Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

La gestione dell’impresa “in perdita” tra vecchia e nuova sistematica concorsuale*


Stefano Ambrosini

Data pubblicazione
21 marzo 2023

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Sommario: 1. Il problema della gestione generatrice di perdite e quello del loro riassorbimento. – 2.  Il “paradigma” del d. lgs. n. 270/1999. – 3. Il concordato preventivo in continuità e la dannosità per i creditori. – 4. L’esercizio dell’impresa in liquidazione giudiziale e il pregiudizio ai creditori: cenni all’evoluzione della fattispecie (dal codice di commercio al codice della crisi). – 5. Uno spunto sull’affitto dell’azienda da parte del curatore e sulla deroga al principio di competitività.


1.       Il problema della gestione generatrice di perdite e quello del loro riassorbimento.

Fra i problemi che si presentano con significativa frequenza nella ricerca di soluzioni alle crisi aziendali vi è quello derivante dall’eventualità che l’impresa, nel momento in cui chiede l’accesso a uno degli strumenti di legge, produca perdite.

Ed invero, l’emersione di perdite di esercizio e il perdurare di risultati negativi – come osserva la dottrina aziendalistica – rappresentano il classico sintomo di squilibrio economico, “dal momento che l’effetto è quello di non remunerare presumibilmente in modo normale e fisiologico diversi fattori produttivi e, certamente, di non remunerare affatto il capitale di proprietà”[1].

In tali situazioni è chiaro che il piano posto a base della ristrutturazione deve farsi carico del riassorbimento delle perdite entro un determinato orizzonte temporale e con un grado di ragionevole certezza, che il professionista indipendente è chiamato ad attestare. Non è infatti ammissibile, in base all’ordinamento (sia attuale che previgente), che un’impresa prosegua nella propria attività “cronicamente” in danno dei creditori, tanto meno quando essa ricorra all’usbergo di uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza.

Ciò significa, da un lato, che la generazione di perdite – anziché di utili – non è di per sé ostativa all’accesso al concordato preventivo o a strumenti analoghi, dall’altro, che una situazione siffatta, peraltro in una qualche misura “fisiologica” nel caso di imprese in crisi o insolventi, deve tuttavia trovare rimedio proprio grazie all’attuazione del piano, giacché altrimenti non hanno ragion d’essere opzioni alternative alla liquidazione giudiziale: pena, com’è ben noto, la responsabilità dei gestori dell’impresa per aver concorso all’incremento del passivo. Non a caso, fin dalle primissime disposizioni il nuovo codice pone l’accento sull’idoneità delle iniziative dirette a far fronte allo stato di crisi (art. 3, commi 1 e 2).

Di qui la considerevole importanza della prospettiva di riassorbimento – per quanto possibile celere – di dette perdite e la necessità che questa sia “validata” dall’attestatore come realisticamente alla portata dell’impresa e positivamente scrutinata dal tribunale quando venga investito della questione: non poi così diversamente, mutatis mutandis, da ciò che avviene per il ripristino, in progresso di tempo, del patrimonio netto positivo, ove esso sia risultato, ai “nastri di partenza”, negativo.

Sempre dall’elaborazione in ambito aziendalistico, del resto, ricaviamo che le perdite vanno considerate, oltre ovviamente che per la gravità, anche sotto il profilo della loro sostenibilità, che costituisce una condizione storica ed evolutiva, in quanto strettamente correlata alla grandezza di più immediato riferimento, vale a dire il patrimonio netto[2].

 

2.       Il “paradigma” del d. lgs. n. 270/1999.

La disciplina che in ambito concorsuale denota maggiore attenzione per la prosecuzione dell’attività d’impresa è – come a tutti noto – quella dell’amministrazione straordinaria, che difatti ha costituito per più di un aspetto (anche di tipo lessicale: basti pensare alla terminologia “azienda in esercizio”) il “paradigma” dei successivi interventi riformatori in tema di concordato in continuità.

Trattandosi della procedura ispirata espressamente alle “finalità conservative del patrimonio produttivo” (art. 1, d. lgs. n. 270/1999), non sorprende il fatto di trovarvi prescritte, per la prima volta, le “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali” (art. 27, c. 1): requisito qui richiesto ai fini del passaggio dalla fase giudiziale a quella “amministrativa” della procedura e successivamente ispiratore di svariate disposizioni di legge, inclusa, da ultimo, quella sui presupposti della composizione negoziata.

È particolarmente significativo che proprio nell’ambito di una disciplina che, in presenza dell’anzidetta condizione, tutela ex professo la prosecuzione dell’attività e con essa i livelli occupazionali sia nondimeno contemplata la conversione in fallimento (oggi liquidazione giudiziale) tutte le volte in cui, in qualsiasi momento nel corso della procedura, la stessa – recita l’art. 69, c. 1 – “non può essere utilmente proseguita”. Il che a ben vedere rappresenta l’altra faccia della medaglia del requisito di ammissione all’amministrazione straordinaria ex art. 27: come questa non può essere aperta in assenza delle concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico, così la procedura deve cessare se e quando siffatte prospettive vengono conclamatamente meno.

Non è quindi un caso che il legislatore del codice della crisi, consapevole dei fenomeni economici sottostanti al problema, abbia stabilito, all’art. 3, c. 3, che le misure idonee a rilevare tempestivamente la crisi e gli adeguati assetti aziendali devono consentire di “a) rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore; b) verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi”.

La genericità dell’espressione “utile prosecuzione”, mutuata dal vecchio art. 192 l. fall. sull’amministrazione controllata (abrogata nel 2005), non autorizza peraltro letture estensive del concetto. Deve infatti ritenersi che esso coincida con l’acclarata impossibilità di perseguire proficuamente, a seconda dei casi, gli obiettivi del programma di ristrutturazione o quelli del programma di cessione dei complessi aziendali.

E con particolare riferimento a quest’ultimo, si è condivisibilmente affermato che  la procedura non può essere utilmente proseguita qualora maturi la convinzione che non si possa ottenere la cessione a terzi dei complessi aziendali o la ristrutturazione dell’attività d’impresa, ovvero allorché venga a mancare la copertura finanziaria per la prosecuzione dell’attività di impresa[3], ponendosi in evidenza come il programma di cessione non annoveri invece fra i suoi presupposti il fatto che la prosecuzione dell’attività d’impresa non produca perdite[4].

Ciò che rileva, ai fini dell’applicazione del predetto art. 69, è dunque l’emersione dell’irrealizzabilità delle prognosi contenute nel programma: e per addivenire alla convinzione che l’equilibrio economico non possa venire ripristinato – com’è stato messo in luce – “occorre che sia trascorso un lasso di tempo sufficiente per il graduale recupero di tale equilibrio attraverso la riduzione della redditività negativa”[5]. Il che contempla, una volta di più, la possibilità che per un certo periodo l’impresa in amministrazione straordinaria generi perdite, pur nell’ottica di una successiva correzione di rotta.

 

3. Il concordato preventivo in continuità e la dannosità per i creditori.

Nel regime della legge fallimentare era prevista, notoriamente, la funzionalità della prosecuzione dell’attività d’impresa al miglior soddisfacimento dei creditori, che doveva essere espressamente attestata dal professionista indipendente a ciò preposto (art. 186 bis, c. 2, lett. b), pena l’inammissibilità della domanda concordataria.

Vi era poi una disposizione – l’ultimo comma del predetto articolo – ai sensi della quale, se nel corso di una procedura di concordato in continuità l’esercizio dell’attività fosse cessata o risultata manifestamente dannosa per i creditori, il tribunale doveva procedere alla revoca dell’ammissione al concordato, salva la facoltà del debitore di modificare la domanda. Ed in proposito si era osservato, in dottrina, che “alla cautela iniziale, riferita all’accesso alla procedura di concordato preventivo con continuità aziendale, si contrappone così, a procedura già in corso con quanto ne consegue sull’applicazione della particolare disciplina dettata per il concordato in continuità, un’opposta cautela nel decretare la cessazione dell’attività d’impresa”[6].

Nessuna delle due anzidette previsioni è sopravvissuta al varo del codice della crisi.

Com’è noto, infatti, il requisito del miglior soddisfacimento è stato infatti sostituito da quello di non deteriorità (o neutralità) rispetto al soddisfacimento realizzabile in caso di liquidazione giudiziale (artt. 7, c. 2, lett. c) e 84, c. 1), in aggiunta alla necessità che il piano concordatario, a seconda che sia in continuità o meno, non risulti, rispettivamente, privo di ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza, oppure manifestamente inidoneo a conseguire gli obiettivi prefissati (artt. 7, c. 2, lett. b), 87, c. 3 e 112, c. 1, lett. f).  

Non vi è più traccia, poi, del precetto di cui all’ultimo comma dell’art. 186 bis, l. fall., relativo alla manifesta dannosità dell’esercizio dell’impresa.

E tuttavia occorre immediatamente chiarire che quest’ultima regola deve ritenersi tuttora presente, seppur in forma implicita, nel nuovo ordinamento: non foss’altro in virtù della necessità che la continuità aziendale comporti un soddisfacimento appunto non inferiore a quello ritraibile dalla liquidazione giudiziale, il cui espletamento per definizione non può mai essere dannoso per i creditori.

Ne consegue, come già si diceva in precedenza, che, nel caso di un’impresa che “bruci cassa” all’attualità e il cui piano concordatario, con relativa attestazione, non denoti la fondata probabilità, per fattori endogeni ed esogeni, di invertire questa tendenza, si rischia di incorrere, nel sistema odierno come in quello previgente, in una declaratoria di inammissibilità della domanda.

Come si diceva, l’ultimo comma del vecchio art. 186 bis si riferiva all’ipotesi in cui l’evidente nocività della gestione per i creditori emergesse “nel corso di una procedura” di concordato in continuità. Ciò sembrava riflettere l’id quod plerumque accidit, dal momento che l’inadeguatezza del piano a sanare tale nocività emerge con chiarezza, di regola, a valle dell’ammissione al concordato.

Neppure in passato, peraltro, poteva escludersi che la manifesta dannosità per i creditori venisse rilevata ab initio, cioè in fase di ammissione alla procedura, di regola successiva al “periodo preconcordatario”. Ed invero, analogamente a quanto poc’anzi osservato in tema di amministrazione straordinaria a proposito dell’insussistenza di concrete prospettive di risanamento, ciò che costituiva causa di revoca del concordato ben poteva integrare, nel momento iniziale della procedura, gli estremi dell’inammissibilità della domanda.

Non a caso, una recente decisione di merito che ha fatto applicazione dell’art. 186 bis, u.c., l. fall.,  ha dichiarato inammissibile una domanda di concordato in continuità sulla scorta del rilievo che la prosecuzione dell’attività di impresa si prospettava manifestamente dannosa per i creditori già in sede di domanda. In essa si è affermato che, qualora la nocività per la massa dei creditori della prosecuzione dell’attività di impresa emerga vistosamente persino prima dell’ammissione dell’imprenditore alla procedura di concordato preventivo, detta ammissione non può essere concessa, posto che, se l’andamento manifestamente negativo dell’impresa giustifica, “a valle”, la revoca dell’ammissione al concordato, è giocoforza ritenere che essa ne imponga, “a monte”, l’inammissibilità[7]

Con l’espressione “manifestamente dannoso”, ad ogni modo, la legge previgente collocava molto in alto l’asticella della revoca del concordato basata sulla nocività della gestione in perdita. Tanto è vero che la dottrina aveva immediatamente chiarito, all’indomani dell’introduzione dell’art. 186 bis, che il danno per i creditori dev’essere “manifesto, e cioè deve essere certo che la prosecuzione dell’attività d’impresa cagionerebbe ai creditori un danno maggiore di quello derivante dalla liquidazione dell’attività”[8].

Non si scorgono ragioni per discostarsi da tale conclusione neppure nel nuovo regime, se è vero fra l’altro che per la declaratoria di inammissibilità in limine della domanda di concordato l’art. 7, con formulazione lessicalmente non dissimile, postula – come si diceva – che il piano sia “manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati”.

Una conferma della possibilità di far luogo a una pronuncia siffatta già nella fase iniziale della procedura pare evincersi altresì dall’art. 44, che al c. 1, lett. c), che onera il commissario giudiziale di riferire al tribunale, oltre agli eventuali atti di frode ai creditori, “ogni circostanza o condotta del debitore tali da pregiudicare una soluzione efficace della crisi”: e nel termine “circostanza” può forse farsi rientrare (sebbene la norma risulti diretta anzitutto a sanzionare comportamenti non commendevoli del debitore) la situazione di un’impresa che “bruci cassa” in misura rilevante senza che venga prefigurata una precisa e motivata soluzione al problema entro un determinato (e tendenzialmente contenuto) periodo di tempo, perché ciò può considerarsi pregiudizievole per il superamento della crisi. Purché – si torna a dire – si tratti di un contesto connotato da quella certezza in senso negativo che con la disciplina odierna, al pari di quella previgente, richiede.

 

4. L’esercizio dell’impresa in liquidazione giudiziale e il pregiudizio ai creditori: cenni all’evoluzione della fattispecie (dal codice di commercio al codice della crisi).

La continuazione dell’attività d’impresa dopo il fallimento (oggi liquidazione giudiziale), se a tutta prima può apparire contradditoria nel caso di un soggetto decotto proprio in quan­to incapace di competere sul mercato, è in realtà consustanziale all’insolvenza dell’impresa commerciale, potendo in certi (pur rari) casi risultare necessaria a preservare gli stessi creditori dagli effetti nefasti della perdita dell’avviamen­to e della disgregazione dei complessi produttivi[9]. Non stupisce quindi che questa eventualità fosse espressamente presa in considerazione già nel codice di commercio, il cui art. 750 la subordinava alla circostanza che potesse aver luogo «senza danno dei creditori». E la successiva legge del 10 luglio 1930 ave­va provveduto a rafforzare tale requisito, prescrivendo la riscontrata necessità di evitare «un danno grave e irreparabile ai creditori»[10].

La legge fallimentare del 1942 conteneva, al 1° comma dell’art. 90, un precetto meno chiaro dal punto di vista degli interessi tutelati, là dove stabi­liva che la prosecuzione dell’esercizio d’impresa potesse essere disposta dal tribunale dopo la dichiarazione di fallimento quando dall’interruzione im­provvisa poteva derivare «un danno grave e irreparabile», senza più riferimenti espressi ai creditori.

Questa formulazione, non scevra da oggettive ambiguità, aveva dato luogo ad un annoso dibattito (seppur probabilmente sovradimensionato rispetto alla rilevanza pratica del tema), che ha visto contrapposti quanti facevano coincidere l’interesse protetto con quello dei soli creditori e quanti, forse più correttamente (anche alla luce del testé segnalato mutamento di formulazio­ne letterale rispetto alla disciplina anteriore), ritenevano possibile ricomprendere, accanto alla tutela dei creditori, interessi di soggetti diversi (dipen­denti, clienti, ecc.), nonché l’interesse economico generale[11].

A ben vedere, tanto il tenore della norma quanto la sua presumibile ratio non sembravano consentire di pretermettere completamente ogni interesse diverso da quello del ceto creditorio, pur non potendosi negare il carattere prioritario dí quest’ultimo, data la precipua vocazione della procedura falli­mentare al soddisfacimento dei creditori. Doveva pertanto convenirsi con il rilievo che l’elemento del danno grave e irreparabile andasse «liberamente apprezzato dal tribunale, tenendo conto di tutti gli interessi coinvolti dal fal­limento», pur senza poter «prescindere dai diritti primari ai quali il proces­so esecutivo fallimentare è destinato ad assicurare tutela e perciò i diritti di credito verso il fallito»[12].






Restava nondimeno aperto il problema se la considerazione di questi in­teressi ulteriori rispetto a quelli dei creditori potesse spingersi a consentire, attraverso l’esercizio provvisorio, il mantenimento dei livelli occupazionali o la produzione di beni o servizi di pubblica utilità ogniqualvolta ciò si fosse tradotto in una semplice assenza di pregiudizio per il ceto creditorio, vale a dire in una conservazione del valore dei beni dell’impresa[13].


L’interrogativo, al pari di quello a monte, relativo all’individuazione de­gli interessi protetti, è stato risolto dalla riforma del 2006: il novellato art. 104, al l° comma, contempla infatti l’esercizio provvisorio se dall’interruzione poteva derivare un danno grave, purché non arrecasse pre­giudizio ai creditori.

La norma sembrava invero da interpretare nel senso che il tribunale ben potesse giudicare meritevoli di protezione interessi ulteriori rispetto a quelli dei creditori, ma alla precisa condizione — necessaria e sufficienteche in nessun caso la prosecuzione dell’attività risultasse foriera di danno per costoro.

E pertanto, rispetto al rilievo secondo il quale l’esercizio provvisorio andava disposto nell’ottica di recare vantaggio ai creditori[14], poteva osservarsi che, in realtà, tale iniziativa appariva configurabile ogniqualvolta il tribunale fosse ragionevolmente in grado di escludere, nel momento in cui pronunciava il fallimento, che dalla continuazione dell’impresa potessero scaturire conseguenze pregiudizievoli per le ragioni dei creditori, anche ove questi non fossero destinati a ricavarne un beneficio[15].

Con il codice della crisi la prospettiva muta a favore di un più agevole ricorso all’istituto, coerentemente con la finalità di evitare, per quanto possibile, la disgregazione dei complessi produttivi.

Non è quindi un caso che il nuovo art. 211[16], rubricato “Esercizio dell’impresa del debitore”, esordisca con l’assunto in base al quale, al ricorrere delle condizioni previste nella norma, l’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa.

Rispetto al passato (frutto del decreto correttivo del 2020) la maggiore novità risiede peraltro nel secondo comma, che continua a prescrivere il requisito negativo dell’assenza di pregiudizio ai creditori per effetto della prosecuzione dell’attività, ma non più quello positivo del grave danno derivante dalla sua interruzione. Va dunque condiviso il rilievo che una corretta interpretazione della norma “deve portare a ritenere consentito – in modo coerente con la ratio della modifica – un ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto, piuttosto che una sua riduzione”[17].

In ogni caso, la bussola destinata a orientare la decisione del tribunale è data pur sempre dall’attenta verifica che la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa non arrechi nocumento ai creditori. Se quindi il debitore è stato assoggettato a liquidazione giudiziale a valle di un’inammissibilità della domanda di concordato, o di una revoca della relativa ammissione, basate sulla manifesta dannosità della gestione per i creditori, risulta in concreto assai arduo escludere tale pregiudizio per il sol fatto che la conduzione dell’attività (per l’appunto la stessa attività) passi dall’imprenditore al curatore. Il che val quanto dire che una situazione siffatta è destinata, salvo casi-limite[18], a precludere l’autorizzazione a che il curatore prosegua l’esercizio dell’impresa.

De­ve in conclusione ritenersi, non diversamente dal passato, che la conservazione, anche solo parziale, dei complessi produttivi e dell’occupazione non possa in alcun modo far premio sulla necessità che la prosecuzione dell’attività e la conseguente maturazione di debiti di natura prededucibile non risultino dannose per i creditori, i cui interessi continuano a rappresentare l’oggetto prioritario della tutela approntata dalla norma[19].

A livello generale, d’altronde, rimane tuttora valido il monito secondo cui la soluzione dei problemi dei lavoratori in forza ad imprese fallite va affidata essenzialmente al sistema dei cc.dd. ammortizzatori sociali (oltretutto assai ampio in Italia rispetto ad altri Paesi ad economia avanzata), nel cui ambi­to «le procedure concorsuali non debbono essere ricomprese, né in modo esplicito né surrettiziamente»[20].

 

5. Uno spunto sull’affitto dell’azienda da parte del curatore e sulla deroga al principio di competitività.

Di più frequente verificazione rispetto alla prosecuzione dell’attività da parte del curatore è, notoriamente, l’ipotesi di affitto dell’azienda.

L’art. 212 del codice della crisi consente al giudice delegato, non diversamente dall’art. 104 bis, l. fall., di autorizzare l'affitto dell'azienda del debitore a terzi, anche limitatamente a specifici rami, a condizione che il comitato dei creditori dia parere favorevole e che l’affitto appaia utile al fine della più proficua, successiva, vendita.

Come si vede, in questo contesto la verifica di convenienza/non dannosità per i creditori è affidata al comitato, mentre al giudice spetta accertare la verosimile utilità dell’affitto di azienda nell’ottica di massimizzare poi il realizzo in sede di vendita della stessa.

In base all’esperienza, quest’ultima verifica sortisce esito positivo tutte le volte in cui grazie all’affitto si dislocano in capo all’affittuario i costi del mantenimento “in vita” dell’azienda (che in caso contrario graverebbero – pur temporaneamente – sulla massa dei creditori) e, soprattutto, si valorizza il compendio aziendale in vista della sua collocazione sul mercato, come invariabilmente accade quando i beni (o una parte significativa di essi) sono destinati a perdere valore se il complesso aziendale rimane inerte e inutilizzato.

Anche la nuova disposizione del codice della crisi (art. 212, c. 2), al pari di quella previgente, enuclea quattro elementi su cui il curatore è chiamato a fondare la scelta dell’affittuario: l'ammontare del canone offerto, le garanzie prestate e l’attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali. Risulta quindi opportunamente confermato quell’assetto normativo che attribuisce rilevanza non solo al profilo economico dell’operazione (canone e garanzie), ma anche a quello industriale e occupazionale, tutelando in tal modo interessi altri rispetto a quelli del ceto creditorio.

Lo stesso art. 212, c. 2, richiama, come la già corrispondente previsione della legge fallimentare, la disciplina sulle modalità di liquidazione, in base alla quale le vendite e agli altri atti di liquidazione sono effettuati dal curatore (o dal delegato alle vendite) “tramite procedure competitive” (art. 216, c. 2). Donde la necessaria osservanza del principio di competitività, diretto all’individuazione del miglior affittuario possibile.

Sempre l’esperienza sul campo dimostra tuttavia quale sia l’importanza del fattore tempo nei salvataggi aziendali condotti tramite l’affitto del compendio. Ed infatti, vi sono delle situazioni nelle quali l’espletamento della procedura competitiva risulta incompatibile con un intervento immediato, che proprio in quanto tale è idoneo a perseguire al meglio l’interesse dei creditori e gli altri interessi protetti dalla legge.

Sono per l’appunto le comprovate ragioni di urgenza, d’altronde, ad aver indotto parte della giurisprudenza di merito, in materia di affitto d’azienda nel concordato preventivo, a derogare all’obbligo di gara di cui al vecchio art. 163 bis, considerandole preminenti rispetto alle esigenze sottese alla competitività[21].

Orbene, se ciò è considerato ammissibile con riguardo al concordato preventivo, non sembra debba opinarsi diversamente, pur al cospetto delle differenti formulazioni normative, nel caso di liquidazione giudiziale: sempre che – si torna a dire – l’affitto in via d’urgenza senza gara risponda ai già ricordati requisiti della congruità del canone e delle garanzie, nonché dell’attendibilità del piano industriale, avuto riguardo al mantenimento (integrale o parziale) dei livelli occupazionali; e che – merita aggiungere – abbia una durata ragionevolmente contenuta, giacché scopo ultimo dell’operazione resta pur sempre la vendita all’asta del compendio aziendale. Non a caso, la più recente giurisprudenza di merito si è orientata precisamente in tal senso, dopo aver verificato in concreto “la sussistenza di condizioni di assoluta urgenza”[22].

L’interessante decisione testé menzionata conferma una volta di più – ove ancora ve ne fosse bisogno – l’importanza di un approccio, da parte della giurisprudenza, teso a cogliere, con opportuno pragmatismo e “coraggio” interpretativo, le opportunità di salvataggio quando esse sono, realmente, caratterizzate da serietà di intenti e da solidità economica e industriale degli interlocutori: quando cioè, in una parola, il proverbiale “cavaliere bianco” (talora purtroppo tendente al grigiastro…) si rivela davvero tale.


(*) Il presente contributo è destinato alla seconda edizione del volume Diritto delle imprese in crisi, in corso di pubblicazione per i tipi di Pacini Giuridica.

[1] Bastia, Gestione della crisi e piani di risanamento aziendali, Milano, 2022, 2, il quale rileva, per converso, che la condizione di equilibrio “si concretizza nell’attitudine dell’impresa a produrre con continuità un flusso di redditi adeguatamente “soddisfacenti” relativamente al settore, alle condizioni di mercato e alle aspettative degli investitori, in una visione prospettica ed evolutiva. La redditività positiva rappresenta inoltre la fonte di autofinanziamento in senso stretto (inteso come destinazione di utili al consolidamento del patrimonio netto), in grado di consentire dinamiche di sviluppo virtuose, limitando la dipendenza dal debito ed evitando implicazioni sugli assetti proprietari (esigenze di nuovi apporti)”

[2] Bastia, cit., 3, il quale precisa: “Pesa molto, nella valutazione, anche la prospettiva, attuale e futura, di possibili interventi sul capitale da parte dei soci attuali o di altri potenziali, sia a copertura della presente perdita, sia a rafforzamento della consistenza del patrimonio netto, specialmente tenendo presente la destinazione e la progettualità degli apporti: a rimborso del debito, per investimenti destinati alla ristrutturazione, per modifiche negli assetti di corporate governance e nel management aziendale, ecc.”.

[3] Gambino, Le procedure concorsuali minori: prospettive di riforma e la rinnovata amministrazione straordinaria, in Fall., 2000, 5, richiamato da De Vitiis, sub art. 69 d.lgs 270/99, in Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2013, 1847.

[4] Gambino, op. loc. cit.; Gualandi, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, in Bertacchini – Gualandi - G. Pacchi - S. Pacchi - Scarselli, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2011, 613.

[5] De Vitiis, op. loc. cit.

[6] Maffei Alberti, sub art. 186 bis, in Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alla legge fallimentare, cit., 1330.

[7] Così Trib. Brescia, 24 novembre 2022, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 22 dicembre 2022, ove il Tribunale ha accertato la manifesta inattitudine del piano concordatario a raggiungere gli obiettivi prefissati è stata accertata alla luce di diversi fattori: “il piano industriale, rispetto alla prosecuzione dell’attività, non prevedeva alcun intervento di “rottura” rispetto ad assetti produttivi e organizzativi, precedentemente dimostratisi inidonei a generare redditi futuri; il conto economico evidenziava come, per tutta la durata della procedura e ancora all’esito della stessa, l’andamento della propria attività sarebbe stato comunque connotato da un Ebitda di segno negativo, a conferma dell’incapacità della debitrice di non produrre altro se non perdite; si erano già registrati scostamenti negativi fra le previsioni del piano industriale e le effettive rilevazioni societarie e la stessa relazione commissariale evidenziava una situazione della proponente non già di semplice tensione finanziaria ma di vera e propria incapacità sistematica di adempiere alle proprie (crescenti) obbligazioni; l’intervento della società terza accollante non sarebbe stata risolutivo, attese le molteplici criticità insite nelle   condizioni sospensive cui risultava sottoposto il suo sostegno”.

[8] Maffei Alberti, cit., 1330 (corsivo aggiunto). Di “manifesto pericolo” (e quindi con un approccio, parrebbe, più rigoroso) parla Trib. Brescia, 24 novembre 2022, cit., evidenziando il rischio che “la prosecuzione dell’attività d’impresa da parte della proponente non si traduca in altro se non in un aggravamento del dissesto e in un pregiudizio per il creditore non risulta concretamente riassorbito, né riassorbibile con ragionevole certezza, grazie al pianificato intervento dell’accollante”.

[9] Il lavoro monografico più completo in materia resta quello di Rivolta, L’esercizio dell'impresa nel fallimento, Milano, 1969, cui adde, assai più di recente, Fimmanò, La gestione dell’impresa nell’ambito del fallimento, in Jorio – Sassani (diretto da), Trattato delle procedure concorsuali, III, Milano, 2016, 89 ss.

[10]In argomento cfr. Brunetti, Diritto fallimentare, Roma, 1932, 541; Navarrini, Trattato di diritto fallimentare, II, Bologna, 1934, 62.

[11]Sul punto, oltre al citato volume di Rivolta, v., fra gli altri, Provinciali, La conti­nuazione dell’impresa del fallito, in Dir. fall., 1972, I, 405 ss.;Andolina, Liquidazione dell’attivo ed esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento, ivi, 1978, I, 181; Cavalaglio, L’esercizio provvisorio dell’impresa nel fallimento (profili funzionali), in Giur. comm., 1986, I, 234.

[12]Vassalli, Diritto fallimentare, II, 2, Torino, 2002, 149.

[13] Ambrosini, L’amministrazione dei beni, l’esercizio provvisorio e l’affitto di azienda, in Ambrosini – Cavalli – Jorio, Il fallimento, in Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, vol. XI, 2, Padova, 2009, 525.

[14]Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 419.

[15]Fra gli altri, Censoni, Custodia e amministrazione delle attività, in Bonfatti-Censoni, Manuale di Diritto fallimentare, Padova, 2007, 93; L. Mandrioli, La liquidazione dell’attivo e l’esercizio provvisorio dell’impresa, in La riforma organica del­le procedure concorsuali, acura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, 428-429; Ambrosini, op. cit., 526.

[16] In argomento, da ultimo, Leuzzi, L’esercizio dell’impresa del debitore, in Dirittodellacrisi.it, 16 Marzo 2023.

[17] Farolfi, sub art. 211, in Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022, 1053.

[18] Si può forse immaginare, in linea per vero più teorica che pratica, una serie di interventi così rapidi e incisivi da parte del curatore (in precedenza non effettuati né pianificati dal debitore) da consentire all’impresa di bloccare la generazione di perdite riprendendo a produrre utili.

[19]Sulla gestione dell’impresa nel fallimento si vedano i lavori monografici di Pasquariello, Gestione e riorganizzazione dell'impresa nel fallimento, Milano, 2010 e di A. Rossi, Il valore dell'organizzazione nell'esercizio provvisorio dell'impresa, Milano, 2013, nonché Fimmanò, La gestione dell’impresa nell’ambito del fallimento, cit., 29 ss..

[20]Così Jorio, Le crisi d'impresa. Il fallimento, in Judica - Zatti, (diretto da), Tratt. dir. priv., Milano, 2000, 65.

[21] Trib. Bergamo, 23 dicembre 2015, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 14015; Trib. Roma, 3 agosto 2017, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 18039; Trib. Bergamo, 9 marzo 2021, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 254691; Tribunale Brescia, 27 maggio 2021, in Il Caso.it, Sez. Giurisprudenza, 25458,

[22] Trib. Brescia, 30 dicembre 2022, inedito, che ha autorizzato il curatore a stipulare, senza previa gara, un “contratto di affitto di azienda […] a condizioni sostanzialmente conformi a quelle riportate nell’istanza medesima e nella bozza contrattuale in allegato […], previo rilascio di garanzia in forma anch’essa sostanzialmente conforme a quella di cui all’allegato […], autorizzando altresì, sin d’ora, la concessione del diritto di prelazione in caso di procedura competitiva per la stipulazione di un nuovo contratto di affitto”.