Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
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Le attività di liquidazione in esecuzione della proposta di concordato preventivo omologata


Francesco Carelli
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Brevi annotazioni in materia di prova della scientia decoctionis in capo al notaio convenuto in revocatoria


Girolamo Bongiorno

Data pubblicazione
15 marzo 2023

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La tendenza dei Giudici di merito ad aggirare le difficoltà che sorgono quando è difficile fornire la prova analitica e completa di un fatto particolarmente complesso «e per qualche aspetto sfuggente» è stata criticata da parte della dottrina prevalente. Si è osservato che in questi casi i giudici fanno ricorso alla creazione di schemi tipici di situazioni di fatto «che tendono a ripetersi in modo relativamente costante in particolari settori dell’esperienza».

Avvalendosi di queste tecniche nelle azioni revocatorie fallimentari di cui all’art. 166 del Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza (in avanti c.c.i.i.) il curatore verrebbe esonerato dal fornire la piena prova del fatto costitutivo, essendo sufficiente un singolo indizio tipico, anche se non idoneo a fondare la dimostrazione presuntiva del fatto.

Di contro il convenuto in revocatoria, non potendo avvalersi di indizi, avrebbe l’onere di dimostrare il contrario attraverso vere e proprie prove e quindi sarebbe tenuto ad allegare fatti e circostanze idonei a dimostrare che al momento dell’ope­razione (pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, atti a titolo oneroso o costitutivi di un diritto di prelazione, ecc.) effettivamente ignorava lo stato di dissesto dell’altra parte.

I giudici di merito, ai quali vengono contestate forzature interpretative dirette a ridurre l’onere probatorio del curatore mediante presunzioni di non rigorosa logicità, tendono a blindare le proprie decisioni osservando che in tema di revocatoria fallimentare il principio che assimila la conoscibilità alla effettiva conoscenza dello stato di dissesto in cui versa il debitore deve considerarsi a tutti gli effetti fondato su elementi gravi, precisi e concordanti, attraverso il riferimento a criteri di comune capacità di comprensione e indagine.

Al riguardo si legge in numerose decisioni che la revoca può fondarsi anche su elementi indiziari, tali da fare presumere l’effettiva scientia decoctionis[1]da parte del creditore.

Come è agevole rendersi conto in questo modo la valutazione del giudice si basa sulla concreta situazione psicologica del terzo convenuto in revocatoria «attraverso il riferimento a criteri di comune capacità di comprensione ed indagine» (espressione ricorrente in numerose decisioni). Ma altro è dire, in astratto, che determinati soggetti (operatori professionali e comunque qualificati nel mondo dell’economia) sono dotati di specifiche conoscenze tecniche, altro è far discendere, automaticamente ed acriticamente da questa premessa che tali soggetti, accedendo a speciali fonti informative, si avvalgono di strumenti di indagine privilegiati che ad essi consentono di venire a conoscenza, prima di ogni altro, dello stato di dissesto in cui sono venuti a trovarsi coloro con i quali intrattengono rapporti.

L’errore di base di questa impostazione sta nel modo non corretto con il quale vengono utilizzate le presunzioni semplici per fornire la prova della conoscenza effettiva della scientia decoctionis da parte del convenuto in revocatoria.

Ciò significa che l’uso improprio delle presunzioni finisce con l’attribuire significato eccessivo alla circostanza che l’atto da revocare sia stato compiuto da un operatore professionale o comunque qualificato (quali le banche e le società esercenti l’attività di finanziamento); da tale circostanza infatti si inferisce che il convenuto in revocatoria, per la sua peculiare posizione, ha maggiore sensibilità nel cogliere e nel valutare i segnali sullo stato di decozione del soggetto col quale intrattenga rapporti di natura economica essendo tenuto a tenersi informato e organizzato per controllarne continuamente le condizioni patrimoniali: ergo dovrebbe necessariamente conoscerne lo stato di dissesto.

Non vi è chi non veda come in questo modo si finisca col sovvertire giudizialmente le regole in materia di prova: nel momento stesso in cui il giudice consente al curatore di addurre soltanto fatti secondari o semplici elementi indiziari, senza pretendere che vengano fornite prove in senso proprio del fatto costitutivo, sostanzialmente si pone a carico del terzo convenuto in revocatoria l’onere di provare il contrario. Si perviene ad una vera e propria equiparazione dell’azione revocatoria di cui al secondo comma dell’art. 67 L. Fall. (oggi 166 c.c.i.i.) alle ipotesi tassative previste nel primo comma: un’autentica manipolazione della ripartizione degli oneri probatori tra le parti, diretta a favorire ingiustamente il curatore fallimentare, a danno del terzo.

Si aggiunga che i medesimi giudici che considerano gli indizi quali mezzi idonei ad assolvere all’onere della prova della scientia decoctionis ad un tempo pretendono dal convenuto in revocatoria la dimostrazione piena e concreta dell’esistenza dei fatti principali rilevanti come fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi.

Quindi una prova in senso proprio, diretta a fornire la dimostrazione dell’esi­stenza del fatto dedotto dal convenuto in revocatoria, e cioè della non conoscenza dello stato di dissesto del soggetto con il quale hanno intrattenuto rapporti e che poi è stato dichiarato fallito.

La Corte di Appello di Venezia con la sentenza n. 727 del 29 marzo 2022[2] ha valutato se al notaio possa attribuirsi la qualifica di operatore professionale[3]in presenza del quale è richiesto che la valutazione della prudenza ed avvedutezza, ai fini dell’accertamento della scientia decoctionis, debba essere condotta con maggior rigore”.

Nella motivazione della sentenza la Corte veneziana muove dalla considerazione che il procedimento logico al quale i giudici di legittimità devono attenersi nella valutazione delle risultanze probatorie acquisite nelle fasi di merito si articola: a) in primo luogo nei due momenti della valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza; b) nell’osservare, invece, quelli che, presi singolarmente presentino una potenzialità parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Soltanto dopo va compiuta “la valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova preventiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”.

Da parte sua il curatore del fallimento aveva rilevato che in tema di revocatoria fallimentare deve attribuirsi peculiare rilevanza alla condizione personale dell’accipiens, sicché la misura della diligenza esibile da quel soggetto va riferita alla categoria di appartenenza dello stesso ed all’oneri di informazione tipico del relativo settore di operatività. Sicché ad un professionista esperto come il notaio convenuto in revocatoria ex art. 166 c.c.i. non poteva sfuggire che i bilanci della venditrice denotassero “un drastico peggioramento dell’andamento aziendale rispetto agli esercizi precedenti”, come risultava da una consulenza tecnica disposta nel corso del giudizio.

Al riguardo la Corte osserva che “Da un notaio, non aduso a valutazioni di materia economica e finanziaria non può pretendersi che effettui la verifica dei dati di bilancio della società con la quale entra in relazione per la conclusione di un affare personale al fine di accertarne il grado di solvibilità, condotta che è normalmente richiesta, invece, agli erogatori istituzionali del credito, in riferimento ai quali è stato enucleato dalla giurisprudenza il principio invocato dall’appellante e che proprio in ragione dell’attività svolta, sono tenuti a dotarsi di un’organiz­zazione di mezzi ed uomini ad elevato contenuto professionale, che consenta loro di svolgere quelle approfondite indagini ed analisi al fine di monitorare il rischio connesso all’erogazione del credito”.

Non erano peraltro emersi i “tradizionali elementi sintomatici di una condizione di insolvenza, quali protesti e esecuzioni mobiliari e/o immobiliari, ed anche semplici notizie di stampa di tenore negativo sulla situazione finanziaria della impresa, poi fallita”. Così pure le prove testimoniali, valutate nella loro globalità, avevano confermato che “il notaio, nei colloqui che intrattenne con le persone che lavoravano in cantiere, mai fece alcun minimo accenno alla circostanza che l’impresa costruttrice si fosse resa inadempiente al pagamento dei corrispettivi dovuti all’impresa subappaltatrice e/o ai fornitori o si trovasse in una situazione di difficoltà”.

Inoltre non risultava che il committente dell’appalto avesse contestato all’impresa appaltatrice ritardi nei pagamenti dei fornitori e/o subappaltatori. Osservava la Corte che “doveva considerarsi raggiunta la prova dell’inscientia decoctionis in capo al notaio e conseguentemente le domande revocatorie fallimentari proposte ai sensi della l. fall., art. 67, comma 1, n. 1 e della l. fall., art. 67, comma 2 devono essere rigettate”.

A conclusioni sostanzialmente analoghe, nella prospettiva che qui interessa, è pervenuta la Cassazione, argomentando che per le azioni revocatorie fallimentari ex art. 67, n. 2, L. Fall. l’onere del curatore di dimostrare la effettiva conoscenza in capo al convenuto in revocatoria dello stato di insolvenza del debitore (poi fallito) deve intendersi assolto solo quando la probabilità della scienzia decoctonis trovi il suo fondamento nei presupposti e nelle condizioni (economiche, sociali, organizzative, topografiche, culturali) in cui il destinatario della prestazione si sia concretamente trovato ad operare.

In numerose sentenze della Suprema Corte si afferma che la conoscenza dello stato di insolvenza deve essere effettiva e non meramente potenziale e che nel procedere dal fatto noto fino ad arrivare a quello ignoto il giudice di merito deve basarsi su elementi indiziari caratterizzati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza.

E la decisione si inserisce in questo contesto interpretativo, avendo escluso che nella specie il rapporto contrattuale si sia svolto in modo anomalo e che il notaio fosse effettivamente a conoscenza della situazione di insolvenza della venditrice; così pure ha escluso che in relazione al concreto contesto in cui il notaio opera, facendo uso della normale prudenza ed avvedutezza rapportata alle sue qualità personali e professionali, possa percepire i sintomi rivelatori dello stato di insolvibilità o le difficoltà finanziarie dei contraenti.



[1] Sulla scientia decoctionis v., fra gli altri, Marchetti, Revocatoria fallimentare e prova della scientia decictionis, in Fall., 1997, 171 ss.; Verdirame, La prova della scientia decoctionis nella revocatoria fallimentare di rimesse bancarie, ivi, 2004, 756 ss.; Buta, Conoscenza dello stato di insolvenza e risultanze dei bilanci, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, 563 ss. Spunti interessanti si rinvengono anche nei lavori monografici sulla revocatoria fallimentare: cfr. Gallesio Piuma, L'azione revocatoria fallimentare, Padova, 1992; Piscitello, Le garanzie bancarie flottanti, Torino, 1999; Ambrosini, La revocatoria fallimentare delle garanzie, Milano, 2000; Bertacchini, Revocatoria fallimentare e stato di insolvenza, Padova, 2001.

[2] Pubblicata sulla rivista Dir. fall., 2023, II, 158 ss., con commento dello scrivente, dal titolo “Considerazioni su una recente sentenza della Corte di Appello di Venezia in tema di prova della inscientia in capo al notaio dello stato di insolvenza di uno dei contraenti”.

[3] Sullo status professionale dell’accipiens v. Porraro, Presunzioni d’insolvenza, status professionale e condizione di fallibilità nella revocatoria fallimentare, commento a Cass. 7 febbraio 2001, n. 1719, in Giust. civ., 2001, I, 2977 ss.