Giurisprudenza

L’art. 47, c. 4, CCII, secondo la Corte d’Appello di Milano


* * *
Articolo

Il presupposto oggettivo della composizione negoziata (e dell’allerta interna) *


Vincenzo Donativi

Data pubblicazione
20 settembre 2023

Scarica PDF

Articoli

TORNA INDIETRO

Sommario: 1. Il presupposto oggettivo della composizione negoziata (e dei doveri di “allerta interna”): squilibrio (pre-crisi) vs. crisi e insolvenza e il giudizio “probabilistico”. – 2. La Relazione di accompagnamento vs. primi argomenti di ordine esegetico e “micro-sistematico”. – 3. La nozione di crisi e la valenza prospettica (e non già congetturale) del giudizio probabilistico di relazione con l’insolvenza. – 4. I tre stadi della crisi d’impresa nella “Direttiva Insolvency”. – 5. Argomenti di ordine sistematico: il rapporto tra composizione negoziata, misure protettive e (preclusione) della sentenza di liquidazione giudiziale. – 6. (Segue) L’inammissibilità dell’istanza di nomina dell’esperto in pendenza di un procedimento per l’apertura di un qualsiasi strumento di risoluzione della crisi o dell’insolvenza. – 7. Ulteriori argomenti logici di supporto invocati in dottrina e in giurisprudenza. – 8. Le indicazioni ricavabili dall’art. 21 sui doveri dell’imprenditore in stato di crisi o che, nel corso della composizione negoziata, risulti insolvente. – 9. Le indicazioni ricavabili dall’art. 23 sugli esiti delle trattative. – 10. Ulteriori argomentazioni sistematiche e problematiche: l’ingiustificata disparità di trattamento che si avrebbe, ove i presupposti oggettivi fossero omogenei, con gli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza quanto alla disciplina su competenza, forma e pubblicità delle decisioni di accesso e sulla trasparenza delle relative domande. – 11. Le indicazioni dell’Osservatorio Unioncamere sull’andamento delle composizioni negoziate e un ulteriore stimolo in favore dell’interpretazione restrittiva del presupposto oggettivo.


1. Il presupposto oggettivo della composizione negoziata (e dei doveri di “allerta interna”): squilibrio (pre-crisi) vs. crisi e insolvenza e il giudizio “probabilistico”

Il presupposto oggettivo della composizione negoziata è descritto, all’art. 12, comma 1, CCII, come quella situazione nella quale il debitore si trovi «in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l’insolvenza» e nel contempo risulti «ragionevolmente perseguibile il risanamento dell’impresa».

Il fulcro della disposizione è, dunque, nella relazione di “probabilità” che lega tra loro le condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario in cui il debitore versa, da un lato, con la crisi o l’insolvenza che quello squilibrio renderebbe probabile, dall’altro.

Si tratta, pertanto, di comprendere quale sia il significato da attribuire a tale nesso probabilistico, essendo al riguardo prospettabili due diverse opzioni: (i) quella di interpretarlo in senso, per così dire, “prospettico” (o “causale”/“prospettico”), talché lo squilibrio sarebbe oggi una condizione di “pre-crisi” che, in assenza di misure efficaci e tempestive (tra le quali la stessa composizione negoziata), vi sarebbe una elevata possibilità (recte, la “probabilità”) che quella condizione possa evolvere negativamente e quindi tracimare in una condizione di crisi o, peggio ancora, di insolvenza; (ii) quella di ritenere che, accanto a tale valenza prospettica, si collocherebbe anche una relazione di piena identificazione, tale per cui lo squilibrio in cui il debitore versa potrebbe costituire l’indice della presenza attuale di una condizione di crisi o di insolvenza (purché reversibile) già conclamate, talché la “probabilità” afferirebbe solo alla natura congetturale del giudizio con il quale verrebbe effettuata la valutazione della condizione (di crisi o di insolvenza, appunto), in cui versa il debitore (una valutazione che, quand’anche non ammantata da certezza assoluta, possa reputarsi fondata su un quadro argomentativo tale da renderla “probabile”, nel senso di “verosimile” o “plausibile”).

Stando alla prima lettura, che corrisponde alla tesi che si intende qui sostenere e che tuttavia parrebbe oggi isolata nel panorama dottrinario e giurisprudenziale ([1]), l’accesso alla composizione negoziata sarebbe legittimamente possibile solo in presenza di una condizione di pre-crisi, non anche di crisi o di insolvenza, ancorché reversibile, rispetto alle quali si imporrebbe la scelta di un (più incisivo) “strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza”.

Stando alla seconda lettura, che risulta ad oggi pressoché consolidata in dottrina ([2]) e in giurisprudenza ([3]), la composizione negoziata sarebbe una delle possibili misure con cui affrontare legittimamente la condizione di crisi o di insolvenza (reversibile) già in atto. Si sarebbe, in sostanza, dinanzi a un sistema “a scalare” (o “a gradini progressivi”), tale per cui, a partire da una condizione di pre-crisi, sarebbe possibile accedere alla composizione negoziata; a partire da una condizione di crisi, si aprirebbero le porte dei diversi strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, che tuttavia si aggiungerebbero alla perdurante possibilità di accedere, in via alternativa, alla composizione negoziata; in presenza di uno stato di insolvenza il ventaglio degli strumenti si allargherebbe fino ad includere anche la liquidazione giudiziale, ferma la perdurante possibilità di accedere a uno strumento di regolazione della crisi o, nuovamente, ove l’insolvenza appaia reversibile, alla stessa composizione negoziata.

Sempre lungo la linea del secondo modo di intendere il significato della condizione “probabilistica”, si pone poi un’ipotesi di lettura ancor più estrema, secondo la quale la pre-crisi non avrebbe alcuna cittadinanza nel sistema e le stesse condizioni descritte nell’art. 12 CCII andrebbero identificate, appieno e senza residui, con la crisi ([4]), mercè un’interpretazione correttiva, ma asseritamente razionalizzante, del dettato.

Come si vedrà in appresso, infine, vi sarebbe anche un’ultima possibile variazione sul tema sempre legata al secondo modo di intendere la condizione probabilistica: quella di ritenere, valorizzando uno spunto testuale desumibile dall’art. 21, comma 1, CCII, che la composizione negoziata sarebbe legittimamente attivabile anche in presenza di uno stato attuale di crisi e che, invece, la condizione di insolvenza (reversibile) sarebbe compatibile non già con il legittimo avvio dello strumento, ma solo con la sua sopravvivenza, ove la stessa sopraggiunga nel corso delle trattative ([5]).

Il tema è assai più intricato di quanto non possa a prima vista apparire. E ciò sia per la numerosità e la complessità anche intrinseca delle singole argomentazioni (spesso assai articolate) spendibili a favore dell’una o dell’altra delle due possibili letture; e sia perché le ricadute sistematiche ed applicative vanno oltre la disciplina della composizione negoziata in quanto tale, assumendo rilievo anche nel contesto del “diritto societario della crisi”, nella misura in cui il presupposto oggettivo della composizione negoziata vale anche, ai sensi dell’art. 25-octies, comma 1, CCII, quale condizione che innesca il dovere di segnalazione scritta da parte dell’organo di controllo societario nei confronti dell’organo amministrativo, con contestuale fissazione di un congruo termine entro il quale quest’ultimo deve riferire in ordine alle iniziative intraprese ([6]): la corretta individuazione dell’esatta portata di quel presupposto è tanto più cruciale se si considera che la stessa “tempestività” della segnalazione è valutata ai fini della responsabilità prevista dall’art. 2407 c.c. (così lo stesso art. 25-octies, al comma 2).

Nonostante la ricchezza e la raffinatezza delle argomentazioni spese in dottrina a supporto della soluzione estensiva, si proverà qui di seguito ad esporre le ragioni per le quali l’ipotesi più restrittiva si lascerebbe invece preferire: e non solo perché corrispondente al significato più immediato del dettato letterale, ma anche e soprattutto per la sua maggiore coerenza con una serie di dati sistematici e quantomeno quale ipotesi ermeneutica con la quale contribuire a un utilizzo più efficace e nel contempo più corretto, equilibrato ed efficiente sul piano del bilanciamento tra benefici realisticamente conseguibili e costi di sistema.

 

2. La Relazione di accompagnamento vs. primi argomenti di ordine esegetico e “micro-sistematico”

Un argomento molto suggestivo in favore della lettura estensiva si trae dalla Relazione illustrativa al Codice, là dove si legge testualmente che alla composizione negoziata può accedere «L’imprenditore in difficoltà, in crisi, o in stato di insolvenza reversibile […]»: passaggio dal quale emerge in modo inequivocabile che la soluzione estensiva corrisponderebbe alla chiara ed esplicita mens legislatoris.

Sarebbe però riduttivo e troppo sbrigativo concludere nel senso che la questione sia così pacificamente risolta, non foss’altro per i limiti ermeneutici delle relazioni illustrative, tanto più a fronte dei numerosi argomenti che, come si vedrà, sarebbero spendibili in direzione contraria sulla scorta di canoni interpretativi ben più solidi ed incisivi.

Prima ancora, del resto, è opportuno chiarire fin da subito come quella voluntas non si sia tradotta in una formulazione letterale coerente e corrispondente.

(i) Profilo strettamente esegetico. I sostenitori della tesi estensiva, invero, sostengono che la “probabilità” che costituisce il fulcro del dettato normativo e il formante della nozione di squilibrio sarebbe tutto sommato compatibile col tenore letterale della norma, giacché la locuzione “rendere probabile” la crisi o l’insolvenza potrebbe ancora intendersi nel senso di “rendere plausibile” (o “verosimile”) che il debitore versi già attualmente in una siffatta condizione.

Ma sono quegli stessi Autori a dover riconoscere che l’espressione utilizzata, «a tutta prima», indurrebbe invece «a ritenere che l’istituto non sia fruibile quando la crisi o l’insolvenza siano già in atto e che esso miri esclusivamente a scongiurarne l’inverarsi»; e che, anzi, essa presenti una «potenziale decettività», giacché, per come formulata, «sembra alludere soltanto a eventi futuri»; e, ancora, che sarebbe stato «in realtà preferibile declinare il precetto così: “che rendono verosimile l’esistenza dello stato di crisi o di insolvenza, o probabile il loro futuro verificarsi”» ([7]).

Sul piano semantico, del resto, “probabile” si dice «Di fatto o avvenimento che, in base a seri motivi (i quali però non costituiscono vere prove e non danno quindi certezza), si è propensi a credere che accada o che sia già accaduto» ([8]). Esso è, dunque, correlato a fatti o avvenimenti sui quali è possibile formulare solo congetture o perché futuri e quindi per definizione incerti o perché passati, ma che risultino comunque incerti perché sfuggiti a una conoscenza diretta e sforniti di prove sicure sul relativo accadimento. Nel caso che qui occupa, per contro, oggetto di giudizio è una situazione attuale (né futura né passata, ma presente) e, segnatamente, la condizione (patrimoniale, economica e finanziaria) in cui versa attualmente il debitore: una situazione, per di più, valutabile attraverso un esame diretto e analitico di tutti gli elementi a tal fine rilevanti, alla luce delle indicazioni e della documentazione che lo stesso debitore è tenuto a fornire con l’istanza di nomina dell’esperto.

L’espressione utilizzata dalla norma, pertanto, mal si presterebbe a un significato che volesse rimarcarne la connotazione di incertezza, poiché sarebbe davvero singolare che un presupposto che dovrebbe stabilire le condizioni per fruire di uno strumento ad accesso “riservato” e che innesca doveri la cui ottemperanza/inottemperanza è determinante ai fini di rilevanti e pesanti responsabilità degli organi sociali fosse dalla stessa norma identificato con una formula la cui preoccupazione primaria sia quella di rimarcarne l’incertezza.

Non è, dunque, certamente sul piano esegetico che la soluzione estensiva potrebbe trovare un sicuro e solido fondamento ([9]).

(ii) La natura delle nozioni di crisi e di insolvenza. Né varrebbe obiettare che il giudizio attraverso il quale si formulano valutazioni relative alla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore e si perviene alle conseguenti qualificazioni in termini di crisi o di insolvenza è per sua stessa natura valutativo.

Non vi è alcun dubbio, invero, che i giudizi aventi ad oggetto l’identificazione dei presupposti della crisi o dell’insolvenza non consisterebbero nell’accertamento di “fatti” (oggettivi) di cui possa predicarsi la verità (e dunque la certezza assoluta), ma nella formulazione di “valutazioni” (“congetturali”), per loro stessa essenza basate su argomentazioni a supporto di ipotesi più o meno persuasive.

Ma se ciò è assolutamente indubitabile, allora, se ne ricaverebbe a fortiori un’indicazione a favore della soluzione restrittiva piuttosto che di quella contraria, atteso che: da una parte, il legislatore non avrebbe avuto alcun bisogno di rimarcare il carattere valutativo del giudizio volto all’accertamento del presupposto oggetto delle nozioni di squilibrio e di crisi; dall’altra, non si capirebbe perché, in caso contrario, non avrebbe avvertito l’esigenza di rimarcare l’analogo carattere valutativo anche nella definizione dell’insolvenza [art. 2, lett. b)] invece di limitarsi a farlo nella sola definizione di crisi [art. 2, lett. a)], quantunque il carattere congetturale accomuni pacificamente le due nozioni.

(iii) La natura dei procedimenti di accertamento della crisi e dell’insolvenza. Analogo ragionamento varrebbe anche avendo riguardo alla natura del procedimento unitario di accesso agli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza o del procedimento con cui vengono confermate o negate le misure protettive anche nel contesto della composizione negoziata. È la stessa Relazione di accompagnamento al Codice, difatti, a rammentare come si tratti di procedimento «a carattere sommario e camerale», talché, anche volendo qui prescindere dalla possibilità di riproporre ancora la duplice alternativa qualificazione come procedimento speciale a cognizione piena o come procedimento camerale che, vertendo in materia contenziosa, necessariamente si è “ammantata” di tutte le garanzie proprie del giudizio ordinario ([10]), esso resterebbe e rimane in ogni caso un procedimento che conduce a un giudizio “sommario” e non a “cognizione piena”. Anche sotto quest’angolo visuale, pertanto, non vi sarebbe stato alcun bisogno di adottare, nella identificazione delle diverse nozioni/presupposto, una formulazione in cui l’enfasi (il fulcro e il formante) sarebbe nella notazione di non assolutezza del relativo accertamento; né si capirebbe perché, in caso contrario, non ripetere analoga formula anche con riguardo all’insolvenza. Ed anzi, nuovamente se ne ricava uno spunto interpretativo che induce a credere che il significato del sintagma “rendere probabile” (riferito allo squilibrio in rapporto alla crisi o all’insolvenza o, rispettivamente, alla crisi in rapporto all’insolvenza) debba essere altro.

 

3. La nozione di crisi e la valenza prospettica (e non già congetturale) del giudizio probabilistico di relazione con l’insolvenza

Un argomento particolarmente incisivo in favore della soluzione restrittiva può cogliersi dal confronto con la definizione di “crisi” dettata all’art. 2, lett. a).

(i) Struttura lessicale delle due nozioni. La crisi, difatti, è definita come «lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza […]».

Anche in questo caso torna, al centro del presupposto oggetto della definizione, il sintagma basato sul riferimento a uno “stato del debitore” (così come, all’art. 12, si parla di “condizioni” del debitore) «che rende probabile» una determinata valutazione: nel caso dell’art. 12, le condizioni di squilibrio patrimoniale o economico finanziario rendono probabile la crisi o l’insolvenza; nel caso dell’art. 2, lett. a), lo stato (di crisi) del debitore ne rende probabile l’insolvenza.

Ebbene, la costruzione lessicale e la struttura sintattica delle due norme sono perfettamente identiche; eppure non risulta che si sia imposto anche in questo caso un indirizzo estensivo in ordine al significato da attribuire al sintagma fulcro della nozione di crisi, la quale, anzi, va senz’altro intesa come riferita a un giudizio di tipo prospettico in relazione di sequenza a gravità crescente ([11]), con il quale presumere che, in assenza di rimedi efficaci e tempestivi (tipicamente, l’accesso a uno degli appositi “strumenti di regolazione”), essa tracimi nella (più deteriore) condizione dello stato di insolvenza.

Orbene, volendo ancora rimanere su di un piano meramente esegetico, sarebbe davvero singolare che due espressioni perfettamente identiche per formulazione e struttura sintattica, per di più utilizzate nella identificazione di situazioni giuridiche tra loro funzionalmente omogenee (entrambe essendo elette a presupposti di accesso a determinati strumenti giuridici e/o di attivazione di doveri di condotta e di criteri di valutazione di correlative responsabilità) fossero state utilizzate dal legislatore con significati così profondamente diversi tra loro.

(ii) L’utilizzo costante dell’endiadi “crisi o insolvenza”.

Del resto, a conferma del fatto che il significato del sintagma impiegato all’art. 2, lett. a), non potesse essere quello di alludere tanto alla probabilità di tracimazione futura nell’insolvenza quanto anche alla probabilità dell’esistenza attuale di uno stato di insolvenza, è sufficiente rammentare come il Codice utilizzi ripetutamente espressioni nelle quali la crisi e l’insolvenza vengono menzionate congiuntamente: così, segnatamente, nella descrizione dei presupposti oggettivi di pressoché tutti ([12]) gli strumenti di regolazione della crisi, agli artt. 56 (con riguardo ai piani attestati di risanamento), 57 (per gli accordi di ristrutturazione), 64-bis (per i piani di ristrutturazione sottoposti ad omologazione) e 84 (per il concordato preventivo), si parla costantemente di imprenditore «in stato di crisi o di insolvenza». Ma se la crisi non si esaurisse in una condizione antecedente all’insolvenza e se la sua relazione con l’insolvenza non fosse solo prospettica, ma si estendesse fino a comprendere anche uno stato attuale di presumibile insolvenza, sarebbe stato allora sufficiente parlare di imprenditore in stato di crisi ed evocare l’insolvenza esclusivamente ai fini della apertura della liquidazione giudiziale o di altre procedure concorsuali (come la liquidazione coatta amministrativa o l’amministrazione straordinaria), il cui presupposto è la sola insolvenza attuale e in quanto tale.

Ancora, nella medesima prospettiva, non si comprenderebbe nemmeno per quale ragione il legislatore avrebbe allora scelto, all’art. 12, di utilizzare il solo riferimento allo squilibrio che renderebbe probabile la crisi o l’insolvenza e, agli artt. 56, 57, 64-bis e 84, di impiegare invece l’endiadi crisi o insolvenza. Ove il significato della nozione di crisi fosse quello qui denegato, difatti, ragioni di simmetria redazionale avrebbero imposto di adottare analoga opzione lessicale in entrambi i casi: o menzionando la sola crisi in questi ultimi articoli, o impiegando, all’art. 12, una formulazione con cui fossero evocate le condizioni “di squilibrio, di crisi o di insolvenza”.

In altri termini, ad accogliere l’ipotesi di lettura qui non condivisa, le tre nozioni sarebbero connesse non già da un rapporto di sequenza lineare, ma di continenza concentrica. Non corrisponderebbero più, cioè, a tre condizioni tra loro distinte, collocabili lungo una retta lineare crescente in rapporto alla minore o maggiore intensità/gravità della situazione di difficoltà/squilibrio in cui versa il debitore, bensì a condizioni descrivibili quali tre cerchi concentrici, di diverso diametro, ciascuno collocato all’interno dell’altro. L’insolvenza corrisponderebbe al cerchio più piccolo, collocato all’interno del cerchio intermedio, quello della crisi, a sua volta collocato all’interno del cerchio più ampio, quello della pre-crisi (le condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che renderebbero probabile la crisi o l’insolvenza).

Proprio l’immagine dei cerchi concentrici rende plasticamente l’idea del fatto che, stando così le cose, non avrebbe allora avuto alcun senso, nella disciplina degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza alternativi alla liquidazione giudiziale, menzionare separatamente, quali possibili presupposti oggettivi, la crisi e l’insolvenza: se davvero l’insolvenza fosse un cerchio a diametro ridotto collocato all’interno del più ampio cerchio della crisi, sarebbe difatti stato sufficiente individuare il presupposto oggettivo nella crisi (che sarebbe stata già comprensiva dell’insolvenza). E se anche l’opzione lessicale volesse ascriversi a una sorta di pleonasmo o superfetazione redazionale, non si comprenderebbe per quale ragione il legislatore non avrebbe fatto la stessa scelta anche nell’art. 12.

 

4. I tre stadi della crisi d’impresa nella “Direttiva Insolvency”

La declinazione in tre (e non già solo due) possibili stadi della crisi d’impresa trova per di più radice nella “Direttiva Insolvency”, come emerge chiaramente dal confronto tra l’art. 3 e l’art. 4.

L’art. 3, nella parte dedicata alla c.d. “allerta precoce” (e dunque con riguardo a una situazione omogenea a quella di cui al comb. disp. degli art. 12 e 25-octies CCII), fa riferimento alla necessaria adozione di strumenti in grado di individuare situazioni che «potrebbero comportare la probabilità di insolvenza», mentre all’art. 4, relativo all’accesso ai “quadri di ristrutturazione” (gli strumenti di risoluzione della crisi e dell’insolvenza del CCII), la formula utilizzata per descriverne il presupposto oggettivo è che sussista «una probabilità di insolvenza».

Nel secondo caso, quindi, si identifica una situazione equivalente alla “crisi” di cui all’art. 2, lett. a), CCII, dove la condizione in cui versa il debitore rende “probabile” (ma non ancora attuale) l’insolvenza; nel primo caso, si evoca una sorta di “probabilità di secondo grado” ([13]), talché la condizione in cui versa il debitore rende possibile (rectius, probabile) la futura tracimazione nella condizione (di cui all’art. 4) che a sua volta renderebbe probabile l’insolvenza. La probabilità di insolvenza è diretta e prossima nell’art. 4, solo indiretta e più remota nell’art. 3.

È stato obiettato ([14]) che la sensazione che se ne ricaverebbe sarebbe quella di essere di fronte ad un corto circuito logico, in quanto – si sostiene – se la situazione “B” rende probabile “C”, la situazione “A” che renda probabile “B” rende probabile anche “C”, essendo “C” il prodotto delle due catene di probabilità; e – ancora – se la situazione oggetto dell’allerta precoce rendesse probabile altra situazione non in grado, a sua volta, di rendere probabile l’insolvenza, allora vorrebbe dire che non si tratterebbe di probabilità di crisi.

E tuttavia, per uscire dal corto circuito, sarebbe possibile semplicemente immaginare che la situazione “A”, se non adeguatamente fronteggiata, renderebbe probabile la situazione “B”, ovverosia l’evoluzione prospettica (in un futuro prossimo diretto) in una situazione che, a sua volta, se non adeguatamente fronteggiata, renderebbe probabile l’ulteriore tracimazione nella situazione “C”.

Sempre dalla Direttiva Insolvency, poi, si ricava ulteriore conferma, se mai ve ne fosse bisogno, del fatto che, nel linguaggio della direttiva, la locuzione “probabilità di insolvenza” è intesa non come valutazione congetturale riferita all’attualità, ma come pronostico della possibile evoluzione prospettica. All’art. 19, difatti, gli Stati membri sono chiamati a far sì che gli amministratori, qualora sussista una «probabilità di insolvenza», agiscano tenendo conto degli interessi dei creditori, dei soci e degli «altri portatori di interessi», adottando misure «per evitare l’insolvenza»: le misure da adottare sono volte ad «evitare» (e dunque a “prevenire”) un’insolvenza ancora non attuale, ma che, in assenza di quelle misure, sarebbe di probabile prossima verificazione.

 

5. Argomenti di ordine sistematico: il rapporto tra composizione negoziata, misure protettive e (preclusione) della sentenza di liquidazione giudiziale

A sostegno della soluzione estensiva vengono poi spesi alcuni argomenti di ordine sistematico che si ritiene di dover desumere dalla necessità di una lettura coordinata di diversi frammenti normativi interni al Codice.

Il primo di tali argomenti è quello che si ricaverebbe dall’art. 18, comma 4, che preclude la dichiarazione di liquidazione giudiziale (o di accertamento dello stato di insolvenza ai fini della liquidazione coatta amministrativa o dell’amministrazione straordinaria) in pendenza di misure protettive richieste in connessione con la composizione negoziata. Se la preclude – si sostiene attraverso una sorta di sillogismo logico – significa che altrimenti sarebbe stata astrattamente possibile; e per essere astrattamente possibile significa che il debitore potrebbe trovarsi in uno stato di insolvenza; ergo: lo stato di insolvenza non sarebbe incompatibile con la composizione negoziata ([15]).

A ben vedere, l’argomento prova troppo ed appare insufficiente a corroborare la soluzione estensiva, potendo la previsione normativa essere spiegata anche in modo diverso.

(i) Innanzitutto, come si avrà modo di chiarire meglio nel prosieguo, dall’art. 21, comma 1, potrebbe trarsi uno spunto nel senso che lo stato di insolvenza, pur non giustificando l’apertura della composizione negoziata (ex ante), non ne precluderebbe tuttavia la continuazione ove dovesse manifestarsi (o tale risultare, in particolare, agli occhi dell’esperto) successivamente al suo avvio (ex post).

(ii) Inoltre, ed anche a prescindere dall’accoglimento di tale ultima ipotesi, non è la pendenza della composizione negoziata in sé a precludere la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza, ma solo la pendenza di misure protettive. Il trattamento riservato alla composizione negoziata, sotto questo profilo, è dunque radicalmente differente da quello dedicato invece agli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, la cui pendenza, invece, innesca ex se una siffatta preclusione, così come analoga sostanziale preclusione è innescata finanche dalla pendenza di un procedimento per la loro apertura, essendo consentito pronunciare sentenza di apertura della liquidazione giudiziale solo dopo aver definito le domande di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza eventualmente proposte (art. 49, comma 1). La cosa può evidentemente spiegarsi col fatto che, in quest’ultimo caso, il legislatore ha reputato che, pur condividendo uno dei possibili presupposti con la liquidazione giudiziale, quegli strumenti costituiscano la soluzione tendenzialmente preferibile di risoluzione dell’insolvenza; ma se anche la composizione negoziata condividesse con la liquidazione giudiziale uno dei possibili presupposti, non sarebbe del tutto agevole spiegare le ragioni per cui non sarebbe stata anche qui accordata analoga preferenza, mentre è più semplice spiegare il tutto proprio con la diversità dei presupposti alla base dei diversi strumenti.

(iii) Per di più – e si tratta dell’elemento decisivo – la preclusione non è affatto assoluta, giacché a farla cadere sarebbe sufficiente che il tribunale revocasse le misure protettive (cfr. lo stesso art. 18, comma 4, secondo cui la sentenza «… non può essere pronunciata, salvo che il tribunale disponga la revoca delle misure protettive»): una revoca che, pertanto, ben potrebbe giustificarsi ad esempio perché il tribunale ritenga che la composizione negoziata sia stata indebitamente attivata in presenza di uno stato di insolvenza già conclamato ([16]).

 

6. (Segue) L’inammissibilità dell’istanza di nomina dell’esperto in pendenza di un procedimento per l’apertura di un qualsiasi strumento di risoluzione della crisi o dell’insolvenza

Un secondo argomento sistematico in favore della lettura estensiva è quello che si ritiene di dover trarre dall’art. 25-quinquies CCII ([17]), dove è sancita l’inammissibilità dell’istanza di nomina dell’esperto ai fini della composizione negoziata ogniqualvolta ci si trovi «in pendenza del procedimento introdotto con ricorso depositato ai sensi dell’articolo 40, anche nelle ipotesi di cui agli articoli 44, comma 1, lettera a), 54, comma 3, e 74» e, dunque, in pendenza di un procedimento per l’apertura di uno qualsiasi degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza: «previsioni, queste, che …» – si sostiene – «… non avrebbero senso se il presupposto oggettivo della composizione negoziata non potesse risiedere anche nello stato di crisi o di insolvenza».

Si tratta, tuttavia, di argomentazione ribaltabile e addirittura utilizzabile come spunto a contrario.

Difatti, nel momento in cui il debitore ha presentato istanza di accesso a uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, la ragione della inammissibilità dell’istanza di nomina dell’esperto ai fini della composizione negoziata potrebbe, in astratto, spiegarsi o (muovendo dall’ipotesi della identità dei presupposti) con la preclusione del cumulo degli strumenti o (convenendo sulla diversità dei presupposti) proprio col fatto che sarebbe lo stesso istante ad aver affermato di trovarsi in una condizione di crisi o di insolvenza, ciò che gli precluderebbe appunto l’accesso alla composizione negoziata.

Che sia questa – e non la prima – la spiegazione più plausibile e coerente col sistema si ricava dal fatto che lo stesso art. 25-quinquies, al 2° periodo, aggiunge che «L’istanza non può essere altresì presentata nel caso in cui l’imprenditore, nei quattro mesi precedenti l’istanza medesima, abbia rinunciato alle domande indicate nel primo periodo». Se il presupposto dei diversi strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza e della composizione negoziata fosse identico, sarebbe più difficile spiegare la ragione per cui, una volta rinunciato alla domanda di apertura di uno strumento e in assenza di istanze di liquidazione giudiziale da parte di terzi, non debba essere consentito al debitore di instare per l’apertura di un tavolo di composizione negoziata. Per contro, è proprio la diversità dei presupposti che può fornire una plausibile giustificazione alla estensione della preclusione: quella di evitare un utilizzo strumentale e inappropriato della composizione negoziale, quale sarebbe paventabile ove il debitore, che abbia inizialmente proposto una domanda di accesso a uno strumento che presuppone il suo stato di crisi o di insolvenza, intendesse presentare istanza di attivazione della composizione negoziata senza che sia trascorso un tempo tale da poter immaginare che siano intervenuti mutamenti interni o di contesto tali da comportare una regressione dello stato di crisi o di insolvenza a uno stadio di minore gravità.

Ad ulteriore conferma, del resto, la norma dice che l’istanza di nomina dell’esperto «non può essere presentata», «in pendenza del procedimento …» o per i quattro mesi successivi alla sua rinuncia: la qualificazione più appropriata parrebbe quindi quella di una “inammissibilità” generata dalla pendenza di un determinato procedimento, prima ancora che dalla infondatezza nel merito dovuta all’assenza dei presupposti oggettivi per il suo accoglimento.

Rispetto al suo precedente del 2021, poi, la norma attuale del Codice, per come è formulata, parrebbe applicarsi anche a fronte di un procedimento pendente per l’apertura della liquidazione giudiziale su istanza di terzi (un creditore, organi di controllo o autorità di vigilanza o il pubblico ministero).

In questo caso la spiegazione che si è poc’anzi prospettata non reggerebbe, atteso che la mera presentazione di istanze di liquidazione giudiziale non recherebbe alcuna certezza circa il loro successivo accoglimento e, dunque, nessuna certezza anche in ordine alla presenza dello stato di insolvenza, che deve formare oggetto di accertamento da parte del tribunale adito. Neanche l’istanza di auto-liquidazione giudiziale, per vero, fornirebbe analoga certezza; ma in questo caso, così come nel caso di domanda di apertura di uno strumento di risoluzione alternativo, una presentazione della domanda di nomina dell’esperto sarebbe inficiata dalla contraddittorietà del comportamento dello stesso debitore, il quale non potrebbe che imputare a se stesso l’impedimento opposto dall’art. 25-quinquies.

Ma è plausibile che la ragione della preclusione, in questo caso, stia nella volontà di evitare che alla composizione negoziata si potesse essere tentati di accedere come strumento di reazione a una istanza di liquidazione giudiziale da parte di un creditore e che, per di più, si potesse mettere a disposizione del debitore un’arma di difesa ancor più potente (con ulteriore enfatizzazione del rischio di un impiego strumentale) in combinazione con l’istanza di misure protettive e la conseguente elevazione dello scudo preclusivo della liquidazione giudiziale. In altri termini, la norma funziona, in tal caso, come incentivo a un uso tempestivo dello strumento e come un mezzo per disinnescare il rischio di un ricorso abusivo ed ingiustificato.

In tutti i casi, dunque, la previsione in discorso può agevolmente spiegarsi proprio con la diversità dei presupposti tra composizione negoziata e liquidazione giudiziale.

La stessa dottrina che pure propende per la versione più radicale ed estrema tra le soluzioni estensive ([18]), del resto, ammette che, leggendo assieme l’art. 2, lett. m-bis), e 25-octies, CCII, e valorizzando il fatto che il legislatoreraccomanda che il tentativo di composizione negoziata preceda l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi [art. 2, lett. m-bis)] e ne impedisce la presentazione quando pende il procedimento di accesso a detti strumenti (art. 25-quinquies), si sarebbe perciò indotti a pensare che si tratti di uno strumento che vuole dare all’impresa un’occasione di prevenzione della crisi, prima ancora e, piuttosto, che di prevenzione dell’insolvenza.

 

7. Ulteriori argomenti logici di supporto invocati in dottrina e in giurisprudenza

Solo per completezza, poi, vanno anche menzionati alcuni argomenti logici che vengono spesi quale ulteriore supporto complementare a sostegno della tesi estensiva e che, tuttavia, oltre a risultare essi stessi superabili, possono addirittura fornire spunti nella direzione esattamente contraria.

(i) Il primo di tali argomenti è che, se il debitore ha bisogno di un “facilitatore” (l’esperto), ciò significa che esso stesso non ritiene più praticabili soluzioni “interne” di ristrutturazione del modello aziendale: il che integrerebbe di regola una situazione di crisi già in atto ([19]).

Il rilievo appare insufficiente. Il ricorso al “facilitatore” potrebbe anche semplicemente giustificarsi per il fatto che l’imprenditore, pur trovandosi ancora in uno stato di pre-crisi, non si reputi in grado di superare autonomamente le condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario in cui attualmente versa e ritenga quindi necessario, al fine di rimuovere il rischio della probabile tracimazione in uno stato di crisi o di insolvenza, affidarsi all’ausilio di un esperto che lo assista e lo conduca attraverso il percorso della composizione negoziata. Un percorso il cui vantaggio comparativo rispetto a soluzioni “autoctone” è anche legato ai benefici fiscali concessi durante la composizione e in esito alla stessa (art. 25-bis in tema di “misure premiali”) e alle possibili agevolazioni anche di tipo “concorsuale” di cui è possibile fruire anche in caso di esito non del tutto positivo della composizione [artt. 23, comma 2, lett. c), e 25-sexies, sulla possibilità di accedere al “concordato semplificato”; art. 23, comma 2, lett. b), sulla riduzione dal 75 al 60 per cento della percentuale di creditori aderenti appartenenti alle singole categorie ai sensi dell’art. 61, comma 2, lett. c), in caso di accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa; art. 40, comma 10, sulla inapplicabilità dello sbarramento temporale ivi previsto ai fini della presentazione di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza in pendenza di un procedimento per l’apertura della liquidazione giudiziale]. Non indifferente è, per di più, anche il fatto che, diversamente da un tavolo negoziale avviato e gestito in autonomia, la composizione negoziata innesca obblighi di collaborazione e/o di partecipazione attiva a carico dei creditori, tanto più incisivi se banche o intermediari finanziari (art. 16, commi 5 e 6).

(ii) Il secondo argomento speso è che, se è necessaria una ristrutturazione totale o parziale del debito, ciò significa che il rischio di insolvenza è già tendenzialmente in essere ([20]).

Come con riguardo al rilievo che precede, anche qui ciò potrebbe semplicemente significare che senza quella ristrutturazione la condizione di pre-crisi evolverebbe in una condizione di crisi o di insolvenza. Lo stesso argomento, del resto, è formulato paventando un «rischio di insolvenza», non già un’insolvenza già in essere.

Senza contare, per di più, che i livelli di “ristrutturazione” possono essere i più vari e che la composizione negoziata può coprire gli spazi più ampi, sia in termini di tipologia di accordo (per ipotesi, anche semplicemente di moratoria e non anche remissorio) sia in termini di estensione soggettiva (potendo comprendere accordi non necessariamente con tutti i creditori [art. 23, comma 1, lett. b)] e finanche contratti con solo uno o più creditori [art. 23, comma 1, lett. a)].

(i) e (ii). Entrambi gli argomenti sono poi ribaltabili in senso radicalmente rovesciato.

Presi fino in fondo e portati alle loro più logiche conseguenze, difatti, condurrebbero a concludere che i presupposti della composizione negoziata sarebbero sempre e solo la crisi o l’insolvenza e mai la pre-crisi: conclusione cui però, come si è visto, questa stessa dottrina non ritiene di accedere e che risulta sostenuta solo da una parte più ristretta di sostenitori della soluzione estensiva, la quale, anzi, a ben vedere, ritiene di dover distinguere tra la situazione di pre-crisi, astrattamente prospettabile ai fini dell’accesso alla composizione negoziata ai sensi dell’art. 12, dalla medesima situazione presupposta dall’art. 25-octies con riguardo ai doveri di allerta interna e per di più invoca, a tal fine, un intervento normativo correttivo del dettato letterale, ritenuto evidentemente insufficiente, da solo, a supportare una siffatta conclusione.

(iii) Sempre e solo per spirito di completezza, appena un cenno merita un passaggio che pure si riscontra nella giurisprudenza in argomento, là dove si invoca, come dato normativo significativo, il fatto che non sia previsto un filtro a monte in presenza di uno stato di insolvenza.

Si tratta, difatti, di argomentazione in tutta evidenza circolare: il filtro è quello in generale affidato alla delibazione dell’esperto, che è evidentemente chiamato ad effettuarla sulla scorta del dato normativo con cui vengono delineati i presupposti oggettivi di accesso allo strumento. Ciò di cui si sta discutendo è proprio il senso da attribuire al dettato normativo con il quale il presupposto viene identificato nelle condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rendono probabile la crisi o l’insolvenza.

(iv) Stessa valenza ha anche l’argomento che si vorrebbe trarre dal fatto che anche il “test di autodiagnosi” messo a disposizione sulla piattaforma telematica nazionale ai sensi dell’art. 13, comma 2, non richieda la dimostrazione dell’inesistenza di uno stato di insolvenza.

Si tratta, invero, di test (per di più solo facoltativo) elaborato sulla scorta di un decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia e, dunque, non di fonte legale, dal quale pertanto non è possibile estrarre indici ermeneutici rilevanti ai fini della più corretta interpretazione della legge primaria, essendo piuttosto quest’ultima a dover indirizzare, in modo vincolante, la corretta formulazione della disciplina regolamentare attuativa.

 

8. Le indicazioni ricavabili dall’art. 21 sui doveri dell’imprenditore in stato di crisi o che, nel corso della composizione negoziata, risulti insolvente

Un argomento molto forte nella direzione estensiva è quello che viene ricavato dall’art. 21, comma 1, 2° e 3° periodo, dove si legge testualmente che «L’imprenditore in stato di crisi gestisce l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività» e che «Quando, nel corso della composizione negoziata, risulta che l’imprenditore è insolvente ma esistono concrete prospettive di risanamento, lo stesso gestisce l’impresa nel prevalente interesse dei creditori» ([21]).

La norma sarebbe la diretta e incontrovertibile testimonianza della compatibilità tra composizione negoziata e stato di crisi o addirittura di insolvenza.

Non è questa, tuttavia, l’unica lettura possibile del dettato normativo.

Conviene, al riguardo, distinguere il riferimento alla crisi (del 2° periodo) da quello all’insolvenza (del 3° periodo).

(i) Imprenditore che nel corso della composizione negoziata risulti insolvente. Quanto a quest’ultimo, difatti, è significativo, se non decisivo, il fatto che si faccia riferimento al (solo) caso in cui «nel corso della composizione negoziata» risulti che l’imprenditore è insolvente. Passaggio, questo, dal quale sembra potersi dedurre che lo stato di insolvenza non sia una condizione legittimante l’accesso alla composizione negoziata, ma solo la sua continuazione, una volta che sia stata legittimamente attivata. In altri termini, se l’insolvenza sopraggiunge «nel corso della composizione negoziata», pur non essendo una condizione che avrebbe legittimato (ex ante) l’accesso allo strumento, non ne scaturirebbe la necessaria interruzione (ex post) delle trattative in corso e la conseguente archiviazione con chiusura “negativa” della stessa.

È significativo, a tal fine, anche il fatto che l’interruzione sarebbe scongiurata alla sola condizione che esistano «concrete» prospettive di risanamento: essendo la presenza di (“ragionevoli”) prospettive di risanamento un presupposto generale della composizione negoziata (art. 12, comma 1), ribadirne la necessità sarebbe stato e sarebbe del tutto superfluo se non si intendesse che il legislatore abbia invece più semplicemente voluto rimarcare che in tal caso non sarebbe di impedimento l’assenza di una delle due condizioni cumulative che ordinariamente integrano il presupposto oggettivo (le condizioni di squilibrio che rendono solo probabile la crisi o l’insolvenza), ma resterebbe invece ferma la necessaria sussistenza della seconda condizione (le ragionevoli prospettive di risanamento dell’impresa); e che questa stessa ulteriore condizione, in tal caso, assume una valenza più stringente, essendo imposto (qui, diversamente dall’art. 12), che le prospettive di risanamento risultino non più solo “ragionevoli” (in astratto ([22])), bensì «concrete».

(ii) Imprenditore in stato di crisi. Più complesso ed incerto appare invece il caso in cui l’imprenditore in composizione negoziata versi «in stato di crisi».

In questo caso, bisogna in effetti riconoscere, non si parla di situazione che potrebbe sopraggiungere. Ed anzi, proprio dal confronto con la diversa formulazione del periodo successivo potrebbe ricavarsi un pesante indice argomentativo in favore dell’ipotesi che lo stato di crisi potrebbe anche essere concomitante con l’avvio della composizione negoziata.

Non manca, tuttavia, anche in questo caso la possibilità di una diversa lettura, tale per cui la norma finisca per risultare neutrale (e comunque non decisiva) ai fini della soluzione del tema in discussione. La lettura alternativa, segnatamente, sarebbe nel senso che la norma avrebbe la valenza di precisare che se, nonostante l’accoglimento dell’istanza di nomina dell’esperto e l’avvio della composizione negoziata, il debitore, ad onta di quanto dichiarato e di quanto valutato dallo stesso esperto, si trovi di fatto in una condizione di crisi, la pendenza della composizione negoziata non lo esonererebbe dal dovere di «gesti[re] l’impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività» (o rispettivamente, in caso di insolvenza, dal dovere di gestire l’impresa «nel prevalente interesse dei creditori»). Così, tra l’altro, si spiegherebbe più agevolmente anche il terzo periodo, posto a chiusura del primo comma dell’art. 21, secondo cui «Restano ferme le responsabilità dell’imprenditore», dove nuovamente si intende rimarcare come la pendenza della composizione negoziata non costituisca una sorta di salvacondotto o di condizione di esonero dall’osservanza dei doveri (generali e speciali) che gravano sull’imprenditore e, nel caso di imprenditore collettivo, sui relativi organi gestori e di controllo. E così, ad esempio, ove la composizione negoziata dovesse chiudersi negativamente e fosse successivamente aperta una liquidazione giudiziale, il curatore potrebbe far valere la responsabilità in cui gli amministratori sarebbero incorsi nei confronti dei creditori sociali per aver violato tali specifici doveri, con un titolo di responsabilità che si aggiungerebbe a (o consoliderebbe e rafforzerebbe) quello tipico e classico dell’aggravamento del dissesto e che potrebbe finanche prescindere, proprio in ragione della specialità dei presupposti, dalle stesse condizioni stabilite all’art. 2486 c.c.).

(i)-(ii) Ma soprattutto, una volta riconosciuto che il sistema non ammette l’accesso alla composizione negoziata in presenza di uno stato di insolvenza preesistente alla presentazione dell’istanza (ma ne consente la sola prosecuzione a fronte di un’insolvenza reversibile sopravvenuta o di cui si sia comunque avuto contezza solo nel corso di svolgimento della composizione medesima), cadrebbe ogni possibilità di intendere la relazione di “probabilità” che lega lo squilibrio all’insolvenza come afferente a due grandezze astrattamente sovrapposte e di cui l’una costituisca solo il fondamento congetturale dell’altra: con riguardo all’insolvenza, dunque, la locuzione «condizioni … che rendono probabile … l’insolvenza» non potrebbe avere altro significato se non quello prospettico.

Ed allora, parrebbe quanto meno curioso che, nello stesso contesto sintattico, “probabile” fosse inteso in due significati differenti con riguardo ai due terminali di riferimento e che, cioè, fosse inteso in senso (anche) congetturale con riguardo alla crisi e meramente prospettico con riguardo all’insolvenza!

In altri termini: se il legislatore avesse inteso “probabile” in senso anche congetturale e non solo in senso prospettico, l’espressione da utilizzare sarebbe stata quella del debitore che versi in condizioni di squilibrio che rendono probabile la crisi (senza alcun riferimento all’insolvenza); è, dunque, proprio il combinato disposto dell’art. 12 (con il richiamo espresso alla probabilità anche dell’insolvenza e non solo della crisi) con l’art. 21, co. 1, 3° periodo, ad imporre la conclusione per cui la relazione di “probabilità” che lega lo squilibrio alla crisi e all’insolvenza, nell’art. 12, è (e non potrebbe altro che essere) intesa in senso puramente prospettico e non anche congetturale.

 

9. Le indicazioni ricavabili dall’art. 23 sugli esiti delle trattative

Di scarso pregio appare, infine, l’argomento tratto dall’art. 23, dedicato alla “Conclusione delle trattative” (così la sua rubrica), dove vengono menzionati, quali possibili esiti della composizione negoziata, i diversi strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza: trattandosi di strumenti che presuppongono tutti una condizione di crisi o di insolvenza – si sostiene – se ne trarrebbe conferma della omogeneità dei presupposti con quelli della composizione negoziata ([23]).

A ben vedere, l’art. 23, al primo e al secondo comma, distingue due tipologie di esiti, a seconda che sia stata «individuata una soluzione idonea al superamento della situazione di cui all’articolo 12, comma 1» o, rispettivamente, che «all’esito delle trattative» non sia stata invece «individuata una soluzione tra quelle di cui al comma 1». Ed è proprio nel secondo comma che vengono menzionati i diversi strumenti di regolazione che presuppongono una crisi o un’insolvenza conclamate ([24]).

La spiegazione della norma potrebbe quindi più semplicemente essere quella per la quale il fallimento delle trattative avrebbe reso evidenza del fatto che il rischio (la “probabilità”) di crisi o di insolvenza che aveva legittimato l’avvio della composizione negoziata non sia stato superato e che, anche in ragione del tempo trascorso alla ricerca di una soluzione non andata in porto, le condizioni di squilibrio siano tracimate in uno stato di crisi o di insolvenza ormai conclamate.

 

10. Ulteriori argomentazioni sistematiche e problematiche: l’ingiustificata disparità di trattamento che si avrebbe, ove i presupposti oggettivi fossero omogenei, con gli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza quanto alla disciplina su competenza, forma e pubblicità delle decisioni di accesso e sulla trasparenza delle relative domande.

In favore della soluzione restrittiva militano, infine, due ulteriori considerazioni, che hanno una valenza argomentativa al contempo “sistematica” e “problematica”. Entrambe fanno capo alla scelta legislativa di collocare la composizione negoziata al di fuori del novero degli “strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza”.

La scelta già di per sé potrebbe valere quale indice interpretativo della diversità dei presupposti oggettivi. Ma vale la pena sgombrare il campo dal possibile dubbio che, invece, la ragione alla sua base potesse essere diversa e, segnatamente, che debba ravvisarsi nell’assenza di un ruolo dell’autorità giudiziaria, che costituirebbe invece coelemento essenziale di riconduzione a categoria unitaria degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza. Che non sia questo l’elemento coagulante, difatti, è confermato non tanto dalla convenzione di moratoria, dove l’intervento dell’autorità giudiziaria, per quanto meramente eventuale, è comunque parte integrante e qualificante della relativa disciplina, quanto dai piani attestati di risanamento, per i quali, allo stesso modo della composizione negoziata, l’autorità giudiziaria non gioca nessun ruolo.

La diversa collocazione sistematica, per di più, non si esaurisce nella semplice differente dislocazione topografica delle diverse discipline all’interno del Codice, ma reca con sé anche rilevanti ricadute applicative, con in testa quella relativa alla non applicabilità, alla sola composizione negoziata, dell’art. 120-bis CCII, in tema di “accesso” a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza.

La norma, come è noto, stabilisce regole di competenza alla decisione di accedere a uno degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, nonché regole di forma e pubblicità delle relative determinazioni e, ancora, regole di protezione dell’organo amministrativo dal rischio di revoche ritorsive da parte dei soci, a protezione dell’indipendenza con cui gli amministratori sono chiamati a decidere, con la dovuta tempestività, le misure con cui fronteggiare una situazione di crisi o di insolvenza conclamate.

Ebbene, ove davvero la composizione negoziata fosse una delle possibili misure con cui affrontare, in piena alternatività rispetto agli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, uno stato attuale di crisi o di insolvenza, si farebbe fatica a comprendere perché mai, solo in questo caso, non dovrebbero applicarsi analoghe regole in tema di competenza, di forma e pubblicità delle determinazioni e di protezione dal rischio di revoche ritorsive da parte dei soci. A parità di “gravità” della condizione in cui verserebbe il debitore, si avrebbe una disparità di trattamento difficilmente giustificabile, tanto più se si considera che un regime informato alla massima cautela e trasparenza finirebbe per essere, paradossalmente, disapplicato proprio nel caso in cui si optasse per lo strumento meno incisivo e garantista per il ceto creditorio.

Ancora, in tutti gli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza (fatta eccezione, in ragione delle peculiarità dello strumento, per i soli piani attestati di risanamento), la domanda di accesso forma oggetto di iscrizione nel registro delle imprese (art. 40, comma 3, CCII), con un regime quindi di pubblicità che si aggiunge a quella già attuata (ex art. 120-bis) con riguardo alla decisione di accesso ove il debitore rivesta forma societaria.

Orbene, ove il presupposto della composizione negoziata fosse davvero una condizione di pari gravità, si farebbe nuovamente fatica a comprendere le ragioni di un trattamento normativo così radicalmente differente: improntato, in un caso, alla massima trasparenza e pubblicità, nell’altro alla più totale riservatezza (squarciata solo a fronte della, meramente eventuale, richiesta di misure protettive).

Per contro, la diversa disciplina troverebbe ragionevole e piena giustificazione ove il presupposto della composizione negoziata fosse una condizione ancora di pre-crisi, giacché la ratio che giustificherebbe l’opzione legislativa in favore della riservatezza sarebbe quella di evitare che la conoscenza dell’avvenuta presentazione dell’istanza di nomina dell’esperto possa creare quell’allarme che rischierebbe, con inevitabile “effetto domino”, di accelerare e rendere irreversibile quella tracimazione verso uno stato di crisi o di insolvenza che con l’accesso alla composizione negoziata si vorrebbe invece prevenire.

In altri termini, nell’equilibrio tra riservatezza e pubblicità, il Codice ha optato per la pubblicità (persino anticipata e duplice, in caso di forma societaria) tutte le volte in cui si sia dinanzi a uno stato di crisi o di insolvenza: parrebbe quindi contraddittorio far prevalere la riservatezza, a parità di condizioni economiche, per di più nel caso in cui la scelta effettuata dal debitore sarebbe indirizzata verso lo strumento più blando e che lascia al debitore la più ampia libertà di manovra, fatta eccezione per i soli doveri di gestione dell’impresa sopra rammentati.

 

11. Le indicazioni dell’Osservatorio Unioncamere sull’andamento delle composizioni negoziate e un ulteriore stimolo in favore dell’interpretazione restrittiva del presupposto oggettivo

La bontà di un istituto (e dunque la valutazione positiva che è possibile esprimere nei suoi riguardi) si misura principalmente avendo riguardo alla sua capacità di performare positivamente (alias, di raggiungere gli obiettivi che il legislatore si è prefisso con la sua introduzione e con le scelte sottese alla sua disciplina). Il che è ricavabile in prima battuta dal dato empirico, dalla osservazione della realtà applicativa, dalle rilevazioni statistiche, ecc.

Per di più il giurista non dovrebbe limitarsi a riportare gli esiti di tali risultanze empiriche, per poi aggiungersi al coro degli estimatori o dei detrattori dell’istituto oggetto di osservazione, ma dovrebbe assumersi anche la responsabilità di partecipare al processo di calibrazione e messa a punto cui ogni istituto, calato nella realtà operativa, viene sottoposto.

In tale ordine di idee, di grande interesse appaiono i dati pubblicati dall’Osservatorio Nazionale sulla Composizione Negoziata istituito presso Unioncamere, che riportano, con la terza edizione del “report” in data 15 maggio 2023, i risultati del primo anno e mezzo di applicazione dell’istituto.

Ebbene, da tali dati emerge che i tavoli chiusi “positivamente” sarebbero 39 su 316 complessivi, con una percentuale quindi del 12,35% di esiti favorevoli e dell’87,65% di chiusure negative.

Nel novero delle composizioni dall’esito favorevole, per vero, vengono inserite, accanto a 9 (2,85%) chiusure mediante un “contratto” di cui all’art. 23, comma 1, lett. a), e a 13 (4,11%) chiusure mediante un “accordo” di cui all’art. 23, comma 1, lett. c), anche 7 casi (2,22%) di presentazione di una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione, 1 caso (0,32%) di redazione di un piano attestato di risanamento e 9 casi (2,85%) in cui vi sarebbe stata domanda di accesso a (non meglio specificate) “altre procedure di regolazione della crisi”. Tra gli “esiti sfavorevoli”, invece, sono collocati 123 casi (38,92%) nei quali è risultata l’assenza di prospettive di risanamento (e dunque l’assenza di uno dei due presupposti oggettivi di apertura della stessa composizione), 105 casi (33,23%) in cui le trattative hanno avuto esito negativo, 39 casi (12,34%) in cui lo stesso imprenditore ha successivamente rinunciato, 8 casi (2,53%) chiusi con presentazione di una domanda di concordato semplificato e 2 casi (0,63%) in cui vi è stata una dichiarazione di fallimento.

Quanto ai 9 casi relativi ad “altre procedure di regolazione della crisi”, volendo effettuare una sorta di deduzione per sottrazione (rispetto a piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione e concordati semplificati, menzionati espressamente tra gli “esiti sfavorevoli”), verrebbe da pensare a convenzioni di moratoria, piani di ristrutturazione sottoposti ad omologazione e concordati preventivi, che tuttavia suonerebbe singolare che fossero collocati tra gli esiti favorevoli nello stesso contesto in cui piani attestati e accordi di ristrutturazione (oltre ai concordati semplificati) sono invece catalogati tra quelli sfavorevoli.

In ogni caso, non sembra che la classificazione nelle due caselle sia del tutto corretta, risultando francamente difficile ascrivere ad esito favorevole quelle trattative che sono poi sfociate in accordi di ristrutturazione, piani attestati di risanamento e, in generale, in procedure (rectius, strumenti) di regolazione della crisi o dell’insolvenza. E sembra più corretto quindi circoscrivere il dato degli esiti favorevoli ai soli contratti o accordi di cui alle lett. a) e c) del primo comma dell’art. 23 ([25]). I numeri andrebbero quindi riclassificati in 22 casi (invece che 39) favorevoli su 316, con una percentuale del 6,96% (invece che del 12,35%), a fronte di 294 casi sfavorevoli, pari al 93,04% del totale.

Ad ogni modo, anche a prescindere da quest’ultima notazione, resta comunque impressionante l’enorme divario rispetto ai tavoli chiusi con esito positivo, tanto che li si calcolasse (come qui si ritiene più corretto) nel 93,04% del totale, quanto che si optasse (secondo il criterio classificatorio di Unioncamere) per l’87,65%.

Ma non è tutto.

Il dato in questione sarebbe assai meno negativo, ed anzi il sistema risulterebbe per certi aspetti comunque lodevole e virtuoso, quand’anche si fosse riusciti a salvare una percentuale del 6,96% (o, tanto più, del 12,35%) di tutte le imprese aspiranti, se in tutti gli altri casi l’esito negativo dello strumento non avesse prodotto danni o comportato “costi di sistema”. Così però non è. E lo dimostra un ulteriore dato, particolarmente interessante, ricavabile sempre dal report dell’Osservatorio Unioncamere.

Il dato in questione è quello relativo alle “misure” che possono essere richieste con l’istanza di composizione negoziata o nel corso del suo svolgimento e che sono accordate attraverso un meccanismo semi-automatico (essendo immediatamente attivate dalla pubblicazione della domanda e dovendo solo essere confermate o meno ex post da parte del tribunale). Segnatamente: le c.d. “misure protettive”, di cui all’art. 18 (il c.d. “automatic stay”, col blocco delle azioni esecutive o cautelari e la preclusione della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale); e le “misure sospensive” degli obblighi di riduzione del capitale per perdite oltre un terzo e di ricapitalizzazione o di messa in liquidazione, di cui all’art. 20.

Da quanto riportato, difatti, emerge che le “misure sospensive” sono chieste nel 46,41% dei casi: il che significa che poco meno della metà delle imprese che accedono alla composizione negoziata sono (dichiaratamente) in condizioni di perdita pesante del capitale e, presumibilmente, in uno stato di liquidazione ([26]).

Le “misure protettive”, a loro volta, sono richieste nel 72,62% dei casi, con un andamento della curva che mostra una crescita esponenziale, ben evidenziata dalla tabella sugli andamenti trimestrali, da cui risulta che nell’ultimo trimestre la percentuale è salita al 76%, con una linea evolutiva che evidenzia un trend continuamente crescente.

Ora, mettendo assieme tutti i diversi dati, da quelli relativi agli esiti delle composizioni avviate a quelli sulle misure protettive (ma anche sulle misure sospensive), si comprende bene come l’effetto di sistema sia tutt’altro che indolore: sull’altare in cui si celebra il risicato successo delle poche negoziazioni chiuse positivamente vengono infatti sacrificati tutti i creditori che si trovano bloccati in pendenza di composizioni accompagnate da misure protettive. Lo stesso Osservatorio Unioncamere, nella seconda edizione del 16 novembre 2022, aveva scritto che «Alla luce dei dati fin qui analizzati, sembrerebbe che l’istituto venga utilizzato maggiormente dalle imprese per poter beneficiare dell’automatic stay, ossia del divieto per i creditori di esperire azioni esecutive e/o cautelari, più che per ripristinare la propria condizione di difficoltà economico-finanziaria» ([27]).

Avendo riguardo a tali dati ed a tali considerazioni, allora, viene fatto di pensare che spetti anche all’interprete (teorico e pratico) e, dunque, alla dottrina e alla giurisprudenza, di fornire un proprio contributo per far sì che l’istituto possa performare nel modo più efficace e nel contempo più corretto, equilibrato ed efficiente (in termini di bilanciamento tra benefici realisticamente conseguibili mediante effettive e concrete chance di pervenire ad esiti favorevoli, da un lato, e costi di sistema, dall’altro, con in testa il sacrificio che il ceto creditorio è chiamato a sopportare in nome delle ridette chance di successo).

Viene allora spontaneo immaginare, pur non potendo ovviamente disporre di dati a “controprova”, che una più rigorosa delimitazione del presupposto oggettivo che legittima l’apertura della composizione negoziata (e la connessa possibilità di attivare misure protettive) condurrebbe, se non ad un ribaltamento dei risultati complessivi, quanto meno e senz’altro a un’impennata del dato percentuale dei tavoli chiusi con esito positivo, riducendo la forbice tra benefici e costi di sistema.

Il che, per di più, avrebbe l’ulteriore effetto benefico di invertire la tendenziale diffidenza con cui i creditori percepiscono la composizione negoziata (accompagnata, come oggi nella stragrande maggioranza dei casi accade, dalla attivazione di misure protettive): una percezione fortemente condizionata dal peso delle ricadute negative dirette sulle rispettive posizioni (dal dovere di collaborazione e/o partecipazione attiva, al divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari), non compensato da una equivalente dose di ottimismo sui possibili esiti della composizione e che inevitabilmente conduce a un affievolimento della portata concreta dello stesso dovere di collaborazione e/o di partecipazione attiva, la cui efficacia sarebbe ben superiore se collaborazione e partecipazione si fondassero, oltre che su un imposizione di fonte legale, anche su un convincimento genuino della loro concreta utilità.


(*) L’articolo, che riprende e completa, con un corredo minimale di note, il testo della relazione svolta il 15 settembre 2023 al convegno di Monopoli su “Gli strumenti negoziali di soluzione delle crisi d’impresa”, VIII Seminario di studi, a cura di Egnathia, Centro Studi Giuridici ed Economici sulla Crisi d’Impresa, è destinato a un volume collettaneo di prossima edizione per i tipi della Zanichelli.



([1]) Se si eccettua, a quanto consta, il solo Trib. Siracusa, 14 settembre 2022.

([2]) Cfr. S. Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in Ristrutturazioni Aziendali, 23 agosto 2021, p. 6 ss.; A. Giordano, Sub art. 12, in AA.VV., Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, diretto da F. Di Marzio, Giuffrè, Milano, 2022, p. 51; N. Abriani, Continuità aziendale, avvio della composizione negoziata e giustificato ritardo nella redazione del bilancio, in Diritto della crisi, 18 ottobre 2022, p. 3; A. Jorio, Qualche ulteriore considerazione sul D.L. 118/2021, e ora sulla legge 21 ottobre 2021, n. 147, in Ristrutturazioni aziendali, 1° dicembre 2021, p. 4; R. Guidotti, Presupposti “interni” ed “esterni” della composizione negoziata della crisi d’impresa ed avvio del procedimento, in NDS, 2021, p. 1623; A. Rossi, I presupposti della CNC, tra debiti dell’imprenditore e risanamento dell’impresa, ivi, 30 novembre 2021, par. 4. Sul presupposto della “risanabilità dell’impresa” v. poi, tra gli altri, V. Minervini, Composizione negoziata, norme unionali e (nuovo) Codice della crisi, in Diritto della crisi, 30 marzo 2022, spec. par. 3 ss.; A. Rossi, I presupposti della CNC, tra debiti dell’imprenditore e risanamento dell’impresa, ivi, 30 novembre 2021, par. 5. È dubbio, invece, se la composizione negoziata sia compatibile con lo stato di liquidazione e/o con la liquidazione totale dell’attività senza continuità diretta: in senso contrario si fa valere il fatto che la continuità indiretta sarebbe prevista solo in caso di concordato semplificato, in caso di fallimento delle trattative (v. riff. in A. Della Sega - S. Spiazzi, I contrasti giurisprudenziali sull’accesso alla composizione negoziata per la società in stato di insolvenza o di liquidazione, in Ilfallimentarista, 14 febbraio 2023; E. Bissocoli, La presunta incompatibilità tra lo stato di liquidazione (recte il piano di liquidazione) e la composizione negoziata della crisi d’impresa: un equivoco da evitare, in Diritto della crisi, 31 agosto 2022); di contro, l’art. 12, comma 2, ult. parte, CCII, prevede che l’esperto possa individuare, tra le diverse soluzioni, anche quella di un risanamento attuato «mediante il trasferimento dell’azienda o di rami di essa».

([3]) Giurisprudenza che si forma sulle questioni incidentali che sorgono nell’ambito della composizione negoziata e, in particolare, con riguardo all’ipotesi in cui (come nella grande maggioranza dei casi accade) il debitore faccia istanza di concessione di misure protettive: nel qual caso il tribunale è chiamato a confermare o a negare le misure, in esito a un giudizio che si estende anche alla presenza o meno dei presupposti per il legittimo accesso alla composizione negoziata. In tale contesto cfr., per una lettura estesa anche alla crisi e all’insolvenza attuali, Trib. Bologna, 8 novembre 2022, ma anche altri decreti che, pur rigettando le misure protettive richieste, hanno affermato, sia pure in obiter, che lo stato di insolvenza, purché reversibile, sarebbe stato non incompatibile, ma escludendo che, nella specie, ricorressero prospettive di ragionevole risanamento dell’impresa: Trib. Arezzo, 16 aprile 2022; Trib. Roma, 10 ottobre 2022.

([4]) E. La Marca, Insolvenza, crisi e pre-crisi nel Codice della crisi, a valle della emanazione del Decreto Attuativo della Direttiva Insolvency, in Diritto della crisi, 22 agosto 2022, spec. § 6.

([5]) Per la quale v. F. Lamanna, Il codice della crisi e dell’insolvenza dopo il secondo correttivo, Giuffrè, Milano, 2022, il quale, a p. 138 ss. e già a p. 34.

([6]) La norma stabilisce testualmente, al primo comma, primo e secondo periodo, che «L’organo di controllo societario segnala, per iscritto, all’organo amministrativo la sussistenza dei presupposti per la presentazione dell’istanza di cui all’articolo 17. La segnalazione è motivata, è trasmessa con mezzi che assicurano la prova dell’avvenuta ricezione e contiene la fissazione di un congruo termine, non superiore a trenta giorni, entro il quale l’organo amministrativo deve riferire in ordine alle iniziative intraprese».

([7]) S. Ambrosini, op. cit., p. 7. Nel senso che il dettato letterale dell’art. 12, da solo, del pari legittimerebbe la lettura restrittiva, che tuttavia sarebbe superata dal combinato disposto dello stesso art. 12 con l’art. 21, v. anche E. Desana, L’emersione anticipata della crisi: dalle misure di allerta alla composizione negoziata, in AA.VV., Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, a cura di S. Ambrosini, Zanichelli, Bologna, 2022, p. 219 s.

([8]) Così nel Dizionario Treccani on-line, ad vocem.

([9]) Né, in tutta evidenza, sarebbe sufficiente, in senso opposto, invocare (come peraltro nessun sostenitore delle soluzioni estensive sembra propenso a fare) il fatto che la locuzione utilizzata per l’identificazione del nostro strumento sia quella di “composizione negoziata della crisi”, giacché si tratta di locuzione puramente convenzionale nella quale non potrebbe escludersi che la parola crisi sia impiegata in senso generico ed atecnico. Del resto, anche messa a confronto col passaggio della Relazione illustrativa, la formulazione peccherebbe allora tanto per difetto (non menzionando l’insolvenza), tanto per eccesso (rispetto alla situazione di mera “difficoltà” o, per l’appunto, di pre-crisi).

([10]) Cfr. Carratta, Il procedimento di apertura delle procedure concorsuali, in Dir. fall., 2019, par. 10.

([11]) Mi sembra nello stesso senso, da ultimissimo e per tutti, S. Ronco, Requisito oggettivo e soggettivo nel Codice della Crisi: qualche osservazione critica su definizioni e assenze, in Diritto della crisi, 28 agosto 2023, p. 3 ss.

([12]) Se si eccettua la sola convenzione di moratoria.

([13]) E. La Marca, op. cit., p. 13.

([14]) Dallo stesso E. La Marca, op. cit., p. 14.

([15]) S. Ambrosini, op. cit., p. 7.

([16]) O, ad accogliere la soluzione della possibile legittima prosecuzione delle trattative a fronte di uno stato di insolvenza sopravvenuto, perché il tribunale ritenga che non sussistano in ogni caso ragionevoli prospettive di risanamento dell’impresa.

([17]) S. Ambrosini, op. cit., p. 7. L’argomento è riferito all’art. 23, comma 2, d.l. 24 agosto 2021, n. 118 («Misure urgenti in materia di crisi d'impresa e di risanamento aziendale, nonché ulteriori misure urgenti in materia di giustizia»), conv., con modif., in l. 21 ottobre 2021, n. 147, che aveva anticipato la disciplina della composizione negoziata ed è poi confluito, con modificazioni, nel Codice.

([18]) E. La Marca, op. cit., p. 11 s.

([19]) S. Ambrosini, op. cit., p. 7.

([20]) S. Ambrosini, op. cit., p. 7 s.

([21]) Cfr., per tutti, E. Desana, op. cit., p. 220, secondo cui l’art. 21 entrerebbe in combinato disposto con l’art. 12, integrando così il dato normativo da cui ricavare il presupposto oggettivo della composizione negoziata.

([22]) Sul punto v. nuovamente E. La Marca, op. cit., p. 12 s.

([23]) S. Ambrosini, op. loc. ultt. citt.

([24]) Per vero, al primo comma, accanto alla soluzione del contratto con uno o più creditori [lett. a)] o dell’accordo con i creditori [lett. c)] si menziona anche la convenzione di moratoria di cui all’art. 62 CCII, che è a sua volta uno degli strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza. Tuttavia è significativo il fatto che, tra i diversi strumenti in questione, la convenzione di moratoria sia l’unica per la quale il legislatore non ha indicato in modo esplicito quale ne sia il presupposto oggettivo; ed è del pari significativo il fatto che la dottrina tende ad escludere che lo stesso possa consistere nello stato di insolvenza e finanche a descriverlo come compatibile con una condizione di crisi più lieve, suscettibile di superamento mediante uno strumento che non a caso sarebbe circoscritto alla sola moratoria.

([25]) Peraltro in linea con quella che sembra essere la valutazione dello stesso legislatore, riflettendo la ragione esplicita della dislocazione dei diversi “esiti” della composizione tra primo e secondo comma dello stesso art. 23: il primo comma comprende gli esiti corrispondenti a «Quando è individuata una soluzione idonea al superamento della situazione di cui all’articolo 12, comma 1»; il secondo comma, invece, raccoglie quelli in cui «all’esito delle trattative non è individuata una soluzione tra quelle di cui al comma 1». L’unica casella non del tutto consonante con la prospettata ripartizione sarebbe quella della lett. b) del primo comma, dove è collocata la convenzione di moratoria, che tuttavia potrebbe ancora trovare una giustificazione nella limitata portata dello strumento, solo dilatoria e mai remissoria.

([26]) Secondo gli stessi dati Unioncamere, difatti, risulta che il 29,7% del totale delle imprese in composizione negoziata (non di quelle che hanno chiesto la misura sospensiva, dunque, ma del totale complessivo) presenta un patrimonio netto negativo. Ciononostante, con dato che suona tendenzialmente contraddittorio, solo il 22,43% risulta aver evidenziato la necessità di reperire nuove risorse finanziarie per la continuità aziendale.

([27]) Nella terza edizione l’affermazione è stata per vero edulcorata e oggi recita: «Alla luce dei dati fin qui presentati, sembrerebbe che la maggior parte delle imprese, quando inviano istanza di composizione negoziata, richiedano le misure protettive per poter beneficiare dell’automatic stay, ossia del divieto per i creditori di esperire azioni esecutive e/o cautelari».