, 15 marzo 2023, n. 0. .
Abstract:
Sommario:
La tendenza dei Giudici di merito ad aggirare le
difficoltà che sorgono quando è difficile fornire la prova analitica e completa
di un fatto particolarmente complesso «e per qualche aspetto sfuggente» è stata
criticata da parte della dottrina prevalente. Si è osservato che in questi casi
i giudici fanno ricorso alla creazione di schemi
tipici di situazioni di fatto «che tendono a ripetersi in modo
relativamente costante in particolari settori dell’esperienza». Avvalendosi di queste tecniche nelle azioni revocatorie
fallimentari di cui all’art. 166 del Codice della crisi dell’impresa e
dell’insolvenza (in avanti c.c.i.i.) il curatore verrebbe esonerato dal
fornire la piena prova del fatto costitutivo, essendo sufficiente un singolo
indizio tipico, anche se non idoneo a fondare la dimostrazione presuntiva del
fatto. Di contro il convenuto in revocatoria, non potendo
avvalersi di indizi, avrebbe l’onere di dimostrare il contrario attraverso vere
e proprie prove e quindi sarebbe tenuto ad allegare fatti e circostanze idonei
a dimostrare che al momento dell’operazione (pagamenti di debiti liquidi ed
esigibili, atti a titolo oneroso o costitutivi di un diritto di prelazione,
ecc.) effettivamente ignorava lo stato di dissesto dell’altra parte. I giudici di merito, ai quali vengono contestate
forzature interpretative dirette a ridurre l’onere probatorio del curatore
mediante presunzioni di non rigorosa logicità, tendono a blindare le
proprie decisioni osservando che in tema di revocatoria fallimentare il
principio che assimila la conoscibilità alla effettiva conoscenza dello stato
di dissesto in cui versa il debitore deve considerarsi a tutti gli effetti
fondato su elementi gravi, precisi e concordanti, attraverso il riferimento a
criteri di comune capacità di comprensione e indagine. Al riguardo si legge in numerose decisioni che la
revoca può fondarsi anche su elementi indiziari, tali da fare presumere
l’effettiva scientia decoctionis[1]da
parte del creditore. Come è agevole rendersi conto in questo modo la
valutazione del giudice si basa sulla concreta situazione psicologica del terzo
convenuto in revocatoria «attraverso il riferimento a criteri di comune
capacità di comprensione ed indagine» (espressione ricorrente in numerose
decisioni). Ma altro è dire, in astratto, che determinati soggetti (operatori
professionali e comunque qualificati nel mondo dell’economia) sono dotati di
specifiche conoscenze tecniche, altro è far discendere, automaticamente ed
acriticamente da questa premessa che tali soggetti, accedendo a speciali fonti
informative, si avvalgono di strumenti di indagine privilegiati che ad essi
consentono di venire a conoscenza, prima di ogni altro, dello stato di dissesto
in cui sono venuti a trovarsi coloro con i quali intrattengono rapporti. L’errore di base di questa impostazione sta nel modo
non corretto con il quale vengono utilizzate le presunzioni semplici per
fornire la prova della conoscenza effettiva della scientia decoctionis da
parte del convenuto in revocatoria. Ciò significa che l’uso improprio delle presunzioni
finisce con l’attribuire significato eccessivo alla circostanza che l’atto da
revocare sia stato compiuto da un operatore professionale o comunque
qualificato (quali le banche e le società esercenti l’attività di
finanziamento); da tale circostanza infatti si inferisce che il convenuto in
revocatoria, per la sua peculiare posizione, ha maggiore sensibilità nel
cogliere e nel valutare i segnali sullo stato di decozione del soggetto col
quale intrattenga rapporti di natura economica essendo tenuto a tenersi
informato e organizzato per controllarne continuamente le condizioni
patrimoniali: ergo dovrebbe necessariamente conoscerne lo stato di
dissesto. Non vi è chi non veda come in questo modo si finisca
col sovvertire giudizialmente le regole in materia di prova: nel momento stesso
in cui il giudice consente al curatore di addurre soltanto fatti secondari o
semplici elementi indiziari, senza pretendere che vengano fornite prove in
senso proprio del fatto costitutivo, sostanzialmente si pone a carico del terzo
convenuto in revocatoria l’onere di provare il contrario. Si perviene ad una
vera e propria equiparazione dell’azione revocatoria di cui al secondo comma
dell’art. 67 L. Fall. (oggi 166 c.c.i.i.) alle ipotesi tassative previste nel
primo comma: un’autentica manipolazione della ripartizione degli oneri
probatori tra le parti, diretta a favorire ingiustamente il curatore
fallimentare, a danno del terzo. Si aggiunga che i medesimi giudici che considerano gli
indizi quali mezzi idonei ad
assolvere all’onere della prova della scientia
decoctionis ad un tempo pretendono dal convenuto in revocatoria la
dimostrazione piena e concreta dell’esistenza dei fatti principali rilevanti
come fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi. Quindi una prova in senso proprio, diretta a fornire
la dimostrazione dell’esistenza del fatto dedotto dal convenuto in
revocatoria, e cioè della non conoscenza dello stato di dissesto del soggetto
con il quale hanno intrattenuto rapporti e che poi è stato dichiarato fallito. La Corte di Appello di Venezia con la sentenza n. 727
del 29 marzo 2022[2] ha valutato se al notaio
possa attribuirsi la qualifica di operatore
professionale[3]
“in presenza del quale è richiesto che la
valutazione della prudenza ed avvedutezza, ai fini dell’accertamento della scientia
decoctionis, debba essere condotta
con maggior rigore”. Nella motivazione della sentenza la Corte veneziana
muove dalla considerazione che il procedimento logico al quale i giudici di
legittimità devono attenersi nella valutazione delle risultanze probatorie
acquisite nelle fasi di merito si articola: a)
in primo luogo nei due momenti della valutazione analitica degli elementi
indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza; b) nell’osservare, invece, quelli che,
presi singolarmente presentino una potenzialità parziale o almeno potenziale di
efficacia probatoria. Soltanto dopo va compiuta “la valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per
accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di
fornire una valida prova preventiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta
con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”. Da parte sua il curatore del fallimento aveva rilevato
che in tema di revocatoria fallimentare deve attribuirsi peculiare rilevanza
alla condizione personale dell’accipiens,
sicché la misura della diligenza esibile da quel soggetto va riferita alla
categoria di appartenenza dello stesso ed all’oneri di informazione tipico del
relativo settore di operatività. Sicché ad un professionista esperto come il
notaio convenuto in revocatoria ex art.
166 c.c.i. non poteva sfuggire che i bilanci della venditrice denotassero “un drastico peggioramento dell’andamento
aziendale rispetto agli esercizi precedenti”, come risultava da una
consulenza tecnica disposta nel corso del giudizio. Al riguardo la Corte osserva che “Da un notaio, non aduso a valutazioni di materia economica e
finanziaria non può pretendersi che effettui la verifica dei dati di bilancio
della società con la quale entra in relazione per la conclusione di un affare
personale al fine di accertarne il grado di solvibilità, condotta che è
normalmente richiesta, invece, agli erogatori istituzionali del credito, in
riferimento ai quali è stato enucleato dalla giurisprudenza il principio
invocato dall’appellante e che proprio in ragione dell’attività svolta, sono
tenuti a dotarsi di un’organizzazione di mezzi ed uomini ad elevato contenuto
professionale, che consenta loro di svolgere quelle approfondite indagini ed
analisi al fine di monitorare il rischio connesso all’erogazione del credito”. Non erano peraltro emersi i “tradizionali elementi sintomatici di una condizione di insolvenza,
quali protesti e esecuzioni mobiliari e/o immobiliari, ed anche semplici
notizie di stampa di tenore negativo sulla situazione finanziaria della
impresa, poi fallita”. Così pure le prove testimoniali, valutate nella loro
globalità, avevano confermato che “il
notaio, nei colloqui che intrattenne con le persone che lavoravano in cantiere,
mai fece alcun minimo accenno alla circostanza che l’impresa costruttrice si
fosse resa inadempiente al pagamento dei corrispettivi dovuti all’impresa
subappaltatrice e/o ai fornitori o si trovasse in una situazione di difficoltà”. Inoltre non risultava che il committente dell’appalto
avesse contestato all’impresa appaltatrice ritardi nei pagamenti dei fornitori
e/o subappaltatori. Osservava la Corte che “doveva
considerarsi raggiunta la prova dell’inscientia decoctionis in capo al notaio e conseguentemente le
domande revocatorie fallimentari proposte ai sensi della l. fall., art. 67,
comma 1, n. 1 e della l. fall., art. 67, comma 2 devono essere rigettate”. A conclusioni sostanzialmente analoghe, nella
prospettiva che qui interessa, è pervenuta la Cassazione, argomentando che per
le azioni revocatorie fallimentari ex
art. 67, n. 2, L. Fall. l’onere del curatore di dimostrare la effettiva
conoscenza in capo al convenuto in revocatoria dello stato di insolvenza del
debitore (poi fallito) deve intendersi assolto solo quando la probabilità della
scienzia decoctonis trovi il suo
fondamento nei presupposti e nelle condizioni (economiche, sociali,
organizzative, topografiche, culturali) in cui il destinatario della
prestazione si sia concretamente trovato ad operare. In numerose sentenze della Suprema Corte si afferma
che la conoscenza dello stato di insolvenza deve essere effettiva e non
meramente potenziale e che nel procedere dal fatto noto fino ad arrivare a
quello ignoto il giudice di merito deve basarsi su elementi indiziari
caratterizzati dai requisiti della gravità, precisione e concordanza. E la decisione si inserisce in questo contesto
interpretativo, avendo escluso che nella specie il rapporto contrattuale si sia
svolto in modo anomalo e che il notaio fosse effettivamente a conoscenza della
situazione di insolvenza della venditrice; così pure ha escluso che in
relazione al concreto contesto in cui il notaio opera, facendo uso della
normale prudenza ed avvedutezza rapportata alle sue qualità personali e
professionali, possa percepire i sintomi rivelatori dello stato di
insolvibilità o le difficoltà finanziarie dei contraenti. [1] Sulla
scientia decoctionis v., fra gli altri, Marchetti,
Revocatoria fallimentare e prova della scientia decictionis, in Fall.,
1997, 171 ss.; Verdirame, La
prova della scientia decoctionis nella revocatoria fallimentare di
rimesse bancarie, ivi, 2004, 756 ss.; Buta, Conoscenza dello stato di
insolvenza e risultanze dei bilanci, in Banca, borsa, tit. cred., 2004,
563 ss. Spunti interessanti si rinvengono anche nei lavori monografici sulla
revocatoria fallimentare: cfr. Gallesio
Piuma, L'azione revocatoria fallimentare, Padova, 1992; Piscitello, Le garanzie bancarie
flottanti, Torino, 1999; Ambrosini,
La revocatoria fallimentare delle garanzie, Milano, 2000; Bertacchini, Revocatoria fallimentare
e stato di insolvenza, Padova, 2001. [2]
Pubblicata sulla rivista Dir. fall., 2023, II, 158 ss., con commento
dello scrivente, dal titolo “Considerazioni su una recente sentenza della
Corte di Appello di Venezia in tema di prova della inscientia in capo al
notaio dello stato di insolvenza di uno dei contraenti”. [3] Sullo
status professionale dell’accipiens v. Porraro, Presunzioni d’insolvenza, status professionale e
condizione di fallibilità nella revocatoria fallimentare, commento a Cass. 7
febbraio 2001, n. 1719, in Giust. civ., 2001, I, 2977 ss.