Giurisprudenza

L’art. 47, c. 4, CCII, secondo la Corte d’Appello di Milano


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Articolo

La terapia del valore come percorso di managerializzazione orientata alla prevenzione e al trattamento della crisi d’impresa


Serena Maurutto

Data pubblicazione
05 dicembre 2023

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Sommario: 1. Il contesto imprenditoriale italiano: una breve premessa. - 2. Il concetto di valore nelle formulazioni della scienza aziendalistica - 3. La massimizzazione del valore del capitale economico come obiettivo finale dell’impresa. - 4. La valenza strategica della teoria del valore come terapia nel contesto della crisi aziendale. – 5. Art. 2086 c.c. e orientamento al valore: managerializzazione guidata agli assetti adeguati. Conclusioni.


1. Il contesto imprenditoriale italiano: una breve premessa

Il contesto imprenditoriale italiano è caratterizzato, come a tutti è noto, dalla particolare combinazione di tre elementi che possiamo ricondurre nell’ambito di un meccanismo sillogistico: la dimensione ridotta e la gestione familiare delle imprese, da un lato, e la assenza (o assolutamente scarsa) separazione tra proprietà e controllo, dall’altro.

La comunità imprenditoriale nazionale, infatti, presenta due elementi del tutto particolari: sono soltanto una decina le aziende con fatturato superiore ai 5 miliardi di euro[1] (che ormai è considerata la taglia minima per avere una massa critica sufficiente per reggere i ritmi della ipercompetizione dei mercati globali); il controllo familiare è presente in più del 65% del totale delle imprese[2].

Su queste preliminari basi chi scrive si pone come obiettivo, a parità di condizioni di tesi e antitesi – ovvero, presenza maggioritaria di piccole imprese e gestione familiare – un mutamento di prospettiva che ci consenta di sostituire i contenuti della sintesi, con una soluzione maggiormente idonea a evitare che la combinazione dei primi due elementi degeneri come conseguenza dell’assenza di meccanismi di efficace ed efficiente conduzione manageriale, senza tuttavia che ciò equivalga ad una riconduzione deterministica di tale generazione alla sovrapposizione dei ruoli di proprietà e gestione ex se.

In altre parole, nel contesto attuale in cui operano le imprese, risulta quanto mai necessario individuare un metodo di gestione che consenta di radicare un sistema di strumenti operativi effettivamente adeguati alla ricerca della massimizzazione del valore del capitale economico[3].

Strumenti che, se opportunamente declinati nello specifico contesto della PMI, devono essere sistematizzati entro un cruscotto di misurazione e controllo della performance, che consenta sia la definizione di scenari previsionali verosimilmente perseguibili, sia di riconoscere tempestivamente le probabilità di incorrere in pericolose derive di distruzione di valore e, infine, eventualmente di approntare efficacemente le soluzioni più idonee a correggere la rotta.

Si ritiene che ricondurre la teoria del valore, a partire dai suoi postulati per arrivare sino all’applicazione dei metodi e dei suoi strumenti tipici, entro una “via virtuosamente italiana”, possa rappresentare l’occasione ideale per affrontare un cambiamento che, prima di tutto, deve essere di tipo culturale, nella gestione dell’azienda finalizzata al mantenimento di adeguati livelli di crescita e performazione. E, nel contempo, che possa offrire un valido supporto ad una efficace implementazione dei principi di early warning e forward looking, contribuendo a evitare che le imprese italiane soccombano davanti alle sfide derivanti tanto dalla competitività quanto dagli shock esogeni al sistema[4].

 

2. Il concetto di valore nelle formulazioni della scienza aziendalistica

Nel contesto dell’impresa il valore può essere definito come la sommatoria di flussi di reddito futuri, attualizzati con un coefficiente che esprime opportunamente il costo del capitale nel lungo periodo. Ogni organizzazione imprenditoriale crea, cioè, valore generando dei flussi, a fronte del fatto che l’organizzazione di un sistema di risorse nell’ambito dell’universalità aziendale richiede l’esposizione ad un certo livello di rischio al quale è correlato il rendimento che l’impresa deve ottenere per soddisfare il livello di remunerazione del capitale ritenuto adeguato dagli azionisti.

Sotto questo punto di vista, il valore si differenzia evidentemente da altri due concetti tradizionalmente associati alla gestione dell’impresa: il profitto e il reddito.

Rispetto al profitto, è evidente come il valore ne superi le implicite ambiguità assumendo una notevole valenza operativa, dal momento che tiene conto sia del fattore tempo, attraverso l’analisi della differente distribuzione temporale dei flussi, sia del rischio, ossia dell’incertezza, nel quando e nel quantum, intrinsecamente correlata alla manifestazione futura di risultati che non sono attuali, ma attesi[5]. Il profitto, inoltre, risulta anche un concetto anacronistico circa le più recenti modalità di conduzione aziendale, in quanto è espressione di una destinazione della ricchezza già attribuita, in particolare ai soli conferenti il capitale di rischio. Il valore, invece, rispondendo ad un approccio non soltanto di creazione, ma anche di diffusione e distribuzione, della ricchezza, risulta concetto estremamente attuale, in quanto coerente con i postulati della stakeholder theory che legge l’impresa come sistema vitale la cui continuità è ineludibilmente connessa con la soddisfazione degli interessi di un nutrito gruppo di portatori di interesse[6].

Il reddito, a differenza del valore, pur non implicando una sorta di predeterminazione nell’attribuzione ad una specifica destinazione, sconta il difetto di riferirsi esclusivamente alla ricerca di condizioni di efficienza economica, in base alle quali l’analisi della redditività potenziale dei progetti di investimento funge da discrimen nella allocazione delle risorse[7].

Il concetto di valore pare, in definitiva, nelle condizioni di incertezza in cui fisiologicamente si trova ad operar l’impresa, rappresentare un criterio superiore, in quanto più moderno e razionale, rispetto sia a quello di profitto sia a quello di reddito, in quanto: è naturalmente predisposto alla rilevazione precoce e alla misurazione del tempo e del rischio; è applicabile anche nel contesto di imprese il cui obiettivo non è la creazione di profitto (es: ospedali); si pone in linea con le più recenti indicazioni della teoria sistemica, che spingono a leggere l’impresa come un sistema vitale che si muove e sviluppa in presenza di sovra sistemi e sottosistemi, con i quali deve trovare diversi gradi di consonanza[8].

Sulla scorta delle osservazioni sino a qui svolte, è possibile spiegare il valore fornendone una prima formulazione matematica differente, a seconda che lo si voglia ricondurre alla misurazione del capitale economico oppure, in termini più generali, al rapporto tra rischio e rendimento.

In termini di strumento di misurazione della ricchezza prodotta per gli azionisti (Capitale Economico), il valore può essere rappresentato attraverso la seguente equazione:


 

Dove Dj, sono i dividendi futuri attualizzati, ovvero la parte di che sarà distribuito agli azionisti e kE è il costo del capitale proprio (equity) dell’impresa.

Esiste, tuttavia, un’ulteriore formulazione del valore che, come brevemente accennato, evidenzia la relazione tra rischio e rendimento e consente, come vedremo, di identificare, da un lato, le condizioni preliminari alla creazione e alla distruzione di valore, e, dall’altro, di favorire il passaggio dall’approccio della creazione a quello della diffusione del valore medesimo. Tale formulazione, nota come equazione di base del valore, è la seguente:

[vedi pdf allegato]

L’espressione sopra riportata, a differenza della precedente, assume come presupposto la continuità dell’impresa, intesa come invarianza del rendimento (R) e del rischio (i) in un numero indeterminato di periodi. In tale equazione, la creazione di valore (W) non è altro che il rapporto tra il risultato atteso, inteso quale flusso di reddito o cash flow – a seconda che si utilizzi una prospettiva di misurazione reddituale o finanziaria – e il coefficiente di rischio ad esso associato che, a sua volta, può rappresentare un dato analitico, rappresentando il costo del capitale dell’impresa o il costo del capitale proprio con varie formulazioni, oppure un parametro benchmark di mercato, quale ad esempio il tasso d’interesse in caso di mercato efficiente e razionale[9].

Dalla lettura dell’equazione di base del valore è facile intuire come l’incremento del valore dell’impresa passi, necessariamente, attraverso l’aumento del denominatore (R), a parità di rischio, oppure attraverso la riduzione del rischio (i), a parità di rendimento, se non attraverso la crescita dei risultati contestuale alla riduzione del rischio.

Va chiarito, infine, in che senso l’espressione di base ci permette anche di passare dalla fase di creazione a quella di diffusione di valore, ovvero di comprendere come l’azienda sia in grado di aumentare il proprio valore cercando di influenzare la percezione che il mercato ha della stessa. Nel caso delle aziende quotate, insieme alla garanzia di condizioni di trasparenza, una corretta gestione contribuisce a diminuire la percezione del rischio, da parte del mercato, con conseguente effetto di riduzione del costo del capitale proprio (diminuzione del denominatore della frazione) a beneficio evidente, del valore. Allo stesso modo, la reputazione dell’azienda può far arrivare agli stessi flussi con costi più bassi e quindi agire sul numeratore (R), poiché – ceteris paribus – un’azienda ben gestita e con un solido capitale reputazionale riescono ad accedere a risorse a costi più bassi.

 

3. La massimizzazione del valore del capitale economico come obiettivo finale dell’impresa

La massimizzazione del valore del capitale economico, sia che la si intenda come ricchezza per gli azionisti, sia, a maggior ragione, che la si legga quale ricchezza per gli stakeholder, rappresenta senza dubbio un obiettivo dall’indubbia valenza pratica, in grado non soltanto di orientare le scelte imprenditoriali in prospettiva manageriale, ma anche di prevedere, misurare e monitorare costantemente proprio i risultati di tali scelte.

Scegliere la creazione di valore, e la massimizzazione del capitale economico, quale obiettivo-guida delle determinazioni aziendali, significa, infatti, improntare un sistema continuo e costante di ricerca delle opportunità di investimento che fa scaturire una proficua sinergia grazie alla combinazione di due prospettive: i) l’identificazione e la scelta dei soli investimenti potenzialmente idonei a tradursi in nuovo valore incrementale; ii) il monitoraggio delle aree strategiche d’affari in cui l’azienda è già impegnata, in modo da tenere sotto controllo l’attitudine di ciascun campo di attività a incrementare, mantenere o distruggere valore economico.

Tale sistema, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, risulta particolarmente adatto a rispondere alle esigenze che il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza pone in capo alle imprese, con particolare riferimento alla necessità di inserire, nella gestione aziendale, un sistema di assetti adeguati alla tempestiva rilevazione dei segnali di allarme, per gestire efficacemente la crisi.

Rinviando a tale sezione gli opportuni approfondimenti, in questa sede è opportuno chiarire meglio come la teoria del valore, prima di divenire un valido strumento nel contesto della terapia della crisi[10], si configuri come un approccio razionale, oggettivo e stimolante di gestione aziendale e controllo dei risultati.

Dal punto di vista della gestione aziendale, la teoria del valore ha, come brevemente anticipato, il merito di leggere l’azienda alla stregua di un investimento qualsiasi, con conseguente sovrapponibilità dei criteri di scelta effettuati sulla base del principio generale della convenienza economica.

Detto in altri termini, il valore del capitale dell’impresa deve essere calcolato quale valore attuale netto della somma dei flussi prospettici attesi entro l’orizzonte temporale compreso tra l’avvio del progetto e la dismissione dello stesso, replicando la medesima logica dell’alternanza tra investimento e disinvestimento. Tuttavia, a differenza del disinvestimento di un bene strumentale che è, in quanto tale, deperibile, l’impresa, in condizioni fisiologiche, non ha un prezzo finale marginale, ma che, in quanto sistema economico per natura duraturo, contribuisce in misura significativa al valore complessivo.

Sulla base di tali assunzioni, è facile comprendere come sia differente la formula che identifica la massimizzazione del valore del capitale dell’impresa, rispetto a quella utilizzata per la determinazione del valore attuale netto di un qualunque altro investimento.

Per calcolare il Valore Attuale Netto di un investimento, o Net Present Value, (VAN o NPV), è necessario procedere alla sommatoria dei flussi che ci si attende che l’investimento stesso generi, entro l’orizzonte temporale coerente con la sua vita utile, al netto dei costi affrontati e del tasso di sconto del rischio ad esso associato. In formula avremo:

 [vedi pdf allegato]

Dove: Io rappresentano i costi iniziali legati all’investimento, da sottrarre alla somma dei flussi (FC) generati dall’investimento, compresi tra l’anno di avvio (1) e l’anno finale (n), attualizzati del tasso di rischio ad esso associato (r).

Dalla lettura della formula è facile intuire che il valore attuale è positivo ogni qualvolta la somma dei flussi attesi di periodo, opportunamente attualizzati, è superiore al costo iniziale dell’investimento, ovvero, detto in altri termini, quando la differenza tra la sommatoria dei flussi e i costi dell’investimento è superiore a zero.

Mentre, come detto, il valore residuale all’ultimo intervallo temporale di un investimento in beni strumentali è meramente eventuale – oltre che tipicamente residuale – non è così per il capitale dell’impresa, il cui valore finale, in ottica di going concern, è tutt’altro che irrilevante.

Ne deriva che, nella rappresentazione matematica del valore del capitale dell’impresa, l’espressione debba tenere conto di quello che sarà proprio il valore finale:

 [vedi pdf allegato]


Dove, assumendo che l’unità di misura da utilizzare sia il dividendo distribuito (d) e, in particolare, la somma dei dividendi distribuiti nell’orizzonte temporale compreso tra l’anno 1 e l’anno n,  attualizzati con un coefficiente adeguato di rischio (vs), assume rilevanza specifica proprio la determinazione del più probabile prezzo dell’azienda al tempo futuro (Pn), anch’esso attualizzato (vn).

Se il tema del valore finale dell’investimento nel bene-impresa rispetto al valore finale dell’investimento in un bene strumentale ci porta doverosamente a rettificare la formula di computo del valore del capitale economico, rispetto a quella del VAN, le due espressioni condividono elementi fondamentali, risultato della adozione della comune prospettiva di ispirazione chiaramente finanziaria. In tal senso, infatti, le formule esprimono le performance dell’impresa in termini di flussi annui opportunamente rettificsti in funzione della diversa distribuzione temporale dei risultati che sono, al momenti della misurazione, attesi e, perciò, aleatori.

Ciò significa che il valore del capitale dell’impresa assume valori diversi oggi rispetto al futuro, a parità di ogni altra condizione, proprio in funzione della differenza del profilo e dell’estensione temporali assunti per la determinazione dei risultati: in questo senso, funge da parametro di riequilibrio proprio il tasso di attualizzazione che, oltre a rendere omogenee, sotto il profilo temporale, grandezze monetarie che hanno distinta manifestazione nel futuro, consente di replicare la stessa omogeneità anche in riferimento alla comparazione di alternative di investimento cui deve essere attribuita, proprio grazie all’identificazione del livello di remunerazione specifico atteso, una altrattanto specifica classe di rischio.

L’ultimo passaggio da compiere, per comprendere appieno la valenza operativa della teoria del valore e della massimizzazione del capitale economico quale obiettivo guida dell’agire imprenditoriale nello specifico contesto della crisi d’impresa, è la interpretazione, logica e matematica, del concetto di valore come grandezza differenziale, o ricchezza di tipo incrementale.

Il suddetto passaggio consente, infatti, di leggere la creazione di valore e la massimizzazione del capitale economico quali due facce della stessa medaglia nella gestione dell’impresa: la massimizzazione del capitale dell’impresa è un obiettivo perseguibile solo nel caso in cui il management sia in grado di cogliere, misurandone i risultati, le opportunità capaci di incrementare la ricchezza per gli azionisti e, in senso più ampio, per gli stakeholder[11].

La dimensione incrementale o differenziale ci introduce ad una lettura virtuosamente dinamica della performance dell’impresa, che consente di pesare gli obiettivi, appunto, “per differenza”, rilevando sia le differenze positive (creazione di valore), sia quelle negative (distruzione di valore).

Secondo questo approccio è ora necessario precisare come l’applicazione della teoria del valore nel contesto della misurazione dei risultati differenziali, muti a seconda che l’orizzonte temporale di riferimento coincida con un intervallo temporale unitario, oppure si riferisca a più anni.

Nel primo caso la variazione di ricchezza prodotta dalla gestione aziendale, quale grandezza espressiva del valore creato (o distrutto) nel periodo, è pari alla somma tra la variazione del capitale economico e i dividendi distribuiti nel medesimo periodo.  A tale somma va detratto l’eventuale aumento di capitale a pagamento, rettificato in diminuzione per i rimborsi. Di qui l’espressione sintetica seguente per il periodo di tempo unitario (1):

 

R1 = ΔW1 + d1 – ΔC1

 

Se, tuttavia, l’orizzonte temporale di riferimento coincide con più periodi (n), l’espressione del valore creato muta come segue:

 

ΔR = Ʃ (da T=1 a n) = vt (dt -Ct) + (Wn vn – W0)

 

Dove la ricchezza è calcolata come risultato incrementale ottenuto in un arco temporale di più anni, in cui il saldo netto annuo deriva dal confronto tra l’utile che ci si attende verrà distribuito con l’eventuale aumento del capitale a pagamento, opportunamente integrato con la variazione che, nel medesimo periodo, subisce il valore del capitale economico dell’impresa.

 

4. La valenza strategica della teoria del valore come terapia nel contesto della crisi aziendale

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza ha introdotto le procedure di allerta quali sistemi di segnalazione precoce (early warning), volti ad intercettare anticipatamente la crisi tramite una diagnosi precoce e ad intervenire prima che essa si traduca in insolvenza irreversibile, salvaguardando così la continuità aziendale[12].

A favore dell’emersione anticipata della crisi, il Codice disciplina una serie di obblighi a carico degli amministratori e dei soggetti preposti al controllo dell’azienda, obblighi alla base dei quali senza dubbio il pilastro è «rappresentato dall’introduzione del dovere di istituire assetti organizzativi ai sensi dell’art. 2086, secondo comma, c.c. che precisa il contenuto del dovere di gestione della crisi, distinguendo due distinte “fasi” in cui si articola detto dovere [i) una fase prodromica, di rilevazione dei segnali di dissesto; e ii) una fase successiva in cui viene operata la scelta delle modalità di reazione idonee al superamento delle tensioni riscontrate], fornendo pure alcune importanti indicazioni, che suggeriscono il rinvio a nozioni tecniche della scienza aziendalistica per il “riempimento” degli obblighi[13]».

Volendo soprassedere sui contenuti della responsabilità correlata all’elusione degli obblighi di rilevazione tempestiva, in questa sede ci si occuperà di fornire una disamina dei contenuti dei sistemi di diagnosi precoce, cercando di identificare quali possano ritenersi effettivamente adeguati ai fini del trattamento efficace della crisi e, in particolare, si cercherà di dimostrare come la teoria del valore risulti, in tale contesto, un approccio concretamente idoneo alla costruzione di un sistema di assetti di gestione adeguato ad evitare l’insolvenza e rientri, pertanto, a pieno titolo tra i suddetti sistemi[14].

Innanzitutto, va detto che rispetto alla preservazione della continuità aziendale, come obiettivo preferibile rispetto alla soluzione liquidatoria, risulta funzionale il combinato disposto tra il rilevamento tempestivo dei segnali di crisi e l’approccio forward looking: soltanto sviluppando un sistema di strumenti idonei a superare la prospettiva contabile di registrazione consuntiva dei dati aziendali, con metodi di previsione e misurazione razionale della performance attesa in termini di out put delle scelte manageriali, è possibile, infatti, gestire con successo le situazioni di crisi, interrompendo la spirale degenerativa ed evitando le ricadute.

La teoria del valore pare un approccio estremamente fittante rispetto agli obiettivi del Codice della Crisi, in quanto possiede tutta una serie di caratteri intrinseci che appaiono di assoluta rilevanza circa l’obiettivo di preservazione dell’on going concern così come del tempestivo intervento terapeutico.

Si cercherà pertanto, di seguito, di dimostrare la convenienza sostanziale dell’adozione della creazione di valore come terapia specifica, idonea al trattamento tempestivo, alla gestione e alla prevenzione della crisi aziendale.

Corre l’obbligo di ricordare come, volendo inquadrare il fenomeno della crisi nell’alveo della teoria di creazione del valore, quest’ultima legga nell’accrescimento del valore economico del capitale l’obiettivo finale di ogni azienda. Come già visto, inoltre, la dimensione del capitale economico è un’espressione dinamica e differenziale della ricchezza aziendale, misurabile con apposite formule valutative.

Letta in prospettiva di valore, la crisi è pertanto manifestata da una variazione negativa che segnala una distruzione di valore entro uno stato di più o meno perdurante perturbazione delle condizioni di salute aziendale, che minaccia il capitale economico dell’impresa e la sua capacità di ricreare valore.

La meta di creazione di valore è, evidentemente, intrinsecamente connaturata all’esigenza di sopravvivenza e continuità aziendali, all’interno della quale è in grado di declinare strumenti e metodi idonei, sia sotto il profilo del monitoraggio, sia sotto quello dell’intervento, a intercettare e arginare fenomeni di distruzione di valore se non di stazionarietà.

La mancata creazione di valore e, a maggior ragione, il suo declino che, in quanto elementi tipici di una situazione di rischio, caratterizzano la fisiologia della vita aziendale, divengono indicatori fondamentali nel contesto di eventuali derive patologiche, capaci di fungere da strumento premonitore della possibile involuzione allo stato di irreversibilità e di correlato intervento.

In poche parole, se non è corretto affermare che alla distruzione di valore consegua inevitabilmente uno stato di crisi non transitorio, è assolutamente vero che la crisi si manifesta necessariamente attraverso la distruzione di valore e la successiva progressione decrementativa e differenziale dello stesso.

Appare a questo punto evidente come la valenza gestionale della teoria del valore dimostri verosimile efficacia nel contesto della terapia della crisi, dove l’orientamento delle scelte manageriali verso la ricerca continua di opportunità di investimento, sia all’interno che all’esterno delle aree strategiche d’affari in cui l’azienda è già attiva, comporta una vigilanza costante del rendimento di tali aree e la tempestiva individuazione di quelle che contribuiscono al mantenimento, alla crescita o alla distruzione del valore del capitale economico.

I sistemi di monitoraggio intrinseci all’approccio del valore, adottando altresì la medesima ottica forward looking promossa dal Codice, consentono di leggere i segnali di crisi in ottica di scostamento dei risultati maturandi rispetto agli obiettivi prefissati, e di intervenire correggendo le variazioni di valore, non solo decrementative, ma anche semplicemente non satisfattive e coerenti con i programmi manageriali connessi con l’obiettivo di massimizzazione del capitale economico.  

In questo senso la teoria di creazione del valore risulta un approccio razionale e una terapia di prevenzione utile per evitare le perturbazioni non transitorie delle condizioni di continuità aziendale.

Laddove, tuttavia, la crisi sia conclamata e minacci la continuità aziendale, la terapia del valore risulterebbe, allo stesso modo, efficace anche nell’interruzione di spirali negative, gestendole a partire dal loro primo manifestarsi fino al ripristino di condizioni di normalità.

La combinazione dell’approccio di gestione e di orientamento delle scelte manageriali, con quello di misurazione dei risultati attesi e consuntivi in chiave differenziale, ad esso complementare, infatti, consente di dirimere tempestivamente il dilemma tipico che precede la scelta dello strumento procedurale più consono alla gestione della crisi: la scelta della prosecuzione o della cessione dell’attività d’impresa.

La scelta risulta, necessariamente, circoscritta entro le seguenti ipotesi: i) continuazione del complesso aziendale funzionante, in presenza di fondate prospettive di risanamento; ii) cessione in blocco del complesso, che permane in vita, con subentro nella gestione (in svariate forme) di un terzo; iii) vendita dei singoli elementi del patrimonio, con alienazione separata, per disaggregazione del capitale.

Tali soluzioni, rilette con la lente della normativa sulla crisi, non sono altro che l’equivalente delle tre situazioni tipiche che caratterizzano gli esiti di altrettante procedure concorsuali: i) continuità diretta; ii) continuità indiretta, iii) liquidazione[15].

Il trattamento della crisi ha come obiettivo comune, tanto per il legislatore della riforma quanto della teoria del valore, quello di evitare distruzioni di valore, tentando, in presenza di pulsioni vitalistiche, il recupero del complesso aziendale e il ripristino di condizioni di gestione ordinaria; tuttavia, allo stesso modo che per il legislatore, anche secondo l’approccio manageriale che tende alla massimizzazione del valore del capitale economico, laddove la crisi dovesse condurre ad una distruzione irreversibile di valore, non ci sarebbe altra via se non la disarticolazione del sistema aziendale e la sua messa in liquidazione, attraverso interventi volontari o concorsuali.

    Il metodo di stima dei risultati attesi, unitamente all’inclusione del fattore del tempo e di quello del rischio attraverso il coefficiente di attualizzazione, pare, inoltre, estremamente rispondente alla necessità, richiesta sempre dal Codice, di identificare quale sia la soluzione preferibile, in prospettiva di tutela e maggiore soddisfazione degli interessi dei creditori, tra continuità dell’impresa e messa in liquidazione: se, infatti, al netto delle opportune e prudenziali rettifiche effettuate sui flussi futuri dal tasso di attualizzazione, posti alla base della stima del valore del capitale economico dell’azienda al termine del piano di risanamento, quest’ultimo è inferiore a quello realizzabile in sede di liquidazione, è evidente che il mantenimento del capitale di funzionamento dell’impresa non sia la scelta da percorrere.

    Il confronto con i risultati attesi dalla continuità aziendale rispetto all’ipotesi di liquidazione, sotto la prospettiva del valore, infine, consente di conferire al progetto di risanamento un’importante connotazione dinamica e di medio periodo: superando la prospettiva meramente contabile grazie alla valorizzazione prospettica dei risultati in chiave dinamica e differenziale, la terapia del valore è in grado di tracciare un percorso di risanamento più sostanziale e sostenibile e, quindi, maggiormente duraturo e più ragionevolmente percorribile[16].


5. Art. 2086 c.c. e orientamento al valore: managerializzazione guidata agli assetti adeguati. Conclusioni

La teoria del valore introduce, in sostituzione a quello della massimizzazione del profitto, la massimizzazione del valore del capitale economico dell’impresa come obiettivo guida delle scelte del management.

    Tale obiettivo porta con sé una serie di assunzioni e presupposti di grande rilevanza che comportano la prevalenza, se non la sostituzione, della prospettiva consuntiva e contabile, ergo statica, con quella prospettica ed economico-finanziaria, dinamica e differenziale, non soltanto nella misurazione dei risultati, ma anche nella previsione delle performance attese e nella gestione dell’impresa. Ergo, nell’orientamento pro-attivo delle scelte gestorie.

È evidente come, nella scelta del legislatore che, negli ultimi anni e in varie riprese, ha condotto a una riforma radicale del diritto della crisi, le suddette assunzioni trovino terreno di radicazione estremamente propizio. Il tema degli adeguati assetti è, probabilmente, l’habitat per definizione più adatto allo sviluppo dei postulati e delle metodologie proprie della teoria del valore, sia in chiave preventiva, sia in chiave di trattamento della crisi, assicurando, in entrambi gli scenari, la rispondenza ai cennati requisiti di tempestività e di capacità previsionale.

Tanto la previsione, quanto la misurazione, dei risultati aziendali in termini di variazione di valore, fanno parte di un cambiamento, in primis, culturale che dovrebbe accompagnare l’impresa verso un virtuoso percorso di “managerializzazione guidata” che pare realisticamente capace di trasformare l’adozione del sistema di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa, in un’opportunità di crescita, facendolo leggere come tale e preservandolo dal rischio che se ne diffonda una lettura, miope, che lo squalifica a mero strumento di costrizione e limitazione dell’agire imprenditoriale.

Nel contesto specifico della crisi, la consapevolezza oggettivamente (pre)determinata delle variazioni del valore, rappresenta un approccio trasversale a tutte le imprese, un minimo comun denominatore che funziona indipendentemente dalla natura e dalle dimensioni delle stesse e che, per questo, diviene uno strumento di gestione indubbiamente sensibile e adatto a sostenere la crescita virtuosa ben oltre il breve termine.

Nella perimetrazione dei principi che caratterizzano la teoria del valore è possibile, a parere di chi scrive, riconoscere una serie di elementi indiziari dell’alto tasso di compatibilità tra obiettivi e metodi della teoria suddetta e ratio del Codice della Crisi, tanto da giustificare l’opportunità di un trapianto della prospettiva aziendalistica nella fattispecie astrattamente descritta dalla normativa, quale elemento funzionale ad un’efficacia sussuntiva della stessa nel contesto della gestione quotidiana dell’impresa.

La comunanza di elementi e intenti tra la teoria del valore e la ratio del novellato diritto della crisi aziendale è facilmente riconducibile ad un elemento che, per entrambe, pare rappresentare il leit motiv: la corretta e misurabile gestione del rischio come logica di interpretazione e declinazione dell’agire imprenditoriale, a partire dalla definizione della strategia complessiva, fino alla determinazione delle scelte aziendali e alla misurazione dei risultati. In questo medesimo senso, l’adeguatezza degli assetti secondo l’art. 2086 c.c. risponde all’esigenza di assicurare la determinazione di un livello di rischio specifico per ciascuna impresa, in quanto idoneo a sostenere la creazione di valore a far sì che il tasso di attualizzazione non assuma andamenti progressivamente inflattivi e tali da erodere le variazioni incrementali di ricchezza e a condurre alla crisi.  

In altre parole, pare verosimile attribuire alla teoria del valore la capacità di liberare il concetto di adeguatezza degli assetti dalla cortina di opacità in cui, in assenza di più specifiche previsioni normative, lo stesso rimarrebbe emarginato. L’efficacia dell’approccio del valore risulterebbe ulteriormente – e coerentemente – rafforzata se accompagnata alla prospettiva di gestione sostenibile della crisi, in cui, per citare ancora S. Pacchi, la sostenibilità suddetta risulterebbe garantita sotto tre punti di vista: «dal punto di vista economico, in quanto permetta all’impresa di riacquisire e mantenere la capacità di produrre reddito e lavoro in maniera duratura; dal punto di vista sociale quando lo strumento garantisca un’equa distribuzione del costo della crisi - risanamento, quindi, - e dei conseguenti benefici su tutti coloro che s’incontrano nell’orbita dell’impresa; e in alcuni casi anche dal punto di vista ambientale[17]».  



[1] Nel 95,2% dei casi (nel 2022), si tratta di imprese di piccolissime dimensioni (massimo 9 addetti), che impiegano il 43,2 per cento degli addetti totali. Percentuali ancora più alte si registrano nei settori degli altri servizi, con il 97,7 per cento di imprese e il 48,1 per cento di addetti, e delle costruzioni, con il 95,7 per cento di imprese e il 62,1 per cento di addetti. I settori del commercio, trasporto e magazzinaggio, alloggio e ristorazione, presentano, invece, percentuali più basse di piccole imprese, con il 95,0 per cento, ma più alte di addetti, con il 49,9 per cento. L’industria è l’unico settore che presenta per questa tipologia di imprese valori molto sotto la media nazionale e, per le altre, valori più alti, con una dimensione media di impresa quasi tre volte superiore a quella nazionale. Le imprese non appartenenti ad un gruppo di impresa sono 4 milioni e 194 mila, il 96,3 per cento, cui corrispondono però solo il 63,4 per cento degli addetti (10 milioni 866 mila). Dati raccolti dall’Osservatorio Istat.

[2] Il fenomeno dell’impresa familiare, in questo contesto, deve essere letto non alla stregua della definizione che ne dà il Codice Civile italiano, ma in quella più generale secondo la quale la cosiddetta family run business è un soggetto economico espressione di un gruppo di persone legato da vincoli familiari, riconosciuto da decenni come un elemento fondante dei sistemi economici di molti Paesi, fra i quali anche l’Italia, e tuttora da considerarsi alla base della crescita economica globale. Si leggano, tra gli interventi più recenti della dottrina sul tema: F. Badia -G. Dicuonzo -S. Ranaldo -V. Dell’Atti, Il controllo di gestione nelle imprese familiari: un’analisi della letteratura, in Management Control, 2020.

[3] Rinviando al proseguo del contributo l’approfondimento circa le caratteristiche della teoria del valore, ci limitiamo in questa sede a ricordare che secondo tale approccio, l’impresa, a prescindere dall’organizzazione assunta per l’esercizio di una determinata attività, è costituita da un insieme di investimenti (assets) che vengono finanziati attraverso la raccolta di fondi che, in base alla loro origine vengono classificati capitali di pieno rischio (equity) ovvero di debito (debt). Le decisioni dell’impresa si basano, in tal senso, sulla selezione delle alternative di finanziamento, di investimento e alle modalità di restituzione del capitale investito nell’attività stessa. Le origini della teoria, e la sua progressiva espansione a discapito della massimizzazione del profitto, sono da collocarsi addirittura al principio del secolo scorso. S. Fisher e P. Samuelson furono infatti tra i primi a sviluppare il pensiero secondo il quale il valore del capitale deriva dall’attualizzazione dei futuri redditi generabili, al netto del costo sostenuto per l’investimento.

Il riconoscimento di una gestione dell’impresa orientata all’incremento del suo valore si è diffuso, in Italia, grazie soprattutto a Gino Zappa, durante gli anni ’30, ed ancor prima a livello europeo, con l’affermazione dell’equivalenza tra obiettivo ultimo dell’impresa e l’incremento di valore dell’azienda. Si legga G. Zappa, Il reddito d’impresa, Milano, 1946 (la cui prima edizione risale al 1921).

[4] Il concetto di c.d. “allerta precoce” è stato introdotto dalla Direttiva Insolvency la quale, all’art. 3, parallelamente a quanto recepito, nel Codice della Crisi, dal combinato disposto degli art. 12 e 25-octies, rileva l’opportunità di definire specifici strumenti idonei a individuare situazioni che «potrebbero comportare la probabilità di insolvenza»; al successivo art. 4, dedicato ai “quadri di ristrutturazione” (che, nel CCII sono gli strumenti di risoluzione della crisi e dell’insolvenza), viene definito il presupposto oggettivo alla base dei meccanismi, suddetti, di allerta, ossia la sussistenza di «una probabilità di insolvenza». Sul tema, si veda V. Donativi, Il presupposto oggettivo della composizione negoziata (e dell’allerta interna), in Ristrutturazioni Aziendali, 2023, che prosegue sul tema precisando che «sempre dalla Direttiva Insolvency, poi, si ricava ulteriore conferma, se mai ve ne fosse bisogno, del fatto che, nel linguaggio della direttiva, la locuzione “probabilità di insolvenza” è intesa non come valutazione congetturale riferita all’attualità, ma come pronostico della possibile evoluzione prospettica. All’art. 19, difatti, gli Stati membri sono chiamati a far sì che gli amministratori, qualora sussista una probabilità di insolvenza, agiscano tenendo conto degli interessi dei creditori, dei soci e degli altri portatori di interessi, adottando misure per evitare l’insolvenza: le misure da adottare sono volte ad evitare (e dunque a “prevenire”) un’insolvenza ancora non attuale, ma che, in assenza di quelle misure, sarebbe di probabile prossima verificazione».

 

[5] A. Renoldi, Valore dell’impresa, creazione di valore e struttura del capitale, Milano, 1991, p. 10.

[6] Il tema della creazione del valore e della cura degli interessi degli stakeholder è ben inserito, tra gli obiettivi dell’impresa come sistema vitale destinato a perdurare, ancora una volta proprio nella Direttiva Insolvency dove, nella logica della gestione precoce della crisi, come egregiamente rileva P. Bastia, La sostenibilità economica nel concordato in continuità aziendale, in Ristrutturazioni Aziendali, 2023, al Considerando 2 «Emergono concetti aziendalmente già sondati, come quello di conservazione e di “creazione di valore”, quale risorsa a disposizione per la pluralità dei soggetti interessati alla continuità aziendale (gli stakeholders), ma che richiedono di essere ricondotti alla sostenibilità economica introdotta nel CCII. Il riconoscimento della compagine degli stakeholders nelle crisi d’impresa è stato ben sviluppato nella dottrina, a commento della rinnovata concezione dell’impresa nelle Direttiva Insolvency.  Si osserva quindi un avvicinamento alle posizioni oramai da decenni affermate nella letteratura strategica internazionale e in quella economico aziendale italiana, circa la responsabilità sociale dell’impresa e l’orientamento strategico di fondo, che accosta alle strategie competitive anche quelle sociali e ambientali».

[7] Alla massimizzazione del reddito, così come del profitto, quali obiettivi finali dell’agire dell’impresa, si sono stratificate, nel tempo, critiche tanto di tipo concettuale, quanto di tipo tecnico.

Dal punto di vista concettuale, si è ampiamente criticata l’idea che la vita dell’impresa, in quanto sistema economico vitale complesso, potesse essere regolata da un criterio decisionale che tenesse conto soltanto degli interessi di un unico soggetto, ovvero il conferente di capitale di rischio, ignorando le istanze di tutti gli altri soggetti apportatori di altri fattori di produzione, o di meri interessi - i cosiddetti stakeholders – tutti altrettanto importanti se non, talvolta, anche più critici. Sotto il profilo tecnico, il concetto di reddito è stato fortemente criticato per una serie di ragioni, tra cui: i) la sua indeterminatezza, nonché la difficolta di misurarlo al netto dell’effetto inquinante indotto dalle politiche fiscali e dai principi della contabilità; ii) la difficoltà di riferirlo, in assenza di correttivi, ad una pluralità di periodi futuri; iii) l’incapacità, da parte del reddito, di recepire gli elementi di competitività, con particolare riferimento al ruolo ricoperto dalle risorse intangibili. Si legga, tra tutti, C. Demattè, Teoria del Valore: serve davvero per guidare le imprese? in Economia&Management, 1997.

[8] L. Guatri, La teoria di creazione del valore. Una via Europea, Milano, 1991, p.6.

[9] Aa.Vv., A. Danovi, Elementi di bilancio per giuristi, pp. 6 e ss.

[10] Circa l’opportunità di leggere la teoria di creazione di valore quale strumento utile alla gestione della crisi si è espresso assai efficacemente anche P. Bastia, Op.cit., il quale ha osservato come la sostenibilità economica del piano di risanamento, sia accostabile «anche ad un’ulteriore importante prospettiva di analisi: quella strategica, che impone anche una comparatività esterna (oltre alla sola continuità aziendale) con il contesto competitivo.

Questo approccio può condurre a interpretare la sostenibilità economica come “creazione del valore”, secondo due stadi: i) uno stadio ultimo e sintetico che è quello della redditività (rispetto al settore e ai competitor); ii) uno stadio intermedio che è quello della competitività e dell’accumulazione delle risorse strategiche distintive: potenzialità, risorse intangibili, tecnologie avanzate, risorse umane, qualità dei prodotti e dei processi, portafoglio prodotti bilanciato, fidelizzazione della clientela, nicchie competitive, barriere all’entrata. Tali risorse non sono solo quelle già presenti nell’impresa, ma anche quelle innovative, da acquisire, nella ricerca di nuovi clienti, nell’adeguamento del portafoglio prodotti, nel perseguimento della transizione tecnologica, ecologica, energetica, ecc.».

 

[11] In questo stesso senso, ancora P.Bastia, Op.cit., rileva come il ripristino delle condizioni di economicità, nell’azienda risanata, non sia altro che il punto di equilibrio tra la creazione di valore e il bilanciamento di interessi intersoggettivi, e che sia da intendersi «in senso ampio (creazione di valore, continuità durevole,  autonomia e redditività) e in linea con il settore e i competitor e che da questa fonte sviluppa indizi segnaletici prospettici lungo le più rilevanti direzioni di relazioni intersoggettive, ai fini del loro bilanciamento: verso la clientela, verso i fornitori, verso i creditori, verso la proprietà».

[12] Tra le principali novità del Codice della crisi, gli strumenti di allerta e prevenzione nell’ambito di un impianto giuridico che deve favorire l’efficace uscita dalla crisi per le imprese in difficoltà finanziaria, incoraggiando nuovi investimenti e contribuendo a diminuire gli ostacoli al buon funzionamento del mercato interno, si realizzano attraverso sistemi di segnalazione tempestiva che siano in grado di intercettare anticipatamente la crisi tramite una diagnosi precoce, così da intervenire in modo tempestivo prima che essa si traduca in insolvenza irreversibile, e salvaguardare la continuità aziendale.

È spesso proprio il ritardo nel percepire i segnali di crisi da parte dell’impresa la causa principale della degenerazione in insolvenza, senza alcuna possibilità di risanamento dell’impresa.

Gli strumenti di allerta previsti dal Codice della Crisi si prefiggono di adottare un sistema simile al modello francese, nel quale è già presente l’istituto d’allerta con previsione di intervento automatico da parte del Presidente del Tribunale del Commercio – e, quindi, altamente specializzato – in caso di segnalazione di crisi, con la funzione di poter convocare gli imprenditori in stato di crisi in maniera riservata per provare a risanare l’impresa. 

[13] Così F. Bordiga, Gli obblighi degli amministratori nel contesto del codice della crisi e dell’insolvenza, in Ristrutturazioni Aziendali, 2023, che prosegue rilevando come il quadro aggiunga elementi fondamentali a completamento delle disposizioni dell’art. 2086, ovvero «coordinate, di importante rilievo sistematico, contenute, in ordine sparso, nel nuovo Codice, il quale (volendo limitare l’attenzione su alcuni aspetti di maggiore significato): fornisce indicazioni di dettaglio circa il contenuto degli assetti organizzativi volti alla rilevazione della crisi; amplia la gamma degli strumenti di soluzione; esplicita gli interessi da perseguire nelle fasi del dissesto (fasi, queste ultime, a loro volta, definite con maggiore rigore rispetto al passato anche per il tramite di una distinzione fra la nozione di “crisi” e quella di “insolvenza”); e, infine, articola una disciplina (che si può definire innovativa) in ordine alla posizione dei soci nella gestione della impresa in difficoltà».

[14] Pare corretto ricordare, come rilevato anche da F. Bordiga, Op.cit.,che l’ultima versione del Codice della Crisi ha già identificato espressamente un elenco di strumenti, sottolineando, in tal senso «gli assetti devono pure consentire di “ricavare le informazioni necessarie a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento” [art. 3, comma 3, lett. c): strumenti, questi ultimi, di nuova istituzione e che vengono ora imposti ai gestori – in una sorta di procedimentalizzazione del percorso di rilevazione e analisi della crisi  – nell’attività di “diagnosi e prognosi” circa lo stato della criticità e le prospettive di recupero e, pertanto, nella ponderazione delle decisioni concernenti la gestione della patologia».

[15] La disamina delle opzioni tra le quali il management aziendale si trova a dover scegliere, sia in applicazione delle regole gestionali imposte dalla teoria di creazione  del valore, sia come adempimento degli obblighi imposti dalla norma, assume le sembianze di un proficuo combinato disposto la cui riconduzione ad unità è efficacemente rappresentata, nello specifico ambito della Composizione negoziata della Crisi, dal Test pratico, dove la diversa scelta tra le opzioni di prosecuzione, diretta e indiretta, e cessazione dell’attività aziendale, è correlata proprio al livello di gravità della crisi, così come calcolato dal test suddetto.

[16] Sull’alternativa della liquidazione dell’azienda, rispetto alla ristrutturazione, e sulla declinazione di tale fattispecie nel contesto della creazione del valore per gli stakeholder, è di estremo interesse il contributo di S. Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in Ristrutturazioni aziendali, 2022, ove si introduce il concetto di gestione sostenibile, suggerendo che, in relazione alla liquidazione giudiziale, «il curatore, nonostante i costi aggiuntivi, può valorizzare, in un progetto di sostenibilità, l'impresa e può giungere ad un bilanciamento degli interessi dei creditori con quelli di tutti gli stakeholder», mentre nel caso della ristrutturazione, l’Autrice precisa che «la ristrutturazione è un procedimento funzionale alla sostenibilità, ma solo fino al punto in cui promuove lo scopo della ristrutturazione. L'obiettivo delle procedure preventive non deve essere, infatti, quello di salvare a tutti i costi le imprese, anche quando non sono redditizie nel lungo periodo. Queste procedure dovrebbero prima di tutto mirare a filtrare le attività redditizie da quelle che non lo sono. Le prime devono essere ristrutturate ben prima di una formale insolvenza, mentre le seconde devono essere prontamente liquidate, in modo che le risorse aziendali possano essere distribuite in modo più efficiente per l'economia e la collettività. Solo così sarà possibile ridurre i costi del finanziamento ex ante e garantire la crescita economica a lungo termine. Di conseguenza il piano di riorganizzazione viene esaminato con una triplice lente: se sia utile conservare quell’impresa per i creditori (quanto incide il costo sulle loro aspettative di soddisfacimento?), per il mercato (c’è necessità di quella produzione?), per gli stakeholder (quanto effettiva e durevole sarà la continuità?). La sostenibilità suppone, infatti, un adeguato compenso/ritorno per le risorse impiegate nella ristrutturazione». 

[17] S. Pacchi, Op.cit.