Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

Credito problematico: evoluzione del rapporto tra banche, servicer e legali esterni


Dino Crivellari

Data pubblicazione
01 febbraio 2023

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Sommario: 1. Il passato; 2. Le cartolarizzazioni e l’industrializzazione del settore; 3. Excursus sul sistema tariffario dei legali e la struttura economica delle convenzioni; 4. Evoluzioni successive: il superamento della logica della collaborazione; 5. Alcuni esempi … da non seguire; 6. Servicer: crescita dimensionale e qualità delle risorse; 7. La proliferazione dei gestionali; 8. In conclusione: una dicotomia insanabile?


 

1. Il passato

Fino alla fine dello scorso secolo, il rapporto degli avvocati con gli istituti di credito per l'attività di recupero era ben definito. Si diventava legale di una banca sulla base di due presupposti: la capacità professionale e la relazione con i vertici degli istituti che fungevano da filtro rispetto ad una offerta già sovrabbondante.

Una volta annoverati tra i “legali benevisi” la collaborazione era assicurata sia in termini di volumi degli incarichi che di continuità. Il legale era un “fiduciario” cioè aveva “la fiducia” dell’istituto e, munito di norma della procura generale, svolgeva la sua attività secondo l’impostazione tradizionale: prendeva fisicamente in carico il fascicolo, lo esaminava, studiava le strategie giudiziarie da adottare, le concordava con il gestore interno e svolgeva i suoi compiti nell’ambito del processo civile avendo, come unico obiettivo, quello di vincere le cause e consentire al creditore di recuperare nella massima misura possibile il suo credito.

Il numero degli incarichi era relativamente contenuto, comunque adeguato alla capacità produttiva dello studio, e la remunerazione allineata alle tariffe professionali vigenti intorno ai valori medi che remuneravano anche una quotidiana attività di supporto consulenziale.

Insomma, essere legale di una banca significava avere la sicurezza della continuità degli incarichi, una remunerazione dignitosa e la certezza di dover svolgere l’attività professionale tipica, qualitativamente apprezzata dal committente.

Questa continuità consentiva al legale esterno di specializzarsi sempre di più nella materia e dunque aumentare la propria efficienza e professionalità e quella dei propri collaboratori. Si investiva a lungo termine per un rendimento certo e soddisfacente, a beneficio di tutti: cliente, avvocato, collaboratori.

Lato banca non ci si ponevano troppe domande sui costi dell’attività del legale dando per scontato che le cause attive, dovute all’ineludibile fenomeno patologico delle crisi del rapporto creditizio, fossero un “male necessario” del quale bisognasse sopportare i costi.

La situazione comincia gradualmente a modificarsi con gli anni 2000.

In realtà, già nel corso dell’ultima decade del secolo scorso, dopo la privatizzazione del sistema bancario (“legge Amato” del 1990) [1]e a seguito della promulgazione del Testo unico bancario-TUB (1993) [2], le banche si erano rese conto che la gestione delle sofferenze dovesse essere affrontata con strumenti più efficienti che in precedenza.

Il peso del credito problematico andava aumentando nei bilanci [3] ed era percepito sempre meno come un “male necessario” da affrontare con tecniche di mera difesa. Il “valore per gli azionisti” e le logiche di mercato avevano preso il sopravvento sulla funzione socioeconomica infrastrutturale della banca di una economia mista ormai scomparsa [4].

Si cominciò così a ragionare anche su come ridurre l’impatto dei costi operativi.

Fino ad allora la gestione delle sofferenze era affidata agli uffici legali o di recupero interni delle banche, il cui compito era sostanzialmente quello di governare al meglio le azioni giudiziarie di recupero attraverso i legali fiduciari. Del tutto marginali erano considerate le strategie orientate alle soluzioni stragiudiziali basate sul negoziato con il debitore[5].

Un primo esempio di nuova impostazione nella gestione delle sofferenze fu quello avviato dal Gruppo Banca di Roma che costituì nel 1993 una società specializzata, la SIGREC S.p.A., di cui deteneva interamente il capitale. Questa società nacque per iniziativa del vertice del Gruppo con l’idea di concentrarvi i crediti in sofferenza di minor importo (fino a 300 milioni di lire) da gestire in un’ottica molto innovativa per quei tempi.

SIGREC era organizzata con una struttura interna di gestori specializzati alquanto leggera ed una rete di collaboratori esterni cospicua. L’ “idea forza” era tentare innanzitutto la soluzione stragiudiziale avviando con i debitori trattative orientate alla transazione, che consentissero di limitare il ricorso alle azioni legali, da esperire solo se e quando quel tentativo si fosse rivelato inconcludente.

La logica di business era che la SIGREC fosse remunerata con commissioni parametrate all’incasso realizzato, quindi con ricavi variabili ed incerti. Da qui la necessità di realizzare, per quanto possibile, una coerente struttura dei costi fondata sulla loro variabilità in funzione dei ricavi, appunto la remunerazione dei collaboratori esterni [6].

Per un gruppo bancario di allora l’idea era “rivoluzionaria”[7] e costrinse il management a risolvere non pochi problemi di natura anche giuslavoristica nei rapporti con i consulenti esterni, ingaggiati all’inizio con contratti d’opera professionale.

Una caratteristica della SIGREC fu che, sia il personale interno che i consulenti esterni, erano prevalentemente giovani neolaureati, spesso alla prima esperienza, sostenuti e formati da un numero relativamente contenuto di gestori esperti provenienti dalla banca capogruppo.

L’assunto di fondo era che, per crediti in sofferenza relativamente piccoli, l’onere dei costi legali fosse da contenere fin dove possibile. Pur tuttavia il tema dei costi legali non si affrontò in termini di ridefinizione radicale di modalità d’ingaggio e di tariffe - anche perché, all’epoca, i c.d. “minimi di tariffa” erano considerati inderogabili - orientandosi esclusivamente a ridurre il numero delle pratiche affidate agli avvocati.

Non mancarono lagnanze da parte dei legali storici nonostante le modalità di assegnazione fossero rimaste basate sulla “relazione” tra il professionista ed il vertice della banca, tant’è che la nomina del legale era una delle poche attività che la presidenza della società si era riservata. Evidentemente costituiva ancora un tema delicato.

L’esperienza della SIGREC, che aveva introdotto, in forma ancora embrionale e poco strutturata, la logica del “vendere la quietanza”[8] al debitore come impostazione privilegiata rispetto a quella classica dell’azione giudiziale, fece da battistrada alla profonda trasformazione del settore del Recupero Crediti realizzatasi nel primo ventennio di questo secolo e nel corso del quale si è assistito alla sua ” industrializzazione” [9].

 

 

2. Le cartolarizzazioni e l’industrializzazione del settore.

Un primo fattore di modifica degli equilibri allora esistenti nei rapporti tra legali e banche-clienti fu conseguenza dell’introduzione anche in Italia delle operazioni di cartolarizzazione degli Npls.

La legge 130/99, tuttora vigente anche se profondamente integrata nel corso degli anni, nasceva da una presa d’atto: i “crediti cattivi” potevano essere considerati “merce” e come tali compravenduti in un mercato, allora sconosciuto in Italia, in cui fondi di investimento liquidi si proponevano per acquistare a sconto le sofferenze delle banche da far gestire ai servicer specializzati nel recupero. Un’attività ad alto rischio, in cui il guadagno per il fondo non poteva che realizzarsi sulla base di due elementi: un prezzo di acquisto sufficientemente contenuto e la maggiore efficienza delle strutture dedicate alla gestione delle sofferenze.

Dal punto di vista della banca - aldilà di altre considerazioni che esulano da questo lavoro[10] - l’interesse ad aderire alla proposta del fondo era correlato alla combinazione utile tra perdite su crediti registrate a causa della cessione a sconto e risparmio dei costi operativi della gestione, compresi quelli legali.

Non si poneva tanto un tema di efficacia (dando per scontato che la recuperabilità dei crediti non sarebbe di per sé particolarmente migliorata per l’intervento del servicer specializzato, ingaggiato dal fondo acquirente), quanto di efficienza in termini di contenimento dei costi operativi e riduzione dei tempi di realizzazione dei crediti.

L’esperienza della SIGREC, sostanzialmente positiva, aveva dimostrato che - almeno per le sofferenze minori - si potevano ottenere significativi risparmi di costi e tempi assegnando il compito di recupero a strutture, remunerate a risultato misurato sugli incassi realizzati, meno costose, e, quindi, più efficienti dei vecchi uffici dedicati delle banche, caratterizzati da costi fissi di struttura direttamente proporzionali alle dimensioni del portafoglio gestito, ma non correlati alle performance di recupero.

Ai fini dell’investitore era necessario operare su due fattori: 1) accelerare i tempi di recupero anche a parità di recuperi realizzati; 2) contenere i costi di gestione. Poiché la logica dell’investitore era, ed è, essenzialmente finanziaria, tempi e costi, unitamente al prezzo di acquisto del portafoglio, costituivano e costituiscono i fattori critici dell’operazione.

Per soddisfare il punto 1), un’efficace azione stragiudiziale orientata alla “vendita della quietanza” si dimostrava vincente e quindi i servicer con tali modelli di business andavano preferiti rispetto a quelli che avrebbero privilegiato l’azione di recupero giudiziale, sicuramente più lenta e costosa.

Per il punto 2) il contenimento dei costi passava sicuramente per la remunerazione a successo del servicer (coerente prima di tutto con la strategia prevalentemente stragiudiziale di intervento), ma non poteva prescindere da un ripensamento sulle modalità di scelta e sulla struttura dei costi dei legali esterni, comunque necessari nei casi in cui la “vendita della quietanza” non si fosse realizzata, ma anche, strumentalmente, al fine di ottenere una transazione favorita dalla minaccia o dall’avvio delle azioni di recupero giudiziale.

Il problema doveva essere rivisto sotto vari aspetti. Il primo di natura relazionale. Come accennavo, gli avvocati delle banche erano prevalentemente selezionati direttamente dai “decisori” delle banche stesse. Lo scontentarli avrebbe potuto suscitare sensibilità inopportune. Questo aspetto, per le cartolarizzazioni, si autorisolse in gran parte perché tali sensibilità erano molto meno presenti negli ambienti degli investitori, spesso anche fisicamente molto lontani e comunque non interessati all’argomento.

Per i legali fu un dramma: dopo anni ed anni di rapporti consolidati e lavoro “garantito”, si trovarono privi dei loro riferimenti istituzionali. A questo va aggiunto che nel primo ventennio di questo secolo nel mondo bancario in senso lato (servicer compresi) le vicende di concentrazioni, fusioni, cambi di management sono divenute molto più frequenti che in precedenza, quando i vertici restavano gli stessi per decenni. Il fenomeno si acuì a seguito delle ulteriori cessioni di portafogli tra un investitore e l’altro e tra servicer.

Insomma, i portafogli di pratiche si “muovevano” e cambiavano i “decisori”. Ne è derivato, per i legali, perdere il vantaggio della longevità della relazione con il cliente (ma anche con la stessa pratica che gli viene sottratta ad ogni cambio di owner).

Ulteriore fattore che incise ancor più negativamente sulla vita degli studi legali fu l’introduzione delle “convenzioni” che spazzarono via la prassi (coerente con le logiche di allora della professione) dei compensi intuitu personae in base alla quale ogni legale fatturava in funzione della complessità dell’incarico e della propria “reputazione professionale” riconosciuta dal committente.

Gli investitori, sensibili all’andamento dei costi operativi delle cartolarizzazioni, indussero i loro servicer a rimodulare dapprima i rapporti economici con gli avvocati e successivamente (lo vedremo più avanti) il loro utilizzo. L’iniziale tentativo di trasferire tout court i costi legali sui servicer trovò una netta opposizione in quanto ben difficilmente il servicer, remunerato a successo sugli incassi, avrebbe potuto farsi carico di costi legali non sempre coerenti con l’economia della gestione della pratica. L’eccezione formulata dai servicer fu che le pratiche che avrebbero reso necessario l’intervento costoso del legale, perché non risolvibili in via stragiudiziale, sarebbero state trascurate con conseguenze negative sui risultati dell’investimento.

Una soluzione di compromesso, ideata e ben presto adottata dal principale servicer dell’epoca (tuttora ai vertici delle classifiche), UGC Banca (poi ridenominata UCCMB), allora parte del Gruppo UniCredit, fu di considerare come base di calcolo per la determinazione delle fees l’incasso realizzato al netto dei costi legali, assumendo che comunque tali costi fossero di utilità anche per il servicer al quale l’attività degli avvocati, ove necessaria, consentiva incassi quando l’approccio stragiudiziale si fosse rivelato non concludente. Impostazione equilibrata, questa, comunque sufficiente ad indurre il servicer a farsi carico di rimodulare la struttura dei compensi dei legali senza trascurare le logiche di alimentazione efficiente degli studi convenzionati.

All’inizio, tuttavia, le rigidità tariffarie imposte dalle norme non permisero di intervenire significativamente su onorari, diritti, competenze ed accessori per cui la selezione puntò su alcuni aspetti qualitativi come l’efficienza dell’avvocato, misurata sui risultati delle cause, e la sua disponibilità ad utilizzare i nuovi “applicativi informatici” (i c.d. “Gestionali”) per la lavorazione delle pratiche.

Questo passaggio, non indolore, fu affrontato, già nel 2001, proprio da UGC Banca, la prima società a progettare ed adottare una piattaforma (EPC, Ex parte creditoris) [11] realizzata per la gestione end to end delle posizioni che vedeva coinvolti anche i legali esterni, i quali dovevano necessariamente utilizzarla per acquisire l’incarico, implementare la base dati, aggiornare le procedure in corso, chiedere e ricevere informazioni, documenti e decisioni del gestore interno ecc. EPC si evolvette successivamente incorporando informaticamente tutta la procedura civile e concorsuale in modo da consentire sia al legale che al gestore interno di avere una guida e lo storico puntuale delle procedure attivate. Da un certo momento in poi EPC fu anche in grado di predisporre i proforma delle fatture legali, poi automaticamente liquidate dopo la validazione prima del legale e quindi del gestore[12].

Anche questa fu una vera e propria “rivoluzione” se si considera che, a quei tempi, tutte le comunicazioni tra legale e gestore interno erano affidate esclusivamente alla corrispondenza telefonica e cartacea e i database aziendali, sempre che fossero presenti (e non era frequente in quegli anni), non avevano memoria delle attività eseguite, né fornivano ausilio per quelle da eseguire. Insomma, un’attività artigianale poco misurabile e controllabile, soppiantata gradualmente dalla industrializzazione che si stava imponendo[13]. Il cambiamento modificò definitivamente l’interazione tra legale e cliente.

Dicevamo, non fu “indolore” perché gli studi legali non erano né tecnicamente né culturalmente attrezzati per adeguare il loro modello organizzativo e non avevano confidenza con la tecnologia informatica distribuita, allora agli albori. Ma anche la maggior parte di banche e servicer non potevano far altro, in quell’epoca, se non affidarsi alla memoria ed alla diligenza del gestore nel governare le vicende processuali ed agli archivi cartacei per i documenti (uno degli aspetti più critici).

Ulteriore grande innovazione consistette nell’avere a disposizione un database che permettesse analisi di dettaglio e di portafoglio su tempi, costi e qualità dell’attività dei legali.

A dire il vero, salvo qualche raro caso, gli studi legali, sia pur ob torto collo si adeguarono abbastanza velocemente e misero l’azienda in condizione di poter valutare con molta maggior precisione le proprie performance (complessive, ma anche di singolo comparto) e correggere tempestivamente inefficienze e malfunzionamenti sia interni che esterni [14].

Un provvedimento di ancor più rilevante impatto fu l’introduzione dei “Rating” che assegnavano a ciascun legale un punteggio qualitativo e comparativo, sia a livello di singolo Foro di appartenenza (per intercettare le specifiche situazioni ambientali) sia a livello nazionale, sulla base di elementi quali-quantitativi ponderati di grande complessità. I legali venivano periodicamente aggiornati sul loro posizionamento nella classifica locale e nazionale dei Rating, mettendoli in grado di assumere comportamenti e decisioni organizzative e procedurali atte a migliorare i singoli elementi su cui l’algoritmo del sistema attribuiva loro il punteggio personale [15].

Sotto il profilo psicologico, l’introduzione del Rating, in base al quale il legale aveva diritto ad una alimentazione di incarichi più o meno rilevante, provocò uno shock: i legali non erano abituati ad essere valutati in logica di competizione trasparente. L’argomento fu affrontato in decine di riunioni tra struttura aziendale e legali per spiegare che il meccanismo adottato non aveva scopo punitivo, ma rispondeva all’esigenza di favorire gli Studi con capacità operativa migliore rispetto agli altri e permettere ai legali di avere un benchmark[16] di mercato su cui misurare la propria efficienza.

Il leitmotiv era: la banca è sottoposta alle valutazioni delle Agenzie internazionali di rating -valutazioni necessarie anche per qualificare i titoli emessi a fronte delle cartolarizzazioni in gestione - quindi tutto il complesso aziendale, compresi i legali esterni, doveva accettare questa impostazione, sostenendo una competizione qualitativa trasparente.

UGC Banca aveva ben chiaro che la presenza di legali non culturalmente ed operativamente aderenti al suo modello di business sarebbe stata d’intralcio al conseguimento dei migliori risultati possibili. Da qui una cura particolare nel loro coinvolgimento nelle vicende aziendali, non solo invitandoli alle convention autocelebrative che dovevano alimentare lo spirito di squadra e creando specifiche funzioni aziendali dedicate al supporto operativo ed alla tutela delle esigenze della rete legale (in rapporto dialettico con le altre funzioni aziendali), ma anche istituzionalizzando un Comitato misto (legali-gestori) che, riunendosi periodicamente, affrontava le problematiche emergenti ricercando la soluzione condivisa più adeguata.

Si poneva però un problema di governo della rete legale che, in parte non trascurabile, era costituita da avvocati che speravano ancora di potersi accreditare attraverso le loro relazioni personali con i “decisori” delle banche-clienti che, come abbiamo accennato all’inizio, costituivano comunque un utile filtro di accesso altrimenti non regolabile.

Il punto era però quali criteri dovessero presidiare il meccanismo di alimentazione. Furono così realizzate sofisticate implementazioni informatiche orientate a gestire “meccanismi premianti automatici” basati sui Rating e sul numero degli addetti allo Studio. Ai fini dei singoli incarichi, la scelta non era più affidata al gestore o al vertice aziendale, ma determinata da un algoritmo. Il management del servicer si doveva limitare ad attribuire eventualmente incarichi intuitu personae solo per pratiche particolarmente complesse o di importo elevato (contrariamente a SIGREC, UGC Banca non aveva limiti di valore del credito affidatole dalle mandanti) per le quali fosse indispensabile la specifica esperienza di un determinato avvocato, motivandone formalmente (e sostanzialmente) la scelta. Il sistema, nella sua imperfezione, era comunque più democratico e meritocratico che “condizionabile” [17].

Ma il tema più complesso da aggredire era quello di efficientare i costi legali attraverso la formalizzazione di convenzioni tariffarie comunque rispettose delle norme in vigore. Anche sotto la pressione degli investitori e delle mandanti, l’occasione si presentò quando fu varata la “liberalizzazione” delle tariffe forensi nel 2006 (c.d. “lenzuolata Bersani”[18]).

La novità indusse UGC a porsi il problema, delicato anche giuridicamente, di realizzare risparmi significativi senza rischiare di creare disaffezione e peggioramenti della qualità dell’attività degli Studi che avrebbero mal digerito un radicale ridimensionamento della loro remunerazione.

Per successive approssimazioni, si trovò l’equilibrio nel prevedere che, ferme restando le tariffe vigenti, i legali avevano la facoltà di proporre singolarmente e volontariamente l’applicazione di uno sconto (c.d. “tasso di preferenzialità”) che avrebbe consentito di indirizzare gli incarichi verso coloro che, a parità di Rating, applicassero lo sconto maggiore.

Nonostante le lamentele iniziali, l’innovazione trovò la disponibilità di gran parte degli avvocati. In alcuni casi i “tassi di preferenzialità” offerti furono talmente elevati che la direzione aziendale, preoccupata di eventuali riverberi sui livelli qualitativi delle prestazioni e per evitare fenomeni di accaparramento, stabilì d’autorità i valori massimi accettabili, più contenuti per i Fori di grandi città e più alti per i Fori minori, tenuto conto che nelle grandi città il legale avrebbe avuto maggiore dispersione di tempo e di energie rispetto a situazioni locali meno congestionate (a quei tempi non esisteva ancora il Portale dei servizi telematici, PST, del Ministero della Giustizia)[19].

Ma i provvedimenti non finirono qui. Nella convenzione si prevedeva che, se lo studio legale avesse comunicato la disponibilità di altre risorse oltre quelle originarie, avrebbe dovuto farsi carico di un costo aggiuntivo per il collegamento informatico (irrisorio rispetto a quelli oggi correnti di dubbia legittimità). Lo scopo era, anche qui, evitare tentativi di accaparramento di incarichi tenuto conto che il numero di addetti allo Studio veniva preso in considerazione dall’algoritmo di assegnazione.

La regola era fidelizzare gli Studi assorbendone non più del 70% della capacità produttiva e tendendo continuamente a saturarlo fino a quel limite. Il calcolo era quanto mai complesso perché, per esempio, alle procedure concorsuali si attribuiva un peso inferiore all’unità per evitare che la saturazione dello studio fosse del tutto apparente e non coerente dal punto di vista economico, avuta presente la minore incidenza nell’unità di tempo delle attività del legale impegnato in quelle procedure. Altro fattore ponderato era il valore unitario delle singole pratiche assegnate in modo da tendere a rendere il più possibile omogenei i risultati economici dei singoli professionisti [20].

Sempre allo scopo di fidelizzare il legale, la convenzione prevedeva anche una specifica remunerazione, in parte a successo, se il legale fosse stato incaricato di partecipare per conto della banca ad un “comitato dei creditori” (pratica tuttora ben poca diffusa) ovvero se avesse presentato occasioni di sviluppo commerciale (argomento border line con la deontologia professionale).

La costante condivisione con i legali esterni delle evoluzioni di processo e di gestione e la circostanza che tali evoluzioni fossero state introdotte nell’arco di un decennio, non evitarono che il cambiamento fosse un fattore di efficace superamento dei vecchi equilibri. Esso però fu accompagnato da una trasformazione parallela dell’organizzazione degli studi legali che ebbero così il tempo di abituarsi alle innovazioni introdotte e di adeguarvi i propri processi gestionali interni. Non tutti lo fecero con la medesima prontezza ed elasticità, e dunque vi fu una sorta di “selezione naturale”, peraltro connaturata a qualunque significativo cambiamento in qualsiasi settore, dunque non patologica [21].

La filosofia aziendale era basata sulla consapevolezza che l’industrializzazione dell’attività di recupero non poteva né doveva sacrificare oltre un certo limite un’attività, quella del legale esterno, che, essendo di natura professionale e non meramente esecutiva, andava enfatizzata piuttosto che mortificata. Il legale doveva sentirsi “fattore produttivo” determinante nel processo aziendale di “creazione del valore”[22].

Evidenti furono le conseguenze in termini di risultati societari positivi. Questa impostazione, insieme ad un modello organizzativo estremamente rigoroso, ma contemporaneamente ben saldo nel considerare le risorse umane, sia interne che esterne, come il fattore principale per lo sviluppo aziendale, consentirono ad UGC Banca di ottenere i massimi rating (AAA) a livello mondiale e risultati economici ancora non eguagliati (nel 2015 Unicredit vendette la banca, poi ridenominata doValue, ad un prezzo superiore a sette volte la sua capitalizzazione).

 

 3. Excursus sul sistema tariffario dei legali e la struttura economica delle convenzioni.

Non è questa la sede appropriata per ripercorrere l’evoluzione dei criteri di remunerazione della professione legale e le motivazioni che hanno indotto il legislatore a modificare le “tariffe” nel corso degli anni. Ma funzionale a questo lavoro è la valutazione comparativa degli effetti che queste evoluzioni hanno comportato. Effetti prima economici e poi organizzativi.

Andiamo con ordine.

Prima della c.d. legge Bersani, i compensi degli avvocati venivano regolati dai criteri e dagli importi indicati nel DM 127/2004. Oltre al già affrontato tema della inderogabilità dei minimi di tariffa, vi è quello della struttura stessa dei criteri di remunerazione, che differenziavano i “diritti” dagli “onorari”. I diritti erano fissi (anche se diversificati in base al valore della pratica ed alla tipologia), mentre gli onorari variavano da un minimo ad un massimo.

Ripercorrendo le voci che individuavano i “diritti”, troviamo una serie di attività di natura “pratica” che l’avvocato poneva in essere perché funzionali allo svolgimento del suo mandato e che venivano specificatamente remunerate. Alcuni esempi: collazione dei singoli atti (venivano conteggiate anche le copie!), disamina del titolo esecutivo, posizione archivio, disamina atti delle controparti, richiesta certificati catastali e ipocatastali e relativo esame, accessi agli uffici, corrispondenza informativa con il cliente, redazione di istanze e deposito di somme. A tali voci, andavano aggiunti gli onorari calcolati per ciascun atto o per l’intera procedura.

Come noto, nel 2006 sono stati abrogati i minimi e nel 2012 è stata introdotta la tariffazione per fasi. Nel 2014 sono stati introdotti i parametri ed è rimasta invariata la tariffazione per fasi. Nel 2018 è stato introdotto il criterio dell’equo compenso e nel 2022 vi è stata una (minimale) riparametrazione dei criteri di calcolo dei compensi.

A titolo esemplificativo, abbiamo proceduto ad un confronto assumendo quella che sarebbe stata la parcella di un legale per la fase del precetto e della esecuzione immobiliare del valore di Euro 100.000, in base alle tariffe susseguitesi nel tempo calcolate sempre ai “minimi”, aggiungendo un’ultima ipotesi parametrata ad una convenzione con uno dei maggiori player del mercato degli NPL. È stato aggiunto l’importo per le spese generali, calcolato al 15% in applicazione del tariffario “legale” ed al 4% per l’ipotesi di Convenzione. Vediamo il risultato:

 

2004

2012

2014

2022

Convenzione

2396 euro

1840 euro

1634 euro

1634 euro

1408 euro

 

La diminuzione dei compensi è evidente, ma i risultati non sono comunque esaustivi. Ed infatti, ciò che l’introduzione delle “fasi” omnicomprensive ha legittimato è il trasferimento sul legale esterno di una serie innumerevole di attività ed adempimenti (non inseriti nel calcolo di cui alla tabella sopra riportata, sviluppata unicamente sulla base delle attività legali “tipiche”) che prima, anche ove fossero stati svolti dall’avvocato (e non era così per una serie di ragioni non solo di diversa impostazione del rapporto professionale, ma anche di diversi strumenti a disposizione, come meglio chiarito nei paragrafi successivi), gli sarebbero stati pagati singolarmente e dunque avrebbero avuto un costo che forse ci si sarebbe preoccupati di contenere, magari investendo di tali adempimenti le risorse interne o fornitori esterni.

Tale omnicomprensività delle fasi, comporta anche delle vere e proprie “forzature”, come la prassi di “pattuire” nelle convenzioni che il ricorso ex art. 482 bis cpc (ricerca telematica dei beni da pignorare, che prevede la redazione di un ricorso ed il suo deposito, la disamina del provvedimento, l’inoltro della richiesta all’agenzia delle entrate, la disamina dei risultati di tale ricerca), venga ricompreso nella fase del precetto, pagando quindi un unico compenso (di circa 200 euro per procedure di valore pari ad euro 100.000).

Non inusuale trovare nelle convenzioni l’ipotesi di esclusione di qualsivoglia compenso per l’avvocato che patrocina l’intervento del medesimo creditore per titoli diversi da quello a fronte del quale inizialmente è stata introdotta, dal medesimo legale, la procedura esecutiva. Così come è quasi sempre esclusa qualsiasi forma di maggiorazione, invece prevista anche dal DM 55/14, nel caso di pluralità di parti.

Altra prassi in uso è quella di porre il compenso dell’eventuale domiciliatario a carico del dominus, e quindi di ritenerlo compreso nell’importo pattuito per l’intera fase di riferimento. Questo comporta una diminuzione del compenso netto per il dominus di almeno il 20% (da destinare al collega). Questa prassi trova la propria giustificazione (più apparente che reale) nel fatto che il legale può richiedere di ottenere incarichi solo nel proprio foro e dunque non necessitare di domiciliatari. Difficile calcolare se assumere incarichi presso altri fori sia più o meno conveniente che limitarli a quelli di stretta competenza territoriale, ma certamente il vantaggio per il cliente è chiaro: avere contatti ed interfacciarsi con un numero minore di legali è senz’altro più agevole che convenzionare avvocati in tutta Italia. Senza considerare, poi, che assumere un incarico ad esempio su Milano, non vuol dire che l’evolversi della procedura non comporti la necessità di svolgere adempimenti o procedimenti successivi in altri fori.

Orbene, se da una parte è evidente che questo tipo di pattuizioni trovino terreno fertile nella sfrenata concorrenza tra legali, dall’altra è anche vero che la sostanziale liberalizzazione delle tariffe (rectius, dei criteri di remunerazione degli avvocati visto che, come sopra è cenno, non sono solo i “numeri” a determinare la remunerazione effettiva) comporta una meno evidente concorrenza tra clienti. Ed infatti, anche i legali si presume operino delle comparazioni di preferenzialità tra clienti in base a diversi fattori, tra i quali certamente un posto rilevante occupano i compensi, la continuità del rapporto e l’onere operativo di comunicazione con il cliente stesso. Insomma, il fenomeno della “libertà di tariffa” induce i legali ad operare arbitraggi tra i propri clienti che ledono innanzitutto gli interesse di questi ultimi.

 

4. Evoluzioni successive: il superamento della logica della collaborazione.

Come SIGREC aveva fatto da battistrada negli anni ‘90, UGC Banca ha rappresentato il modello per l’evoluzione dei servicer nella seconda decade di questo secolo. Modello dal quale, però, molti dei servicer oggi operativi si sono progressivamente allontanati proprio nella gestione dei legali a causa della “finanziarizzazione” delle logiche aziendali che hanno preso il sopravvento rispetto a quelle più prettamente industriali che avevano caratterizzato il primo decennio del secolo XXI.

UGC Banca, quando furono liberalizzate le tariffe forensi (2006), preoccupata della concorrenza che avrebbe potuto svilupparsi in tema di costi legali, aveva proposto che gli organi di autogoverno dell’Ordine degli avvocati ne caldeggiassero un correttivo confermando le tariffe vincolanti per tutti, ma prevedendo che i “grandi utilizzatori di servizi legali” potessero beneficiare di sconti volontari da parte dei loro avvocati in funzione della quantità di lavoro conferito annualmente (la logica del “tasso di preferenzialità”).

Il meccanismo prevedeva che, a fine anno, in relazione al numero ed al valore degli incarichi ricevuti, il legale praticasse uno sconto predeterminato. Questa proposta non fu portata avanti da chi di dovere, nonostante la “scontistica” trovasse una propria giustificazione, non nel minor valore attribuito al ruolo ed alla professionalità del legale, ma nell’indubbio vantaggio derivante da un rapporto continuativo, elemento quantomai prezioso per qualsiasi libero professionista. Fu quindi persa un’importante occasione, la cui logica è stata poi molti anni dopo malamente ripresa, e per nulla applicata, con l’introduzione del c.d. “equo compenso”.

Da allora, il paventato rischio di lasciare ai “grandi utilizzatori di servizi legali” (banche, assicurazioni, servicer ecc.) la libertà di “fare prezzo” si è concretizzato in un progressivo peggioramento delle tariffe applicate raggiungendo livelli che, senza voler offendere nessuno, sono ormai insopportabili e spesso poco dignitosi, tanto da aver costretto la categoria a tentare, come sopra è cenno, la strada in salita dell’”equo compenso”.

Comportamenti, quelli dei “grandi utilizzatori di servizi legali”, ancor più deleteri perché hanno fatto “disamorare” i professionisti, che non si sentono più valorizzati dai loro clienti, pur esercitando un’attività con la quale si assumono quotidianamente grandi responsabilità, e spingendoli a massimizzare il numero degli incarichi ricevuti piuttosto che la qualità del loro impegno.

Da qui uno dei paradossi più evidenti: con gli attuali livelli di remunerazione, il legale ha più interesse a gestire con modalità routinarie numerosissime pratiche di importo modesto, piuttosto che impegnarsi, assumendo i relativi maggiori rischi in tema di responsabilità [23], su pratiche più complesse e di valore considerevole, ma ben poco remunerative. Esattamente il contrario di quanto accadeva in passato. Lo svantaggio per il cliente è evidente.

Oggi il legale di una banca o di un servicer non si sente più né “fiduciario”[24], né “parte del processo produttivo per la creazione di valore”, ma un mero precarissimo “fornitore di servizi” che opera in un mercato competitivo più sul “prezzo” che sulla “qualità”, quando non addirittura in conflitto con l’ex cliente[25].

Risultato ancor peggiore di questo fenomeno è che da qualche tempo si tenta (riuscendoci) di trasferire sul legale attività che non sono proprie della sua professione, ma attengono più a funzioni di “data entry”. In pratica la tendenza in atto è quella di trasferire agli studi costi operativi legati ad attività non prettamente coerenti con quella dell’avvocato, avendo come driver quello di contenere i costi di struttura del servicer.

 

5. Alcuni esempi… da non seguire.

A proposito di attività impropriamente delegate ai legali:

a) Ogni cliente ha convenzioni diverse con società che svolgono le pratiche amministrative di trascrizione e ispezione presso i registri immobiliari. Per chiedere la trascrizione di un pignoramento, il legale dovrà prima verificare quale sia la società convenzionata con quel cliente, spesso diversa per singolo portafoglio, poi compilare l’apposito modulo (anch’esso specifico per il singolo portafoglio), e quindi inserirlo nell’apposita sezione del gestionale;

b) Quando gli ausiliari delle procedure esecutive chiedono il pagamento dei propri compensi, è il legale che funge da interfaccia con il cliente (parte procedente) e, dunque, fornisce i dati di fatturazione all’ausiliario, li gira al cliente, previa compilazione di apposito modulo e caricamento su apposita sezione del gestionale. Il legale gestisce anche i “solleciti” di pagamento da parte dell’ausiliario facendo da tramite con il cliente;

c) Stesso iter per la richiesta di visure o indagini patrimoniali.

d) L’invio della fattura al cliente è un’altra via crucis: ogni cliente ha la propria convenzione, le proprie modalità di inserimento della parcella nel gestionale, il proprio iter di approvazione. A volte lo stesso cliente ha addirittura convenzioni diverse per singolo portafoglio gestito e non è raro che una stessa procedura venga remunerata nel corso del tempo in modo diverso, a motivo del succedersi delle convenzioni sui compensi e del “passaggio di mano” della pratica da un titolare del credito all’altro. Questo ovviamente rende difficile individuare la reddittività di un incarico a lungo termine.

e) per taluni clienti è previsto che il legale provveda all’implementazione di numerose schede informative all’interno del gestionale, che, ove non compilate, non consentono di procedere all’aggiornamento della procedura e alla conseguente maturazione dei compensi. Alcuni esempi: anagrafiche dei debitori, degli ausiliari, dei legali costituiti anche per le controparti, degli immobili (dati catastali e valori) ecc..

Questi esempi, molto parziali, vanno moltiplicati per innumerevoli adempimenti e per diversi clienti e posizioni.

È però già evidente che si tratta di impostazioni procedurali mal studiate che, se alleviano in qualche misura il servicer, non facilitano la speditezza del lavoro del legale che pur interessa primariamente il suo cliente vincolato a tempi e budget stringenti imposti dal business.

Sarebbe opportuno ridisegnare il processo prevedendo la esternalizzazione di certi compiti prettamente esecutivi ad operatori, diversi dal legale, ma con costi inferiori a quelli dei gestori interni dei quali va invece valorizzato il ruolo di “registi” sostanziali della pratica.

Alcuni servicer, nell’intento di contenere i costi legali, hanno preso l’iniziativa di costituire società tra avvocati (StA) [26] sotto il loro sostanziale controllo, che li supportano nelle attività giudiziali. Questa formula ha diverse controindicazioni.

La prima è che un avvocato inserito in una struttura di tipo “aziendale”, integrata in un modello organizzativo specifico, si trasforma in un “funzionario” perdendo la natura propria del “libero professionista”. Tali erano già i componenti degli uffici legali delle banche pubbliche o enti di diritto pubblico che, pur iscritti come avvocati nell’Albo speciale tenuto dall’Ordine, indipendentemente dal valore tecnico dei singoli, non potevano e non dovevano atteggiarsi a “liberi professionisti” essendo parte integrante di strutture gerarchiche, organiche all’azienda di appartenenza (tanto è vero che di solito l’attività giudiziale era comunque affidata ad avvocati esterni).

In qualche modo subiscono questa “mutazione” anche i legali appartenenti ai grandi studi di impronta anglosassone per i quali il risultato economico dell’agglomerato è necessariamente prevalente rispetto alla funzione del “patrocinio” tipica dell’avvocato. Gran parte del loro lavoro è infatti più di natura consulenziale che di assistenza processuale. I servicer hanno bisogno invece del supporto di “litigator” che vanno in tribunale, non di consulenti che, per quanto bravi, appaiono più adatti per M&A, questioni societarie, commerciali, fiscali ecc.

La seconda controindicazione è che la concentrazione di avvocati in una struttura societaria dominata dal servicer e, a risparmio di costi, logisticamente accentrata, trascura l’esigenza di avere patrocinatori ben integrati e buoni conoscitori dei singoli Fori e delle loro “peculiarità “ di varia natura. Non è affatto sicuro che un ottimo avvocato di Milano si trovi a suo agio e possa dare il meglio di sé una volta spedito a far causa a Catanzaro. Naturalmente vale anche l’inverso. Né il ricorrere a meri domiciliatari garantisce il risultato migliore se non altro per discontinuità del rapporto e possibili conflitti di interesse non dichiarati né rilevati. La caratteristica molto italiana (ma non solo) della diversificazione, a volte significativa, delle prassi giudiziarie tra i vari Fori non va trascurata ai fini dell’efficienza complessiva del servicer e anzi è da valorizzare grazie proprio alla presenza di avvocati locali potendo contare non raramente su una giurisprudenza non univoca che può favorire azioni vittoriose in un determinato Foro nonostante le opinioni contrapposte dei giudici di altri tribunali [27].

Nell’ottica di efficientamento del servicer, appare molto più agevole intrattenere rapporti con pochi studi legali (o addirittura con la sola StA partecipata) cui affidare incarichi giudiziali da svolgere in Fori sparsi in tutto il territorio, piuttosto che avere contatti con una pluralità’ di studi dislocati in tutta Italia. È dunque allo studio mandatario che viene delegato il compito di tenere sotto controllo i processi nei vari Fori, attraverso la rete di domiciliatari che ciascuno studio, faticosamente, si crea nel tempo. Inoltre, il compenso del domiciliatario è posto ormai normalmente a carico dello studio mandatario e non più a carico del cliente. Inutile evidenziare il dispendio di energie e tempo che il legale incaricato deve sobbarcarsi, con conseguente contrazione dei propri margini e aumento dei rischi professionali. Questo aspetto è ovviamente molto più critico quando si tratti di singoli studi autonomi, piuttosto che delle StA.[28].

Una terza considerazione, più prosaica, milita a sfavore delle StA organiche del servicer. L’esuberante numero di avvocati attivi nel nostro Paese dovrebbe essere considerata una opportunità per i “grandi utilizzatori di servizi legali” che possono trarre vantaggio dalla competitività tipica degli appartenenti alla professione.

Se la fidelizzazione del legale è certamente un valore, essa si realizza anche grazie alla circostanza che l’eccesso di offerta consente al servicer ed alla banca di poter gestire dinamicamente la propria rete integrandola continuamente con le migliori professionalità e liberandosi dei legali “marginali” per performance deludenti. Non sembra consigliabile ingessare in una struttura non flessibile (StA) il governo di una funzione essenziale per il conseguimento di risultati aziendali eccellenti.

Ulteriore considerazione riguarda il rischio che un legale strutturalmente organico al servicer o alla banca, legato da un rapporto monopsonico, rischia di non poter aggiornare la propria preparazione tecnica in assenza dell’esperienza più ampia realizzabile nel patrocinare altri clienti. In un mondo in veloce evoluzione, caratterizzato dalla febbrile produzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale, è pernicioso che un professionista collabori con un solo cliente senza far crescere la sua preparazione e le sue competenze grazie alla molteplicità delle opportunità professionali coglibili sul mercato [29].

Di certo la StA monopsonica consente al servicer di ridurre i costi imponendo, per quanto possibile, tariffe contenute. Ma, a parte il fatto che lavorare solo sui costi (non per ottimizzarli, ma solo per contenerli), piuttosto che su investimenti ed innovazioni di processo e prodotti, è una visione miope del management destinata a non favorire la crescita aziendale nel tempo, sono anche da considerare i risvolti monopolistici tipici della StA alla quale il servicer è tenuto, per contratto, ad attribuire tutti gli incarichi legali. Il monopolio assicurato ai legali della StA può farla diventare nel tempo meno efficiente di quanto ci si auspicasse e quindi trasformarla da un valore in un disvalore difficile e costoso da smobilitare[30].

 

6. Servicer: crescita dimensionale e qualità delle risorse.

Altro fenomeno che ha modificato in pejus il rapporto tra legali e servicer è da ascrivere alla presenza tra i gestori interni di personale non sempre così esperto e preparato. Quelli che sono oggi i grandi servicer avevano cominciato ad operare vent’anni fa affiancando a personale esperto, proveniente dalle banche, giovani inesperti, ma con buoni livelli di preparazione universitaria. Questa combinazione (giovani/anziani) aveva avuto il merito di far collaborare personale in grado di apprendere ed adeguarsi velocemente all’evoluzione tecnologica aziendale, i giovani, con personale non altrettanto disponibile sul piano dell’innovazione, ma con esperienza pluriennale nel settore e solide basi tecnico professionali specialistiche. La relazione con i legali, che nel frattempo facevano lo sforzo di adeguarsi a nuovi modelli organizzativi digitalizzando gli studi, era vissuta all’interno di un processo evolutivo comune al quale tutti partecipavano dando il meglio di sé, ma tutti rispettosi dei reciproci ruoli.

Il tempo è passato… Gli anziani esperti di vent’anni fa sono oramai usciti dal processo produttivo. Quelli che erano i giovani di allora hanno assunto in gran parte ruoli dirigenziali meno operativi e non hanno più diretto contatto con i legali. La struttura gestionale, in non pochi casi, è ora composta da personale, adeguato per età, ma molto meno per esperienza ed in numero molto più elevato di una volta a causa dell’esplodere, dal 2015 in poi, del volume di Npls trasferiti dalle banche al mercato e quindi ai servicer.

Nel corso dei primi 15 anni di questo secolo la crescita dei servicer era stata graduale e direttamente proporzionale a quella dei volumi di Npls che avevano avuto una progressiva accelerazione dal 2010 fino a toccare l’acme dei 360 miliardi di euro nel 2015. Ma per tutto quel periodo e in particolare dal 2005 al 2015, il numero delle operazioni di cartolarizzazione era stato modesto e i servicer di peso (quelli che assommavano quote di mercato oltre il 50%) erano prevalentemente articolazione dei gruppi bancari più importanti, e, in qualche caso meno fortunato, in combinazione con fondi di investimento esteri specializzati[31].

Detta in altro modo: dal 2000 al 2015, la gradualità di crescita dei servicer di emanazione bancaria aveva provocato il progressivo allocamento di personale bancario esperto che fungeva da formatore di rincalzi più giovani assunti per coprire progressivamente il maggior fabbisogno di risorse man mano che sofferenze e incagli (come si chiamavano allora) venivano trasferiti dalle banche ai loro servicer interni ai gruppi. La selezione del personale avventizio era effettuata sulla base dei più rigidi criteri adottati dalle banche. Il novero dei servicer non di emanazione bancaria era relativamente modesto, occupava una quota ridotta di mercato ed era caratterizzato da personale professionalmente meno formato.

Nel 2015 accadono contemporaneamente due eventi correlati. A seguito dei test condotti nei due anni precedenti dalla BCE, le banche sono costrette a far emergere volumi di Npls insospettati. La BCE “suggerisce “alle banche di cedere sul mercato grandi quantità di sofferenze; cessioni supportate, dal 2016 in poi, dalle GACS. Nei successivi cinque anni, circa 300 miliardi di sofferenze vengono cedute dalle banche ai fondi, di solito tramite operazioni di cartolarizzazione.

Mentre gli uffici Recupero Crediti delle banche si alleggerivano di pratiche e di personale, nascevano nuovi servicer non più legati ad istituti di credito e i fondi stessi, avendo acquisito portafogli molto consistenti in tempi molto ravvicinati, sentivano il bisogno di acquistare o far crescere piccoli servicer privati già esistenti, quando addirittura non rilevare direttamente dalla banche, insieme ai portafogli di Npls, i loro servicer, che uscivano così dal mondo regolamentato del TUB e spesso venivano declassati a mere agenzie di recupero crediti ex articolo 115 TULPS [32].

Per effetto di queste vicende concentrate in pochi anni, si assiste alla crescita molto rapida del numero degli addetti ai servicer non bancari e quindi all’inserimento di personale da formare, in gran parte non più supportato, come all’inizio del secolo, dagli esperti provenienti dalle banche originator.

Il fenomeno ha portato ad una divaricazione qualitativa tra gli ormai collaudati studi legali, che lavoravano con banche e servicer bancari da oltre vent’anni, ed i numerosi giovani non ancora compiutamente formati come gestori di servicer non bancari, ipertroficamente cresciuti nel breve lasso di tempo trascorso dal 2015. La circostanza non ha favorito la fluidità dei rapporti tra gestori e avvocati, spesso, questi ultimi, poco disponibili a tollerarne la sovraordinazione funzionale non riconoscendone la competenza pur dovendone rispettare l’autorità.

Si è così modificato un rapporto valoriale. L’addetto al recupero “vecchio conio” era consapevole che il legale non fosse a lui subordinato e ne riconosceva l’ autonomia e l’autorevolezza professionale specialistica (forse in qualche caso nutriva addirittura un indebito timore reverenziale). Oggi, il gestore della pratica è portato a vedere il legale più come un “fornitore di servizi” che come un libero professionista più competente di lui in una gestione giudiziale di cui il gestore (a volte neanche laureato in giurisprudenza) non è abbastanza esperto per attribuirgli il giusto valore. Il fenomeno, ovviamente, non è generalizzato, ma fin troppo diffuso per non essere foriero di conseguenze negative. Il Management dei servicer dovrebbe preoccuparsene più di quanto non faccia.

 

7. La proliferazione dei gestionali.

La proliferazione dei servicer ha introdotto un’altra criticità: la pluralità di applicativi gestionali che i singoli studi devono celermente imparare a conoscere e ad utilizzare. Fino al 2015, le diversificazioni tecnologiche presenti nel mercato erano modeste e, salvo il caso del citato EPC (applicativo molto invasivo per gli studi), la maggior parte degli altri sistemi gestionali delle banche avevano avuto un impatto moderato talché i legali potevano continuare ad operare in gran parte alla vecchia maniera.

Inoltre, gli studi avevano rapporti con un numero di banche e servicer limitato per cui lo sforzo era di adattarsi ad un paio di applicativi più o meno invasivi, ma, per il resto dei clienti, continuavano ad operare tradizionalmente con telefono e email. Dopo il 2015, le continue cessioni massive delle banche hanno comportato che le pratiche affidate allo studio, e fino a quel momento gestite su uno specifico gestionale, si sono andate disperdendo in un breve volgere di tempo tra più servicer, ognuno con il proprio applicativo, proprie regole d’ingaggio, proprie strategie gestionali, proprie diverse convenzioni. A maggior danno la stessa pratica può essere oggetto di plurime cessioni nel mercato secondario, il che comporta una complicazione ulteriore. Sempre che il legale non venga addirittura sostituito (fenomeno frequentissimo) con conseguente non trascurabile nocumento per la mandante che perde così la memoria storica di quella pratica, affidata, ora, con sconsigliabili e rischiose perdite di tempo e informazioni, ad un altro legale che dovrà ristudiarsela da capo per poterla gestire.

Insomma, il trovarsi a dover dar conto, non al principale tradizionale cliente ben noto e sperimentato (di cui si conoscevano processi, regole, filosofia e comportamenti, ma anche uomini e logiche), bensì ad una pluralità diversificata di clienti tutti da scoprire, ha comportato complessità difficili da metabolizzare e dannose non solo per gli studi, ma ancor di più per le mandanti.

Il paradosso era ed è che aumenta il numero di clienti, ma non il numero d’incarichi ora regolati da plurime nuove convenzioni, spesso firmate senza troppi approfondimenti non essendo tollerato alcun negoziato, con riduzioni di onorari sempre più marcate.

Per comprendere l’appesantimento che la diversificazione dei rapporti, da una parte, e delle tecnologie applicate nel mondo giudiziario, dall’altra, ha comportato nella gestione quotidiana delle pratiche, si impone una parentesi di approfondimento del rapporto tra “Giustizia” e digitalizzazione, con qualche esempio.

Come si è fatto cenno in precedenza, fino a pochi anni fa, il legale aveva il compito di studiare la pratica, esaminarne le criticità giuridiche, individuare la strategia, scrivere gli atti, partecipare alle udienze. L’aggiornamento del cliente era ovviamente doveroso e veniva espletato con la c.d. “corrispondenza informativa”, voce prevista ai fini della remunerazione dalla compianta tariffa professionale e svolta attraverso la redazione di lettere e pareri.

Oggi non è più così.

Quest’ultima attività viene espletata in massima parte attraverso l’implementazione dei gestionali che avviene attraverso l’inserimento di dati nel sistema informatico del cliente. Tralasciando il fatto che la voce tariffaria specifica è del tutto scomparsa dalla parcella degli avvocati, il problema più sentito non è nemmeno quello economico, ma quello operativo. Vediamo perché, anticipando la conclusione: gli automatismi e le semplificazioni che ne dovrebbero conseguire, sono più auspicati che reali.

Il trasferimento dei dati dal prodotto professionale dell’avvocato (banalizzando, ma non troppo!: i dati contenuti in un atto giudiziario) al gestionale richiede precisione e competenza specifica perché, nella maggior parte dei casi, l’output che viene preso in considerazione ad una serie di fini (aggiornamento del cliente o addirittura del PST, valutazione del Rating del legale ecc.) è ciò che viene inserito nel sistema e non ciò che è scritto nell’atto, in quanto i due prodotti (l’atto da una parte e i dati inseriti nel gestionale dall’altro) rispondono in realtà ad esigenze diverse di cui solo una appartiene alla sfera cognitiva del legale (l’atto) che però è colui che inserisce i dati. Inoltre, l’attività che, a fini di efficienza, viene delegata ai collaboratori dello studio, finisce per essere proprio quella foriera delle maggiori responsabilità e della maturazione dei compensi (un atto o una “fase” non inserita nel gestionale, o non inserita correttamente, non consente al sistema di conteggiare i relativi compensi).

Ed ancora: ogni gestionale ha una serie di campi e modelli precompilati che rispondono alla logica del gestionale stesso, ispirata dalla funzione ultima che gli viene affidata dal singolo cliente che lo ha adottato (spesso quella di alimentare algoritmi utili all’implementazione di business plan aziendali, o corredi informativi a vario titolo utilizzati da chi “detiene” il gestionale, Ministero della Giustizia in primis per ciò che concerne il PST). 10 clienti, 10 gestionali, 10 convenzioni diverse, 10 logiche e modelli diversi!!

Nella pratica, ciò che accade è che, sull’altare dell’esigenza di standardizzare le informazioni e di renderle omogenee alla finalità ultima del sistema utilizzato, si finisce per richiedere il data entry di informazioni non funzionali al lavoro dell’avvocato e che quest’ultimo è chiamato ad inserire ogni volta (a seconda del gestionale usato) in modo diverso, mentre, in linea ormai sempre più teorica, l’unica logica cui il lavoro del legale dovrebbe rispondere è quella dei codice di procedura civile e del codice civile.

L’impressione generale, andando ad esaminare gli strumenti oggi a disposizione (nel mondo giudiziario, ma anche in quello dei servicer) è che lo sviluppo tecnologico abbia spostato su uno solo degli utenti, il legale, una serie di incombenze che prima venivano svolte da soggetti diversi dal professionista o dai suoi collaboratori (dal cliente stesso o dagli uffici giudiziari preposti), senza che questo processo sia stato accompagnato da una valorizzazione economica che consideri sia l’effort speso, che le competenze e la responsabilità che tali attività portano con sé. Ed anzi, si ha quasi l’impressione che vi sia un erroneo sentiment generale che valuta questi strumenti come una semplificazione che legittima la riduzione delle tariffe. Non è così.

E se il presupposto era che tali competenze diverse ed ulteriori sarebbero state acquisite da altri soggetti sull’altare delle deleghe, degli automatismi e delle procedimentalizzazioni, si trascura colpevolmente che la firma sotto ciascun atto è sempre e solo dell’avvocato!! [33].

 

8. In conclusione: una dicotomia insanabile?

Questo vero e proprio “sconquasso”, peggiore di quello di venti anni fa, era ed è frutto di regole di mercato alle quali gli stessi servicer non sanno come sottrarsi quand’anche abbiano sentore delle conseguenze negative che comportano e comporteranno per loro.

La disaffezione dei legali nel mondo del Recupero Crediti non è meno negativa di quella del personale dipendente.

Si prende così coscienza di una dicotomia apparentemente insanabile tra le esigenze di un investitore “impaziente” (i fondi) e l’industria della gestione del credito “problematico”.

Per quanto si voglia e si possa standardizzare ed industrializzare procedure e comportamenti, anche con l’aiuto dell’informatica, il “prodotto finito” del recupero, cioè l’incasso, è comunque l’epilogo di un processo applicato ad una materia prima non standard e non standardizzabile: il credito insoluto (Npl).

Ogni pratica ha le proprie specificità soggettive ed oggettive. Non solo perché ogni debitore, persona fisica o giuridica che sia, è un “unicum”, ma anche perché la storia che lo porta ad essere gestito dal recuperatore è a sua volta “unica”. Ne discende che, se si vuole estrarre valore dagli Npls, non basta aver pagato un prezzo molto basso nel comprarli, non basta avere una macchina digitalmente potente che aiuta a fare il controllo di gestione ed a migliorare l’operatività degli uffici e delle risorse, non basta neanche curare ossessivamente la struttura dei costi e neppure ottenere che l’originator trasmetta tutte le informazioni di cui è in possesso con i documenti necessari per la causa. Tutto questo è l’ ”industria”, ma non è sufficiente!

Per estrarre valore bisogna avere a disposizione “persone” che abbiano il tempo e la capacità di studiare quell’ ”unicum”, stabilendo la specifica strategia (il gestore), insieme ad un esperto del settore merceologico cui l’ “unicum” appartiene, ad un perito che sappia correttamente valutare le eventuali rispondenze patrimoniali di debitore e garanti, ma anche, e non ultimo, insieme al legale che studia il fascicolo, individua i punti di forza e di debolezza della controparte e suggerisce, e poi gestisce efficacemente, l’eventuale procedura giudiziale.

Tutte queste figure, la loro competenza e le loro capacità professionali determinano il livello del risultato ottenibile. Ma queste figure sono “artigianali” perché lavorano sull’ “unicum” - non su materia prima standard “enne” volte replicata - e non possono essere ridotte a mere parti passive di ingranaggi di un processo automatico in cui un algoritmo stabilisce tempi, metodi e target secondo un modello neo-taylorista digitalizzato.

Se l’intelligenza artificiale fosse in grado di sostituire l’artigianalità di questo processo produttivo, il mondo del credito problematico sarebbe completamente diverso, ma prima di tutto non ci sarebbe né competizione né mercato perché chi detenesse quello strumento informatico avrebbe il dominio assoluto del fenomeno. Ovviamente non è e non sarà così.

Quell’ “unicum” andrà gestito da persone e le persone, se sono indispensabili per estrarre valore da quella “materia prima” denominata Npls, debbono essere valorizzate, gratificate e messe in grado di creare valore e non solo costi. Tra queste persone il legale esterno non è il meno rilevante.

Considerando i volumi enormi in gioco (360 mld di euro per decine di milioni di pratiche di Npls), l’inefficienza conseguente alle strategie ed ai modelli organizzativi da molti adottati avrà effetti negativi sulle performance del recupero crediti e su quelle degli operatori del comparto. Il che non gioverà neanche alle sorti del Paese in generale.

La vera peculiarità del recupero crediti, che non consente di applicare acriticamente modelli e metodologie collaudati in altri cluster del mondo dei servizi, è data dalla necessità di combinare in modo equilibrato ed efficiente l’attività “artigianale” di gestore e legale esterno e un apparato produttivo ”industriale”. La competizione di settore si giocherà su questa base.

E dunque, qual è la direzione da prendere e quali i correttivi da proporre? La risposta non è facile e certamente c’è chi si sta già interrogando su questo aspetto con competenza e visione manageriale, frutto anche dell’analisi dei risultati di recupero conseguiti.

Che tali risultati non siano ottimali non è sorprendente, né il frutto di errori dovuti ad incompetenza. E’, piuttosto, il risultano di un’evoluzione del mercato estremamente repentina e “viziata” dalla commistione di culture diverse: quella industriale e finanziaria da una parte, non rispondenti alle medesime logiche, e quella italiana e straniera dall’altra. Su quest’ultimo aspetto, non si può non evidenziare che il mondo anglosassone dei fondi di investimento è entrato a “gamba tesa” su un sistema, quello giudiziario italiano, non facilmente né immediatamente asservibile alle esigenze di realizzo dei business plan dei fondi.

Ecco perché la valorizzazione delle strategie stragiudiziali (la “vendita della quietanza”) ormai poco applicata perché non ci si fida dei collaboratori esterni e non si conferiscono le adeguate deleghe a quelli interni sottovalutati, è invece tuttora quella vincente [34].

Uno dei profili su cui lavorare è, ad avviso di chi scrive, quello della rimodulazione dei rapporti tra cliente e legale esterno. Se quest’ultimo è un fattore della produzione integrato nel sistema, va inserito in un progetto a lungo termine ed utilizzato per lo scopo precipuo che gli viene affidato.

La stabilità del rapporto e l’utilizzo delle professionalità nell’alveo delle competenze per le quali queste sono state formate, vanno tenuti nella giusta considerazione e osservati senza ipocrisie.

Ed infatti, o il legale esterno è, come detto, un fattore della produzione e dunque va inserito stabilmente [35] nel processo produttivo, oppure non lo è, e allora è ritenuto legittimo scaricare su di lui il rischio d’impresa (nelle varie forme dell’instabilità del rapporto, della forzata implementazione dei sistemi che sono invece propri del cliente, della gestione di processi non propri dell’attività legale ecc.).

Immaginare di avere entrambe le cose, non è realistico e a lungo termine non può funzionare. L’imprenditore vuole la remunerazione del rischio d’impresa, altrimenti l’impresa si chiude. Il libero professionista del XXI secolo non può ragionare diversamente.

Remunerare i legali come fattori della produzione integrati e contestualmente destinare loro rischi, incertezze e pretese di efficientamento in linea con la catena produttiva interna, è irrealistico e controproducente per il cliente.

Tornando a quanto detto all’inizio di questo lavoro, l’invito è a riflettere su quale sia la chiave dell’efficientamento: la concorrenza sfrenata tra legali a colpi di abbattimenti tariffari e Rating di implementazione dei gestionali con logiche extraprocessuali e metagiuridiche, o la stabilità dei rapporti in cui l’efficienza è connaturata al consolidamento ed alla profonda conoscenza dell’attività propria dei legali gestiti in logica meritocratica?

Il problema vero non è quello economico, ma quello del modello relazionale e organizzativo. Quindi strategico.



[1] Legge 30 luglio 1990, n. 218.

[2] D.lgs. 1° settembre 1993, n. 325.

[3] V. tra gli altri: E. Coluccio, V. Conca, a cura di, “Il mercato degli Npls tra domanda ed offerta”, EGEA, 2017; F. Cesarini, a cura di, “I crediti deteriorati nelle banche italiane”, Giappichelli ed., 2017; D. Crivellari, “Npe: un fenomeno endemico per l’Italia, Credit Village, 2021, “Npe: il sorpasso dei fondi”, MLS, 2021,” Giubileo bancario “, Banca, impresa e società, Il Mulino, 2022.

[4] M. Affinito, “L’Europa delle banche”, pp. 11 e ss., Editore Laterza, 2019.

[5] Nella logica della banca pubblica ante 1990, il debitore insolvente era da “punire” per aver tradito la fiducia accordatagli. Da non trascurare la visione burocratica degli uffici che non volevano assumersi la responsabilità di accordi stragiudiziali: meglio perdere la causa ed il credito che rischiare di essere tacciati di connivenza con la controparte. Pregiudizio comportamentale nefasto tuttora presente là dove non si valorizza l’autonomia del gestore con adeguate deleghe.

[6]  D. Crivellari, “Recupero crediti: dal contratto di servicing alla business-line bancaria”, IPSOA, Amministrazione e finanza, 1999.

[7] Esattamente il contrario di quanto esposto nella Nota 5. In questo caso era prevalente il risultato economico della Società.

[8] Sul punto v. D. Crivellari, “Perdono del debito:avanti con prudenza.Una lettura consigliata”. Ristrutturazioni aziemndali-IlCaso.it, 15/1/2023, pagg. 7 e ss.

[9] Questa impostazione operativa era stata mutuata da quella delle agenzie di recupero crediti munite di licenza della Questura ex TULPS che però non operavano per conto delle banche, le quali allora ne diffidavano, ma prevalentemente nel campo di recupero dei crediti commerciali delle imprese. Sigrec, come società appartenente ad un Gruppo bancario, non fu tenuta a chiedere la licenza della Questura. Questo le consentì di operare in tutta Italia senza avere una sede per provincia, sottraendosi alla nota “Circolare Masone” del Ministero degli Interni (n.599/c del 2/7/96) che imponeva alle agenzie di recupero crediti una licenza per ogni provincia in cui erano operative. La circolare venne successivamente abrogata, ma era sintomo dello sfavore con cui le istituzioni politiche guardavano al settore.

[10] V. tra gli altri: M. Mazzucca, “Cartolarizzazioni bancarie in Italia…”, EGEA, 2015; P. Ferro Luzzi, “ Le cartolarizzazioni “, Giuffre’ editore, 2005; D. Galletti, G. Guerrieri, “ Le cartolarizzazioni dei crediti”, Il Mulino, 2002; F. Battaglia, “ Quale futuro per la cartolarizzazione dopo la crisi finanziaria ?”, Franco Angeli editore, 2015; G. Gallico, “Cartolarizzazioni dei crediti in Italia: regolamentazione ed aspetti tecnici”, C.L.U.B., 2018;  D. Crivellari, in “Non performing loans - Npl”, CNDCEC,7/2019. Per una bibliografia vasta sul tema v. SECURITISATION.IT.

[11] Successivamente adottato da altri servicer, banche e, opportunamente modificato, da compagnie assicurative segnatamente proprio per la gestione dei legali.

[12] Fino a quel momento, ma tuttora ancora molto diffusa, la procedura di liquidazione delle fatture dei legali era essenzialmente manuale, imprecisa e dispendiosa in termini di risorse impiegate e tempi di liquidazione. Il legale emetteva il proforma che veniva controllato dal gestore interno il quale, se lo riconosceva conforme, autorizzava l’emissione della fattura. Quando la struttura delle tariffe era ancora caratterizzata da onorari, diritti e spese determinate sulle micro attività del legale, la verifica da parte del gestore era estremamente laboriosa dovendosi ripercorrere e ricostruire (a quel tempo senza l’ausilio di gestionali informatici) l’intera attività svolta dal legale per ogni singola pratica. Anche per questo motivo molte banche preferivano liquidare le fatture a pratica chiusa, quindi anche dopo molti anni dalla attivazione, il che comportava una contabilizzazione per cassa non del tutto civilisticamente e fiscalmente corretta. La situazione si semplificò quando venne introdotta la “tariffazione per fasi”. UGC Banca, grazie ad EPC, sia con la vecchia tariffa di dettaglio che con quella nuova a “fasi” non subiva queste complessità in quanto i costi legali venivano determinati passo passo man mano che l’attività dell’avvocato si sviluppava ed il gestionale ne registrava puntualmente i passaggi. Questa innovazione semplificò sia l’attività di controllo del gestore, ma prima ancora quella della predisposizione del proforma da parte del legale. Sfuggiva all’ automatismo la registrazione, e quindi la computazione, delle spese vive sostenute dal legale che venivano aggiunte da quest’ultimo all’ elaborato del gestionale. L’innovazione consentì alla banca di rispettare pedissequamente le regole della contabilizzazione per competenza, ma anche di liquidare infrannualmente a date fisse le parcelle degli avvocati con non trascurabile beneficio della loro finanza. Nonostante l’efficienza del sistema, UGC si dotò anche di un presidio esterno di controllo dei proforma che negli anni si rivelò particolarmente efficiente nell’ intercettare errori dei legali dovuti all’errato inserimento, nell’alimentazione del gestionale, di elementi idonei a generare i compensi o il rimborso delle spese vive. Ciò consentì di risparmiare diversi milioni di euro di spese legali con costi autofinanziati dal risparmio stesso. Questo “controllo di 2* livello” fu inopinatamente abbandonato dopo la vendita della banca.

[13] Industrializzazione che ha favorito il miglioramento dei prezzi di cessione dei portafogli nella formazione dei quali si andò riducendo il “tasso di incertezza” per la componente relativa alla ricostruzione storica della pratica grazie al perfezionamento ed arricchimento dei data base.

[14] EPC consentiva di gestire il “conto economico” della singola pratica.

[15] Le classifiche generali e locali erano comunicate a tutti i legali in modalità anonima (ogni legale vedeva solo il proprio nome) ogni quadrimestre ed annualmente. Questa frequenza doveva mettere gli studi in condizione di intervenire sui “margini di miglioramento “ dettagliatamente esposti nelle schede di Rating, favorendo l’adozione di quei procedimenti di efficientamento che, adottati, avrebbero potuto essere tempestivamente rilevati dall’ algoritmo consentendo miglioramenti di classifica nelle rilevazioni successive.

[16] In pratica sia la banca che il legale avevano a disposizione uno vero e proprio “studio di mercato” estremamente dettagliato.

[17] La procedura di alimentazione algoritmica aveva un limite nel non poter rilevare l’eventuale particolare complessità specifica della singola pratica non tracciata informaticamente. Per contenere il conseguente rischio di affidare pratiche complesse a legali con esperienza inadeguata al caso, si stabilì che, per tutti gli incarichi in cui il valore della causa fosse superiore ad un predeterminato livello, l’attribuzione automatica dell’algoritmo sarebbe stata confermata o meno dal vertice aziendale che aveva la responsabilità di scegliere eventualmente un legale diverso.

[18] D.l. 223/2006, convertito nella L. 248/2006. V. Anche M. Mecacci, “Le liberalizzazioni nel Decreto Bersani: la strana “storia” delle tariffe professionali degli avvocati”, ALTALEX, 9/2006.

[19] Introdotto gradualmente a partire dal 2011 anche grazie alla collaborazione tra UCCMB e Ministero della giustizia.

[20] Nonostante la disponibilità di uno strumento informatico particolarmente potente, la molteplicità delle variabili in gioco (a cominciare dalle diverse durate dei procedimenti nei vari tribunali) non consentì, se non in linea di tendenza, il conseguimento della auspicata omogeneità dei risultati economici degli studi nel tempo ed a partita di Rating.

[21] Ai legali che vedevano rarefarsi gli incarichi venivano forniti chiarimenti di dettaglio sulle motivazioni nell’ intento, non solo di essere trasparenti, ma anche di metterli in condizione di ottimizzare processi e comportamenti. Per gli studi di nuovo inserimento, cui mancavano dati storici per l’attivazione dell’algoritmo di assegnazione basato sul Rating, era previsto un periodo di sperimentazione con l’attribuzione di un certo numero di incarichi pilota.

[22] Un particolare aspetto al quale l’azienda si dedicò con determinazione fu quello delle regole di collaborazione tra legali e consulenti esterni incaricati dell’attività stragiudiziale orientata alla “vendita della quietanza”. Poiché il successo del consulente esterno nel chiudere la pratica veniva percepito dal legale come un danno per il suo portafoglio incarichi, e, di converso, il costo del legale andava a diminuire l’incasso netto su cui si calcolava la success fee per il consulente, venne introdotta una specifica remunerazione per il legale presente su una pratica che andava a chiudersi in via stragiudiziale per sollecitare la collaborazione operativa tra i due professionisti di cui il gestore interno era regista e garante.

 

[23] Qui giocano anche gli aspetti delle coperture assicurative sui rischi professionali.

[24] Un sintomo dell’abbandono del rapporto fiduciario è la scomparsa delle procure generali una volta diffuse tra i legali delle banche. Anche UGC Banca aveva conferito procura generale a tutti i legali della sua rete. Oggi il legale deve munirsi di procura speciale per ogni pratica e per una molteplicità di atti. Il conferimento della procura generale aveva il pregio di semplificare l’interazione tra banca e legale. L’utilizzo della procura speciale, evidentemente diffusosi per un temuto difetto di affidabilità del professionista, crea inutili complicazioni operative sia al cliente che all’avvocato. Complicazioni di tale portata che, se ci si rendesse conto di quali costi operativi sottendono, anche solo in termini di tempo consumato inutilmente dai gestori, si dovrebbe ripristinare con urgenza il ricorso alle procure generali.

[25] Ormai non sono rari i casi in cui i legali, che hanno operato per decenni con banche e servicer, si sono visti costretti ad intentare cause per arbitraria interruzione del flusso degli incarichi o per applicazione ritenuta errata delle tariffe professionali.

[26] Regolate dall’ art. 4 bis della legge n. 247/2012, integrata dalla legge n. 205/2017.

[27] In UGC Banca ci si preoccupava molto di annoverare nella propria rete legale i migliori avvocati di ogni singolo distretto giudiziario cui, per competenza territoriale, venivano affidati gli incarichi.

[28] Anche in UGC Banca si era posto il tema dei domiciliatari, ma era stato risolto in modo diverso. Poiché la rete legale era presente in ogni Foro, e gli incarichi erano prevalentemente attribuiti in ragione della competenza territoriale del legale in base a quella della pratica, l’utilizzo dei domiciliatari poteva rendersi necessario solo se quella specifica pratica obbligava ad attività giudiziali anche in altri Fori. Per agevolare l’interazione tra dominus e domiciliatario nella convenzione era previsto che ogni legale si obbligasse a svolgere il ruolo di domiciliatario, a tariffe predeterminate, per qualunque altro avvocato della rete. In ogni caso i relativi costi, anche qui, erano a carico del dominus.

 

[29] Da qui il motivo per cui UGC Banca si limitava ad utilizzare il 70% della capacità operatività del singolo studio.

[30] Esperienze di questo tipo furono tentate anche in grandi banche italiane sulla base di esempi d’oltralpe. Guarda caso i promotori erano principalmente uomini responsabili del budget dei costi operativi, attirati dai risparmi conseguibili. Non ebbero successo per la ferma opposizione delle funzioni competenti per il recupero, ben più consapevoli che l’argomento costi non è un buon consigliere quando si tratta di gestire “fattori produttivi” costituiti da risorse umane e basati sulla loro professionalità.

[31] In questi ultimi venti anni, si è assistito ad evoluzioni contraddittorie e non lineari. Alcune banche non hanno mutato i modelli organizzativi interni del recupero crediti, limitandosi a reagire alla crescita imponente dei loro Npls cedendoli massivamente sul mercato appena possibile. Il risultato è stato registrare perdite da cessione e necessità di ricapitalizzazioni. Altre banche hanno trasferito parte dei loro Npls in gestione a servicer esterni autonomi o costituiti in combinazione con fondi di investimento specialistici e trattenendo all’interno le posizioni di maggior importo o più complesse. Queste combinazioni non sono state particolarmente fortunate a causa del diverso approccio dei partner, uno dei quali aveva una logica più finanziaria e speculativa in contrasto con quella più conservativa, paziente ed industriale dell’altro. Le conseguenze si sono scaricate su governance contraddittorie che non hanno favorito l’efficienza della “macchina”. Un altro modello adottato aveva la peculiarità di concentrare la gestione degli Npls di gruppi bancari articolati (varie banche federate, leasing, factoring ecc.) per evitare dissonanze nei criteri di valutazione nei bilanci consolidati e mettere a frutto ottimizzazioni di processo e conseguenti alla gestione “in unica mano” del debitore comune alle varie entità del gruppo. Questi “servicer interni” (alcuni con licenza bancaria) quando hanno adottato un modello di business orientato al risultato economico (successes fee, reti esterne ecc.) hanno dato i risultati migliori. Dal 2015 in poi, con la ripresa massiccia del mercato degli Npls agevolato dalle Gacs, quasi tutte le banche, anche su pressione della Bce, hanno abdicato alla responsabilità di gestire direttamente o a mezzo di servicer di gruppo gli Npls cedendoli sul mercato spesso insieme agli stessi propri servicer. Una prima conseguenza che sarà da valutare nei prossimi anni è che oggi la maggior parte delle banche non ha più né risorse né strutture per gestire la patologia del rapporto creditizio. Il colpo finale sarà dato dalle cessioni di Utp, per il momento in fase embrionale. Di questo “vulnus culturale” vedremo gli effetti anche sulla efficienza delle politiche e delle capacità allocative e gestorie del credito in generale. V.  D. Crivellari, “Il recupero crediti tra outsourcing e cartolarizzazione “, IPSOA, Amministrazione e finanza, n.19/1999, p. 48.

[32] In più di un caso, servicer muniti di licenza bancaria, una volta acquistati dai fondi di investimento, vi hanno rinunciato se non altro per sfuggire alle stringenti regole su compliance e capitalizzazione prudenziale. Conseguenza tutta da valutare è che queste entità sono state sottratte anche alla supervisione delle autorità di vigilanza se non nella ridotta misura di quegli intermediari inseriti nell’elenco previsto all’articolo 106 del TUB. Alcune di queste “ex banche”, tra le quali anche società che gestiscono importi considerevoli, sono ora delle mere agenzie di recupero crediti sotto il controllo, per niente invasivo, delle Questure ai sensi dell’articolo 115 del TULPS. La Direttiva (UE) 2021/2167 del 24/11/2021, emanata dal Parlamento e dal Consiglio europei, pubblicata in GUCE l’8/12/21, costringerà i servicer a strutturarsi entro il 2024 in modo molto più complesso e costoso rispetto alle attuali agenzie di recupero crediti, ponendoli sotto la vigilanza di autorità finanziarie e non di Pubblica sicurezza. Una strada in salita!

 

[33] In UGC Banca si seguiva la regola che l’inserimento dei dati nel gestionale dovesse spettare a chi fosse fisicamente o logicamente (in senso informatico) più vicino alla loro fonte, con la cautela che se l’attività fosse stata “aggiuntiva” a quella “istituzionale”, la remunerazione dovesse essere coerente con la responsabilità ricadente in capo all’agente. Non sembra una regola oggi molto seguita.

[34] La contrazione progressiva dei costi dei legali ha fatto sì che i creditori siano meno propensi ad impegnarsi nella più faticosa, ma anche più efficiente, trattativa stragiudiziale. Ne consegue un eccesso di ricorso alla giustizia civile che ne determina lo storico ingolfamento. I continui tentativi del legislatore di degiurisdizionalizzare il contenzioso non sono favoriti dal basso costo dell’attività legale.

[35] Gli attuali modelli di gestione delle reti legali, non solo hanno provocato la disaffezione dei professionisti “precarizzati”, ma sono forieri di una vera e propria “beffa”: se un avvocato firma una convenzione, ma quel servicer o quella banca non lo alimenta abbastanza per fidelizzarlo, è comunque obbligato a non assumere incarichi “contro”, subendo un limite a proprio danno in modo controintuitivo e permanente.