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Giurisprudenza

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Una, nessuna … centomila sostenibilità? Dal window dressing alla sostenibilità relazionale e solidale nella gestione della crisi d’impresa


Serena Maurutto

Data pubblicazione
08 gennaio 2024

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Sommario: 1. L’insostenibile leggerezza del concetto di sostenibilità nella vita dell’impresa. - 2. Il capitale relazionale come sintesi e collante dei principi ESG - 3. Quando la responsabilità sociale d’impresa diventa un approccio pericolosamente di facciata: la “sostenibilità relazionale dell’eco-sistema impresa” come prevenzione della crisi e principio guida degli adeguati assetti. - 4. Il modello CSV e i suoi tre pilastri come guida operativa per la sostenibile continuità d’impresa. - 5. Il terzo pilastro dello shared value nel contesto della prevenzione e gestione della crisi: la prospettiva relazionale e solidale del cluster.


1. L’insostenibile leggerezza del concetto di sostenibilità nella vita dell’impresa

La locuzione “sostenibilità” è stata oggetto, negli anni, di numerose definizioni, rivisitazioni, ampliamenti e, spesso, contraddittorie sovrapposizioni, che non hanno avuto altro effetto se non quello di generare confusione e mistificazioni circa la effettiva valenza della sua concreta declinazione nel contesto della gestione dell’impresa[1].

La situazione è stata ulteriormente complicata dalla sovrabbondanza di interventi normativi[2] che, a vario livello, si sono succeduti, andando progressivamente ad ergere una struttura eccessivamente complessa che, anche se prevede obblighi solo a carico di società di determinate dimensioni, lascia aperti troppi dubbi e criticità[3] che, paradossalmente, rischiano di recare pregiudizio proprio a quelle piccole e medie imprese che, astrattamente, non sono ancora sottoposte ai suddetti doveri.

Ciò in quanto, se da un lato è vero che non ci si attende più che le aziende rispondano ai soli principi di legittimità nelle loro scelte gestorie, ma che risultino promosse secondo un giudizio positivo di legittimazione sociale del loro esistere, è altrettanto innegabile che proprio le PMI trovino rilevanti difficoltà nell’applicare volontariamente strumenti complessi di rendicontazione, quali sono quelli suggeriti dal legislatore comunitario, nel contesto di organizzazioni piuttosto semplici.

La sfida che si pone alle piccole e medie imprese è proprio quella di adeguare il proprio approccio strategico ai principi ESG, pur non possedendo un cruscotto di strumenti di gestione e rendicontazione su misura dei propri contesti organizzativi, beneficiando degli effetti positivi di una virtuosa spinta volontaristica anziché incorrere nelle nefaste conseguenze di un approccio bollato come mero window dressing.

Al di là del sistema normativo primario, esiste infatti, oggi, un comune sentimento da parte dei diversi stakeholders, nonché della opinione pubblica in generale, che spinge a richiedere all’impresa, di ogni ordine e grado, e indipendentemente dalla natura e ancor più dalle dimensioni, di occuparsi non soltanto di soddisfare i propri bisogni economici, ma di farsi carico anche di istanze differenti, quali, per esempio, la sicurezza, l’ambiente, la salute, etc[4].

Le scelte che le imprese compiono, in tal senso, vengono valutate dai vari portatori di interesse e, in un modo o nell’altro, contribuiscono alla costruzione di quel capitale reputazionale che sempre di più si dimostra un elemento indispensabile per mantenere il proprio vantaggio competitivo e resistere alle minacce della crisi.

L’adozione di scelte corrette, e concretamente rappresentative, dei principi ESG, ha un’indubbia ed intrinseca propensione a trasformarsi n una vera e propria barriera all’entrata contro il rischio di distruzione di valore e, ancor di più, contro il rischio di una rapida propagazione della crisi verso stadi di irrecuperabilità.

Se leggiamo l’azienda come eco-sistema che vive e cresce nel contesto di altri sottosistemi minori e sistemi maggiori che si intersecano e si sovrappongono[5], che essa stessa condiziona così come dai medesimi è condizionata,  è ancora una volta l’impresa di piccole dimensioni a rappresentare l’anello debole della catena: le sue dimensioni ridotte e le risorse, spesso scarse, la obbligano a fare grandissimi sforzi per costruire un capitale reputazionale minimamente robusto e basato sulla fiducia dei vari stakeholders, ma, una volta raggiunto è di nuovo in difficoltà nel difenderlo dalle minacce esterne (o interne) che potrebbero rapidamente annientarlo.

Ecco che identificare un protocollo d’azione che consenta alle piccole e medie imprese di adottare un approccio di gestione basato su una strategia di sostenibilità concretamente adeguata a rispondere alle istanze dei propri portatori di interesse e a sviluppare un sistema relazionale basato sulla fiducia reciproca, diventa un elemento imprescindibile non solo per vincere le sfide della competitività quotidiana, ma ancor di più come sistema di prevenzione e risoluzione della crisi.

In questo contributo si cercherà di reinterpretare il modello del Creating Shared Value con la lente della piccola e media impresa italiana, cercando di ridisegnarne i pilastri in coerenza con lo specifico contesto ambientale, le peculiari sfide e minacce in cui la stessa si trova ad operare, con particolare attenzione agli effetti che tale protocollo potrebbe avere nell’ambito, oltre che della gestione, della prevenzione della crisi.

 

2. Il capitale relazionale come sintesi e collante dei
principi ESG

 Un primo passaggio pare fondamentale per iniziare a delineare il perimetro di un approccio di gestione sostenibile d’impresa tanto efficace, nella vita quotidiana, a orientare il management verso un obiettivo di creazione di valore di lungo termine, quanto utile a fornire strumenti robusti per resistere o superare le minacce di una crisi.

Tale passaggio è la ricerca di una soluzione adatta a combinare i principi ESG con la stakeholder view. Non si tratta, come apparentemente può sembrare, di limitarsi a soddisfare le istanze sociali della omonima responsabilità dell’impresa, ma di compiere un passo ulteriore, ovvero anteporre la socialità, intesa come socialità ecosistemica di impresa, ai principi ESG stessi, ovvero, in altri termini, rendere ex ante relazionale la lettura e successiva declinazione dei principi ESG nella strategia aziendale: si chiede all’impresa di riconoscersi pienamente come sistema vitale aperto, verso l’esterno, a «interessi di rilevanza collettiva e ulteriori rispetto a quello dei soci, questi ultimi a lungo ritenuti come l’unico punto di riferimento della gestione»[6].

L’approccio relazionale come principio guida della gestione sostenibile assume, nel contesto della crisi di impresa, una valenza ancora più intensa, in quanto richiede all’azienda di aprirsi verso l’esterno secondo un approccio bi-fasico: il primo legato alla prevenzione della crisi, in cui è chiamata ad assumersi proattivamente anche le responsabilità sociali ed ambientali, oltre che a quelle economiche, delle propria salute e delle esternalità del proprio agire, con la consapevolezza che il proprio benessere e la propria continuità condizionano – o possono condizionare – la salute, il benessere e la continuità di altri stakeholders; il secondo in cui, ai primi sintomi della crisi, è proprio l’apertura verso l’esterno che consente di riattivare lo stakholderismo e beneficiare del valore delle relazioni create, in termini di fiducia e reputazione, per avere maggiore forza e difendere tutto l’eco-sistema dalle minacce alla sua salute.

Costruire una relazione solida con gli stakeholders che popolano l’ecosistema impresa non è certo semplice e necessita, appunto, il pieno e costante impegno del management aziendale in una fase di normalità, ben precedentemente al manifestarsi della crisi, proprio per evitare il rischio che tale apertura venga altrimenti letta come meramente strumentale alla salvaguardia di interessi atomistici e del tutto opportunisti.

Il rischio che la gestione sostenibile dell’azienda non sia altro che una mera attività di facciata, o che venga percepita come tale, costituirebbe un danno che porterebbe con sé senza dubbio una grave distruzione di valore economico per l’impresa, che, in condizioni di crisi, si trasformerebbe in una deriva degenerativa potenzialmente irreversibile.

La fiducia degli stakeholders passa attraverso l’obiettivo intermedio del cosiddetto engagement virtuoso che, a sua volta, si sostiene su due pilastri portanti: la comunicazione e l’informazione trasparenti e tempestive, così da garantire a tutti i portatori di interesse coinvolti nelle attività e nei fini dell’impresa, di conoscere sempre l’ambito e le dinamiche del suo agire, controllarne la coerenza rispetto alle proprie istanze e, infine, valutare la portata delle esternalità prodotte al di fuori del sistema aziendale.

Sappiamo inoltre che le imprese che osservano i doveri previsti dai principi ESG vengono premiate, sia dagli investitori che dai consumatori, in quanto riescono a ottenere prima e in misura maggiore la fiducia di entrambe le categorie. Di conseguenza, riescono ad aumentare la propria resistenza anche alle minacce della crisi.

Se l’impresa fosse in grado di compiere uno sforzo ulteriore, cercando di applicare i principi ESG secondo un approccio relazionale, ossia andando a comprendere quali sono le istanze ambientali e sociali che concretamente rilevano nello specifico contesto di scambi con i propri portatori di interesse, all’interno del circuito relazionale che tra gli stessi si snoda, l’approvazione dell’intero sistema si rafforzerebbe ulteriormente.

E il consolidarsi del rapporto non farebbe altro che rafforzare la resilienza non soltanto dell’impresa, ma dell’intero sistema, di fronte a molteplici eventi di rischio che possano presentarsi e minacciarne la continuità.

È necessario, affinchè i su indicati concetti non rimangano confinati nell’alveo della mera dichiarazione programmatica e assumano, invece, l’aspetto di concreti strumenti a servizio della salute e dello sviluppo del sistema imprenditoriale, trovare un percorso fattuale ed operativo da seguire per risolvere l’impasse. Prima di proporre tale soluzione, tuttavia, si ritiene utile approfondire il tema dei rischi connessi ad un approccio alla gestione sostenibile d’impresa meramente di facciata.

 

3. Quando la responsabilità sociale d’impresa diventa un approccio pericolosamente di facciata: la “sostenibilità relazionale dell’eco-sistema impresa” come prevenzione della crisi e principio guida degli adeguati assetti

Recentissimi accadimenti – Pink Christmas[7], su tutti, docet - hanno dimostrato, ancora una volta, come una declinazione meramente utilitaristica, e non adeguatamente ponderata in funzione delle effettive istanze degli stakeholders critici, della responsabilità sociale d’impresa e della declinazione della strategia di sostenibilità nelle operazioni aziendali, sia in grado di innestare una crisi reputazionale importante, che si tramuta con estrema rapidità in distruzione di valore economico i cui corollari degenerativi restano spesso fuori controllo, sia per contenuti che per tassi di accelerazione e propagazione.

Il rischio di de-legittimazione delle modalità attraverso le quali le aziende gestiscono il loro “agire sostenibile”, che porta a fare involvere i risultati delle conseguenti scelte manageriali nel suddetto window dressing, si manifesta, a parere di chi scrive, innanzitutto tutte le volte in cui sia assente una relazione, chiara e priva di ambiguità, tra l'attenzione alla prospettiva di gestione interna della sostenibilità, intesa come attenzione dell’azienda nei confronti della sostenibilità nell’ambito dei sistemi decisionali interni e di realizzazione di pratiche conseguentemente coerenti, e la comunicazione della sostenibilità verso l’esterno, grazie alla quale l’azienda potrebbe ottenere benefici reali, in termini di performances economiche, proprio dando prova del proprio impegno nella sostenibilità ai propri stakeholders.

In dottrina si è parlato, in termini estremamente suggestivi ma altrettanto efficaci, di “ipocrisia organizzata”[8] proprio con riferimento alla rilevata incoerenza tra i discorsi aziendali, cioè il contenuto delle comunicazioni esternalizzate, e le attività effettivamente intraprese.

È del tutto evidente la funzione estremamente strategica della comunicazione esterna rispetto alle conseguenze delle decisioni che le aziende pongono in atto in applicazione della strategia di sostenibilità e come proprio in tale contesto si genera il maggior trade off tra rischio e opportunità.

Altrettanto chiaro è il fatto che non può sussistere alcuna comunicazione efficace, in termini di generazione di valore, laddove non ci siano delle basi sostanziali di strategie ed attività effettivamente e concretamente sostenibili.

Di conseguenza, il primo modo per evitare il rischio di window dressing è proprio implementare un eco-sistema di sostenibilità interno all’azienda, che parta dalla definizione dell’orientamento strategico di fondo, passi attraverso le opportune deliberazioni manageriali, si traduca in un complesso di attività e azioni coerenti e, solo infine, si manifesti all’esterno attraverso un’attività di comunicazione chiara, trasparente e attenta alle esigenze degli stakeholders. Il tutto entro una pianificazione preventiva che deve necessariamente sorpassare la prospettiva episodica o di breve termine e orientarsi verso un approccio forward looking di medio-lungo termine e continuativo.

Bisogna tuttavia riconoscere che passare dal “detto al fatto” non è così semplice e privo di difficoltà interpretative sul piano pratico.

Pare necessario iniziare con l’abbattimento di alcuni stereotipi, con particolare riferimento, per esempio, a quella prassi, in rapida e pericolosa diffusione, che porta a scegliere attività ESG sempre più standardizzate, molte delle quali create da analisti e consulenti che si basano su benchmark e best practice di settore: queste azioni possono anche avere effetti positivi per gli utili, nel breve termine, in quanto le aziende possono ottenere certi benefici in termini di efficienza operativa; dopo tutto, misure come la riduzione degli sprechi, il rafforzamento dei rapporti con gli stakeholders esterni e il miglioramento della gestione del rischio e della conformità, generano uno stato di buona “igiene aziendale”. In molti settori industriali, questi sforzi sono oltretutto un passaggio obbligato per le imprese che desiderano rimanere competitive.

Tuttavia, tali sforzi sono tutt’altro che sufficienti e, se non integrati, rischiano di generare nel medio termine una spirale di rendimenti di scala negativi, in conseguenza all’ineluttabile esaurirsi degli effetti di scelte orientate meramente all’efficienza e alla razionalizzazione dei costi. Le aziende devono andare ben oltre il controllo dei propri livelli di conformità e guardare ai veri fattori-chiave, in particolare alla strategia, per ottenere risultati reali ed essere riconosciute per tali risultati.

È pertanto indispensabile che il management aziendale sviluppi un vero e proprio paradigma gestionale fortemente innovativo, in cui le logiche che si pongono alla base dei principi ESG, e che ne supportano la declinazione concreta, siano integrate sia a livello strategico, sia, successivamente, operativo.

Sviluppare e implementare un progetto di tale portata non può essere ritenuto coerente se si pone come obiettivo semplicemente quello di rispondere ad un mero giudizio di rating, in base ai parametri ESG. Si tratta, invece, di fare in modo che i parametri astratti si trasformino in attività concrete direttamente correlate al vantaggio competitivo che si intende tutelare o raggiungere. La leadership aziendale deve arricchirsi di una cultura intrinsecamente caratterizzata dal riconoscimento dei principi di sostenibilità, nella triple bottom line, quale principio guida dell’agire imprenditoriale stesso[9].

 Le aziende possono compiere importanti passi avanti per aumentare la trasparenza, la completezza e la correttezza della rendicontazione dei dati di sostenibilità, ma anche aumentare i controlli interni.

Così come è importante chiedersi, e verificare, come è organizzata la supervisione (esterna) a tutti i livelli dell’organizzazione, è allo stesso modo essenziale che i controlli interni siano sufficienti per individuare prontamente i rischi di window dressing.

L’arcinoto modello del plan-do-check deve essere opportunamente vestito non solo con la maglia della sostenibilità, ma dotato di una mente orientata alla anticipazione della responsabilità sociale ed ambientale d’impresa nella fase di concepimento della strategia, del vantaggio competitivo e del posizionamento conseguente dell’azienda nel mercato.

Le derive generate dalla rilevata incoerenza tra dichiarazioni aziendali e azioni effettivamente implementate, in ambito di sostenibilità, come abbiamo avuto modo di considerare, nascono proprio da un’incoerenza, che diviene manifesta, delle scelte rispetto agli obiettivi, ed hanno un effetto diretto e repentino su vantaggio competitivo e sulla reputazione aziendale. La diffusione, oggi più che mai rapida e pervasiva, delle notizie, e la ridondanza dell’effetto amplificata sia dai mezzi attraverso i quali l’informazione stessa corre e si propaga, sia dall’aumentata sensibilità degli stakeholders verso i temi dell’ambiente e del sociale, rischiano di innestare una spirale negativa di distruzione di valore che, se non tempestivamente e correttamente gestita, rischia di trasformarsi in una crisi irreversibile che può portare con altrettanta rapidità l’azienda colpita ad uscire dal mercato.

Diventa, pertanto, essenziale che le aziende non si limitino a dotarsi di strumenti e di interventi correttivi ex post, ovvero orientati a contenere i danni e a limitarne quanto più possibile gli effetti. I leader aziendali sono chiamati a intervenire in anticipo: l’obbligo previsto dall’art. 2086 del codice civile deve probabilmente includere, quale parte essenziale di un sistema di adeguati assetti concretamente funzionale a prevenire la crisi e a rilevarne tempestivamente i primi segnali, anche l’approccio della sostenibilità, come principio generale e, allo stesso tempo, obiettivo finale di ogni azienda, indipendentemente dalla natura e dalle dimensioni della stessa.

La responsabilità dell’azienda, in altri termini, deve assumere un approccio relazionale, entro il quale si compia il fortunato connubio tra accoglimento e perseguimento delle istanze degli stakeholders, e obiettivi di continuità: solo all’interno di una visione di relazione, infatti, si può trovare uno strumento di lettura effettivamente efficace a determinare le condizioni di co-esistenza ideali per garantire la sopravvivenza e la durata dell’impresa all’interno della comunità economica, o ecosistema vitale, in cui è inserita.

Il modello del Valore Condiviso, come vedremo nel prossimo paragrafo, può rappresentare non tanto uno schema d’azione teorico, quanto un paradigma idoneo alla efficace applicazione pratica della cosiddetta strategia di sostenibilità relazionale nell’ecosistema impresa, e, conseguentemente, una chiave di interpretazione pratica degli adeguati assetti effettivamente coerente con la funzione di prevenzione della crisi che il legislatore ha inteso attribuire ad essi.

 

4. Il modello CSV e i suoi tre pilastri come guida operativa per la sostenibile continuità d’impresa

Il concetto di valore condiviso viene coniato da Porter e Kramer nel 2011 come risultato di un complesso straordinario di studi e ricerche attraverso i quali, grazie alla virtuosa combinazione tra approccio induttivo e tecnica deduttiva, tanto cara allo Zappa[10], gli autorevoli Autori hanno raccolto e raggruppato una copiosa serie di esempi pratici di sistemi di gestione aziendale sulla cui analisi è stato sviluppato un triplice obiettivo: i) individuare le condizioni e i contenuti necessari a superare i limiti del concetto di responsabilità sociale di impresa, in favore di un modello di sostenibilità più evoluto e capace di creare valore in modo più duraturo e stabile nel tempo; ii) definire, sulla base delle caratteristiche comuni dei casi aziendali analizzati, una serie di regole sufficienti a definire un modello di applicazione generale e trasversale alle varie tipologie e dimensioni di contesti imprenditoriali; iii) verificare la coerenza e la tenuta dei risultati e delle evidenze rispetto ai principi generali sui quali il modello astratto si doveva sostenere, estendendone le possibilità di sussunzione in un campione sempre più rilevante e significativo.

È nato, così, il modello del CSV, acronimo di Creating Shared Value, che, agli assunti astratti e alle dichiarazioni di intenti, annette una sorta di guida di fruizione pratica, che parte da un primo inquadramento astratto della locuzione per passare alla enucleazione dei tre pilastri fondamentali sui quali l’intera costruzione astratta si sostiene e, arrivare, infine, alla delineazione delle attività operative attraverso le quali i pilastri di trasformano in un sistema di attività correlate e consequenziali e, prima di tutto, pratiche.

In questa sezione si cercherà di richiamare l’attenzione sui principi chiave che regolano il modello e, più approfonditamente, sugli strumenti concreti attraverso i quali i principi stessi prendono vita per ambientarli, nel successivo e ultimo paragrafo, entro la particolare prospettiva della prevenzione e gestione della crisi d’impresa.

Il paradigma della creazione e diffusione del valore, secondo Porter e Kramer, si sostanzia sul principio di condivisione virtuosa che, lungi dal rappresentare un mero meccanismo redistributivo, è uno strumento in grado di liberare una vera e propria «ondata di crescita globale[11]» grazie alla capacità di intercettare e sviluppare le interconnessioni esistenti tra progresso sociale e progresso economico e di ricondurre entro le stesse tre attività: i) rivedere e riformulare il concetto prodotti e mercati; ii) ridefinire la produttività non soltanto all’interno dei processi produttivi, ma lungo l’intera catena del valore; iii) promuovere la formazione e la crescita di cluster locali.

Si nota immediatamente come il valore condiviso assurga a preventiva lente di lettura di analisi delle opportunità e delle scelte aziendali, che consentirebbe il superamento di quel trade-off tra efficienza economica e progresso sociale, che è stato favorito da un approccio che per anni si è ancorato ad una miope prospettiva di breve termine, entro la quale si riteneva che la creazione di valore potesse coincidere con l’ottimizzazione della performance finanziaria nell’immediato, ignorando gli interessi degli altri stakeholders e, strettamente correlati, i fattori chiave potenzialmente in grado di generare successo destinato a durare nel lungo termine[12].

In tal senso il paradigma CSV è in grado di svolgere una seconda importantissima funzione: ridare legittimazione al ruolo delle attività imprenditoriali all’interno delle comunità in cui sono inserite, ridefinendo i confini stessi del capitalismo in favore di una visione più ampia che lo rielegge a strumento di ineguagliabile efficacia per soddisfare i bisogni umani, migliorare l’efficienza, creare posti di lavoro e costruire ricchezza, creando valore economico con modalità tali da creare valore anche per la società, rispondendo ai suoi bisogni e ai suoi problemi[13].

Partendo dal primo dei tre pilastri che sorreggono il sistema del CSV, ovvero la ridefinizione dei prodotti e dei mercati, va subito evidenziato che il punto di partenza coincide con il riconoscimento che i mercati non possono essere più perimetrati sulla sola base dei bisogni economici convenzionali, ma anche sui bisogni sociali, dato che spesso danni o problemi sociali creano costi interni per le aziende, come lo spreco di energia o di materie prime, costosi incidenti e l’esigenza di addestrare i dipendenti per rimediare alle carenze della formazione scolastica. E, d’altro canto, la risposta che le imprese possono fornire a tali problemi e vincoli sociali non implica necessariamente un aumento di costi a carico delle aziende, ma favorisce, al contrario, una forte spinta all’innovazione e alla ricerca di nuove tecnologie, di nuovi metodi operativi e di nuovi approcci manageriali e, di conseguenza, l’aumento della performance e l’espansione dei mercati.

In nuce, la ridefinizione dei prodotti e dei mercati riporta in auge un interrogativo, forse troppo spesso ignorato da molte imprese, che consiste nel verificare se, e in che misura, il prodotto o servizio reso sia in grado di soddisfare il cliente, e il cliente del cliente, ricomprendendo, nell’analisi del livello stesso di soddisfazione, tutta una serie di bisogni complementari a quello che si posiziona lungo la arcinota curva di utilità del consumatore, tra i quali si pongono, solo per citarne alcuni, il bisogno di salute, di ambienti di vita confortevoli, di sicurezza, di salubrità ambientale, di cura e rispetto per l’ambiente, di assistenza alle classi sociali più deboli, etc.

Per un’azienda, pertanto, è essenziale identificare tutti i bisogni, tutti i benefici e tutti i danni di carattere sociale che sono o potrebbero essere incorporati nei suoi prodotti, secondo un approccio che non può tuttavia essere statico in quanto le opportunità, così come i bisogni, si modificano costantemente sotto la spinta di tre volani: l’evoluzione della tecnologia, lo sviluppo delle economie e il mutamento delle priorità sociali.

La continua esplorazione dei bisogni sociali diventa, pertanto, la leva fondamentale attraverso la quale le aziende possono scoprire nuove opportunità di differenziazione e di riposizionamento nei mercati tradizionali, e di identificare il potenziale dei nuovi mercati che in precedenza trascuravano. Per soddisfare, infatti, i bisogni dei mercati che sono lontani da un livello di saturazione in quanto non adeguatamente serviti, spesso è utile riprogettare prodotti o creare metodi distributivi diversi. Queste esigenze possono, a loro volta, spingere a ulteriori innovazioni radicali che possono trovare applicazione nuovamente nei mercati di origine.

Il secondo pilastro, nella strategia del valore condiviso, richiede una revisione della produttività non solo all’interno dei circuiti e dei processi interni all’impresa, ma lungo tutta la catena del valore.

Richiede, in poche parole, di estendere la ricerca e la rilevazione delle esternalità positive e negative dell’agire imprenditoriale con un duplice approccio main stream e down stream, ossia nel più ampio ambito in cui i cosiddetti bisogni sociali possono trovare soddisfazione (o delusione): nei cicli di approvvigionamento e di distribuzione, in cui la produzione interna diventa, evidentemente, non l’attore protagonista, ma un tassello di un sistema di relazioni in cui l’obiettivo del valore condiviso deve coinvolgere e allineare l’approccio tanto dei fornitori quanto dei clienti.

I vari soggetti – e le rispettive attività – che popolano, a monte e a valle, la value chain di un’impresa sono, evidentemente, essenziali, per razionalizzare e aumentare la produttività in una serie di tematiche che fanno da sfondo ad altrettanti bisogni sociali, quali: i) l’utilizzo dell’energia e della logistica, con il connesso imprescindibile riesame dei processi, del trasporto, dell’utilizzo delle strutture fisiche, delle supply chain, dei canali distributivi o dei servizi di supporto; ii) l’utilizzo delle risorse, dall’acqua, alle materie prime al packaging, fino alle scelte di riciclo e riutilizzo; iii) l’atteggiamento di acquisto, con il superamento dell’approccio secondo cui lo scopo, nella relazione con il fornitore, è tradizionalmente quello di esercitare il massimo potere negoziale per abbassare i prezzi; iv) l’organizzazione della distribuzione, rileggendola come sistema che è un terreno particolarmente sensibile, sia in quanto è portatore di processi precedenti che hanno incorporato una quota rilevante di valore aggiunto finale sia poiché si colloca in un rapporto di maggiore prossimità rispetto all’ultimo – non certo per importanza –  anello della catena del valore, ossia il consumatore.

Affinchè il secondo pilastro del modello CSV, tuttavia, non risulti uno strumento applicativo monco, è bene ritornare indietro al concetto di produttività e, in particolare, a come essa possa essere potenziata solo se il processo di revisione interessi, oltre ai sistemi esterni, anche quelli interni all’impresa.

Il tema si sposta immediatamente sulla ridefinizione dei rapporti con i dipendenti, nel cui ambito è fondamentale che il management aziendale acquisti maggior consapevolezza degli effetti positivi che un salario dignitoso, la sicurezza, il benessere, la formazione e le opportunità di crescita per i dipendenti possono avere sulla produttività.

In questo processo di creazione dei meccanismi necessari a costruire una stabile infrastruttura di supporto all’ engagement dei dipendenti, alla definizione del cosiddetto contenuto psicologico del contratto di lavoro e alla formazione di una cultura aziendale condivisa e informata, un ruolo importante potrebbe essere svolto dalle rappresentanze sindacali, con conseguente sostanziale riforma, in prospettiva di superamento, di quell’atteggiamento conflittuale che produce inevitabilmente confronti con risultati a somma zero.

Il terzo e ultimo pilastro su cui si erge il costrutto del valore condiviso è rappresentato dai cluster locali.

Tale passaggio finale è, allo stesso tempo, tassello integrativo e sintesi sillogistica dei due momenti precedenti, in quanto fonde in sé e valorizza le due principali identità dell’impresa: l’impresa come sistema vitale; l’impresa come sistema relazionale.

In questo senso il cluster altro non è se non l’insieme delle infrastrutture esterne che circondano, influenzano e supportano ogni azienda con cui condividono l’habitat.

Un cluster è, perciò, costituito, in senso soggettivo, da imprese e da istituzioni (tra cui enti accademici, associazioni imprenditoriali ed organismi certificatori) e, sotto il profilo oggettivo, da un insieme di assets collettivi e pubblici,  appartenenti e condivisi con tutta la comunità circostante, come le infrastrutture fisiche (scuole e università) e le risorse materiali, e non, che completano questa sorta di “stato patrimoniale comune”, quali, per esempio, l’acqua potabile, le leggi che tutelano la concorrenza, gli standard di qualità e la trasparenza del mercato.

I cluster hanno dimostrato di svolgere un ruolo di primo piano soprattutto nel contesto delle economie regionali di successo e in crescita, e sono decisivi per promuovere la produttività, l’innovazione e la competitività[14]. Fornitori locali competenti possono, infatti, promuovere una maggiore efficienza logistica e una collaborazione più agevole, così come competenze locali più forti in aree come la formazione, i servizi di trasporto e i settori correlati possono contribuiscono ad accrescere sensibilmente la produttività. Specularmente, in assenza di un cluster di supporto, la produttività diminuisce.

Un ruolo determinante è svolto, oltre a quello ricoperto dai soggetti che compongono il cluster, anche dalle condizioni infrastrutturali, ovvero dai contenuti oggettivi che lo circondano e che possono favorire tanto benefici quanto importanti costi interni per le imprese. Un sistema scolastico non adeguato, per esempio, richiede costi di investimento diversi per preservare la produttività e costi di formazione successiva maggiori. Una infrastruttura di trasporto inadeguata provoca un aumento dei costi della logistica. La povertà limita la domanda di prodotti e genera degrado ambientale, lavoratori in cattiva salute e alti costi di sicurezza.

Il cluster è, evidentemente, l’ambiente più fertile per avviare un ciclo positivo di sviluppo economico e sociale, rappresentando la palestra ottimale, ovvero la configurazione ideale, per creare valore condiviso. Esso rappresenta, infatti, un ecosistema vitale che è in grado, nel contempo, di intensificare la connessione tra il successo dell’impresa e quello della comunità in cui opera, favorendo la crescita stessa dell’impresa con effetti moltiplicatori che si sostanziano in nuovi posti di lavoro anche nelle imprese di supporto, nella nascita di nuove aziende e nell’aumento della domanda di servizi ancillari.

Le iniziative messe in atto anche da una singola azienda per migliorare le condizioni infrastrutturali in cui opera sia essa stessa, sia il cluster che la “ospita”, si estendono naturalmente agli altri partecipanti e all’intera economia locale, creando un sistema che, proprio grazie alle leve tipiche che compongono il capitale relazionale, diventa più stabile e robusto.

 

5. Il terzo pilastro dello shared value nel contesto della prevenzione e gestione della crisi: la prospettiva relazionale e solidale del cluster

Dobbiamo ricorrere ancora una volta ai tanto straordinari quanto antesignani studi di Zappa per rintracciare, in scritti di quasi un secolo fa, i semi di quello che possiamo definire il matrimonio perfetto tra il concetto evoluto di sostenibilità e il superamento dei limiti della responsabilità sociale di impresa che ha trovato il suo habitat concettuale e implementativo nel modello del Creating Shared Value di Porter e Kramer.

Ricordiamo, infatti, che secondo l’autorevole Accademico, l’attività aziendale era strumentale, in quanto attività economica, all’ottenimento di un’utilità, dovendosi per essa intendere non la semplice soddisfazione di bisogni di tipo economico, ma anche di taluni bisogni umani e che, per raggiungere tali obiettivi, l’azienda doveva essere letta, nel contempo, quale cellula di un organismo vivente (analogia organicistica) e come ingranaggio di un complesso meccanismo (analogia meccanicistica)[15].

L’ulteriore passaggio compiuto da Zappa implica la constatazione che la capacità di auto-generarsi del sistema vitale azienda, ovvero la propria idoneità a garantire la continuità delle proprie attività nel tempo, è legata alla sua capacità di creare valore, assolvendo durevolmente agli obiettivi intrinseci alla sua funzione di istituto sociale.

Pare del tutto evidente come oltre cento anni fa si siano poste le basi di quello che è l’attuale, e avanzato, concetto di sostenibilità dell’agire imprenditoriale e di come tali basi possano preziosamente trovare una degna sintesi nel passaggio, attraverso il modello di Porter e Kramer, ad una concezione più evoluta della responsabilità sociale d’impresa, verso un approccio virtuoso di prevenzione e gestione della crisi d’impresa. In funzione proprio di quella autonomia e della stessa capacità di auto(ri)generarsi tanto anelati dallo Zappa.

Vedremo meglio, in questo paragrafo finale, come – a parere di chi scrive – tale virtuosa combinazione possa suggellarsi e dare vita ad una strategia di sostenibilità relazionale all’interno di un’organizzazione che trasformi il cluster, secondo la definizione degli studiosi di Harvard, in un ecosistema imprenditoriale fluido, trasparente e maggiormente capace di prevenire e risolvere le crisi.

La strategia di sostenibilità, infatti, se opportunamente affrancata dal rischio di window dressing e sostanzialmente nobilitata, può offrire, in combinazione con l’approccio del valore condiviso e grazie all’approccio relazionale che appartiene fisiologicamente ad entrambi, un sistema interpretativo idoneo a sostanziare il dovere di early warning e gli obblighi ex art. 2086 c.c. con il principio generale della solidarietà di obiettivi economici e sociali.

Rileggendo, ora, i contenuti specifici dell’obbligo di istituire adeguati assetti, così come stabilito dalla riforma del diritto della crisi, con l’ausilio della interpretazione evolutiva con cui il CSV si relaziona alla strategia di sostenibilità d’impresa, risulta quanto mai evidente come il concetto di adeguatezza degli assetti debba “uscire fuori” dal confine dell’impresa stand alone, per investire e connotare gli “assetti relazionali” che essa possiede con i soggetti e le infrastrutture esterni[16].

In questo senso, l’espressione secondo la quale la determinazione degli adeguati assetti in funzione della natura e delle dimensioni dell’attività esercitata dall’impresa, può essere, sul piano pratico, virtuosamente arricchita della funzionalità rispetto alle relazioni con i soggetti fisici che compongono la catena del valore e con le condizioni di utilizzo delle risorse comuni.

È ancora più chiaro come la formazione del cluster diventi l’ambiente ideale per favorire sia la consapevolezza di questa ulteriore funzionalità, sia il terreno adatto per sviluppare un sistema informativo coerente, sia, infine, sia il contenitore idoneo a costruire e rafforzare quel cruscotto di strumenti di controllo che possono realmente supportare le aziende sia nella prevenzione della crisi, sia nel gestirne tempestivamente gli effetti  per favorirne una soluzione più rapida che interrompa anche la pericolosa deriva rappresentata dal contagio proprio agli altri membri del medesimo ecosistema.

L’approccio relazionale consente, pertanto, ampliare il perimetro applicativo dell’adeguatezza degli assetti spingendoli al di fuori dei confini dell’organizzazione aziendale. Attraverso la rilettura della strategia di sostenibilità d’impresa offerta dal modello del valore condiviso è, inoltre, possibile inquadrare – correttamente – la crisi come un evento ecosistemico e potenzialmente in grado di investire e contagiare diversi livelli della comunità economica in cui un’impresa si inserisce, sviluppando una serie di pericolosi effetti economici diretti e altrettante esternalità.

Gli effetti che la crisi di un’azienda sempre più spesso provoca, non solo sulle altre aziende, ma anche sul livello di benessere degli altri stakeholders, fino a coinvolgere l’intera comunità economica (in senso soggettivo e oggettivo), devono portarci a riflettere sul fatto che una auspicata rilettura relazionale del fenomeno porta con sè un concetto più evoluto e solidale[17] di sostenibilità: la gestione sostenibile della crisi non può che partire dal riconoscimento che il dissesto è distruzione di valore condiviso e di quel capitale relazionale che è il volano di sistemi economici più resistenti, più reattivi e, fondamentalmente, meno cagionevoli.

Se, ritornando alle parole del Prof. Ambrosini, è evidente che l’impresa «lungi dal perseguire il mero obiettivo della massimizzazione del profitto, è per sua natura votata alla creazione di un valore che è ad un tempo economico, ambientale e sociale; il che, quanto meno idealmente, ha come corollario intrinsecamente positivo, in ultima analisi, l’incremento del c.d. benessere collettivo[18]», è altrettanto pacifico come tanto il modello del Valore condiviso possa essere un’utile guida operativa, quanto il medesimo debba trovare la propria primigenia ambientazione nella coloritura del concetto di adeguatezza negli assetti, mettendo in relazione, secondo un approccio preventivo della crisi, il principio di continuità aziendale con la dimensione relazionale che trova la sua massima manifestazione proprio nel suddetto benessere collettivo.  

Stabilire questa connessione, anticipando la prospettiva di gestione sostenibile alla definizione implementativa dell’orientamento strategico di fondo di un’impresa al momento di costruzione degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili, offrendone al contempo un principio generale di interpretazione, significa anche eliminare alla radice il rischio di window dressing e, detto in altri termini, di ridurre sensibilmente il rischio di incorrere nell’accusa di implementare sistemi di prevenzione tanto insostenibili quanto inadeguati.

La gestione sostenibile della crisi richiede un profondo cambiamento culturale che parte da una prima rilettura del fenomeno entro una duplice e complementare prospettiva: la prospettiva relazionale, secondo la quale nessuna impresa è un’isola, ma è elemento organico di un sistema vitale complesso in cui avvengono azioni e reazioni concatenate, delle cui ultime il distress rappresenta il caso che, più frequentemente, dimostra un alto tasso di morbilità contagiosa con altrettanto gravi derive pandemiche; la prospettiva solidale, che richiede, ex ante, la definizione e lo sviluppo di meccanismi compartecipativi e proattivi, a garanzia della salute del sistema, ed ex post, l’unione fattiva delle forze per riconoscere sul nascere i sintomi del distress, interrompere il contagio e debellarli definitivamente.



[1] In tal senso, si legga S. Pacchi, La gestione sostenibile della crisi d’impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 2022: «Negli ultimi decenni il vocabolo “sostenibilità”, declinato secondo differenti se pur non contrastanti istanze, è, però, tanto ricorrente quanto generatore di perplessità».

[2] Si ricordino: la recentissima direttiva (UE) 2022/2464 che si esprime proprio sulla rendicontazione societaria di sostenibilità; il d.lgs. n. 58/1998 (c.d. t.u.f.), che, all’art. 123-ter, co. 3 bis, in materia di remunerazione degli organi di gestione, specifica come la stessa contribuisca non soltanto alla strategia aziendale nel complesso, ma anche al perseguimento degli interessi a lungo termine e alla sostenibilità della società, precisando come, la gestione sostenibile costituisca un motivo di deroga alle regole generali stabilite appunto per le remunerazioni; il regolamento (EU) 2019/2088, che all’art. 2, n. 17, parla di “investimenti sostenibili”, intendendo per essi quelli che si manifestano «in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale, […] o […] in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo sociale […] o […] in capitale umano o in comunità economicamente o socialmente svantaggiate»; infine, il Codice di Borsa che raccomanda alle società quotate di approcciare la gestione sostenibile dell’impresa, ovvero alla governance di perseguire l’obiettivo del successo sostenibile, inteso come «creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società».

[3] Con particolare riferimento proprio alla “gestione sostenibile” dell’impresa, i dubbi, così come gli effetti, sono molteplici, come correttamente osserva M. Onza, Gestione sostenibile dell’impresa, adeguati assetti e (una annotazione su) interesse sociale: spunti di riflessione, in Ristrutturazioni Aziendali, 2023: « a) la scelta gestoria, se legata alla “sostenibilità”, significa, all’evidenza, scegliere “considerando” la “sostenibilità”; b) questo “considerare” la “sostenibilità” può essere una scelta autonoma, pattizia (effettuata, nelle società, dai soci; si pensi, ovviamente, alla società che si “dichiara al mercato” benefit); oppure quel “considerare” la “sostenibilità” può essere imposto, dall’eteronomia, dall’ordinamento; c) nell’uno e nell’altro caso, la “scelta gestoria” è (tendenzialmente) affidata, quanto meno nella sua attuazione concreta, a chi gestisce l’impresa; d) il grado di “considerazione” della “sostenibilità” nella scelta gestoria può essere più o meno intenso; transitando, de minimis, da una relazione di compatibilità tra scelta gestoria e “sostenibilità”, siccome mera assenza di effetti negativi (vuol dirsi pregiudizievoli) di quella su questa, fino al perseguimento della “sostenibilità”, siccome obiettivo dell’attività governata da quella scelta; dandosi, quindi, tra l’una e l’altro, sfumature a cagione del rapporto con altri fini (esemplarmente, quello c.d. di lucro); comunque, e)in tutti i casi è necessario individuare cosa si intenda giuridicamente per “sostenibilità”. In effetti, nella disciplina della società benefit si rinviene un riferimento alla “sostenibilità”, dovendo la società per scelta statutaria benefit operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse. Un riferimento alla “sostenibilità”, questo, che tuttavia non indica affatto cosa debba intendersi per “sostenibilità”; specificando solo che operando in quel modo (responsabile trasparente sostenibile), la società benefit deve “perseguire” un beneficio comune (quali effetti positivi o riduzione degli effetti negativi) per i relativi destinatari, quelli dal testo legislativo “nominati” o comunque i soggetti sui quali l’attività dell’impresa possa avere un impatto, società civile compresa. Certo, si potrebbe ipotizzare che quel risultato, il beneficio comune, coincida con la “sostenibilità”; ma così non parrebbe: proprio perché tale beneficio deve essere raggiunto “operando in modo” sostenibile (oltre che responsabile e trasparente), orientando verso uno scarto tra “sostenibilità” e beneficio comune. E qui, nella società benefit, l’intensità tra scelta gestoria e “sostenibilità” è nel senso del bilanciamento tra scopo c.d. lucrativo e funzione c.d. benefit. Qualche indicazione più precisa, viceversa, sulla “sostenibilità” – su cosa “sia” la “sostenibilità”, ancora una volta, in senso giuridico - si ritrova in altri complessi normativi; dove la “gestione sostenibile dell’impresa” non si fonda, si badi, su una scelta pattizia (dei soci; come nella società benefit; scelta che in thesi serve a “presentare sul mercato la società come benefit”; d’onde il tradimento dello scopo benefit si apprezza innanzitutto sul piano del mercato, sul piano pubblicitario, qualificandosi siccome pubblicità ingannevole); ma su regole di rango legale; regole che invero o presuppongo una gestione dell’impresa “sostenibile” o orientano per una gestione dell’impresa “sostenibile”.

[4] Cfr., sul tema, ancora S.Pacchi, Op.cit.: «Da tempo il modello economico classico, secondo cui l'unica responsabilità sociale dell'impresa consisterebbe nell’accrescere costantemente gli utili per i suoi azionisti, è entrato in discussione. Si sta affermando un nuovo modello di gestione del business chiamato modello socioeconomico che muove dalla considerazione secondo cui gli azionisti, pur costituendo un gruppo rilevante di parti interessate, non sono gli unici “proprietari”. Altri soggetti possono vantare diritti di tipo proprietario. L’attività suppone, infatti, un crogiuolo di relazioni, alcune delle quali nascenti dall’assunzione della stessa iniziativa economica (i soci), altre da contratti (i fornitori, i finanziatori, clienti ecc.), altre da bisogni di varia natura dell’impresa (lavoratori, territorio, le comunità locali ecc.) che generano aspettative e/o attese di contropartite.

[5]«Nell’impresa - intesa come sistema aperto che vive anche per questo incessante dialogo perché proprio da queste relazioni può derivare un supporto essenziale – scorgiamo, così, la presenza di soggetti diversi che sono accomunati dall’obbiettivo di mantenere la salute dell’attività mentre e fintanto che questa è in bonis, ma che, nel momento della crisi, assumono posizione antagoniste», Ibid.

[6] Così S. Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in Ristrutturazioni Aziendali, 2023, che continua ricordando che «da tempo il modello economico classico, secondo cui il corporate purpose consisterebbe nell’accrescere costantemente gli utili per i suoi azionisti, è entrato in discussione. Si sta affermando un nuovo modello di gestione del business chiamato modello socioeconomico che muove dalla considerazione secondo cui gli azionisti, pur costituendo un gruppo rilevante di parti interessate, non sono gli unici “proprietari”. Altri soggetti – oltre gli shareholders - possono vantare diritti di tipo proprietario. L’attività suppone, infatti, un crogiuolo di relazioni, alcune delle quali nascenti dall’assunzione della stessa iniziativa economica (i soci), altre da contratti (i fornitori, i finanziatori, clienti ecc.), altre da bisogni di varia natura dell’impresa (lavoratori, territorio, le comunità locali ecc.) che generano aspettative e/o attese di contropartite. Nell’impresa - intesa come sistema aperto che vive anche per questo incessante dialogo perché proprio da queste relazioni può derivare un supporto essenziale – scorgiamo, così, la presenza di soggetti diversi che sono accomunati dall’obbiettivo di mantenere la salute dell’attività. L’impresa necessita della presenza di tutti: senza shareholders non nasce ma senza gli stakeholders non si mantiene. L’impresa esiste non solo per i primi ma anche per i secondi: sono distinti e complementari allo stesso tempo».

[7] Si legga, sul tema, L. Mongiello, Pratiche commerciali ingannevoli e beneficenza: il caso "Pandoro Pink Christmas", Il Caso.it, 2024, dove viene correttamente ribadita la necessità di un intervento del legislatore in situazioni che riguardano poteri contrattuali evidentemente differenti in termini di peso, come, nel caso specifico, gli influencer, da un lato, e i consumatori, dall’altro, in un contesto delicato proprio come è quello delle scelte aziendali e delle politiche filantropiche nell’ancor più sensibile habitat della pubblicità ingannevole: «Ad oggi non esiste una regolamentazione specifica a livello europeo per tali attività e gli ordinamenti nazionali si stanno muovendo in ordine sparso ma, vista l’ampiezza della portata e l’importanza di tali attività e i loro effetti sul piano sociale ed economico, una regolamentazione in ambito comunitario è assolutamente necessaria. E qualcosa, effettivamente, si sta muovendo: in data 29 settembre 2023 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il Parere esplorativo del Comitato economico e sociale europeo sul tema la “Pubblicità attraverso gli influencer e il suo impatto sui consumatori” che ha adottato delle proposte al fine della regolamentazione delle attività di queste figure quali: a) l’assunzione da parte di piattaforme e social network della responsabilità in solido dei contenuti illeciti pubblicati dagli influencer; b) la garanzia da parte di quest’ultimi e dagli amministratori delle piattaforme e dei social network nei propri messaggi delle avvertenze quali “pubblicità”, “comunicazione commerciale” o “sponsorizzato da”; c) l’inserimento della dicitura per le immagini ritoccate o modificate “immagine ritoccata” e la dicitura “immagine virtuale” per le produzioni create con l’intelligenza artificiale».

[8] Si legga, sul tema, C.H. ChoD. Pattern – R.W. Roberts – G. Michelon, CSR disclosure: The more things change …?, in Accounting Auditing & Accountability Journal, 2015. Nel contributo gli autori sostengono che il rapporto tra discorsi, decisioni e azioni è volutamente invertito perché serve a rispondere “in modo efficace” alle richieste dei differenti stakeholders. I discorsi e le decisioni, che rappresentano le attività meno costose sono legate, principalmente, alla gestione delle richieste degli stakeholders secondari; al contrario le azioni, che rappresentano le attività più costose, sono riservate per la gestione degli stakeholders primari più direttamente coinvolti nei rapporti con l’azienda, generando una situazione di ipocrisia organizzata e di facciata in cui i discorsi e le decisioni sono in contrasto con le azioni. I discorsi e le decisioni compensano le azioni inconsistenti e le azioni possono, al contrario, compensare discorsi o decisioni incoerenti, generando un effetto finale di poca attenzione da parte delle aziende alla sostenibilità ambientale.

 

[9] Si legga, sull’argomento, G. Serafeim, I vantaggi degli ESG nei bilanci delle imprese, in Harvard Business Review, 2020.  

[10] La prolusione letta dal Prof. Gino Zappa in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 1926-27 nel Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Venezia è stata correttamente definita una “rivoluzione”. Con la fondazione dell’Economia Aziendale, Zappa si proponeva di realizzare una sistemazione scientifica – nell’unità di indirizzo e di metodo – delle varie discipline e tecniche precedentemente esistenti nonché dei copiosi studi che, a Suo dire, erano stati fino a quel tempo scompostamente condotti. Proprio per questa ragione, Zappa mostrò grande attenzione alla definizione della metodologia da adottare, ben conscio che non è solo l’oggetto di studio – che, peraltro, può essere comune anche ad altre dissimili discipline – ma soprattutto il metodo a contraddistinguere una scienza. Il metodo induttivo risponde adeguatamente alle esigenze proprie delle scienze naturali le cui ricerche richiedono inevitabilmente la sperimentazione sul campo così da poter osservare direttamente l’evoluzione dei fenomeni, mentre il metodo deduttivo si addice alle scienze astratte – come la matematica – dove il rigore logico dei ragionamenti e delle argomentazioni è necessario e sufficiente a dare esauriente dimostrazione ai teoremi enunciati. Per l’Economia Aziendale, sia il metodo deduttivo sia quello induttivo, se separatamente ed isolatamente adottati, non sono in grado di rispondere alle esigenze conoscitive proprie di tutte le scienze sociali; essi, dunque, devono essere sapientemente “dosati” poiché rappresentano momenti indispensabili che si completano e s’integrano vicendevolmente. L’applicazione pedissequa del metodo deduttivo potrebbe condurre alla formazione di un abito mentale angusto ed egocentrico fondato sull’implicito presupposto che lo schema teorico elaborato sia aprioristicamente ottimale. L’applicazione ottusa del metodo induttivo potrebbe condurre a generalizzare ogni proposizione riscontrata nell’osservazione la quale, però, si limita assai spesso a poche fattispecie di cui non è stata preventivamente verificata la rappresentatività rispetto all’universo indagato. Si rinvia, per gli approfondimenti sul tema, a G. Zappa, Tendenze nuove negli studi di ragioneria, Milano, 1927.

[11] Cfr. E. Porter – M. Kramer, Creating Shared Value, in Harvard Business Review, 2011.

[12] La persistenza delle problematiche connesse a tale miopia è ben descritta da H. Meyer che scrive «With the near-collapse of the financial system and the resulting Great Recession the discussion about the longevity and stability of capitalism has resurfaced in public and academic debates. Whether it is about often muted aspects of capitalism or neoliberal market fundamentalism the very foundations of capitalism are being questioned. If anything, the discussions have become even more fundamental in recent years. Economic commentators such as Paul Mason and internationally acclaimed academics such as the economic sociologist Wolfgang Streeck have even predicted the imminent demise of the capitalist system. CSV is therefore an important contribution to one of the most pressing economic debates of our time, deserving attention and further study». H.Meyer, Creating Shared Value (CSV):Operationalising CSV Beyond The Firm, Cambridge Business Review, 2018.

[13] Ancora Porter e Kramer, Op.cit., sottolineano che il valore condiviso non può coincidere con la responsabilità sociale, la filantropia o la sostenibilità, ma deve rappresentare un nuovo approccio al perseguimento del successo economico, poichè non può porsi «alla periferia, ma al centro, di ciò che fanno le imprese».

[14] Nel contesto dei distretti italiani, per esempio, ampia evidenza è stata documentata circa una maggiore velocità di recupero dopo l’emergenza pandemica del 2020 e, a seguire, circa le migliori performance delle imprese appartenenti ad essi – anche a contrasto dei rincari dell’energia e degli effetti della crisi energetica sulla marginalità delle imprese – grazie ad un mix virtuoso di condivisione di tecnologia, innovazione e capitale umano. Si legga, in tal senso, tra gli altri Banca Intesa, Economia e Finanza dei distretti industriali - XV Rapporto, 2023. Gli studi dell’Osservatorio, così come altre ricerche compiute sul fenomeno, dimostrano che l’aggregazione di imprese è suscettibile di generare risultati relativamente più soddisfacenti rispetto a quelli delle altre imprese che scelgono un più classico approccio stand alone, in particolare in ambito manifatturiero, rendendo le partecipanti più reattive e maggiormente adattabili ai cambiamenti.

[15]«L’azienda è un istituto economico destinato a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione, la produzione, o il procacciamento e il cons0075mo della ricchezza». Così G. Zappa, Le produzioni nell’economia delle imprese, vol. I, Milano, 1957, p. 37.

[16] Sull’interessante tema della auspicata relazione tra adeguatezza degli assetti e sostenibilità dell’agire imprenditoriale, degno di nota è il pensiero di S. Ambrosini, Adeguatezza degli assetti, sostenibilità della gestione, crisi d’impresa e responsabilità della banca: alla ricerca di un fil rouge (un’introduzione), in Ristrutturazioni aziendali, 2023, laddove precisa che «Non priva di collegamenti con la tematica dell’adeguatezza degli assetti è quella della sostenibilità della gestione imprenditoriale. Com’è noto, sino a circa tre lustri fa non erano molte le imprese italiane ad aver avviato iniziative davvero tangibili (e interdipendenti con il business) per migliorare l’impatto ambientale e sociale della propria attività. L’irreversibile tendenza verso una gestione sostenibile ha peraltro da tempo iniziato a diffondersi, anche grazie alla pubblicazione nel 2015 (e con obiettivi di medio-lungo periodo), da parte delle Nazioni Unite, della “2030 Agenda for a Sustainable Development”, contenente l’enucleazione di diciassette “Sustainable Development Goals” (cc. dd. SDGs). Del resto, il nostro legislatore costituzionale ha denotato piena consapevolezza dei problemi in parola quando ha modificato l’art. 9 della Costituzione, inserendo la tutela dell’ambiente, della biodiversità […] e l’art. 41 […]. Sono dunque chiari, non da oggi e a tutti i livelli, gli impatti delle problematiche ambientali e sociali sull’attività d’impresa, nonché la virtuosa correlazione tra i risultati ambientali e sociali dell’impresa stessa e la sua competitività sul mercato: tanto che numerosi economisti e giuristi ritengono che la sostenibilità sia destinata a rappresentare, negli anni a venire, addirittura il criterio fondante – e comunque uno dei più rilevanti – della gestione dell’impresa. Non è un caso che già oggi la maggior parte dei gruppi multinazionali operi secondo questa logica (con esplicito riferimento agli SDGs) e che sia in costante crescita anche in Italia il numero di medie e piccole imprese che si pongono obiettivi non solo economici, ma anche ambientali e sociali. Ed è chiaro che una visione della gestione d’impresa incentrata sulla sostenibilità comporta giocoforza l’innovazione dell’apparato concettuale, delle strategie e delle stesse funzioni aziendali rispetto all’impostazione tradizionale: giacché per l’appunto un’impresa orientata alla sostenibilità, lungi dal perseguire il mero obiettivo della massimizzazione del profitto, è per sua natura votata alla creazione di un valore che è ad un tempo economico, ambientale e sociale; il che, quanto meno idealmente, ha come corollario intrinsecamente positivo, in ultima analisi, l’incremento del c.d. benessere collettivo. Senza con ciò dimenticare, peraltro, le finalità (anche) “sanamente egoistiche” di tale approccio, dal momento che le inclinazioni di imprenditori e manager a farsi parte attiva nel sostegno a politiche sociali e ambientali, nonché nel contrasto a diseguaglianze, discriminazioni e sfruttamenti, sono stare “progressivamente considerate – nella loro dimensione reputazionale – un potenziale “valore aggiunto” capace di generare profitti e dunque, indirettamente, una competizione virtuosa tra imprese”».

[17] Sul tema della solidarietà declinata nell’ambito della gestione sostenibile delle imprese estremamente suggestivo è il contributo di M. Spiotta, “Utilità solidale” nel Codice della crisi: un ossimoro solo apparente, in Ristrutturazioni Aziendali, 2023, che riporta un’interessante analisi della definizione e della contestualizzazione del concetto prima nell’ambito della Costituzione italiana e successivamente nel Codice della Crisi d’Impresa, in cui il suddetto concetto di utilità solidale pare estremamente vicino all’auspicio del presente elaborato: «I costituzionalisti distinguono tra una solidarietà solo interna (che si realizza solo internamente alla comunità, al gruppo, alla categoria, all’associazione) ed una esterna e tra un significato debole (come mero criterio di organizzazione del traffico giuridico, che si può ricongiungere alla buona fede) ed uno forte (di “sponda” contrapposta al principio dell’“individualismo proprietario” volta a legittimare interventi redistributivi).

Con le pagine che seguono ci si propone di valorizzare tale principio anche nel contesto del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (breviter, CCII) e tentare di dimostrare che la raffigurazione della solidarietà come istanza che «opera a cerchi concentrici con vincoli e doveri che […] si allargano progressivamente» e come una forza centrifuga che si dipana dal centro verso l’esterno in innumerevoli direzioni, si sposi perfettamente con la metafora dei cerchi concentrici della concorsualità. Man mano che ci si allontana dal nucleo più piccolo (la procedura fallimentare, oggi di liquidazione giudiziale: l.g.) e fino all’orbe più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti: a.d.r.), aumenta (l’autonomia delle parti, ma anche) la solidarietà, che tocca il suo apice nella composizione negoziata della crisi (CNC), che, come si desume dall’art. 2, lett. m-bis, CCII, non è né una procedura concorsuale, né uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza (SRC), ma un percorso volontario fondato sull’autonomia privata e sul dialogo con i vari stakeholders al fine di consentire la condivisione dei sacrifici presso una platea più ampia di interessati.

Negli altri SRC la solidarietà (al pari della protezione dalle azioni esecutive individuali ottenibile tramite la richiesta di apposite misure) può essere:

- “selettiva” stante la ritenuta possibilità di escludere alcuni creditori sia dagli a.d.r. che, per analogia, dalla convenzione di moratoria, ma, nel contempo, estesa ai garanti;

- “spontanea” o “imposta” con un effetto di “trascinamento” (amplificato negli a.d.r. ad efficacia super-estesa, che rappresentano un possibile exit della CNC: v. art. 23, co. 2, lett. b, CCII) nei confronti dei creditori riottosi onde scoraggiare iniziative free riding.

L’Autrice procede con una approfondita e interessante disamina delle evoluzioni del concetto, con un approccio esegetico e termina con una riflessione de jure condendo in cui auspica che si dimostri «solidarietà anche tra i tre formanti del diritto (del resto, alcune delle critiche mosse al nuovo ordito codicistico possono essere ridimensionate semplicemente cambiando angolo visuale) per evitare nuovi “casus belli” (come la nota vicenda della società calcistica Reggina 1914, che ha portato il D.L. 69/2023, conv. in L. 103/2023 a sospendere inopinatamente l’applicabilità dell’art. 63, co. 2-bis, CCII, prevedendo una disciplina transitoria sull’omologazione forzata degli a.d.r.) e di convincere i creditori che la solidarietà esterna (verso l’imprenditore e i soci, che, a certe condizioni, possono trattenere anche parte del valore di ristrutturazione) si tradurrà anche in una interna, ossia in un beneficio per loro. Ogni riforma richiede un periodo di metabolizzazione, ma un approccio dialogico e costruttivo tra Legislatore, giurisprudenza e dottrina sarebbe di grande aiuto anche nell’accelerare l’auspicato cambio di mentalità tra gli operatori e i professionisti del settore. Così come esiste la pratica del “caffè sospeso”, gli imprenditori dovranno abituarsi anche a quella di una “fornitura (di beni/servizi) sospesa” contando sul recupero del going concern da parte dell’impresa in difficoltà in una sorta di “passa il favore” qui declinata come “concorsualità collaborativa” che potrà essere ulteriormente incentivata, per es., attraverso la tecnica del c.d. “earn out”».

[18] S. Ambrosini, Op. cit.