Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

Crisi, continuità aziendale, adeguati assetti organizzativi, composizione negoziata: le parole chiave del nuovo codice (una prefazione)*


Renato Rordorf

Data pubblicazione
30 novembre 2022

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E' stata una marcia lunga e piena di ostacoli ma, finalmente, con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, ormai usualmente designato con l’acronimo CCII, è stata archiviata, dopo ottanta anni di valoroso servizio, la vecchia legge fallimentare che era stata emanata quando correva l’anno 1942 nel pieno della guerra mondiale.

Non è il caso di ripercorrere le tappe di questo complicato e faticoso cammino di riforma, che ha preso il via all’inizio del 2015 ed è durato oltre sette anni, durante i quali si sono avvicendati più legislature e molteplici Governi. Val però la pena di notare la singolarità di un codice che è stato originariamente emanato con il d.lgs. 14/2019, ma è entrato subito in vigore solo per parti assai limitate (essenzialmente quelle con le quali sono stati modificati alcuni articoli del codice civile riguardanti l’impresa e le società), per essere poi soggetto ad alcune correzioni di carattere prevalentemente formale (d.lgs. 147/2020) ed essere infine largamente rielaborato nella definitiva versione di cui al d.lgs. 83/2022 anche per recepire la Direttiva europea 2017/1132 (c.d. Direttiva Insolvency del 14 giugno 2017). Un testo normativo, alla cui formazione hanno collaborato diverse commissioni ministeriali e diversi uffici legislativi del Ministero della Giustizia succedutisi nel tempo, che ha come riferimento ben due leggi di delega: non solo la l. 155/2017, con la quale il Governo era stato incaricato di elaborare una riforma organica dell’intera materia concorsuale, ma poi anche la l. 53/2021, con la quale il Governo è stato delegato al recepimento di una serie di direttive europee, ivi compresa la già citata Direttiva Insolvency. La seconda delega è assai generica, giacché non fornisce alcuna indicazione circa il modo in cui il Governo avrebbe dovuto recepire l’anzidetta direttiva, benché questa lasci in molti campi ampie facoltà di scelta ai Paesi membri. Nondimeno, proprio facendo leva su tale seconda delega, il Governo ha apportato non poche incisive modifiche al testo del codice emanato sulla base della precedente legge del 2017, discostandosi in più punti significativamente dai criteri di delega da quest’ultima enunciati. Sul delicato equilibrio costituzionale tra potere legislativo del Parlamento e del Governo, e sulla correttezza delle prassi con cui il secondo esercita i poteri delegatigli dal primo, credo ci sarebbe da discutere. Ma non è questa la sede.

é lecito chiedersi, piuttosto, se o fino a qual punto, all’esito di un così tortuoso percorso, siano state soddisfatte le esigenze dalle quali l’impulso di riforma era stato mosso ed in qual misura siano stati realizzati gli obiettivi che ci si era originariamente prefissi. Non senza tener conto però, ovviamente, che nel periodo di tempo di cui stiamo parlando sono intervenuti eventi di enorme portata – la pandemia da coronavirus, lo scoppio della guerra in Ucraina, la crisi energetica, la ripresa dell’inflazione e via dicendo – che hanno profondamente mutato il quadro economico generale ed inciso perciò fortemente anche sulla microeconomia delle imprese e sui conseguenti scenari di crisi ed insolvenza.

Un primo risultato certamente è stato raggiunto, e lo si è già prima segnalato: l’ammodernamento di questo fondamentale settore dell’ordinamento giuridico nazionale, con l’abrogazione della legge fallimentare, nata in un contesto storico-sociale, politico ed economico evidentemente ben diverso dall’attuale, e la sua sostituzione con il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. L’importanza, per certi versi anche simbolica, di questo passaggio di testimone tra la vecchia legge ed in nuovo codice si coglie già nell’abbandono delle parole “fallimento” o “fallimentare” e dei loro derivati. In ciò non solo si esprime l’intento del legislatore di discostarsi da un’antica e radicata accezione umanamente e socialmente negativa legata a quelle parole, ma si manifesta un mutamento di prospettiva: la propensione ad allontanarsi da soluzioni cui una volta corrispondeva una sorta di morte civile, definitiva ed irreversibile, in favore di scenari nei quali anche l’insolvente conservi delle possibilità di recupero ed i valori residui dell’impresa non siano necessariamente votati alla dispersione.

è proprio questa, in effetti, la linea di tendenza cui la riforma sin da principio si è ispirata, e vi tornerò poi brevemente. Prima però vorrei ricordare che la sostituzione della legge fallimentare del 1942 si era resa necessaria anche a causa dei molti e spesso contraddittori interventi di modifica susseguitisi nel tempo; interventi imposti proprio dall’esigenza di sopperire all’obsolescenza di quella legge, ma quasi sempre privi di coerenza sistematica e non di rado, anzi, contraddittori perché concepiti in una logica emergenziale di breve periodo. Occorreva perciò anche recuperare una maggiore organicità di questo settore ordinamentale. Purtroppo, però, questo obiettivo è stato conseguito solo parzialmente, essendo rimasti fuori dal perimetro della riforma importanti aree, quali l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese e la liquidazione coatta amministrativa, che sostanzialmente non hanno subito modifiche salvo che per alcune limitate ricadute del CCII anche su di esse.

è rimasta invariata, per la sua maggior parte, anche la disciplina penale, che il Governo in carica alla fine dell’ultima legislatura aveva programmato di adeguare al nuovo Codice ma che non è adesso possibile prevedere se e quando sarà anch’essa riformata.

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Ciò premesso, nel rimandare il lettore all’analisi delle disposizioni del Codice ed alla ricca elaborazione concettuale che troverà nelle pagine di questo volume, mi sia consentito spendere ancora qualche breve considerazione sul contenuto della nuova normativa, partendo da quattro espressioni verbali che a più riprese vi si ritrovano (ed ovviamente trascurandone molte altre che pure sarebbero meritevoli di grande attenzione). In un paese di civil law, d’altronde, il diritto è anzitutto un costrutto di parole ed è quindi sempre importante soffermarsi sulle espressioni verbali che il legislatore sceglie di adoperare.

Anzitutto «crisi d’impresa»: sono forse le parole chiave, che non a caso il legislatore ha inserito sin nel titolo del codice, sia pure affiancandovi il più tradizionale concetto dell’insolvenza. Merita di essere sottolineato che la legge fallimentare del 1942, nella sua originaria formulazione, non faceva mai riferimento alla «crisi d’impresa», poiché l’attenzione del legislatore era soprattutto focalizzata sull’insolvenza e sulla conseguente necessità di espellere dal mercato le imprese non più in grado di operarvi, per poi disciplinare al meglio la liquidazione dei beni aziendali. La parola «crisi» è entrata nel lessico del legislatore fallimentare solo con le riforme del 2005-2006 e compare oggi, come s’è detto, nel titolo stesso del nuovo codice a testimonianza della sua centralità. Già questo fa comprendere lo spostamento del centro di gravità della normativa in un momento logicamente e cronologicamente anteriore all’insolvenza: quello appunto della crisi.

Per la prima volta ora la crisi diviene una nozione giuridica, cui corrisponde una definizione normativa: la prima tra quelle enunciate dall’art. 2 CCII. Definizione forse problematica, perché descritta in termini probabilistici che non facilitano l’individuazione dei suoi confini temporali, né rispetto ad una futura eventuale insolvenza né rispetto ad una precedente situazione di «precrisi» (twilight zone). Indipendentemente da tali difficoltà, l’importanza assunta dalla nozione di crisi nel nuovo tessuto normativo è espressione evidente di come il legislatore intenda intervenire già in una fase della vicenda imprenditoriale antecedente al manifestarsi della vera e propria insolvenza. Una fase che, in passato, interessava quasi esclusivamente i cultori delle scienze aziendali ed alla quale i giuristi prestavano in genere ben poca attenzione, salvo nei casi in cui si trattava di identificare a ritroso i confini temporali dell’insolvenza ai fini dell’esercizio delle azioni revocatorie (anche nell’abrogato istituto dell’amministrazione controllata la distinzione tra l’insolvenza e le sue premesse era, di fatto, assai poco nitida).

La centralità che la nozione di «crisi» oggi assume nel linguaggio del legislatore sta, a propria volta, a testimoniare di un diverso intento normativo, non più prevalentemente volto a regolare la liquidazione dei beni dell’insolvente, secondo il principio della par condicio, in una logica assimilabile a quella di una procedura esecutiva connotata dalla concorsualità, bensì soprattutto teso a favorire il più possibile il tempestivo risanamento dell’impresa in crisi.

Ciò conduce immediatamente alla seconda espressione verbale sulla quale vorrei spendere qualche parola: la «continuità aziendale», il cui mantenimento o il cui recupero evidentemente si pongono come traguardo del prospettato risanamento. Anche questa è un’espressione relativamente nuova nel lessico dei giuristi, mentre era già da gran tempo adoperata dagli aziendalisti. Nella legislazione, sia pure con formulazioni non sempre del tutto identiche, la continuità aziendale ha acquisito cittadinanza inizialmente come elemento di fatto, di cui occorre avere consapevolezza ai fini della corretta redazione dei bilanci, che può riflettersi sulla distinzione tra bilancio d’esercizio e bilancio di liquidazione. Nella prospettiva concorsuale si tratta, invece, anche e soprattutto di una finalità alla quale le procedure di ristrutturazione e di risanamento sono preordinate e che l’imprenditore diligente deve sforzarsi di perseguire, avvalendosi tempestivamente di tali procedure.

Non posso qui neppure per sommi capi passare in rassegna siffatte procedure, ma vorrei notare come l’evoluzione normativa in atto si caratterizzi per un progressivo spostamento dell’accento dalla figura soggettiva dell’imprenditore a quelle oggettive dell’attività d’impresa e dell’azienda attraverso cui quell’attività si realizza. Il favore per soluzioni della crisi realizzate anche attraverso forme di continuità aziendale indiretta e l’accresciuta attenzione alla conservazione dei posti di lavoro ed agli interessi dei lavoratori in genere fanno sì che l’impresa e l’azienda si spersonalizzino, assumendo un connotato valoriale che prescinde dalle vicende soggettive del titolare. Ovviamente neppure il ricorso a strumenti di risoluzione della crisi che favoriscano la continuità aziendale può prescindere della tutela degli interessi dei creditori, ma è proprio nel bilanciamento di questi diversi interessi, talora coincidenti e talaltra confliggenti, che permangono alcune zone d’ombra della normativa sulle quali il diritto vivente dovrà riuscire a far luce.

Ben chiara nella mens legis è invece l’idea che solo se l’impresa si sia dotata di adeguati assetti organizzativi sarà possibile intercettare i sintomi della crisi con la tempestività indispensabile per riuscire adeguatamente a fronteggiarli. Anche questa espressione – «adeguati assetti organizzativi» – assume perciò un’importanza centrale nel codice della crisi, oltre che nel codice civile alcuni dei cui articoli sono stati modificati nel medesimo contesto riformatore proprio per dare maggiore risalto, in via generale, a questa fondamentale esigenza del modo di fare impresa.

Gli interventi in tal senso operati sul codice civile, come già accennato sono ormai già in vigore da alcuni anni e molto se ne è quindi già detto e scritto. Merita solo di essere ricordato che lo sforzo compiuto nell’ultima versione del CCII per dare un contenuto più preciso al precetto di adeguatezza degli assetti organizzativi (art. 3, comma 3) non basta ad elidere il carattere necessariamente elastico di quel precetto, destinato comunque ad essere diversamente declinato a seconda della tipologia, dell’oggetto e della dimensione dell’impresa.

è impossibile, da ultimo, non fare riferimento all’espressione «composizione negoziata», che costituisce la maggiore novità della versione finale c.c.i.i., pur se anticipata dal d.l. 118 del 2021. L’introduzione di questa nuova figura, in luogo degli istituti dell’allerta e della composizione assistita della crisi previsti nell’originaria versione del codice, è un significativo mutamento di rotta. Il principio ispiratore dell’allerta, ossia la necessità di far emergere al più presto possibile eventuali sintomi di crisi per poterli più efficacemente fronteggiare, permane. Si è scelto, però, di tracciare un percorso meno vincolante, sul presupposto che quello inizialmente prospettato avrebbe rischiato di spaventare e di scoraggiare l’imprenditore in crisi, anziché spingerlo ad avvalersi di questi nuovi strumenti. Donde il carattere del tutto volontario del ricorso alla composizione negoziata, con svariati incentivi ma senza interventi esterni o misure punitive per chi non se ne avvalga, salvo le ordinarie ipotesi di responsabilità civile e penale per l’aggravamento del disseto ed i danni arrecati ai creditori. Si tratta, con ogni evidenza, di una scelta di politica legislativa, in favore di un approccio per così dire più morbido all’early warning, che può essere o meno condivisa ma che non appare del tutto priva di giustificazioni ove si consideri anche il grave contesto economico generale al quale già prima ho fatto cenno e la conseguente necessità di mettere a disposizione degli imprenditori strumenti che possano esser percepiti come un ausilio per uscire dal mare in tempesta e non abbiano invece – come per certi aspetti accadeva con l’allerta disegnata nell’originaria versione del codice – connotati eccessivamente arcigni e minacciosi.

Senza entrare qui in una discussione che porterebbe troppo lontano, credo che siamo qui in presenza di un’importante scommessa del legislatore il cui esito in gran parte dipenderà dall’atteggiamento dei diversi protagonisti chiamati ad operare su questo terreno.

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All’orizzonte della riforma si delineano, dunque, e si rafforzano, alcune tendenze già presenti da anni nell’ordinamento europeo ed in quello nazionale. è in atto un progressivo distacco dalle tradizionali concezioni del debito come colpa da espiare e della par condicio creditorum come espressione del principio costituzionale di eguaglianza. Si va invece consolidando l’idea per cui, ove possibile, giova al mercato consentire una seconda chance all’indebitato insolvente e favorire il salvataggio delle imprese in crisi mediante forme sartoriali di ristrutturazione del debito, per realizzare le quali può risultare controproducente la troppo rigorosa livella della par condicio creditorum, la quale è andata man mano perdendo quella centralità che aveva nel contesto originario del diritto fallimentare.

Questo mutato approccio si riflette anche sul ruolo dei diversi protagonisti delle vicende cui il codice si riferisce. Ne viene in qualche misura rimodulato il ruolo del magistrato, non più assimilabile al giudice dell’esecuzione, dominus assoluto della procedura, cui viene ora chiesto di fungere soprattutto da garante del rispetto dei limiti entro cui i soggetti interessati possono autonomamente operare per conseguire l’auspicato risanamento, oltre che da risolutore dei conflitti insorgenti in tali fasi. L’ampia scelta tra le diverse possibili modalità di fronteggiare la crisi e di gestire l’insolvenza accentua poi di molto l’importanza del ruolo dei professionisti, chiamati a vario titolo ad assistere le parti o a favorire, in posizione di neutralità, la risoluzione della crisi, anche con l’emergere di nuove forme di professionalità (basti pensare alla figura dell’esperto nella composizione negoziata).

Si fa poi sempre più stretto, in questa materia, il legame tra profili giuridici e profili economico-aziendali, il che rende ancor più necessario disporre di un elevato grado di specializzazione da parte di coloro che sono chiamati ad operare in questo campo, a cominciare dai magistrati.

Da ultimo, ma non certo per importanza, occorre ricordare che il buon esito di qualsiasi sforzo riformatore dipende sempre in larga parte dal modo in cui gli operatori del settore ed in genere i destinatari della nuova normativa la recepiscono, sforzandosi di vincere una certa naturale pigrizia intellettuale che tende a conservare vecchie prassi ed a non valorizzare nuovi strumenti non ancora sperimentati.

A questo fine si impone una sempre più intensa attività di diffusione e di formazione, cui anche questo pregevole volume certo contribuisce, non solo rivolta ai professionisti del settore, ma anche al mondo imprenditoriale tutto, così da favorire quel mutamento culturale che la riforma richiede: una cultura del fare impresa, incentrata sull’organizzazione aziendale, sulla prevenzione dei rischi e sulla disponibilità ad avvalersi degli strumenti di risoluzione tempestiva delle crisi predisposti dall’ordinamento.

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* Si tratta della Prefazione al volume, da poco edito per i tipi della Zanichelli, Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, a cura di Stefano Ambrosini.