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Adeguatezza degli assetti e procedura d’allerta: i solvency tests della giurisprudenza statunitense come tentativo di quadratura del cerchio


Serena Maurutto e Alessandro Turchi

Data pubblicazione
20 luglio 2021

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Sommario: 1. Premessa 2. L’adeguatezza degli assetti 3. I parametri di allerta e il pilastro portante degli adeguati assetti 4. Le criticità sussuntive del sintagma “adeguatezza degli assetti” 5. Il Balance Sheet Test nella giurisprudenza e l’approccio preventivo della diagnosi in Zone of Insolvency 6. Conclusioni


1. Le previsioni contenute nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in materia di procedure di allerta finalizzate all’emersione tempestiva dello stato di dissesto aziendale, si sono dimostrate uno dei temi più qualificanti e, nel contempo, controversi e dibattuti dell’attuale processo di riforma del diritto fallimentare e, probabilmente, uno dei principali motivi di un processo che a tutt’oggi rimane ancora incompiuto.

Ne è prova l’altalenare dei testi che si sono succeduti, a partire dai lavori della Commissione ministeriale presieduta da Renato Rordorf alla legge delega 19 ottobre 2017 n. 155, fino allo schema di decreto legislativo delegato nel testo approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri il 10 gennaio 2019, divenuto D. Lgs. 12 gennaio 2019[1] , n. 14, pubblicato in G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019, Suppl. ord. n. 6, recante il nuovo “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n. 155” (d’ora in avanti, per brevità “CCII”) che, dopo l’emanazione del decreto correttivo e integrativo - D. lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 - è, ancora una volta, divenuto oggetto di rimessaggio dalla Commissione guidata dal Ministro Cartabia, che ne ha ulteriormente differito la completa e definitiva entrata in vigore[2] . Lo scorso aprile, infatti, il Ministro della giustizia, attraverso decreto, ha nominato una commissione di esperti, cui è stato affidato il compito di elaborare e valutare proposte per interventi sul Codice della crisi, soprattutto per far fronte alle difficoltà delle imprese emerse a seguito dell'emergenza da Covid-19. La commissione provvederà, in particolare, alla valutazione del differimento dell'entrata in vigore di determinate norme contenute nel Codice della crisi, alla formulazione di proposte in merito all'integrazione dello stesso in attuazione della direttiva 2019/1023/Ue (riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione) e alla formulazione di proposte di modifica, anche in via temporanea, di alcune norme del Codice in relazione all'emergenza sanitaria in corso.

Pur nell’avvicendarsi di edizioni e riedizioni, la questione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa rimane fondamentale spinta propulsiva della riforma: assurta a finalità generale dall’art. 3 dello schema del D. Lgs. delegato recante il Codice della crisi e dell’insolvenza, nella versione preliminare del 28 febbraio 2018, diviene nell’ultima versione del testo normativo un preciso ed espresso dovere del debitore, sia che si tratti di impresa individuale, che «deve adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte» (art. 3, comma 1), sia che si tratti di impresa in forma societaria, che «deve adottare un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative»[3].

In questo contesto, dunque, assetti societari adeguati e tempestiva emersione della crisi rappresentano in un certo modo “due facce della stessa medaglia”[4]. Ad esempio, gli indicatori della crisi, di cui si accennerà nel proseguo dello scritto, presuppongono un’organizzazione contabile strutturata e ordinata, in grado di fornire indicazioni attendibili sulle reali prospettive di continuità dell’impresa e sull’effettiva capacità della stessa di adempiere alle obbligazioni assunte in un determinato arco temporale. Allo stesso modo, le attività di programmazione, pianificazione, monitoraggio e controllo di gestione, che consentono una prevenzione utile e funzionale all’individuazione tempestiva dei sintomi della crisi e all’adozione degli opportuni rimedi, sono rese possibili unicamente a fronte della preliminare istituzione di adeguati assetti contabili.

Se l’assetto adeguato diviene l’elemento portante e indefettibile del generale sistema di prevenzione della crisi, i parametri di allerta rappresentano lo strumento specifico di controllo dell’effettivo stato di salute dell’impresa.

A dispetto della preponderante caratterizzazione del processo di early warning nel neonato diritto della crisi d’impresa, la concreta applicazione del medesimo si rivela alquanto dubbia e colma di criticità.

Le difficoltà sorgono sia in relazione alla connotazione del criterio di adeguatezza degli assetti individuato nell’art. 2086 c.c., sia nell’utilizzo dei parametri di allerta alle imprese del nostro contesto microeconomico, oggi fortemente colpito dalle conseguenze prodotte dalla crisi sanitaria[5].

Il presente lavoro propone una coloritura dei contenuti della procedura di allerta e una definizione del perimetro sbiadito della stessa attraverso l’utilizzo della tecnica interpretativa comparata e, in particolare, con l’ausilio dell’esperienza maturata nell’ambito delle corti statunitensi.

 

2. Il concetto di adeguatezza[6], pur trovando ampio spazio di applicazione in differenti ambiti del diritto scritto e pronunciato, sia a livello primario che nel contesto della soft law, non è affatto riconducibile ad unità di significato. Se tra le motivazioni che si pongono alla base dell’opacità del perimetro semantico che racchiude il concetto, può senz’altro citarsi la diversa finalità cui nei differenti contesti regolamentativi lo stesso è deputato, così come non va omesso di considerare l’oggetto di comparazione verso il quale deve essere misurato. Tuttavia, non per questo dobbiamo rinunciare a definire contorni applicativi più netti, in modo da non condannarlo ad un mero esercizio di stile, privo di utilità pratica e, conseguentemente, vittima di un’eccessiva libertà di interpretazione dei soggetti cui è preposto il giudizio su di esso, vanificando così l’intento lodevole del legislatore del Codice della crisi.

Nel contesto specifico che in questa sede ci occupa, il novellato testo dell’art. 2086 c.c. attribuisce all’amministratore «il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale […]».

L’adeguatezza degli assetti organizzativi[7] è correlata, da un lato, al principio di proporzionalità secondo cui deve essere tale in relazione alle caratteristiche specifiche dell’impresa (natura e dimensioni), dall’altro è funzionale al precoce riconoscimento delle cause della crisi e delle minacce alla continuità aziendale e deve, in tal senso, fungere da meccanismo di pre-allerta (c.d. early warning) necessario ad attivare in modo tempestivo gli opportuni rimedi[8].

E tuttavia, quella che dovrebbe essere un’attenuante per l’adeguatezza degli assetti, o quanto meno un’indicazione che getta un faro di luce sulla misura della stessa, in assenza di ulteriori specificazioni diventa facile bersaglio delle più creative tra le interpretazioni. Ciò può assumere le sembianze di un’aggravante concreta, o quantomeno di un potenziale pregiudizio, quando la misura di tale adeguatezza diventa oggetto di valutazione nel contesto di uno stato di crisi in cui un eventuale sindacato negativo pone in primo piano il tema della responsabilità degli amministratori ex art 378 CCII.

Il rischio di tale deriva appare in tutta la sua drammatica evidenza se solo si riflette sul fatto che, in mancanza di un modello definito espressamente attraverso elementi fondamentali che chiariscano l’opaco binomio adeguatezza-proporzionalità, il compito interpretativo sarà, ancora una volta, rimesso alla sensibilità, rectius creatività, del giudice.

 

3. Se il tema dell’adeguatezza presenta, come brevemente accennato, problematiche di evidente rilevanza sussuntiva, altrettante criticità emergono in conseguenza delle prove di applicazione dei parametri di allerta ai prospetti contabili aziendali.

Al Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili è stato affidato il compito di elaborare con cadenza triennale un cruscotto di indicatori funzionali a rilevare lo stato di salute dell'impresa e ad attivare le procedure di allerta[9].

In tal senso, si è in presenza di una presumibile crisi aziendale nel caso in cui il patrimonio netto di un’impresa risulti inferiore a zero, oppure se il Debt Service Coverage Ratio (DSCR), che misura la capacità del flusso di cassa generato dall'impresa di ripagare il servizio del debito, sia inferiore all’unità.

Se per la prima rilevazione nulla quaestio, tuttavia non si può non sollevare il fatto che per calcolare il DSCR, siano necessari sistemi di tesoreria che sono quasi sempre assenti nelle imprese italiane, pur essendo indispensabili per auto-valutarsi, verificare lo stato di salute dell'impresa e avviare una pianificazione finanziaria.

Tralasciando le eventuali responsabilità connesse alla mancata adozione di adeguati assetti, laddove non sia possibile calcolare il DSCR, è consentito di verificare lo stato di tensione attraverso il computo di cinque indici di bilancio: se l'impresa manifesta difficoltà, ovvero se i suoi indicatori superano congiuntamente una certa soglia, si presume uno stato di crisi. I cinque indici individuati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti sono: Oneri finanziari su fatturato; Patrimonio netto su debiti; Liquidità a breve termine; Cash flow su attivo; Indebitamento previdenziale e tributario su attivo.

Tuttavia, al di là della difficoltà pratica di utilizzo coerente del cruscotto di indicatori, e di rilevante e significativa assunzione dei relativi computi, anche laddove efficacemente e correttamente applicati, è emerso che allo stato attuale oltre 140 mila aziende, il 20% del totale, risulterebbero in crisi[10].

Oltre ai numeri sopra esposti, si ritiene opportuno effettuare un’ulteriore osservazione. La segnalazione derivante dall’attivazione dei parametri di allerta è finalizzata a richiamare l’imprenditore all’obbligo di tempestiva rilevazione della crisi, al quale, tuttavia, avrebbe già dovuto condurlo un assetto organizzativo adeguato a norma del riformulato art. 2086, c.c. Infatti, il nuovo istituto di allerta introdotto dal legislatore del Codice della crisi rappresenta un sistema di incentivi alla rilevazione anticipata ed all’efficiente gestione della crisi per chi vi ricorra adottando alla base gli adeguati assetti societari, come disposto dal novellato art. 2086 c.c.; mentre rappresenta un sistema disincentivante per chi, invece, vi accede in ritardo e senza la previa adozione di adeguati assetti societari.

Nonostante non sia questa la sede per esaminare nel dettaglio gli obblighi di segnalazione posti a carico di specifici soggetti nell’ambito del meccanismo di allerta, non si può non sottolineare come quest’ultimo sia strettamente legato all’obbligo di istituire adeguati assetti gestionali e, in seconda istanza, come - considerando che l’attività del collegio sindacale si sostanzia in un controllo di secondo livello sull’attività degli amministratori e, più in generale, sull’andamento della gestione aziendale – risulti evidente che, qualora l’imprenditore abbia effettivamente istituito gli adeguati assetti a norma del riformulato art. 2086 c.c., gli amministratori dovrebbero essere avvertiti dei sintomi della crisi ben prima rispetto all’intervento dell’organo di controllo. Non solo. Anche laddove lo stato di allerta sia introdotto a seguito di segnalazioni di creditori pubblici qualificati, in relazione a ritardi nei pagamenti di tributi e contributi di notevole entità, un adeguato assetto contabile ed amministrativo si rivelerebbe un idoneo strumento di prevenzione. In questo senso, dunque, gli adeguati assetti rappresentano il pilastro portante del meccanismo di allerta affinché quest’ultimo possa raggiungere l’obiettivo di consentire alle imprese sane, in uno stato di (temporanea) difficoltà, di intercettare tempestivamente i fondati indizi di crisi, evitando che quest’ultima si tramuti in insolvenza irreversibile, la cui unica soluzione è rappresentata dalla liquidazione giudiziale (oggi ancora fallimento). È evidente, quindi, che il più efficace strumento di allerta è costituito dalla definizione di adeguati presidi organizzativi, amministrativi e contabili.

Come noto e anticipato in precedenza, il legislatore del Codice della crisi ha individuato al comma primo dell’art. 13 CCII due specifici indicatori di distress, in presenza dei quali, sia l’organo amministrativo sia l’organo di controllo, ciascuno in base alle rispettive competenze, sono tenuti ad intraprendere le necessarie e idonee iniziative. I primi sono squilibri di carattere reddituale, patrimoniale e finanziario individuabili attraverso specifici indici individuati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed esperti contabili. I secondi, invece, consistono in reiterati e significativi ritardi nei pagamenti delle obbligazioni aziendali. Se da un lato è indubbio che gli indicatori della crisi rappresentino un elemento fondamentale dell’emersione anticipata della crisi, come prospettato dal legislatore, è altrettanto corretto ritenere che gli stessi non possano essere efficaci se non accompagnati dagli adeguati presidi organizzativi, dai quali dipendono l’individuazione, confezionamento e valutazione di flussi informativi specifici. Infatti, come opportunamente evidenziato in dottrina[11], gli indici di cui all’art. 13 CCII, attengono a profili strettamente connessi con la necessità di un’organizzazione aziendale strutturata ed efficiente, la sola ad essere in grado di fornire indicazioni attendibili, specialmente in una situazione di difficoltà, sulle reali prospettive di continuità dell’impresa e sull’effettiva sostenibilità dell’indebitamento.

Anche sul piano normativo, dunque, si prende atto che tanto quanto il momento della crisi e della possibile perdita del going concern rappresenta una fase fisiologica della vita delle imprese, allo stesso modo soltanto attraverso l’istituzione di adeguati assetti, l’imprenditore è in grado di monitorare efficacemente l’insorgere di indicatori di tale fenomeno fisiologico e di evitarne la degenerazione attraverso una reazione tempestiva.

 

4. A seguito della breve disamina effettuata, emergono con chiarezza una serie di tematiche, ciascuna di per sé problematica e bisognosa di approfondimento, in relazione alle quali sorgono interrogativi che restano ancora in attesa di trovare risposta.

Da questi si possono disegnare le seguenti più circostanziate domande: i) quali siano gli indizi o indicatori della crisi, il cui rilievo faccia scattare l’allarme e, conseguentemente, attivare le iniziative necessarie per porvi rimedio; ii) quali possano essere gli strumenti di rilevazione dei suddetti indizi, ovvero se, ad esempio, potrebbe rivelarsi idonea la scelta di fornirsi di moduli organizzativi con obblighi di ricognizione e denuncia in capo a organi di controllo interno, ovvero anche oneri in capo a creditori qualificati; iii) quali siano i meccanismi o i processi attraverso cui trasformare le rilevazioni ottenute in processi concretamente adatti a fronteggiare la crisi.

Un primo tentativo di disambiguazione porta necessariamente a considerare che l’adeguatezza di qualsiasi organizzazione non può essere soltanto una mera necessità di efficacia aziendale, ma deve diventare l’oggetto di un obiettivo da perseguire e da misurare in chiave dinamica.

Sotto il primo profilo, l’adeguatezza di una struttura organizzativa e delle procedure di gestione va intesa come idoneità – in termini generali – a perseguire gli obiettivi tempo per tempo assegnati.

Diversamente, l’efficacia di una struttura organizzativa e di una procedura di gestione attiene alle modalità concrete del loro funzionamento e alla capacità delle stesse di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Così definiti i concetti di adeguatezza ed efficacia, è utile comprendere se la correlata verifica periodica richiesta nello specifico dal Protocollo riguardo ad essi possa essere d’aiuto per una loro ulteriore caratterizzazione.

La verifica dell’adeguatezza, proprio perché connessa al funzionamento complessivo della struttura e delle procedure, richiede che venga effettuata periodicamente attraverso un monitoraggio che ne attesti la rispondenza nel tempo alle modalità di perseguimento delle finalità, che, a loro volta, si evolvono al pari del contesto operativo e normativo di riferimento.

La verifica dell’efficacia, invece, assume un connotato più operativo e mirato e si concretizza nell’accertare puntualmente che la struttura nelle sue articolazioni operative e procedurali sia correttamente esercitata.

Dal punto di vista gestionale, potrebbero rivelarsi coerenti con gli obiettivi anche alcune raccomandazioni di carattere generale quali, a mero titolo esemplificativo, l’attenzione alla diversificazione degli investimenti, alla qualità del cruscotto di risorse finanziarie esterne, al livello di patrimonializzazione e delle sue variazioni, alla proporzione tra compensi attribuiti ai membri della governance livelli di patrimonio e di reddito.

 

5. Strumento che potrebbe verosimilmente fungere da supporto concreto nella definizione delle procedure e delle modalità da seguire per risolvere, o quanto meno ridurre, le criticità delineate nel paragrafo precedente, deriva dalla prassi delle corti statunitensi e si identifica, in particolare, nei cosiddetti solvency tests.

Essi possono essere definiti come strumenti cui è attribuita, in generale, la funzione di aumentare, ex ante, la capacità d'indebitamento da parte del soggetto che accede al credito, proteggendo i creditori, ex post, dalle attività che potrebbero compromettere il loro interesse. Ad esempio, gli statutes – sia federali che statali – in materia di trasferimento fraudolento, vietano la cessione di beni da parte di debitori in stato d'insolvenza per un valore inferiore al reasonably equivalent value ovvero al fair value[12], nonché alle imprese in stato d'insolvenza di compiere atti tesi a favorire alcuni creditori rispetto ad altri[13].

Ancora nell’ambito della normativa societaria d’oltreoceano dei solvency tests, non è consentito alle imprese in stato d'insolvenza di pagare dividendi o di riscattare il proprio capitale azionario e, in alcuni Stati, incluso il Delaware, è concesso ai creditori delle imprese in stato d'insolvenza la possibilità di intervenire sul rapporto fiduciario tra gli amministratori e la società.

Appare evidente come previsioni normative di simile portata garantiscano una significativa protezione agli interessi dei creditori e, in tal senso, lo status di oggettiva insolvenza (o di quasi insolvenza) traccia un confine netto tra i trasferimenti che possono essere effettuati a titolo gratuito e quelli che devono essere effettuati ad un congruo prezzo.

In sintesi, possiamo affermare che per il diritto statunitense vi sono operazioni che un'impresa può compiere liberamente qualora non vi siano sintomi di crisi, mentre non altrettanto è concesso alla stessa impresa che versi in condizioni d'insolvenza. Ne consegue che la restrizione della sfera di attività societaria influisce in maniera significativa sulla capacità d'indebitamento dell’impresa in crisi e, detto in altri termini, nella sua libertà di pregiudicare il diritto dei propri creditori a vedersi ripagati i propri crediti.

La funzione dei solvency tests si rinviene nel bilanciamento degli effetti dei presidi normativi a tutela dei creditori – limitando, come si è visto, in determinate circostanze, la libertà privata di trasferimento di beni da parte della società – con i costi imprenditoriali fisiologicamente connessi al divieto ex ante di operazioni societarie.

La giurisprudenza americana inquadra il concetto di solvibilità delle imprese come una questione di fatto o, alternativamente, come una «questione combinata di fatto e di diritto»[14]. In ogni caso, tutti i meccanismi utilizzati allo scopo di misurare lo stato di insolvenza valutano, attraverso l’analisi di elementi differenti, se la società sia, o meno, in grado di far fronte ai propri debiti.

L’ordinamento statunitense conosce tre diversi solvency tests: i) l'ability to pay test, (o cash flow test) che ha l’obiettivo di verificare se la società sia ragionevolmente in grado di adempiere alle obbligazioni mano a mano che esse diventano esigibili; ii) il balance sheet test, applicato sia nel contesto di continuità aziendale che in ambito liquidatorio, allo scopo di misurare la capienza del patrimonio sociale rispetto al totale del monte debiti; iii) il capital adequacy test, parametro di stima connesso, in termini molto generici, all’adeguatezza patrimoniale della società[15].

Definiti e applicati non tanto nell’ambito di procedure fallimentari, ove lo stato di insolvenza e di irreversibilità della stessa sono conclamati, ma in una fase preventiva, di gestione anticipata della crisi aziendale, i solvency tests si rivelano più che mai in relazione al dettato del 2086, comma secondo, c.c. quali esempi utili a definire il perimetro di funzionalità dell’adeguatezza degli assetti rispetto alla diagnosi precoce al trattamento della crisi medesima.

Essi, nell’ordinamento statunitense, rappresentano infatti l’epicentro di un complesso spettro di rapporti societari, nonché uno dei punti di equilibrio del peculiare paradigma anglosassone della limited liabilty.

È evidente come i test di insolvenza siano strumenti attraverso i quali è possibile realizzare il passaggio concreto dalla rule allo standard, dalla fattispecie generale e astratta del 2086 agli assetti concretamente adeguati della società la cui governance, ad esempio, proprio grazie al ricorso di tale strumento, potrebbe realizzare effettivamente l’anelato proposito di tutela, in particolare regolamentando la distribuzione dell’attivo e determinando l’interruzione dell’attività a protezione del patrimonio residuo[16].

Di estremo interesse risultano, infine, le strategie che la giurisprudenza statunitense suggerisce a contrasto dell’inevitabile e progressivo insorgere dei costi di agenzia, a mano a mano che la società si avvicina alla c.d. “zone of insolvency”.

La prima strategia consiste nell'ampliamento soggettivo dello spettro di interessi cui l'azione della governance deve orientarsi in situazione di insolvenza, che dovrebbe includere non soltanto quelli dei creditori, ma anche degli altri stakeholders. Fermo restando che, evidentemente, la questione del potenziale conflitto di interessi tra creditori e soci resta rimessa al business judgement degli amministratori, tanto che a questi ultimi conviene in ogni caso agire nell’ottica di massimizzare il valore della società, indipendentemente dagli eventuali vantaggi individuali delle due diverse categorie.

La seconda strategia prevede l’attribuzione ai creditori della legittimazione attiva – seppure in via derivativa, se si eccettua la particolare situazione del rifiuto di pagamento del debito da parte dell’amministratore – per le azioni di responsabilità degli amministratori, attraverso il tipico strumento ex post degli standard fiduciari. La chiave di lettura, in ogni caso, resta la business judgment rule che anche nella c.d. zone of insolvency, nonostante la delicatezza degli interessi e delle categorie coinvolte, presidia la legittimità dell’operato dell’amministratore, informato e disinteressato, che abbia agito in buona fede.

 

6. Sebbene soggetta a continue edizioni e riedizioni, la questione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa costituisce la fondamentale spinta propulsiva della riforma. Infatti, la stessa diviene nell’ultima versione del testo normativo un preciso ed espresso dovere del debitore, sia che si tratti di impresa individuale sia che si tratti di impresa in forma societaria.

Se l’assetto adeguato diviene l’elemento portante e indefettibile del generale sistema di prevenzione della crisi, i parametri di allerta rappresentano, invece, lo strumento specifico di controllo dell’effettivo stato di salute dell’impresa.

A dispetto della preponderante caratterizzazione del processo di early warning nel neonato diritto della crisi, la concreta applicazione del medesimo si rivela alquanto dubbia e problematica. Le difficoltà sorgono sia in relazione alla connotazione del criterio di adeguatezza degli assetti individuato nell’art. 2086 c.c., sia nell’utilizzo dei parametri di allerta alle imprese del nostro contesto microeconomico, oggi fortemente colpito dalle conseguenze prodotte dalla crisi sanitaria.

Sebbene il concetto di adeguatezza degli assetti sia difficilmente riconducibile ad unità di significato, non dobbiamo rinunciare a definire contorni applicativi più netti, in modo da non condannarlo ad un mero esercizio di stile, privo di utilità pratica e, conseguentemente, vittima di un’eccessiva libertà di interpretazione dei soggetti cui è preposto il giudizio su di esso, vanificando così l’intento lodevole del legislatore del Codice della crisi di favorire l’emersione anticipate di situazioni di squilibrio economico-finanziario.

Uno strumento che potrebbe verosimilmente fungere da supporto concreto nella definizione delle procedure e delle modalità da seguire per risolvere, o quanto meno ridurre, le criticità delineate nello scritto, deriva dalla prassi delle corti statunitensi e si identifica, in particolare, nei cosiddetti solvency tests. Questi costituiscono strumenti attraverso i quali è possibile realizzare il passaggio concreto dalla rule allo standard, dalla fattispecie generale e astratta del 2086 agli assetti concretamente adeguati della società la cui governance, ad esempio, proprio grazie al ricorso a tale strumento, potrebbe realizzare effettivamente la tutela dei creditori, in particolare regolamentando la distribuzione dell’attivo e determinando l’interruzione dell’attività a protezione del patrimonio residuo.



[1] A sua volta, il decreto legislativo è stato preceduto da numerose riedizioni: nel 2017, nell’originaria stesura consegnata al Ministro della Giustizia dal Presidente della Commissione ministeriale, cons. Renato Rordorf; nel febbraio 2018, nell’edizione con lievi modifiche accompagnata dalla bozza delle relazioni, articolo per articolo, ai due decreti legislativi; nell’ottobre 2018, nella versione licenziata dal Ministero della Giustizia ai due Ministeri dello Sviluppo economico e dell’Economia; del 14 novembre 2018, nel testo trasmesso dal Governo al Parlamento per il parere delle Commissioni competenti.

[2] Imputato ufficialmente il ritardo al dilagare della pandemia del Covid-19, l’entrata in vigore dell’intero codice della crisi è stata posticipata al 21 settembre 2021 generando quella che i commentatori non hanno tardato a definire come “la riforma della riforma”. Autorevole contributo sul rinvio dell’entrata in vigore del Codice della crisi e dell’insolvenza è stato offerto da L. PANZANI, M. ARATO, Il codice della crisi: un rinvio o un addio?, www.ilcaso.it., ottobre 2020.

[3] Con il Codice della crisi, mediante la pocanzi citata integrazione al Codice Civile, la nozione di adeguati assetti, peraltro già presente nell’ordinamento civilistico a seguito della riforma del diritto societario del 2003 – per le sole S.p.a. (prima della riforma del CCII) - in forza del combinato disposto di cui agli artt. 2381 e 2403, cod. civ., assurge ora a paradigma comune a tutti i tipi societari e, quindi, oltre alle società di capitali unipersonali, le società di persone, incluse quelle non commerciali e quelle non formalmente imprenditoriali, come le associazioni, le fondazioni ed i consorzi dediti in concreto allo svolgimento dell’attività di impresa. Così, S. AMBROSINI, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, in www.ilcaso.it, ottobre 2019, p. 2. Sebbene l’intervento normativo del legislatore del Codice della crisi abbia espressamente sancito che l’obbligo di dotarsi di adeguati assetti si estenda a tutti i tipi societari, va detto che già in precedenza la dottrina si era orientata in tal senso. Infatti, si riteneva che, specialmente in situazioni di crisi, valeva già l’assunto in base al quale possa configurarsi una responsabilità dell’amministratore che, o per inadeguatezza dell’assetto contabile ed organizzativo o per la mancata adozione di provvedimenti prescritti dalla legge in presenza di determinati presupposti, abbia adottato un comportamento non coerente con il manifestarsi dei sintomi di crisi ed abbia quindi concorso ad aggravare il danno. Così, R. RORDORF, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, Le Società, 2013, p. 671, richiamato da S. AMBROSINI, Assetti adeguati e ibridazione del modello s.r.l. nel quadro normativo riformato, in M. Irrea (a cura di), La società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, Studi in onore di Oreste Cagnasso, Torino, 2020, p. 443

[4] S. AMBROSINI, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, op. cit., p. 4.

[5] L’importanza dell’adozione di adeguati assetti societari è divenuta ancora più evidente a seguito dello scoppio della pandemia, la quale ha palesato la necessità di abbandonare l’approccio c.d. “giorno per giorno” per adottare, invece, uno stile di direzione più razionale ed anticipatorio, basato su procedure formalizzate di pianificazione e programmazione. Così, M. RUBINO, A. TURCHI, L’orizzonte temporale del piano alla luce dei nuovi principi di attestazione e della circolare 34/E dell’Agenzia delle Entrate, in www.ilcaso.it, gennaio 2021, p. 8.

[6] La dottrina qualifica l’adeguatezza degli assetti organizzativi quale clausola generale costituente una specificazione del generale principio di corretta amministrazione. Così P. MONTALENTI, Diritto dell’impresa in crisi, diritto societario concorsuale, diritto societario della crisi, in Giur. Comm., 1/2018, I, pp. 75 e ss.; CERRATO – PEIRA, Risikogesellschaft e corporate governance: prolegomeni sulla costruzione degli assetti organizzativi per la prevenzione dei rischi. Il caso delle imprese agroalimentari, in Riv. soc., 1/2019, p. 184, richiamati da A. LOLLI, M G. PAOLUCCI, L’adeguatezza degli assetti nel codice della crisi dell’impresa, in www.ilcaso.it, aprile 2020, p. 7.

[7] In questa sede si è deciso di limitarsi all’analisi del perimetro dell’adeguatezza dei sistemi organizzativi aziendali che, a parere degli scriventi, fattispecie di maggior complessità di delimitazione rispetto al pur non scontato perimetro di valutazione degli assetti contabili e amministrativi.

[8] La funzionalità degli adeguati assetti al contrasto di una ritardata presa d’atto della situazione di crisi discende direttamente dalla Raccomandazione UE del 2014 sul c.d. early warning e dalla Direttiva UE n. 1023/2019 del che ha disciplinato la ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione. Tracce di questo rapporto di correlazione si ritrovano altresì nei princìpi elaborati dall’Unicitral e dalla Banca Mondiale, e costituisce da tempo jus receptum nella maggior parte degli ordinamenti del mondo occidentale. A conferma di ciò nella Relazione illustrativa al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, si legge che «le possibilità di salvaguardare i valori di un’impresa in difficoltà sono direttamente proporzionali alla tempestività dell’intervento risanatore, mentre il ritardo nel percepire i segnali di una crisi fa sì che, nella maggior parte dei casi, questa degeneri in vera e propria insolvenza sino a divenire irreversibile». E, tra i fattori che possono essere tacciati di effetto degenerativo sullo stato di tensione aziendale, sono da ricondurre senz’altro la «debolezza degli assetti di corporate governance, carenze nei sistemi operativi, assenza di monitoraggio e di pianificazione, anche a breve termine».

[9] Per una disamina degli indicatori e indici della crisi all’interno delle procedure di allerta, si rimanda a R. DELLA SANTINA, Indicatori e indici della crisi nel sistema degli strumenti di allerta l’interpretazione sistematica e di metodo offerta dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli esperti contabili, www.ilcaso.it, gennaio 2020.

[10] Il risultato è emerso a seguito di un’indagine nella quale Cerved ha simulato tutti i bilanci delle società di capitale italiane nel 2020 e nel 2021, stimando così il numero di imprese che potrebbero attivare una procedura di allerta, secondo i parametri definiti (che non sono mai stati applicati), al netto dei segnali provenienti dal DSCR. Lo studio ha rilevato che, se prima della pandemia, su un campione di circa 700 mila società di capitale, avrebbero dovuto avviare una procedura 56 mila imprese (di cui 54 mila con patrimonio netto negativo), nel 2020 questo numero sale a 114 mila (di cui 112 mila con patrimonio netto negativo) e, nel 2021, il numero cresce ulteriormente e sfiora le 140 mila imprese (di cui 137 mila con patrimonio netto negativo). La medesima simulazione, condotta su circa 100 mila società di capitale per le quali è previsto l'obbligo di istituire l'organo di controllo, ha confermato un dato molto meno preoccupante nell’epoca antecedente alla pandemia. Se nel 2019, sarebbero state soltanto 3.400 imprese a dover avviare la procedura, dall’analisi dei bilanci del 2020 il numero delle aziende supera le 11.000 unità e ci si attende che nel corso dell’anno 2022 aumenti oltre le 14.000 unità.

[11] S. AMBROSINI, Assetti adeguati e ibridazione del modello s.r.l. nel quadro normativo riformato, op. cit., p. 439.

[12] Si rinvia, inter alia, a 11 U.S.C.A. § 548 (West 2004 & Supp. 2007), UNIFORM FRAUDULENT CONVEYANCE ACT, 7A Pt. II U.L.A. 245 (2006) (originariamente promulgato nel 1918); UNIFORM FRAUDULENT TRANSFER ACT, 7A Pt. 11U.L.A. 1 (2006) (originariamente promulgato nel 1984).

[13] 11 U.S.C.A. § 547(b) (West 2004 & Supp. 2007). In giurisprudenza si veda, in particolare, Freedom Group, Inc. v. Lapham-Hickey Steel Corp. (In re Freedom Group), 50 E3d 408, 411 (7th Cir. 1995) laddove si precisa che «the statute reduces the debtor's ability to play favorites, and hence the anxiety of creditors, and hence the costly melee that such anxiety can engender, by telling the favored creditor that if the debtor goes broke within ninety days after the transfer, the transfer will be undone and the favored creditor tossed back in the pool with the rest of the creditors».

[14] In tal senso, si leggano le pronunce emesse nei seguenti casi: Lawson v. Ford Motor Co. (In re Roblin Indus., Inc.), 78 F3d 30, 35 (2d Cir. 1996): «insolvency is a question of fact»; Brown v. Shell Can. Ltd., 112 F3d 234, 236 (6th Cir. 1997); Plankinton Bldg. Co. v. Grossman (In re Plankinton Bldg. Co.), 148 F2d 119, 125 (7th Cir.); Merkel v. Comm'r of Internal Revenue, 192 F3d 844, 852 (9th Cir. 1999); Cavanaugh v. Comm'r of Internal Revenue, No. 92-9004,1993 U.S. App. (10th Cir. Feb. 9, 1993). Occasionalmente, come detto, i giudici hanno definito l’insolvenza come «a mixed question of fact and law»: così in Consove v. Cohen (In re Roco Corp.), 701 E2d 978, 981 (1st Cir. 1983); Moody v. Sec. Pac. Bus. Credit, Inc., 971 E2d 1056, 1063 (3d Cir. 1992).

[15] L’ability to pay test analizza la ragionevole capacità del soggetto di far fronte ai propri debiti e, a tal fine, valuta – o quantomeno tenta di valutare – se la società sarà in grado di far corrispondere le sue attività liquide alle sue obbligazioni future. Anche se tale verifica potrebbe apparire, prima facie, di semplice applicazione nella pratica emergono una forte complessità e ampi margini di potenziale incertezza. D’altra parte, se i flussi di cassa attesi ed i debiti stessi di un'impresa non fossero soggetti ad alcun tipo d'incertezza non sarebbe nemmeno possibile continuare a classificare l’attività dell’impresa in termini di attività di rischio. Se così fosse, sarebbe cioè possibile proiettare l’attività in un qualsiasi ambito temporale futuro e stabilire se la liquidità disponibile ad una qualsiasi data (ovvero la liquidità residua a seguito del pagamento dei debiti principali) sarebbe sufficiente, combinata con altra liquidità che la società potrebbe generare o aver generato alla medesima data, a far fronte alle obbligazioni del medesimo periodo. Nella realtà, tuttavia, i flussi di cassa futuri di un'impresa sono di norma soggetti a un grado (in genere considerevole) d'incertezza, così come non può escludersi che l'impresa possa subire passività c.d. contingenti (escussione di garanzie, cause pendenti, etc.). Potrebbe concludersi, salomonicamente, che la “capacità di pagare” significhi qualcosa di meno della assoluta certezza di una capacità di adempimento, ma sicuramente qualcosa di più che una probabilità molto bassa di farlo. La giurisprudenza, d’altronde, non fornisce sul punto un chiarimento univoco, anche se dal quadro complessivo potrebbe dedursi il rilievo – certo meramente statistico – che un'impresa avrà la capacità di pagare i suoi debiti una volta che essi siano maturati (e dunque non verrà considerata insolvente) se in base al cash flow test vi è almeno un 50% di probabilità che sarà in grado di farlo.

Il balance sheet solvency test affronta una questione differente, valutando se l'attivo patrimoniale di un'impresa sia maggiore del suo passivo e, secondo quello che potremmo definire approccio “standard” si prevede di valutare innanzitutto se il debitore si trovi in una situazione di going concern o se sia “on its deathbed” e, definita tale questione, si procede con la stima del valore degli assets in coerenza allo status definito. Tuttavia, la scelta rimane in genere complessa e non a caso può riscontrarsi come i solvency tests maggiormente utilizzati in giudizio siano quelli relativi a società che si trovano «midway between a prosperous going concern and a dead enterprise».

Il capital-adequacy solvency test, infine, valuta l'inadeguatezza patrimoniale come «a condition of financial debility short of insolvency (in either the bankruptcy or equity sense) but which makes insolvency reasonably foreseeable. In other words, a transaction leaves a company with unreasonably small capital when it creates an unreasonable risk of insolvency»: Brandt v. Hicks, Muse & Co., Inc. (In re Healthco Intern., Inc.), 208 B.R. 288, 302 (Bankr. D. Mass. 1997). Si veda, altresì, Moody v. Sec. Pac. Bus. Credit,Inc., 971 E2d at 1070, laddove «viewed in this light, an “unreasonably small capital” would refer to the instability to generate sufficient profits to sustain operations. Because an inability to generate enough cash flow to sustain operations must precede an inability to pay obligations as they become due unreasonably small capital would seem to encompass unreasonable due, unreasonably small capital would seem to encompass financial difficulties short of equitable insolvency». La ratio di questo test parte dall’assunto che le proiezioni finanziarie rivestano un’importanza decisiva nella valutazione dell'adeguatezza patrimoniale in quanto idonee a dimostrare se l'impresa abbia, o meno, la capacità di resistere ad una ragionevole gamma di operazioni di mercato e di fluttuazioni economico-finanziarie. Nell’utilizzo del test in parola dovrebbero, infatti, analizzarsi «all reasonably anticipated sources of operating funds, which may include new equity infusions, cash from operations, or cash from secured or unsecured loans over the relevant time period».

[16] Di questo avviso G. SANDRELLI, La direttiva sul capitale sociale dopo l’“aggiornamento” del 2006: dibattito e riforme, in Riv. Dott. Comm., 6, 2008, p. 1125. Ancora sul tema del rapporto tra tutela dei creditori e regole sul capitale, si rinvia alla lettura di A. HAAKER, The future of european creditor protection and capital maintenance from a german perspective, in Ger. L. J., 13, 2012, p. 637 che, anche con riferimento ai principi IAS/IFRS, sottolinea l’utilità dei solvency tests come sistema alternativo di capital mantenaince nell’ottica della tutela dei creditori, circa la quale precisa che «the one-sided focus on shareholders' interests inherent in shareholder value-orientated corporate policies presupposes that there is a functioning system to protect the economic interests of the other stakeholder groups (creditors, employees, customers, suppliers, etc.)».