviamente, non è senza limiti. Sul punto sono destinate a giocare, innanzi tutto, le regole generalissime in punto di doveri di diligenza gravanti sui medesimi ex art. 2392 c.c. e di osservanza dei criteri di corretta gestione imprenditoriale e societaria; in secondo luogo, la regola generale posta dall’art. 3 CCI, come riformulato dal secondo decreto correttivo, in punto di concreta idoneità delle determinazioni assunte dagli amministratori a fare fronte alla crisi; e, da ultimo, la regola particolare estraibile dall’incipit del co. 2 dell’art. 120-bis, vale a dire la diretta strumentalità della modificazione statutaria al «buon fine della ristrutturazione».

Due aspetti vanno sottolineati.

Il primo è che, nella scelta – da ritenere, ad avviso di chi scrive, assistita dalla business judgement rule - se inserire nel piano una modifica statutaria e quale modifica inserire, gli amministratori debbono tenere conto non solo degli interessi dei creditori ma anche degli interessi dei soci. In tal senso sembrerebbe deporre la già vista previsione (del co. 4 dell’art. 120-bis) secondo la quale i soci, se perdono la possibilità di revocare ad nutum gli amministratori, che abbiano adottato le decisioni di cui stiamo parlando, conservano la possibilità di chiederne la revoca per giusta causa.

Il secondo aspetto è che le modificazioni statutarie oggetto della decisione degli amministratori – che deve risultare da verbale redatto da un notaio ed è depositata e iscritta nel registro delle imprese - restano integralmente regolate dalle disposizioni codicistiche che le disciplinano, quanto a condizioni, presupposti, effetti, ecc.

 

3. Passando alla posizione fatta ai soci.

 Va premesso che la disciplina ad essi relativa risulta integralmente applicabile solo al concordato preventivo ed al piano soggetto ad omologazione (che è poi – si è già detto - un sottotipo di concordato preventivo). Solo alcune (poche) delle disposizioni riguardanti i soci sono applicabili al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione, posto che nel contesto di tale procedura non c’è – come già sottolineato – una proposta del debitore, non c’è la suddivisione dei creditori in classi, non c’è votazione.

A. In base al co. 3 dell’art. 120-bis, gli amministratori sono tenuti ad informare i soci dell’avvenuta decisione di accedere ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza ed a riferire periodicamente del suo andamento, ovvero degli sviluppi del procedimento scaturito da tale decisione.

Quest’obbligo, evidentemente, non è fine a se stesso. Soprattutto l’informazione iniziale si deve ritenere fondamentale, da un lato, per consentire ai soci di attivare una loro “contromossa”, cioè la presentazione di una proposta concorrente (si tornerà subito sul punto), ma anche per permettere agli stessi una tempestiva reazione, in particolare attraverso l’impugnazione della decisione ai sensi dell’art. 2388, co. 4 c.c.

B. Ai sensi del co. 5 dell’art. 120-bis, i soci che rappresentano almeno il 10% del capitale sono legittimati alla presentazione di una proposta concorrente ai sensi dell’art. 90 CCI.

Fermo restando che a tale proposta è destinata ad applicarsi integralmente la disciplina per essa prevista dal CCI, compreso l’obbligo del commissario giudiziale di fornire ai proponenti tutte le informazioni utili (art. 92, co. 3), non è chiaro se, nell’ipotesi in cui la proposta concorrente preveda a sua volta una modificazione statutaria e venga prescelta dai creditori, sia destinato ad operare il meccanismo previsto dal primo co. dell’art. 120-quinquies o se invece debba entrare in gioco – come sembrerebbe a chi scrive – solo l’art. 118.

C. Come già anticipato, la disciplina che stiamo esaminando si caratterizza per la previsione (art. 120-ter) dell’inserimento in apposita classe (o classi) dei soci, così collocati, allora, nella stessa posizione dei creditori[9]. Il “classamento” è in principio facoltativo; ne è però sancita l’obbligatorietà quando il piano preveda modificazioni che incidono direttamente sui diritti di partecipazione dei soci o quando si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

Anche questa disposizione prospetta qualche dubbio in punto di compatibilità con la direttiva più volte ricordata. Essa lascia sì agli Stati membri la libertà di scegliere se “classare” o no i soci; ma laddove si scelga la strada di “classarli” valgono per i soci le stesse regole che valgono per i creditori: quindi, il classamento è ammissibile solo per i soci che siano “interessati” dal piano (gli artt. 2, § 1, n. 2 e 9 della direttiva sono inequivocabili al riguardo[10]).

D. L’art. 120-quater, recante la rubrica «Condizioni di omologazione del concordato con attribuzioni ai soci», prevede espressamente, al co. 1, che il piano, in un concordato in continuità aziendale[11], possa contemplare l’attribuzione anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda del «valore risultante dalla ristrutturazione»[12]; fissa, per questa ipotesi, particolari condizioni per l’omologazione[13]; e stabilisce, al co. 4, che le disposizioni dell’articolo, compreso allora anche il co. 1, si applicano, in quanto compatibili, all’omologazione del concordato in continuità aziendale presentato dagli imprenditori individuali.

La formulazione delle norme non è impeccabile. Comunque, sembrerebbe possibile (se non addirittura doveroso) leggerle in collegamento con l’art. 84, co. 6, per il quale «Nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quella liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore»; e da questa lettura congiunta derivare che la “scomposizione” prevista nell’art. 84, co. 6, fra il valore di liquidazione ed il (plus)valore di ristrutturazione valga anche per il profilo che qui interessa: nel senso che quanto al primo vada in ogni caso rispettato, fra gli altri, il principio posto dall’art. 2740 c.c.; quanto al secondo invece che a tale principio si possa derogare, attribuendo una porzione del medesimo anche al debitore o, nel caso di società, appunto ai soci. Pervenendo così al risultato di una deroga all’art. 2740 c.c., la quale sembrerebbe poter trovare una precisa giustificazione nell’opportunità di incentivare il debitore o i soci a collaborare fattivamente alla ristrutturazione, collocandosi allora (in certo qual senso contraddittoriamente) in una logica opposta a quella che ispira, come si è visto, l’art. 120-bis e l’art. 120-quinquies.

E. Il co. 3, sempre dell’art. 120-quater, stabilisce che i soci possono opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria. La disposizione non sembrerebbe avere molto senso con riferimento all’ipotesi regolata dai commi precedenti, cioè di un concordato che preveda attribuzioni ai soci. Parrebbe quindi destinata ad avere portata generale, tanto più alla luce della relazione illustrativa che vi vede l’attribuzione ai soci del diritto alla tutela del “diritto di proprietà”.

F.Completa il quadro complessivo della posizione fatta ai soci il disposto del nuovo ultimo co. dell’art. 116 (stranamente numerato come “4-bis”, anziché “5”) aggiunto dal decreto correttivo del 2022, per il quale, quando il piano del concordato preventivo prevede il compimento di operazioni di trasformazione, fusione o scissione, «il diritto di recesso dei soci è sospeso fino all’attuazione del piano».

 

4. L’art. 120-quinquies (recante, chissà perché, la rubrica «Esecuzione») ha un contenuto articolato.

A. Esso stabilisce, innanzi tutto, che cosa il tribunale deve disporre nel provvedimento (sentenza) di omologazione in relazione al particolare profilo delle modificazioni statutarie previste dal piano. Specificamente, si precisa, nel primo comma, che tale provvedimento:

- determina la riduzione e l’aumento del capitale e le altre modificazioni statutarie nei termini previsti dal piano;

- demanda agli amministratori l’adozione di ogni atto necessario a dare esecuzione a quelle modifiche;

- autorizza gli amministratori a porre in essere nei successivi trenta giorni o nel diverso termine previsto dal piano le «ulteriori modificazioni statutarie programmate dal piano».

a. È dunque la sentenza del tribunale che “produce”, in principio, la modificazione statutaria contemplata nel piano, ferma restando la possibilità che il piano preveda modificazioni ulteriori (non meglio identificate dalla legge), rispetto all’attuazione delle quali il tribunale, nella stessa sentenza, dovrà provvedere a rilasciare apposita autorizzazione agli amministratori.

b. Proprio in relazione a quanto appena detto, sembra sicuro, nonostante il silenzio della legge sul punto, che, in sede di omologazione, il tribunale debba verificare anche e proprio la legittimità della modificazione statutaria prevista dal piano sotto il profilo del rispetto della disciplina civilistica di quel tipo di modificazione. Questo per la semplice ragione che la legittimità dell’operazione rileva direttamente ai fini della fattibilità del piano, che è anche e proprio fattibilità giuridica.

c. Il primo comma dell’art. 120-quinquies prosegue stabilendo, con una formulazione decisamente contorta, che «In mancanza il tribunale, su richiesta di qualsiasi interessato e sentiti gli amministratori, può nominare un amministratore giudiziario, attribuendogli i poteri necessari a provvedere in luogo di costoro agli adempimenti di cui al presente articolo, e disporre la revoca per giusta causa degli amministratori». Disposizione che sembrerebbe da riferire solo alla mancata adozione degli atti necessari a dare esecuzione alle modifiche determinate dal tribunale; che riecheggia, seppure alla lontana, quella contenuta nell’art. 118, co. 5 e 6 CCI; e che, come quest’ultima, si espone al rilievo della evidente sproporzione fra l’inadempimento e la misura sostitutiva.

B. Il secondo comma dell’art. 120-quinquies stabilisce – riproducendo il disposto dell’art. 2436, co. 3 c.c. – che «Se il notaio incaricato ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne dà comunicazione tempestivamente, e comunque non oltre il termine di trenta giorni, agli amministratori. Gli amministratori, nei trenta giorni successivi, possono ricorrere, per i provvedimenti necessari, al tribunale che ha omologato lo strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza».

Non essendo concepibile un controllo notarile in ordine alle modificazioni statutarie “determinate” dalla stessa sentenza di omologazione, la previsione sembra da riferire unicamente alle ulteriori modificazioni statutarie poste in essere dagli amministratori su autorizzazione del tribunale, che potranno essere iscritte nel registro delle imprese solo previo, appunto, controllo del notaio[14].

 

5. Il meccanismo disegnato dagli artt. 120-bis ss. sicuramente pone non pochi e non irrilevanti problemi ricostruttivi ed applicativi.

Li pone soprattutto, come è evidente, per le operazioni straordinarie più complesse ed articolate, come le fusioni e le scissioni, rispetto alle quali, in particolare, non è chiaro come l’itinerario per esse delineato dal codice civile possa “innestarsi” nel, e coordinarsi con il, nuovo (almeno parzialmente) contenitore processuale; e ancor meno è chiaro come l’effetto “costitutivo” dell’atto di fusione o dell’atto di scissione – che dovrà pure essere stipulato - possa conciliarsi con l’effetto parimenti “costitutivo” della sentenza di omologazione che “determina” le modificazioni statutarie in questione.

Sembra comunque di poter dire che l’effetto della stabilità dell’operazione dovrà necessariamente essere riferito (non all’iscrizione dell’atto di fusione o di scissione nel registro delle imprese, ma) al momento in cui diventa definitiva la sentenza di omologazione.

 

6. Un ulteriore, ed ovviamente delicato, profilo è quello delle tutele.

 A questo riguardo si impone una considerazione preliminare. Gli artt. 120-bis ss. delineano un itinerario assai rigido dal punto di vista della sequenza temporale: in particolare, la modificazione statutaria contemplata dal piano, essendo “determinata” dalla sentenza di omologazione, può esistere e produrre effetti solo a partire da tale sentenza, con la conseguenza che viene esclusa a priori la possibilità che il piano preveda modificazioni statutarie destinate a trovare attuazione prima di tale sentenza. Il che elimina gran parte dei problemi relativi al coordinamento, in ordine proprio alle tutele, fra regole civilistiche e regole concorsuali.

A. Ciò precisato, per quel che riguarda i soci si è già detto che ad essi va riconosciuto il potere di impugnare la deliberazione (o le deliberazioni) con cui gli amministratori abbiano deciso sia l’accesso ad una delle procedure di cu stiamo trattando sia il contenuto della proposta e le condizioni del piano. Con questo e con la possibilità di deliberare, secondo le regole generali, la revoca per giusta causa degli amministratori, si esauriscono gli strumenti del diritto societario comune utilizzabili dai soci rispetto all’iniziativa assunta dagli amministratori di accedere ad una procedura il cui piano contempli anche una o più modifiche statutarie[15].

Rimangono, ovviamente, gli strumenti di diritto concorsuale. Qui bisogna distinguere a seconda a che si tratti della procedura di concordato preventivo o di piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione o, invece, della procedura di omologazione di accordi di ristrutturazione.

Nel primo caso, i soci sono di regola direttamente coinvolti nel subprocedimento di approvazione della proposta e del piano: se consenzienti, non possono ovviamente proporre opposizione all’omologazione; se non consenzienti, possono proporre opposizione in base alla regola generale posta dall’art. 48, co. 2 CCI, con la particolarità che per essi, nel caso in cui vogliano contestare la convenienza della proposta, in ogni caso non vale il particolare requisito di legittimazione previsto oggi dall’art. 112, co. 5, come riformulato dal nuovo decreto correttivo (l’appartenenza ad una classe dissenziente), stante la prima ricordata previsione dell’art. 120-quater, co. 3, per la quale i soci possono sempre opporsi all’omologazione del concordato al fine di far valere il pregiudizio subito rispetto all’alternativa liquidatoria.

Nell’opposizione i soci – è questo un punto fondamentale – sicuramente possono far valere anche e proprio “vizi” concernenti la modificazione statutaria prevista dal piano (il difetto, per esempio, delle condizioni stabilite dalla disciplina codicistica), dal momento che, come si è detto prima, la legittimità, sotto tutti i profili, dell’operazione contemplata dal piano entra a comporre la fattibilità giuridica del medesimo[16].

In parte diverso è il discorso relativo al procedimento di omologazione di accordi di ristrutturazione. In questo procedimento non c’è il classamento dei soci, che d’altra parte non sono, normalmente, parte degli accordi; né c’è votazione. Il socio che si ritenga leso dalle previsioni del piano e, in particolare, da quelle relative alla modifica statutaria in esso contemplata può, in base sempre alla regola generale posta dall’art. 48 (questa volta, co. 4), proporre opposizione all’omologazione, facendo eventualmente valere, anche qui, profili di illegittimità concernenti quella modificazione.

B. Per quanto riguarda i creditori.

a. Qui è destinato ad entrare subito in gioco l’art. 116 CCI, già più volte menzionato, che non solo non è stato toccato, nella parte che qui interessa, dal nuovo decreto correttivo (il quale, come già precisato, ha unicamente aggiunto un ultimo comma, relativo al diritto di recesso dei soci), ma è stato completamente ignorato dai redattori delle disposizioni di cui ci stiamo occupando, che hanno mostrato di non aver neppure percepito l’esigenza di un raccordo fra i due blocchi di norme.

Ricordo che l’art. 116 è stato introdotto, dal legislatore del 2017/2019, allo scopo di realizzare il coordinamento fra regole societarie e regole concorsuali in punto proprio di tutela dei creditori, a fronte delle operazioni di trasformazione, fusione e scissione previste nella proposta di concordato. Peraltro, delle disposizioni contenute nell’art. 116, in particolare dei primi due commi, è chiara solo la ratio (ricondurre all’interno della procedura episodi contenziosi che potrebbero, di tale procedura, rallentare o inceppare lo svolgimento); tutto il resto, in sé considerato, prospetta molti nodi critici.

A mio avviso, comunque, il raccordo fra la disposizione particolare dell’art. 116 e la disciplina generale di cui ci stiamo occupando può realizzarsi solo interpretando (o “reinterpretando”) la prima alla luce della sua ratio e quindi ritenendo, da un lato, che per “contestazioni” si debbano intendere le opposizioni previste dalla disciplina civilistica relativa alle operazioni in questione (opposizioni che, rammentiamo, non possono riguardare la legittimità in sè di tali operazioni ma solo gli effetti pregiudizievoli per i creditori); e, dall’altro, che le opposizioni debbano essere proposte dai creditori nella forma e nei termini previsti per le opposizioni all’omologazione dall’art. 48, co. 2 (proprio per quanto riguarda i termini, rileva naturalmente la ormai sicura impossibilità - sottolineata prima - di prevedere nel piano operazioni di trasformazione, fusione e scissione destinate a realizzarsi prima dell’omologazione, come invece l’art. 116 espressamente prevede).

Rimane, peraltro, il problema degli effetti dell’accoglimento dell’opposizione (civilistica), che sembrerebbe doversi risolvere nel senso che tale accoglimento, comportando l’inefficacia assoluta dell’operazione in questione, porti con sé il diniego dell’omologazione. E rimane, d’altra parte, il problema se la regola posta dall’art. 116 possa valere anche con riferimento ad altre modificazioni statutarie per le quali la normativa civilistica ugualmente preveda la possibilità di opposizioni da parte dei creditori (così la riduzione reale del capitale sociale) e se possa valere anche per la procedura di omologazione di accordi di ristrutturazione (ad avviso di chi scrive, la risposta dovrebbe essere affermativa per entrambi i profili).

B. Con riferimento a tutte le modificazioni statutarie, i creditori possono comunque avvalersi dello strumento di tutela proprio delle procedure, cioè dell’opposizione ai sensi dell’art. 48 CCI, che – come si è già detto trattando dei soci – potrà riguardare anche la legittimità, in sé, di quelle modificazioni.

 

7. Un’ultima considerazione.

Il legislatore del 2022, nel disegnare le regole che abbiamo cercato di analizzare, si è, all’evidenza, completamente disinteressato dei riflessi che tali regole – destinate ad incidere non poco sugli assetti di governance delle società di capitali – potrebbero aver sul funzionamento di tali società come insostituibili strumenti di raccolta di capitali di rischio. Il che non è un “peccato” veniale. Come ho già scritto altra volta, un legislatore accorto, quando si trovi ad intervenire in materia di diritto societario della crisi, dovrebbe preoccuparsi, fra le altre cose, anche e proprio di evitare che la previsione o la prospettiva di soluzioni “espropriative” o “penalizzanti” per i soci, nell’ipotesi di crisi della società, possa inceppare la tranquilla utilizzazione di uno strumento fondamentale nello sviluppo dell’economia quali sono, e da tempo, appunto le società di capitali.

 

8. La nuova disciplina di cui ci siamo occupati è dunque assai ricca di “ombre” e molto povera di “luci”. Il che conduce ad una conclusione sconfortante. Di correttivo in correttivo, la situazione, per ciò che riguarda la nostra materia, non cambia e la prospettiva di avere un testo normativo – lo si chiami codice, testo unico, o come altro si vuole - completo, lineare, chiaro ed essenziale, frutto di adeguate riflessioni e di ragionevoli valutazioni sembra allontanarsi sempre di più. Ci si trova costretti a confrontarsi con il proliferare di figure, di istituti, di categorie; a doversi districare fra “quadri”, “procedure”, “strumenti”, “misure”, in una sorta di assurdo gioco a rimpiattino; a dover fare i conti con disposizioni caratterizzate sempre più spesso dalla fretta e dall’approssimazione; e così via.

Dal che il riproporsi all’interprete, di un dilemma sempre più angoscioso: accontentarsi di una legge pessima purché rimanga ferma nel tempo, in modo di consentire a chi debba fruirne di comprenderla fino in fondo, di favorirne interpretazioni ed applicazioni, ove occorra, correttive; oppure continuare ad invocare, ogni volta, l’intervento di un legislatore che sempre ci si augura più accorto e più capace, così alimentando, però, la spirale perversa di una perenne instabilità normativa.



[1] Non c’è qui ovviamente la possibilità di soffermarsi sulla nuova distinzione, introdotta dal legislatore del 2022, fra i c.d. strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza e le c.d. procedure di insolvenza e che ormai emerge nitidamente dalla riformulazione di molte norme, a partire da quelle definitorie dell’art. 2, lett. n) e q) per arrivare agli art. 7, co. 1, 26, co. 1, 27, co. 1, ecc. Ci si può limitare ad osservare che si tratta di una distinzione assai malcerta. Innanzi tutto, mentre gli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza sono definiti, dalla nuova lettera m-bis) dell’art. 2, co. 1, come «le misure, gli accordi e le procedure volti al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività (…)», le procedure di insolvenza non godono di una corrispondente definizione. E, in secondo luogo, non è affatto chiaro quali siano esattamente gli ambiti delle due categorie: in particolare, la categoria degli strumenti sembrerebbe dover comprendere, oltre alle figure contemplate nell’art. 40 (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione e piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione), da un lato, stando alla rubrica del tit. IV, anche le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento e, dall’altro, stando al nuovo art. 23, co. 2, lett. d), anche (addirittura) l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi

[2] In dottrina, si erano prospettate soluzioni diverse: oltre alla tesi, radicale, della preclusione all’esercizio del diritto dei creditori all’opposizione, si era in particolare prospettato l’“assorbimento” delle opposizioni dei creditori (e delle impugnazioni dei soci) nello strumento dell’opposizione all’omologazione. In realtà, non vi era nulla, nel regime della l.fall., che potesse fondare tale costruzione.

[3] E ciò previa la opportuna “manipolazione” della definizione degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, che nella sua prima parte riproduce la definizione dei “quadri di ristrutturazione preventiva” contenuta nell’art. 2 della direttiva, con l’aggiunta poi della frase «oppure volti alla liquidazione del patrimonio o delle attività».

[4] Né si potrebbe sostenere che la disciplina in questione si debba applicare, in blocco, solo alle figure di “strumenti” connotate dalla continuità aziendale. Per la semplice ragione che l’art. 40 CCI, co. 2, ult. periodo non distingue: quindi per le società la domanda di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza è sempre governata dall’art. 120-bis, quale che sia il “tipo” del piano che accompagna la domanda.

[5] Più precisamente il co. 4 dell’art. 120-bis stabilisce: «Dall’iscrizione della decisionenelregistrodelle impreseefino allaomologazione,larevocadegli amministratorièinefficacesenonricorreunagiustacausa.Noncostituiscegiustacausala presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in presenzadelle condizioni di legge. La deliberazione di revoca deve essere approvata con decreto dalla sezionespecializzatadeltribunaledelleimpresecompetente,sentitigliinteressati».

[6] Con riguardo al procedimento di omologazione degli accordi di ristrutturazione le regole andranno adattate: non essendovi, in quel procedimento, alcuna “proposta”, la decisione in via esclusiva degli amministratori potrà concernere, oltre che l’accesso al procedimento, solo il contenuto del piano.

[7] Queste disposizioni rispettivamente stabiliscono: «Se escludono i detentori di strumenti di capitale dall'applicazione degli articoli da 9 a 11, gli Stati membri provvedono con altri mezzi affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'adozione e l'omologazione di un piano di ristrutturazione» e «Gli Stati membri provvedono altresì affinché ai detentori di strumenti di capitale non sia consentito di impedire o ostacolare irragionevolmente l'attuazione di un piano di ristrutturazione».

[8] Come è noto, non vi è corrispondenza fra modificazioni statutarie e operazioni straordinarie: in particolare, vi sono operazioni straordinarie che non comportano modificazioni statutarie. Un problema che potrebbe porsi è se il meccanismo delineato dalla legge possa essere esteso anche a queste operazioni: data la natura sicuramente eccezionale della disposizione, la risposta sembrerebbe dover essere negativa.

[9] Il co. 3 dello stesso art. 120-ter precisa: «I soci, inseritiin una o più classi, esprimono il proprio voto nelle forme e nei termini previsti perl’espressione del voto da parte dei creditori. All’interno della classe il socio ha diritto di voto in misuraproporzionale alla quota di capitale posseduta anteriormente alla presentazione della domanda. Ilsociochenonhaespressoilpropriodissensoentroilsuddettoterminesiritieneconsenziente».

[10] Essi infatti stabiliscono, il primo, che “parti interessate” siano «i creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori, e, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori di strumenti di capitale, sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione»; e, il secondo, che «Gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate abbiano diritto di voto sull'adozione di un piano di ristrutturazione. Le parti non interessate da un piano di ristrutturazione non hanno diritto di voto sull'adozione del piano» (§ 2) e che «Gli Stati membri provvedono affinché le parti interessate siano trattate in classi distinte…» (§ 4).

[11] Per la verità, il co. 1 non specifica che si debba trattare di un concordato in continuità: ma, da un lato, il riferimento in esso al valore risultante dalla ristrutturazione evoca quella figura di concordato; dall’altro, a questa figura di concordato fa espresso riferimento il co. 4.

[12] Il co. 2 precisa che «per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguenteall’omologazione dellaproposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedottoil valore da essi eventualmenteapportatoai fini della ristrutturazione in formadi conferimentio diversamentiafondoperdutooppure,perleimpreseminori,ancheinaltraforma»,

[13] In base al co. 1, «il concordato,in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto aciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello propostoalle classi del medesimo rango e più favorevoledi quellopropostoalle classidi rangoinferiore,anchese a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. Se non vi sono classi dicreditoridirangoparioinferioreaquelladissenziente,ilconcordatopuòessereomologatosoloquando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente èsuperioreaquellocomplessivamenteriservatoaisoci».

[14] La disciplina è completata dalla previsione (dell’ultimo comma) secondo la quale «Le modificazionidellacompaginesocialeconseguentiall’esecuzionediuno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza non costituiscono causa di risoluzione o di modificazione di contrattistipulatidallasocietà.Sonoinefficacieventualipatti contrari».

[15] E rimane naturalmente lo strumento “estremo” della deliberazione di scioglimento anticipato della società, che i soci restano, in principio, assolutamente liberi di adottare.

[16] Questo significa, per esempio, che se il piano prevede l’azzeramento del capitale sociale per effetto delle perdite e la ricostituzione del medesimo con esclusione totale del diritto di opzione, il socio non consenziente può opporsi all’omologazione facendo valere la sicura illegittimità di siffatto meccanismo.