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Le istanze di composizione negoziata. Dati UnionCamere aggiornati al 15 aprile 2024


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Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano: gli interessi protetti e lo “statuto” della continuità aziendale*


Stefano Ambrosini

Data pubblicazione
10 marzo 2024

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Sommario: 1. Le finalità del concordato preventivo e il principio di non deteriorità; 2. Segue. La gerarchia degli interessi protetti e la tutela dei posti di lavoro; 3. La sorte dell’attività d’impresa come spartiacque e la continuità come “valore-mezzo”; 4. Le tipologie di concordato e l’assenza di un numerus clausus; 5. Segue. Qual è la regola e quale l’eccezione?; 6. Lo “statuto” del concordato in continuità aziendale; 7. Il discusso criterio della prevalenza e la definitiva affermazione della “continuità non prevalente”; 8. Segue. Il problema (irrisolto) della percentuale minima; 9. Cenni alle regole di priorità e al “plusvalore” generato dalla continuità.


1. Le finalità del concordato preventivo e il principio di non deteriorità

La disposizione con cui esordisce la Sezione II del Capo III del CCII, cioè l’art. 84, è fra quelle che hanno catalizzato maggiormente l’interesse degli studiosi[1]; e di certo pour cause, dal momento che al suo interno si trovano racchiusi e declinati alcuni dei principi più rilevanti della novellata disciplina sul concordato preventivo.  

Nella versione originaria del d.lgs n. 14/2019 l’art. 84 era rubricato – com’è noto – “Finalità del concordato preventivo” e stabiliva, al primo comma, che “con il concordato preventivo il debitore realizza il soddisfacimento dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio”; nei commi successivi erano poi disciplinate le due tipologie. Ciò aveva indotto chi scrive, in sede di primo commento, a osservare che il tenore di tale rubrica suscitava un’impressione di non piena rispondenza al contenuto della norma, potendosi evocare al riguardo la figura retorica della sineddoche[2], posto che la rubrica menzionava in effetti solo le “finalità” del concordato, laddove la norma trattava anche – e in realtà soprattutto – delle modalità attraverso le quali si doveva realizzare il soddisfacimento dei creditori: di qui il suggerimento di rendere la rubrica più coerente al contenuto della norma.

Il testo vigente dell’art. 84, ora rubricato opportunamente “finalità del concordato preventivo e tipologie di piano”, appare più puntuale e “ordinato”, sebbene – come vedremo – irto di problemi interpretativi. La prima parte del primo comma recita infatti: “L'imprenditore di cui all'articolo 121, che si trova in stato di crisi o di insolvenza, può proporre un concordato che realizzi, sulla base di un piano avente il contenuto di cui all'articolo 87, il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale mediante la continuità aziendale, la liquidazione del patrimonio, l'attribuzione delle attività ad un assuntore o in qualsiasi altra forma”.

La previsione odierna enuclea quindi, in primo luogo, la finalità (principale e irrinunciabile) del concordato, consistente nel realizzare il soddisfacimento dei creditori, e, in secondo luogo, il criterio a cui detto soddisfacimento va improntato, vale a dire la non inferiorità alla misura ricavabile dalla liquidazione giudiziale.

Del primo aspetto si tratterà nel paragrafo seguente; qui conviene prendere in esame brevemente quello che fin dai primissimi commenti è stato definito criterio di non deteriorità[3] (o anche “soluzione Pareto-efficiente per i creditori”[4]) e che è andato a sostituire quello del miglior soddisfacimento dei creditori di cui parlava, a proposito del concordato in continuità, la vecchia legge fallimentare (e di cui, per vero, parlano tuttora alcune norme del codice della crisi, quali gli artt. 94, 99 c. 1, 100 c. 1, e 284 c. 5, lett. c) .

Il criterio di non deteriorità discende dalla (ri)formulazione del best interest of creditors test quale operata dalla Direttiva Insolvency, il cui art. 2, par. 1, n. 6), chiarisce che in base ad esso “nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe in caso di liquidazione se fosse applicato il normale grado di priorità di liquidazione a norma del diritto nazionale, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell'impresa in regime di continuità aziendale, oppure nel caso del migliore scenario alternativo possibile se il piano di ristrutturazione non fosse omologato”[5].

Non più, dunque, la miglior soddisfazione possibile, ma la semplice assenza di pregiudizio per i creditori: scelta, questa, a monte della quale sta un più marcato favor per la continuità aziendale, la cui tutela viene ad assumere una posizione davvero centrale nel nuovo sistema, senza tuttavia assumere – come si dirà nel prosieguo – i connotati del “valore-fine” in senso proprio.

Un tale arretramento nella considerazione delle esigenze del ceto creditorio riflette anche, a ben vedere, la consapevolezza del carattere frammentato e diversificato di quest’ultimo, dal momento che alcuni creditori sono interessati essenzialmente al “vecchio” (la riscossione dei crediti già maturati) e altri invece guardano maggiormente al “nuovo” (la prosecuzione dell’attività e di conseguenza dei loro rapporti con l’impresa in crisi)[6].  Siamo pertanto di fronte – è stato ben detto – “ad un mutamento profondo della prospettiva sulla quale ha sempre posto le fondamenta il diritto concorsuale: il creditore di ieri viene tutelato non in quanto tale, con attenzione a quel "di più" che potrebbe provenire dal concordato rispetto alla liquidazione giudiziale, ma di fatto in quanto probabile creditore di domani, e cioè quale creditore dell'impresa che continui ad operare sul mercato e con la quale egli continuerà auspicabilmente ad intrattenere rapporti!”[7].

È invero sufficiente, nel nuovo sistema, che la continuità aziendale “non generi un risultato penalizzante per i creditori, di modo che, più che una valutazione correlata all'ammontare del debito, basta un apprezzamento parametrato alla misura del soddisfacimento ricavabile nello scenario liquidatorio concorsuale, alla luce dell’entità del patrimonio monetizzabile. Si è passati, quindi, da un sistema concorsuale votato a soddisfare i diritti di credito incisi dal dissesto, ad un sistema concorsuale diretto a gestire la crisi e a regolare i diritti dei creditori, che prescinde dall’intento del loro miglior soddisfacimento”[8].

Il metro di paragone è dunque costituito dallo scenario che si manifesterebbe nell’ipotesi di assoggettamento del debitore a liquidazione giudiziale, che non a caso va puntualmente rappresentato dal debitore e verificato dall’attestatore, con particolare riferimento al “valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale” (art. 87, c. 1, lett. c) e alle “azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nonché le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale” (art. 87, c. 1, lett. h). Ed anche con riguardo al momento dell’omologazione del concordato (in continuità) è previsto che, se con l’opposizione un creditore dissenziente eccepisce il difetto di convenienza della proposta, il tribunale omologa il concordato quando, secondo la proposta e il piano, il credito risulta soddisfatto “in misura non inferiore alla liquidazione giudiziale" (art. 112, c. 3).    

In definitiva, il focus normativo è, non soltanto nell’art. 84, sulla tutela della continuità e sulla salvaguardia, per quanto possibile, dell’unità del compendio aziendale, sol che sia prospettabile con ragionevole certezza e comunque con piena verosimiglianza che il trattamento dei creditori in sede concordataria – si ribadisce – è destinato a risultare quanto meno equivalente a quello che si verificherebbe in caso di liquidazione giudiziale, considerata dalla legge “come prova di resistenza”[9].

Può al riguardo soggiungersi, in ogni caso, che la questione appare destinata, all’atto pratico, a stemperarsi. Non saranno molti, infatti, i casi di reale equivalenza fra lo scenario del concordato e quello della liquidazione giudiziale, giacché il più delle volte uno dei due risulterà significativamente preferibile rispetto all’altro[10]. Ne deriva che, di là dall’oggettiva rilevanza dal punto di vista teorico e sistematico, il superamento del criterio di miglior soddisfacimento dei creditori non sembra foriero, da questo punto di vista, di conseguenze concretamente dirompenti.   


2. Segue. La gerarchia degli interessi protetti e la tutela dei posti di lavoro

Il tenore della previsione testé illustrata riafferma, come già accennato, il principio-cardine secondo il quale anche nella nuova legge l’interesse dei creditori continua pur sempre a rappresentare la “stella polare” cui il legislatore guarda nel disciplinare la soluzione concordataria della crisi. La norma prevede infatti la “funzionalizzazione” dello strumento concordatario al soddisfacimento dei creditori, con ciò denotando che quello del ceto creditorio è l’interesse perseguito in via prioritaria (anche se – come si vedrà subito in appresso – non esclusiva) e che pertanto altri interessi possono bensì essere realizzati, ma solo se ed in quanto risultino compatibili con quello dei creditori e non già ove si pongano in contrasto con esso[11].

Che non si tratti, come si diceva, di un interesse esclusivo lo si evince chiaramente dal secondo comma dello stesso articolo, il quale esordisce affermando che la continuità aziendale “tutela l’interesse dei creditori e preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro”: disposizione, questa, richiamata immediatamente dopo, in quanto compatibile, con riferimento alla continuità indiretta. D’altronde, già nell’ambito della Sezione I del Capo II, dedicata agli obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi o dell’insolvenza, l’art. 4, 1° c., lett. c), impone al debitore di gestire l’impresa durante la procedura nell’interesse prioritario (e dunque non esclusivo) dei creditori.

Volendo soffermarsi brevemente sull’incipit dell’art. 84, c. 2, il riferimento alla conservazione, per quanto possibile, dei livelli occupazionali costituisce una rilevante novità sia sul piano sistematico – come rilevato alla vigilia della novella[12] – sia su quello operativo, tenuto conto che di preservazione dei posti di lavoro si parlava, prima del 2006, solo nell’ambito della legislazione sull’amministrazione straordinaria. E ciò a conferma che l’oggettiva rilevanza della questione era destinata, presto o tardi, a far breccia nel muro, sempre meno granitico, dell’interesse esclusivo dei creditori e a trovare uno sbocco sul piano legislativo; sebbene vada ricordato come già nella disciplina sul fallimento vi fossero profili di emersione del tema (il riferimento è essenzialmente all’art. 104-bis, c. 2, l. fall., in base al quale, nell’affitto d’azienda, la scelta dell’affittuario deve tenere conto, oltre che dell’ammontare del canone offerto, delle garanzie prestate e della attendibilità del piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, “avuto riguardo alla conservazione dei livelli occupazionali”).

Diventa allora importante, ai fini della corretta interpretazione della nuova norma, cogliere appieno la portata delle parole “nella misura possibile”. In proposito si ritiene, alla luce del contesto in cui l’espressione è inserita, che essa rivesta un duplice significato, alludendosi, da un lato, al perseguimento prioritario dell’interesse dei creditori, come tale destinato a prevalere, in caso di contrasto, sulla tutela dell’occupazione, dall’altro, alla necessaria compatibilità della conservazione dei posti di lavoro con il contenuto del piano concordatario e con la sua sostenibilità dal punto di vista economico-finanziario. Dovendo peraltro soggiungersi che, ove non si ravvisino profili di contrasto né con l’uno aspetto né con l’altro, l’imprenditore è tenuto a salvaguardare, per l’appunto nei limiti del possibile, i livelli occupazionali che connotano l’impresa al momento dell’accesso al concordato[13].

Il tema si pone anche con riguardo alla disciplina del giudizio di omologazione.

Nel caso in cui uno o più creditori, dissenzienti rispetto all’omologazione, eccepiscano il difetto di convenienza della proposta, la domanda di concordato approvata dai creditori non è tenuta a superare il test di convenienza, ma semplicemente quello di “neutralità” degli effetti per i creditori opponenti in rapporto allo scenario alternativo indicato dalla legge (art. 112). Il problema, come si è sovente constatato nella pratica, è di veder preclusa l’omologazione per il fatto che anche uno solo dei creditori dissenzienti dimostri che il proprio trattamento in ambito concordatario risulta deteriore a quello prospettabile in caso di liquidazione giudiziale.

Ebbene, questa conseguenza, improntata all’ipertutela del singolo creditore a scapito della maggioranza del ceto creditorio, nonché degli stakeholders coinvolti dal tentativo di salvataggio dell’impresa (a cominciare appunto dai lavoratori), è stata considerata “sbilanciata” dal legislatore in quanto effettivamente contrastante con il perseguimento del maggior “benessere collettivo” possibile. Non si è tuttavia inserito un temperamento in tal senso nella disciplina del giudizio di omologazione in primo grado (come sarebbe stato forse preferibile, anche per ragioni di economia processuale)[14], bensì nella sua fase di appello: l’art. 53, comma 5-bis, infatti, prevede che, in caso di accoglimento del reclamo proposto contro la sentenza di omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, la corte d’appello, su richiesta delle parti, può confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante[15].

L’enucleazione, quale oggetto di specifica tutela, dell’interesse dei lavoratori costituisce – lo si diceva già in precedenza – un fatto inedito per il nostro ordinamento concorsuale e gravido di implicazioni. Ed invero, l’anzidetta previsione, nonché quella già ricordata in base alla quale la continuità aziendale “preserva, nella misura possibile, i posti di lavoro” (art. 84, comma 2), sono idonee a incidere sui tratti fisionomici dell’istituto concordatario, finalizzando quello in continuità (anche) alla tutela dell’occupazione: pur sempre beninteso – si torna a dire – nel rispetto della tutela prioritaria dei creditori e quindi nei rigorosi limiti di compatibilità con essa[16].

Oltre ai due interessi protetti di cui si è detto fin qui, vi è beninteso – implicitamente contenuto nell’art. 84 – l’interesse del debitore a porre rimedio con la soluzione concordataria alla propria situazione di crisi o di insolvenza. Ma anch’esso risulta sotto-ordinato all’interesse del ceto creditorio, come dimostra il limite invalicabile che è consustanziale al criterio di non deteriorità. Ecco perché non può dubitarsi del fatto che la tutela dei creditori rimane, anche nel sistema riformato, in posizione preminente rispetto agli altri interessi considerati meritevoli di protezione[17].

 

3. La sorte dell’attività d’impresa come spartiacque e la continuità come “valore-mezzo”

La prima modalità mediante la quale si realizza il soddisfacimento dei creditori in ambito concordatario, secondo l’ordine (non casuale) adottato dal più volte menzionato primo comma dell’art. 84, è – come già si diceva – la continuità aziendale, a plastica conferma del ridetto favor legislativo per questa tipologia: la formulazione della norma – si è detto in proposito – “ancora pone in primo piano l’interesse dei creditori, ma lascia trasparire chiaramente che l’obiettivo privilegiato è la continuità aziendale”[18]

Lo spartiacque oggettivo tra continuità e liquidazione è dato dalla sorte dell’attività d’impresa: essa prosegue nel primo caso e viene invece meno nel secondo, cedendo il passo alla liquidazione del patrimonio del debitore.

Lo spartiacque soggettivo opera, al contrario, all’interno del concordato in continuità al fine di distinguere tra continuità diretta e indiretta: nella prima l’attività viene proseguita dal debitore, nella seconda essa è dislocata in capo a un terzo, giacché la legge prevede “la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di un soggetto diverso dal debitore”.

A tale ultimo riguardo, una lettura conservativa sul piano costituzionale sembra imporsi: la ripresa dell’attività è contemplata nella norma solo con riferimento alla continuità indiretta, ma risulta evidente la disparità di trattamento rispetto al caso in cui sia il debitore stesso a riprendere l’attività fino a quel momento “quiescente”; disparità che non appare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione. L’ipotesi della ripresa dell’attività – formula che non a caso riecheggia quella della “riattivazione delle attività imprenditoriali” propria dell’amministrazione straordinaria (art. 1, d. lgs. n. 270/1999)[19] – deve dunque ritenersi possibile, in via interpretativa, sia nella continuità diretta che in quella indiretta, pena la verosimile incostituzionalità del precetto in questione.

La continuità aziendale – si diceva – è posta al centro dell’art. 84 e, più in generale, dell’intera disciplina concordataria, come denota l’articolato “statuto” (oggetto di esame nel prosieguo) che caratterizza questo tipo di concordato.

Ciò non toglie che l’obiettivo del concordato consista pur sempre, principalmente, nel realizzare “il soddisfacimento dei creditori” e più precisamente – si ribadisce – un soddisfacimento non inferiore alla misura conseguibile nel caso di liquidazione giudiziale (art. 84, c. 1). Il che trova puntuale riscontro nell’esordio del secondo comma (“La continuità aziendale tutela l’interesse dei creditori”) e in una serie di altre previsioni codicistiche. Ed anche in una norma già esaminata – quella dell’art. 53, c. 5 bis – che consente il sacrificio dei singoli creditori reclamanti il provvedimento di omologazione sull’altare dell’interesse generale dei creditori e dei lavoratori, è quest’ultimo, al postutto, a costituire oggetto di tutela, non la continuità in sé. E sul punto si è condivisibilmente affermato in dottrina che quest’ultima “disposizione che esalta il valore della continuità ne costituisce, però, anche il limite estremo, nel senso che il diritto di credito, pur riconvertito in diritto risarcitorio, non viene pregiudicato (come accadrebbe nell’amministrazione straordinaria)”[20].

Continuità e soddisfacimento dei creditori, allora, si pongono in rapporto di mezzo a fine, di tal che la continuità, pur in un quadro di protezione marcatamente rafforzata che la colloca in posizione centrale nella nuova disciplina, rimane un valore-mezzo, non assumendo dunque quei connotati del valore-fine che anche nel riformato assetto ordinamentale – come denota chiaramente il tenore dell’art. 84 – è rappresentato (si torna a dire) dal soddisfacimento dei creditori[21].



4. Le tipologie di concordato e l’assenza di un numerus clausus

La questione dei diversi “tipi” di concordato, tradizionalmente assai dibattuta in ragione della differente disciplina applicabile a ciascuno di essi, ha trovato la propria definitiva (almeno allo stato) sistemazione sul piano normativo nel predetto art. 84 del codice della crisi, che costituisce, con tutta probabilità, la norma più “travagliata” nell’ambito del recente processo riformatore. Processo da cui, peraltro, esce confermata la definizione di concordato come strumento attraverso il quale l’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza “può (…) evitare l’insolvenza oppure, quando questa è già in atto, per scongiurare la liquidazione giudiziale”[22]. E questo strumento è ad un tempo un procedimento e una procedura concorsuale diretta alla sistemazione della crisi dell’impresa[23], rientrante optimo iure in quelle procedure volte al risanamento oppure alla liquidazione del patrimonio o delle attività del debitore, secondo la definizione che l’art. 2 m-bis) dà degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (dove oltre a “procedure” si parla – com’è noto – di “misure” e di “accordi”).

Quanto poi alle tipologie di concordato, la precedente versione dell’art. 84, comma 1, appariva imperniata – come si diceva – sulla summa divisio fra continuità aziendale e liquidazione del patrimonio, per proseguire con i “sottotipi” di concordato in continuità a seconda che l’attività d’impresa fosse proseguita direttamente dal debitore, oppure da un soggetto diverso.

Oggi, la disposizione in esame stabilisce testualmente – lo si è già ricordato – che il soddisfacimento dei creditori viene realizzato “mediante la continuità aziendale, la liquidazione del patrimonio, l'attribuzione delle attività ad un assuntore o in qualsiasi altra forma”.

Sul punto, si è di recente affermato in dottrina che “nel nostro ordinamento esistono ormai due (o forse addirittura tre, se vogliamo differenziare anche i concordati in continuità diretta e indiretta) diversi “tipi” di concordato”[24]. A ben vedere, l’assunto risulta senz’altro corretto ove riferito alla versione originaria dell’art. 84, laddove oggi i “tipi” concordatari, stando alla stessa formulazione letterale del precetto, risultano essere quello in continuità, quello liquidatorio e quello con assunzione[25], mentre la distinzione fra continuità diretta e indiretta dà sicuramente vita ad altrettanti “sottotipi” del concordato, appunto, in continuità e non a tipi a sé stanti, di là dall’oggettiva rilevanza della distinzione sul piano della disciplina applicabile.

 Ad essi va aggiunta quell’area, dichiaratamente residuale, che allude all’evento satisfattivo “in qualsiasi altra forma”, che prescinde dal ricorso ad uno dei tipi anzidetti e può quindi definirsi forma “aperta”.

Il concordato con assunzione, in particolare, viene collocato sullo stesso piano di quello in continuità e di quello liquidatorio, denotandosi con ciò la volontà del legislatore – tenuto anche conto dell’evoluzione, di cui si diceva, del precetto dalla versione iniziale a quella attuale (che da questo punto di vista ripristina la formula del vecchio art. 160 l. fall.) – di “autonomizzare” la relativa fattispecie. E tale autonomia tipologica trova riscontro nei profili disciplinari che distinguono il concordato con assunzione dagli altri, quantomeno con riferimento all’opposizione all’omologazione (art. 112, c. 5: norma che peraltro lo accomuna a tutti i concordati diversi da quello in continuità) e – soprattutto – alla risoluzione del concordato per inadempimento, stante la sancita inapplicabilità delle relative disposizioni al caso in cui “gli obblighi derivanti dal concordato sono stati assunti da un terzo con liberazione immediata del debitore” (art. 119, comma 5).

In definitiva, le tipologie concordatarie tipizzate sono tre, alle quali va aggiunta una quarta forma, appunto atipica o “aperta”. Ogni diversa lettura finisce dunque per scontrarsi, quanto meno, con il dato letterale poc’anzi evidenziato, da cui si evince – anche in virtù della centralità, nel periodare della norma, della preposizione “mediante” – che la distinzione tipologica è affidata alla diversificazione delle modalità di soddisfacimento: a meno forse, come predica un autore, di considerare ogni modalità differente dalla dicotomia continuità/liquidazione come rientrante nel novero dei concordati “transtipici”[26], nel qual caso i “tipi” in senso stretto sarebbero allora solo due (tesi che – come si diceva – non appare tuttavia persusiva). Quanto fin qui osservato nulla toglie, beninteso, al fatto che gli schemi tipologici fondamentali[27] siano in effetti quello in continuità e quello liquidatorio ed è non a caso intorno a tale dualismo che ruota gran parte della disciplina codicistica.

Quanto alla già ricordata formulazione “attraverso qualsiasi forma”, essa – come altrove si è avuto occasione di rilevare – “dimostra chiaramente che non vi è un numero chiuso di tipologie concordatarie, potendo il debitore, in base al principio dell’autonomia privata, proporre una domanda che non rientra in uno dei casi poc’anzi menzionati”[28]. Ciò rappresenta un profilo di emersione del principio generale sancito dall’art. 1322 c.c., con il che l’atipicità di cui si diceva trova opportuno spazio – come del resto accadeva in passato sulla base del disposto dell’art. 160 l. fall.  – anche in materia concordataria[29].

Sul piano pratico, quest’ultima “area” risulta configurabile ogniqualvolta la reale modalità di soddisfacimento non consista nella continuazione diretta o indiretta dell’attività, nella liquidazione dei beni e neppure nell’assunzione del patrimonio del debitore e dei suoi debiti (considerate in ipotesi dallo stesso debitore inidonee allo scopo), bensì nell’adempimento di obblighi assunti da un soggetto terzo non assuntore. Ciò accade ad esempio ove il “nucleo” del piano, quanto al modo con cui è prospettata e attestata la soddisfazione dei creditori, consista nell’accollo delle passività senza assunzione delle attività, ovvero nella prestazione di una garanzia. In questi casi i creditori fanno prioritario affidamento precisamente su questi obblighi piuttosto che sulla consistenza del patrimonio del debitore o sui flussi attesi dalla continuità, rivestendo pertanto secondaria importanza (dal loro punto di vista) l’orientamento liquidatorio o meno del piano, che continua nondimeno a rilevare – come vedremo in appresso – con riguardo alle prescrizioni circa la soglia percentuale minima e l’apporto esterno.

 


5. Segue. Qual è la regola e quale l’eccezione?

Le distinzioni tipologiche di cui al paragrafo che precede non sono idonee, beninteso, a mettere in discussione la persistente unità del concordato preventivo. Piuttosto, ci si può domandare quale di detti tipi corrisponda – se così è consentito esprimersi – al “modello” generale (o comunque prevalente) e quale si ponga invece in termini di eccezione alla regola.

All’indomani del d.lgs. n. 14/2019 si è osservato che a fronte della generalità delle disposizioni contenute nel capo III del titolo IV della parte I del codice, che restano applicabili a tutti i concordati, “il legislatore ha inteso introdurre soltanto talune norme speciali che riguardano quello in continuità, ancora oggi dunque inequivocabilmente strutturato come ‘derogatorio’ rispetto al modello generale”[30].

In realtà, oggi deve prendersi atto che nella versione definitiva del codice sono tali e tante le norme sul concordato in continuità da indurre a interrogarsi se “derogatori” non siano piuttosto il concordato liquidatorio e quello con assunzione. E ciò specie se si considera che l’aver sancito il criterio della continuità (anche) non prevalente – come si vedrà nel prosieguo – ha ulteriormente ampliato lo spettro applicativo del concordato in continuità, relegando le altre a ipotesi tutto sommato “residuali”. D’altronde, l’ottica di cui si diceva risulta coerente con l’oggettiva centralità guadagnata dal tipo concordatario in questione nel nuovo assetto ordinamentale. Il che depone per la preferibilità dell’assunto in base al quale il concordato in continuità si configura oggi come regola e gli altri come eccezione.

Donde la verosimile possibilità di calcolare l’area del concordato in continuità “per sottrazione”: tutto ciò che non prevede la liquidazione del patrimonio, l’assunzione o altre forme particolari di soddisfacimento ricade “di default” nella nozione di continuità aziendale. Con la precisazione che anche i concordati con cessione o “a forma libera” possono, a seconda del contenuto del piano, considerarsi in continuità. Ferma, beninteso, l’applicazione di regole specifiche ove previste ad hoc, come nel caso dell’art. 112, c. 5, il quale – seppur discutibilmente – equipara il regime dell’omologazione dei predetti concordati a quello del concordato liquidatorio.

Del resto, già in precedenza fattispecie che secondo alcuni si collocavano in una “zona grigia” (con conseguente non automatica riconducibilità al tipo in continuità o a quello liquidatorio)[31] potevano a ben vedere farsi rientrare, senza soverchia difficoltà, nel novero del concordato in continuità. Il riferimento era ed è alle situazioni connesse a operazioni straordinarie quali l’ingresso nel capitale della società in crisi di un nuovo soggetto cui viene affidata l’esecuzione del concordato, ovvero la conversione di crediti in capitale (c.d. debt to equity swap), o ancora l’attribuzione ad alcuni creditori di strumenti finanziari partecipativi.

Orbene, tali possibili declinazioni del piano concordatario, restando l’azienda in esercizio pur sempre nella disponibilità del debitore, non incidono sulla sua configurazione in termini di continuità aziendale o meno, dal momento che non possono di certo – come si è correttamente affermato – “essere in alcun modo ricondotte nella categoria del concordato liquidatorio, che si riferisce alla sola liquidazione atomistica del patrimonio”[32].

All’interprete si pone inoltre il problema delle forme “aperte” di concordato, ma anche di quello con assunzione, le quali debbano essere – per così dire – calate nel letto di Procuste del binomio continuità/liquidazione ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile[33]. E anche a tale proposito viene da osservare che, ogniqualvolta non si configuri, in queste fattispecie particolari, una situazione in cui i beni aziendali vengano poi – da chi ne sia entrato in possesso – dismessi singolarmente, trova applicazione il regime del concordato in continuità[34], perché il focus dev’essere posto pur sempre sulla prosecuzione dell’attività d’impresa[35].

 

6. La “statuto” del concordato in continuità aziendale

Alla continuità aziendale – che, come si diceva, è oggetto nella nuova sistematica di una tutela considerevolmente intensificata – il codice dedica una serie di previsioni disseminate in vari punti della disciplina concordataria, le quali concorrono a formare quello che può definirsi lo “statuto” del concordato con continuità aziendale, vale a dire le regole che si applicano esclusivamente a detta tipologia[36]: regole che ai fini di una più puntuale trattazione conviene declinare per summa capita qui in appresso.

Muovendo dalla disciplina dell’art. 87 sul contenuto del piano di concordato in continuità, esso deve indicare, oltre agli elementi prescritti in via generale da detta disposizione: a)i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; b) le ragioni per le quali la continuità risulta funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; c)   ove sia prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa in forma diretta, un’analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.

Inoltre, la relazione del professionista indipendente deve attestare, oltre alla veridicità dei dati aziendali e alla fattibilità del piano, anche che il piano è atto a impedire o superare l'insolvenza del debitore, a garantire la sostenibilità economica dell'impresa e a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale[37]. Vengono qui in rilievo, pertanto, una dimensione prospettica e una connessa valutazione prognostica: si tratta infatti di appurare l’idoneità del piano a impedire che lo stato di crisi si trasformi in vera e propria insolvenza o che questa, ove già in atto, sia superabile grazie all’esecuzione del piano stesso. Ad analogo giudizio prognostico è chiamato l’esperto per quanto concerne l’idoneità del piano a “garantire” che l’impresa risulti, all’attualità e in prospettiva, economicamente sostenibile, vale a dire che la prosecuzione dell’attività non si traduca in cronica generazione di perdite[38].

Solo al concordato in continuità, ovviamente, si applicano le disposizioni che sanciscono la regola di priorità relativa riguardo al valore eccedente quello di liquidazione (artt. 84 c. 6 e 112, c. 2, lett. b)[39]

Il piano concordatario in continuità può altresì prevedere una moratoria dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione (art. 86).

Nel concordato in continuità – stabilisce l’art. 92, c. 3 – il commissario giudiziale, se richiesto o in caso di concessione delle misure protettive di cui all'articolo 54, comma 2, affianca il debitore e i creditori nella negoziazione del piano formulando, ove occorra, suggerimenti per la sua redazione.

Inoltre, quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, il debitore può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un professionista indipendente attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori (art. 100).

Per quanto concerne le risorse finanziarie di cui l’impresa in crisi necessiti[40], la disciplina sui finanziamenti “interinali” ex art. 99 trova applicazione quando è prevista la prosecuzione dell’attività d’impresa, “anche se unicamente in funzione della liquidazione” (c. 1); laddove nel caso di finanziamenti esecutivi di un concordato omologato si parla solo di “continuazione dell’attività aziendale” (art. 101, c. 1), sembrando così da escludere che essa possa essere finalizzata a liquidare i cespiti aziendali anziché a trasferirli come compendio unitario.

Ai sensi dell’art. 94 bis, c. 1, poi, sul concordato in continuità i creditori non possono, unilateralmente, rifiutare l'adempimento dei contratti in corso di esecuzione o provocarne la risoluzione, né possono anticiparne la scadenza o modificarli in danno dell'imprenditore per il solo fatto del deposito della domanda di accesso al concordato in continuità aziendale, dell'emissione del decreto di apertura di cui all'articolo 47 e della concessione delle misure protettive o cautelari. E i contratti pendenti stipulati con pubbliche amministrazioni non si risolvono per effetto del deposito della domanda di concordato, se il professionista indipendente ne attesta la conformità al piano, ove predisposto, e la ragionevole capacità di adempimento (art. 95).

Va infine ricordato il particolare regime di omologazione in caso di continuità aziendale quale si evince dall’art. 112, c. 2, relativamente all’ipotesi in cui una o più classi siano risultate dissenzienti.

 

7. Il discusso criterio della prevalenza e la definitiva affermazione della “continuità non prevalente”

Com’è ben noto, quella della qualificazione del concordato come liquidatorio o meno a seconda della presenza di una componente dismissiva di beni (strumentali alla continuità prima della sua riperimetrazione ad opera del piano concordatario) è questione annosa anche per via del silenzio in passato serbato sul punto dalla legge fallimentare. Silenzio che aveva dato luogo, inevitabilmente, al formarsi di una giurisprudenza fortemente eterogenea, ancora in tempi recenti, sulla disciplina applicabile al c.d. concordato misto.

In un contributo apparso all’indomani della miniriforma del 2015, chi scrive si era posto l’interrogativo circa l’applicabilità della percentuale minima del 20% ai chirografari nel concordato misto: “La risposta secondo la quale la semplice presenza di una componente liquidatoria dovrebbe comportare l’osservanza della soglia minima non persuade. Anzi, il favor del legislatore (anche) di quest’ultima riforma per il concordato in continuità dovrebbe indurre a ritenere, semmai, l’esatto contrario, vale a dire che la presenza di elementi di continuità aziendale (purché non di irrisoria rilevanza rispetto al tutto) giustifichi di per sé l’applicazione dell’art. 186-bis e quindi l’esclusione dell’obbligo relativo al 20%”[41].

Naturalmente, la continuità aziendale doveva risultare effettiva e non artificiosamente costruita allo scopo di evitare l’applicazione dell’art. 160, u.c., giacché in questa seconda ipotesi si ricade evidentemente, ieri come oggi, nell’abuso del diritto[42].

Questa impostazione, da altri condivisa in dottrina, è stata di recente recepita dalla giurisprudenza di legittimità: “Il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni dell’impresa si accompagni una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale rimane regolato nella sua interezza, salvi i casi di abuso dello strumento, dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis l. fall., che al comma 1 espressamente contempla anche detta ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito”[43].

La Cassazione è pervenuta a tale risultato attraverso un’analisi e una interpretazione del testo normativo pienamente corrette: “L’individuazione del canone regolante il concordato il cui piano abbia un contenuto complesso deve giocoforza trovare soluzione ponendo attenzione all’attuale contesto normativo, che si struttura come detto - attraverso l’individuazione di una disciplina di carattere generale a cui si accompagna, in termini di specialità con l’introduzione di regole peculiari rispetto alla fattispecie comune, il disposto della l.fall., art. 186-bis. Questa norma, all’ultimo periodo del suo comma 1, include espressamente nel novero regolato dalla disciplina speciale il caso in cui il piano preveda “anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”. La compresenza in piano di attività liquidatorie che si accompagnino alla prosecuzione dell’attività aziendale è dunque espressamente contemplata dal legislatore, all’interno della norma, speciale e derogatoria dei criteri generali, di cui alla l.fall., art. 186-bis. Il che non lascia spazio a equivoci di sorta in merito al fatto che tale normativa governi la fattispecie (vale a dire che il concordato tradizionalmente definito come misto sia, nelle intenzioni del legislatore, un concordato in continuità che prevede la dismissione di beni)”.

Da ciò è conseguita, già nel vigore della legge fallimentare, la non predicabilità, quale “spartiacque ermeneutico”, del criterio della prevalenza, tanto meno di carattere meramente quantitativo[44].

La riforma del 2019, tuttavia, si era orientata in senso contrario: la versione originaria dell’art. 84, infatti, stabiliva che “nel concordato in continuità aziendale i creditori vengono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta, ivi compresa la cessione del magazzino. La prevalenza si considera sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivano da un'attività d'impresa alla quale sono addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso”.

Tale improvvida soluzione aveva sollevato le giuste critiche della maggioranza dei commentatori, soprattutto per via dei suoi perniciosi effetti rispetto alla tutela della continuità aziendale[45].

Ed invero, aver subordinato al superamento della prevalenza quantitativa – come si dirà – la possibilità di configurare un concordato in continuità contrastava con il fine, per l’appunto più dichiarato che concretamente perseguito, di favorire la continuità aziendale attraverso lo strumento concordatario. Era sufficiente che il valore dei beni oggetto di dismissione superasse il valore dei beni destinati alla prosecuzione dell’attività d’impresa per ricadere, peraltro, differentemente dalle reali dinamiche della vita di un’azienda, nel perimetro applicativo del concordato liquidatorio, arrivando così a negare la tutela della continuità aziendale sulla base di un criterio tanto rigido e formale quanto, appunto, poco aderente alla realtà delle nostre imprese.

In altri termini, la continuità aziendale non prevalente poteva inscriversi nel quadro concordatario solo a condizione che fossero rispettate le soglie di cui all’art. 84, u. c. In mancanza di ciò, l’unico modo per proseguire l’attività, da parte però, a quel punto, del curatore, era rappresentato dalla liquidazione giudiziale con esercizio provvisorio (art. 211).

In dottrina, non a caso, si era osservato che uno dei primi aspetti cui si doveva porre mano nella (auspicata) riscrittura delle norme in materia di concordato – a cominciare dal superamento dei vincoli della legge delega – consisteva proprio nell’espunzione dell’improvvido (e, come si è visto, incoerente) criterio della prevalenza[46].

Il d.lgs. n. 83/2022, sensibile a tali rilievi critici, ha infine sciolto gordianamente il nodo: nel concordato in continuità aziendale – esordisce il terzo comma dell’art. 84 – “i creditori vengono soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”.

La questione pare dunque essersi definita nel modo più opportuno, con l’introduzione nel nostro ordinamento di una nuova figura, quella del concordato con continuità non prevalente. In base ad essa, le norme sul concordato in continuità trovano applicazione anche quando la maggior parte del soddisfacimento dei creditori è rappresentata dal valore di liquidazione e solo una minima parte si ricava dai flussi della continuità[47], fermo, beninteso, il caveat di cui si diceva relativamente alla necessaria repressione di condotte abusive ravvisabili in tutte le situazioni di parvenza di continuità, nella misura in cui questa risulti artificiosamente creata allo scopo di scongiurare la qualificazione del concordato come liquidatorio e la conseguente applicazione del regime meno favorevole al debitore.

Va infine segnalato, sul tema, che il requisito della prevalenza, fatto uscire dalla porta ad opera della novella del 2022, sembra parzialmente “rientrare dalla finestra” nel particolare contesto del concordato di gruppo[48]. L’art. 285, c. 1, infatti, nello stabilire che il piano o i piani concordatari di gruppo possono prevedere la liquidazione di alcune imprese e la continuazione dell’attività di altre imprese del gruppo, precisa che si applica “la sola disciplina del concordato in continuità quando, confrontando i flussi complessivi derivanti dalla continuazione dell’attività con i flussi complessivi derivanti dalla liquidazione, risulta che i creditori delle imprese del gruppo sono soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale diretta o indiretta”. La precisazione che la norma non soggiunge più, per effetto dell’espunzione ad opera dell’art. 32, c. 2, lett. a), d.lgs. n. 47/2020, che in quest’ultima componente del ricavato deve ritenersi “compresa la cessione del magazzino”. Resta il dubbio se il predetto mantenimento del criterio di prevalenza sia ascrivibile a una scelta precisa in tal senso, o non piuttosto a un difetto di coordinamento[49] rispetto al disposto dell’art. 84; anche il questa seconda (verosimile) ipotesi peraltro una interpretazione abrogante non pare comunque agevolissima.

 

8. Segue. Il problema (irrisolto) della percentuale minima

La disposizione dell’art. 84 qui in esame non risolve invece uno dei problemi più rilevanti dal punto di vista applicativo: quello del livello minimo di soddisfacimento dei creditori chirografari.

Dal 2015 la questione ha cessato di interessare – com’è noto – il concordato liquidatorio per effetto dell’avvenuta introduzione della soglia del 20% (ribadita dall’odierno art. 84, c. 4), ma ha continuato a riguardare il concordato con continuità aziendale e appare destinata a non perdere importanza neppure nel nuovo assetto ordinamentale.

Nel recente passato, a fronte dell’opinione secondo la quale la previsione di una percentuale di soddisfacimento eccessivamente bassa non dovrebbe consentire l’ammissione al concordato (difettandone in tal caso la causa concreta), si è sostenuto, da parte di alcuni autori (fra cui chi scrive), che tale aspetto deve in linea di principio ritenersi demandato alla valutazione dei creditori in ordine alla convenienza dell’opzione concordataria   e che solo “una percentuale meramente simbolica non integri gli estremi indefettibili del piano di concordato (vale a dire non consenta alcuna “ristrutturazione dei debiti”, né “soddisfazione dei crediti” quali inderogabilmente prescritti dalla lett. a) del comma 1 dell’art. 160)” [50].

Cominciamo col ribadire come relativamente al ricorso al concetto di causa concreta del concordato la più autorevole dottrina giuscommercialistica sia da tempo schierata su posizioni estremamente critiche.

Si è infatti osservato, in proposito, come “rispetto al concordato preventivo, non ci sia spazio per utilizzazioni operative della nozione di causa e che, eventualmente, ogni discorso in chiave finalistica debba essere svolto in termini di funzione: e la funzione del concordato è il soddisfacimento dei creditori nella maggior misura possibile” [51] e che “la causa concreta, che rappresenta – è stato detto – un bisticcio linguistico o, come si è scritto, un concetto sfuggente, viene intesa come l’obiettivo specifico perseguito dal tipo di procedimento, finalizzato concretamente al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e a un soddisfacimento, pur modesto e parziale, dei creditori” [52].

Il ricorso al concetto in parola, a ben vedere, “significa ricorrere ad una argomentazione di tipo finzionistico” [53]: l’interprete, come reazione a scelte legislative da lui non condivise, costruisce un modello ideale della fattispecie e, in mancanza di un elemento essenziale di detto modello, “disapplica la normativa (…). Un simile tipo di argomentazione costituisce una evidente forzatura delle scelte legislative. Non solo: in questo modo il parametro da cui dipende l’applicazione o non della normativa è molto labile, in quanto tutto è rimesso all’idea che il singolo interprete ha dei requisiti necessari perché (…) un piano sia idoneo ad assicurare il soddisfacimento della ‘causa concreta’ del procedimento di concordato” [54].

Le critiche, comprensibilmente severe, non sembrano tuttavia aver fatto breccia nella giurisprudenza, se è vero che anche nelle recenti decisioni di legittimità sul punto si ribadisce che “la causa concreta della procedura di concordato preventivo, da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento” consiste “nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e nel riconoscimento in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti” [55].

Nondimeno, la Suprema Corte non attinge a tale concetto per risolvere la questione del livello minimale di soddisfacimento dei creditori chirografari. Proprio dal precedente testé citato, infatti, si ricava la puntuale conferma della tesi in base alla quale nel concordato in continuità è necessaria, ma sufficiente, l’assicurazione di un soddisfacimento in una qualche misura, sebbene assai modesta, del ceto chirografario (nel caso in esame la proposta di concordato contemplava il pagamento dei chirografari all’uno per cento).

Anche nella prospettiva ermeneutica fatta propria dalla Cassazione, “non è possibile individuare una percentuale fissa minima al di sotto della quale la proposta concordataria possa ritenersi (…) di per sé, inadatta a perseguire la causa concreta a cui la procedura è volta” [56]. Donde la dubbia correttezza di quell’orientamento della giurisprudenza che ha in passato ritenuto inammissibili domande in cui si offrivano ai chirografari percentuali inferiori, in certi casi al 5% , in altri al 3% , la cui fissazione appariva già in allora – come si è avuto modo di segnalare ripetutamente in sede convegnistica – piuttosto arbitraria, anche perché sprovvista di qualsiasi base testuale, risultando invece preferibili quelle decisioni che, ammettendo percentuali pari  o inferiori al 4% (peraltro, di regola, ulteriormente ridimensionate nelle previsioni commissariali), hanno valorizzato la comparazione con lo scenario deteriore in caso di fallimento. Non a caso, in svariati provvedimenti adottati di recente da alcuni fra i maggiori tribunali italiani si ammette espressamente la possibilità di offrire ai chirografari anche uno o due punti percentuali.

Né pare condurre a ritenere il contrario la formulazione dell’art. 84, 3° comma, ove si richiede che nella proposta sia indicata “un'utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile”, senza che siano menzionati, per l’appunto, aspetti quantitativi di sorta.

Se così è, deve allora ribadirsi che l’unica ipotesi di reiezione in limine della domanda sotto il profilo di cui trattasi è data dalla palese inidoneità, prima facie, del piano concordatario a conseguire l’obiettivo del ritorno in bonis del debitore, senza che il tribunale possa sovrapporre alla valutazione dei creditori il proprio sindacato sul contenuto economico della proposta e sulla sua convenienza rispetto all’alternativa fallimentare. “Il Tribunale, dunque, deve avere riguardo – chiarisce la Suprema Corte – a rilevare dati da cui emerga, in maniera eclatante, la manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, ivi compresa la soddisfazione in una qualche misura dei crediti rappresentati. Una volta esclusa questa evenienza va lasciata al giudizio dei creditori, quali diretti interessati all’esito della procedura, la valutazione – sotto i diversi aspetti della plausibilità dell’esito e della convenienza della proposta – delle modalità di soddisfacimento dei crediti offerte dal debitore, ivi comprese la consistenza delle percentuali di pagamento previste” [57].

A tale stregua, la conclusione cui correttamente pervengono i giudici di legittimità è che “non rientra nell’ambito della verifica della fattibilità riservata al giudice un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta e quindi sulla convenienza della stessa, anche sotto il profilo della misura minimale del previsto”. Fermo restando, ad avviso di chi scrive, che in situazioni nelle quali la percentuale risulti puramente simbolica, come nel noto caso del tre per diecimila[58] esaminato anni fa da una corte di merito , non debbono ritenersi integrati i requisiti minimi della fattispecie legale, non potendosi parlare, in ipotesi siffatte, di soddisfacimento dei creditori (analogamente a quanto si afferma, mutatis mutandis, in tema di c.d. vendita nummo uno, dove la corresponsione di una somma puramente simbolica non può essere considerata alla stregua di un prezzo).

Così chiariti i termini della soluzione accolta dalla Cassazione, merita domandarsi se essa trova conferma – sempre con esclusivo riferimento al concordato in continuità (stante il tenore del sesto comma dell’art. 84) – anche dopo l’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa.

Orbene, la persistente mancanza, nella disciplina del concordato in continuità, di previsioni circa un livello percentuale minimo di soddisfazione depone nel senso dell’impossibilità, anche nel nuovo regime normativo, di ricavare detto livello in via interpretativa. Né una soluzione differente risulta evincibile dal disposto degli artt. 47 e 48, tanto più dopo l’avvenuta espunzione dell’aggettivo “economica” relativamente alla fattibilità del piano. Ed invero, una delle novità introdotte dalla riforma attiene precisamente al contenuto del controllo giudiziale, dal momento che, ai sensi del primo comma dell’art. 47, in sede di ammissione alla procedura, a seguito del deposito del piano e della proposta di concordato, il tribunale fa luogo all’apertura del concordato una volta “verificata l’ammissibilità della proposta e la fattibilità del piano ed acquisito, se non disponga già di tutti gli elementi necessari, il parere del commissario giudiziale, se nominato ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera b)”. Ai sensi del terzo comma della medesima norma, poi, il tribunale, “quando accerta la mancanza delle condizioni di ammissibilità e fattibilità di cui al comma 1, sentiti il debitore, i creditori che hanno proposto domanda di apertura della liquidazione giudiziale ed il pubblico ministero, con decreto motivato dichiara inammissibile la proposta e, su ricorso di uno dei soggetti legittimati, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale.” Ed ancora, in base al terzo comma del successivo art. 48, il tribunale, in sede di omologazione, “verifica la regolarità della procedura, l’esito della votazione, l’ammissibilità della proposta e la fattibilità del piano, tenendo conto dei rilievi del commissario giudiziale”.

Il nuovo art. 47, pur introducendo lo scrutinio giudiziale sulla fattibilità del piano, non comporta la possibilità per il tribunale di negare l’ammissione al concordato ogniqualvolta la percentuale offerta ai creditori chirografari venga giudicata troppo bassa. Come già altrove osservato, il legislatore ha optato “per una soluzione che non contempla il sindacato diretto del tribunale in ordine alla fattibilità economica del piano, sul corretto presupposto che la valutazione prognostica circa la realizzabilità del piano (e quindi la percentuale di soddisfacimento) compete ai creditori. Ne consegue che, quand’anche sussistano dubbi sulla fattibilità del piano (che del resto, per sua natura non è – né può essere – connotato da certezza quanto al risultato), il tribunale non può per ciò solo bloccare l’iter della domanda e deve consentire che sulla possibilità per il piano di conseguire i propri obiettivi si esprimano i creditori attraverso l’esercizio del voto”[59].

Anche oggi, non diversamente dal passato, può dunque accadere che venga ritenuto non fattibile un piano che preveda una recovery – poniamo – del 15% per i chirografari e, viceversa, fattibile uno che contempli una percentuale compresa, ad esempio, fra il 2 e il 3%. Ciò che conta, ai fini della valutazione prognostica di cui trattasi, non è il livello della percentuale, ma la possibilità che il piano di concordato, per com’è in concreto strutturato, supportato dal punto di vista finanziario e attestato, assicuri realmente il risultato previsto a beneficio dei creditori[60].

In definitiva, nell’ottica della nuova disciplina, il giudizio sulla convenienza della soluzione concordataria resta riservato ai creditori anche nell’ipotesi in cui il loro soddisfacimento sia previsto in misura minimale, esulando ciò – si ribadisce – dallo scrutinio circa la fattibilità del piano di cui agli artt. 47 e 48 del codice.

 

9. Cenni alle regole di priorità e al “plusvalore” generato dalla continuità

Già nel vigore della legge fallimentare, notoriamente, si dibatteva su quale fosse la corretta lettura della norma che sanciva il divieto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione: se cioè fosse o meno possibile prevedere il soddisfacimento di un creditore di grado successivo ove quello di grado precedente non fosse stato interamente soddisfatto. La soluzione più restrittiva, detta regola della priorità assoluta, era stata accolta dalla Cassazione, secondo la quale i creditori chirografari, in caso di falcidia del privilegio generale, non potevano ricevere alcun soddisfacimento se non sul ricavato dei beni immobili (ovviamente per la parte non ipotecata) o attraverso la corresponsione di finanza esterna[61], vale a dire estranea al patrimonio del debitore e non transitante attraverso esso[62]. Analoga risposta era stata in precedenza fornita, mutatis mutandis, a proposito del previo soddisfacimento integrale dei creditori chirografari prima di poter riconoscere qualcosa a quelli postergati[63].

E ciò a dispetto delle legittime perplessità di parte della dottrina, la quale considerava rilevante – e sufficiente – il fatto che il trattamento complessivo dei creditori nelle diverse classi osservasse pur sempre l’ordine legale delle prelazioni[64].   

La Direttiva Insolvency del 2019, invece, ha giustamente optato per la facoltà da parte degli Stati membri di adottare la c.d. relative priority rule, del che – come si vedrà fra breve – ha dovuto tener conto anche il nostro legislatore.  

Ed invero, nel Considerando n. 56 della Direttiva si legge testualmente: “Gli Stati membri dovrebbero poter derogare alla regola della priorità assoluta, se ad esempio si consideri giusto che i detentori di strumenti di capitale mantengano determinati interessi ai sensi del piano, nonostante che una classe di rango superiore sia obbligata ad accettare una falcidia dei suoi crediti, o che i fornitori essenziali cui si applica la disposizione sulla sospensione delle azioni esecutive individuali siano pagati prima di classi di creditori di rango superiore. Gli Stati membri dovrebbero poter scegliere quale dei suddetti meccanismi di protezione predisporre”.

Il principio anzidetto è stato tradotto nell’art. 11 della Direttiva, il quale sancisce, come regola generale nel caso di ristrutturazione con più classi di creditori (c.d. ristrutturazione trasversale), quella della priorità relativa, in base alla quale le classi di voto dissenzienti di creditori interessati dal concordato ricevono “un trattamento almeno tanto favorevole quanto quello delle altre classi dello stesso rango e più favorevole di quello delle classi inferiori" (par. 1). È nondimeno concesso agli ordinamenti nazionali di esercitare l’opzione a favore della priorità assoluta, prevedendo “che i diritti dei creditori interessati di una classe di voto dissenziente siano pienamente soddisfatti con mezzi uguali o equivalenti se è previsto che una classe inferiore riceva pagamenti o mantenga interessi in base al piano di ristrutturazione” (art. 11, par. 2).

La norma, pertanto, attribuisce comprensibile “precedenza” alle ragioni dell’impresa in difficoltà (e al tentativo di suo salvataggio) rispetto alla tutela del diritto di credito in sé e per sé considerato: nel che è dato ravvisare “l’evidente fine di facilitare le ristrutturazioni delle imprese in crisi con salvezza della continuità aziendale, la possibilità di prevedere un trattamento di favore degli stakeholders essenziali, con deroga alla rigida regola delle prelazioni”[65]. Come da altri osservato, infatti, l’obiettivo della continuità aziendale delle imprese viables presuppone l’adozione di determinate regole in tema di distribuzione del patrimonio del debitore[66]; e a tanto non si è sottratto il nostro legislatore.

Muovendo dal precetto formulato in sede unionale ma adattandolo in certa misura al nostro sistema, il codice della crisi ha statuito, al sesto comma dell’art. 84, che nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione; per il valore eccedente quello di liquidazione è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore. A tale regola fanno eccezione i crediti dei lavoratori ex art. 2751-bis, n. 1), per i quali il settimo comma della norma stabilisce che essi sono soddisfatti, nel concordato in continuità aziendale, nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione sul valore di liquidazione e sul valore eccedente il valore di liquidazione.

Come si evince dal tenore del ridetto sesto comma, vengono in particolare rilievo, ai fini dell’indagine, i concetti di valore di liquidazione e di valore eccedente il medesimo, sicché su di essi deve appuntarsi l’attenzione dell’interprete.

Quanto al valore di liquidazione, esso è menzionato anche, con formulazione pressoché identica, dall’art. 87, c. 1, lett. c), il quale richiede che il piano contenga, fra l’altro, “il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale”. Orbene, dalla lettura di tali previsioni si ricava trattarsi di quella parte di patrimonio che vi sarebbe – e su cui i creditori potrebbero soddisfarsi – anche nell’eventualità in cui l’impresa fosse assoggettata a liquidazione giudiziale e che prescinde pertanto dall’incidenza (in thesi positiva) del piano concordatario in continuità. Sarebbe nondimeno opportuno chiarire con maggior precisione cosa debba intendersi per “valore di liquidazione”, tanto che si è osservato, de jure condendo, che: “si potrebbe considerare di menzionare espressamente il maggior valore economico in ipotesi ricavabile dalla cessione dell’azienda in esercizio, nonché le ragionevoli prospettive di realizzo delle azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, eventualmente al netto delle spese da sostenere”[67].

Per ciò che attiene invece al valore eccedente quello di liquidazione, onde coglierne la portata concettuale si è osservato che esso non è rappresentato dai flussi della continuità, essendo invece determinato dalla differenza tra quanto si ricava nel complesso dalla prosecuzione dell’attività e quanto si ricaverebbe con la liquidazione giudiziale[68]. Più precisamente, anche sotto il profilo dei relativi corollari applicativi, per eccedenza rispetto al valore di liquidazione deve intendersi tutto ciò che è ritraibile dalla continuità diretta, comprensivo dei flussi di cassa netti derivanti dalla prosecuzione dell'attività (nella misura in cui non debbano essere impiegati per la distribuzione del valore di liquidazione), nonché le maggiori somme conseguite dalla vendita di beni non funzionali rispetto al valore di realizzo loro attribuito (posto che gli esiti della liquidazione di specifici beni dovrebbero risultare irrilevanti rispetto alla preventiva determinazione del valore di liquidazione) e gli apporti di terzi entrati nel patrimonio del debitore[69]. Laddove nella continuità indiretta il valore eccedente coincide, verosimilmente, con gli eventuali canoni di affitto e con la differenza tra prezzo di vendita dell’azienda in esercizio e valore dei beni atomisticamente considerati.

È poi appena il caso di precisare che nel concordato liquidatorio, proprio perché non vi è che il valore, appunto, di liquidazione, deve giocoforza operare la regola di priorità assoluta.

Sintetizzando lo schema logico sotteso all’art. 84, c. 6, può dirsi in definitiva che nel concordato in continuità “è come se il patrimonio del debitore fosse idealmente diviso in due parti: l’una, rappresentata dal valore che il patrimonio avrebbe in caso di liquidazione giudiziale, va distribuita secondo la regola della priorità assoluta; l’altra, rappresentata dal c.d. plusvalore da concordato, (…) può essere distribuita secondo la regola della priorità relativa”[70].

Un’ultima considerazione viene più proposta, fra le molte che si potrebbero svolgere e che i limiti di spazio qui non consentono. La regola di distribuzione contenuta nell’art. 84, c. 6, opera nella sua dimensione relativa anche in sede di omologazione: ai sensi dell’art. 112, c. 2, lett. b), infatti, il valore eccedente quello di liquidazione è distribuito in modo tale che i crediti inclusi nelle classi dissenzienti ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore, fermo restando quanto previsto dall'articolo 84, c. 7, riguardo ai crediti di lavoro. Ai sensi del ridetto art. 84, c. 6, e alla stregua del suo tenore impositivo, tale regola sembra atteggiarsi a condizione di ammissibilità della domanda concordataria e come tale non pare suscettibile di deroga a seguito dell’ipotetica approvazione di ogni classe interessata, ma solo per effetto del consenso individualmente espresso da tutti i creditori privilegiati che dall’esecuzione di un concordato così impostato possano ricevere nocumento[71].

Con questa scelta, improntata a una maggior tutela dei creditori privilegiati (e nel contempo, verosimilmente, a un più elevato grado di certezza giuridica), il legislatore nazionale pare in definitiva aver rinunciato all’opzione più “liberale”, pur consentita dalla Direttiva: in tal modo attenuando quelle potenzialità delle regole di distribuzione che, in caso di loro piena “relatività”, conducono talora virtuosamente a una più spiccata flessibilità nella “costruzione” di proposte e piani concordatari e a una maggiore attenzione per i cc.dd. stakeholders strategici (i cui crediti sovente non sono muniti di prelazione), all’insegna di una funzione in ultima analisi agevolatrice delle procedure di risanamento aziendale[72].  Il punto è tuttavia discusso ed invero discutibile, essendosi di contro osservato che “il rispetto della distribuzione dell’attivo nel rispetto della absolute priority rule e della relative priority rule è condizionato alla presenza di classi dissenzienti, come si evince dal comma 2, dell’art. 112. Di qui la conclusione che il legislatore lascia alla valutazione della maggioranza, se presente in tutte le classi, esprimersi anche sul rispetto delle regole di priorità, interesse disponibile come si evince anche dalla disciplina del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione. Il diritto indisponibile è quello del creditore ad un trattamento non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale”[73]


(*) Il presente contributo è già apparso online sulla rivista Il diritto fallimentare e delle società commerciali e viene qui riproposto con alcune minime variazioni. Le riflessioni esposte saranno riprese e ampliate in alcune opere collettanee sulla disciplina del codice della crisi, di prossima pubblicazione per i tipi di Zanichelli, Giappichelli e Pacini Giuridica.

[1] In argomento si vedano, in ordine cronologico, A. Jorio, Ragionando sul concordato preventivo. Alcuni consigli (non richiesti) ai conditores, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 2 marzo 2022; S. Ambrosini, Brevi appunti sulla nuova “sintassi” del concordato preventivo, ivi, 9 giugno 2022; Id, Il codice della crisi dopo il d. lgs. n. 83/2022: brevi appunti su nuovi istituti, nozione di crisi, gestione dell’impresa e concordato preventivo (con una notazione di fondo), in Dir. fall., 2022, I, 837 ss.; M. Greggio, Finalità e tipologie di piano concordatario: prime osservazioni al “nuovo” art. 84 del Codice della crisi, in dirittodellacrisi.it, 25 agosto 2022; S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, ivi, 12 settembre 2022; M. Fabiani, Un affresco sulle nuove 'milestones' del concordato preventivo, ivi, 6 ottobre 2022; L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 10 ottobre 2022; E. Ricciardiello, I lineamenti del nuovo concordato preventivo, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna, 2022, 733 ss., cui adde, più di recente, G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, in dirittodellacrisi.it, 27 giugno 2023. 

[2] S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo: “finalità”, presupposti” e controllo sulla fattibilità del piano, in ilcaso.it, 25 febbraio 2019, 1. Nella dottrina civilistica questa figura retorica ha ispirato il titolo della monografia di P. G. Monateri, La sineddoche. Formule e regole nel diritto delle obbligazioni e dei contratti, Milano, 1984.

[3] S. Leuzzi, Il volto nuovo del concordato preventivo in continuità aziendale, cit. 3; S. Ambrosini, Il codice della crisi dopo il d. lgs. n. 83/2022,cit., 849.

[4] A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2023, 383.

[5] Sul punto, in luogo di altri, L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, cit., 14.

[6] Cfr., ex aliis, M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Piacenza, 2023, 212.

[7] A. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2023, 192.

[8] G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, cit., 4-5.

[9] Così A. Maffei Alberti, L’interesse dei creditori e la continuazione dell’attività nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: un’analisi trasversale, in S. Ambrosini (a cura di), Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, Pisa, 2023, 82.

[10] E nelle ipotesi di deteriorità dell’opzione concordataria rispetto a quella liquidatoria ciò deriverà essenzialmente dal ricavato che si attende dall’esperimento delle azioni proponibili solo in caso di liquidazione giudiziale (cfr. art. 87, c. 1, lett. h).

[11] In termini diversi G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, cit., 5, secondo il quale “la continuità non è più un mezzo per la soddisfazione dei creditori, ma il mezzo per perseguire il possibile risanamento dell’impresa”. Può di contro osservarsi, peraltro, che non pare senza significato, da questo punto di vista, l’avvenuta espunzione del riferimento agli interessi dell’imprenditore e dei soci rispetto alla versione originaria della norma (la quale recitava: “In caso di continuità diretta il piano prevede che l'attività d'impresa è funzionale ad assicurare il ripristino dell'equilibrio economico finanziario nell'interesse prioritario dei creditori, oltre che dell'imprenditore e dei soci”). Il focus è invero oggi sul solo interesse dei creditori (oltre che sui posti di lavoro), senza più alcuna menzione, nella previsione in parola, di quello dell’imprenditore e dei soci.

[12] S. Ambrosini, Concordato preventivo e soggetti protetti nel codice della crisi dopo la Direttiva Insolvency: i creditori e i lavoratori, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 1° giugno 2022.

[13]  S. Ambrosini, op. ult. cit., 8-9.

[14] Si potrebbe nondimeno ritenere applicabile il principio fin dal giudizio di omologazione in primo grado e ciò in virtù sia del criterio di ragionevolezza, sia dell’unità sistematica dell’ordinamento (debbo questo spunto interpretativo al Dott. Giuseppe Limitone).

[15] Su questa previsione si veda L. Nannipieri, Dubbi irrisolti sulla conferma del concordato illegittimo con tutela risarcitoria, in dirittodellacrisi.it, 4 settembre 2023.

[16] Osserva in proposito A. Maffei Alberti, L’interesse dei creditori e la continuazione dell’attività nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: un’analisi trasversale, cit., 87: “La insistenza a volte ridondante con la quale si enfatizza l’interesse dei creditori conferma che la tutela di questo presupposto è il fulcro sul quale poggia l’intero sistema del codice. Dimostra anche la volontà di discostarsi dalla filosofia della procedura di amministrazione straordinaria ove la tutela della continuazione dell’attività di impresa sovrasta la tutela dei creditori”.

[17] Nel medesimo senso, ex aliis, L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, cit., passim. E sul tema cfr. anche A. Nigro - D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 392.

[18] A. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2023, 191.

[19] E in argomento, v., ex aliis, M. Arato, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano, in P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo (a cura di), Il codice della crisi. Commentario, Torino, 2024, 493 ss.

[20] M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, cit., 213.

[21] Nello stesso senso A. Maffei Alberti, L’interesse dei creditori e la continuazione dell’attività nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: un’analisi trasversale, cit., 84. Diversamente orientato, G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, cit., 5, ad avviso del quale “il fatto che al concordato possa accedere l’imprenditore che si trova in stato di crisi o di insolvenza (art. 84, comma 1) e che la legge non faccia alcuna differenza tra insolvenza reversibile, caratterizzata dalla esistenza di effettive prospettive di risanamento e ristrutturazione dell'impresa, e insolvenza irreversibile, distinta da uno squilibrio economico-finanziario talmente grave da escludere ipotesi ristrutturatorie, induce a ritenere che la continuità sia essa stessa un fine cui destinare le risorse dell’impresa, se non altro per la salvaguardia dei posti di lavoro”. In senso analogo già P. Vella, I quadri di ristrutturazione preventiva nella Direttiva UE 2019/1023 e nel diritto nazionale, in Fall. 2020, 1034; EAD, La nuova era della ristrutturazione preventiva nel codice della crisi e dell’insolvenza dopo l’attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023, in S. Ambrosini (a cura di), Crisi e insolvenza nel nuovo Codice, Bologna, 2022, 25 ss.  E. Ricciardiello, I lineamenti del nuovo concordato preventivo, cit., 739. Questi autori, tuttavia, non sembrano tenere in adeguata considerazione la portata di quel che la legge chiaramente afferma, cioè che il concordato realizza “il soddisfacimento dei creditori”. E sulla centralità della funzione prettamente satisfattiva del concordato v., da ultimo, A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 392: “L'unico obiettivo che il concordato preventivo deve invariabilmente perseguire, rappresentandone conseguentemente la finalità in senso stretto, è infatti il soddisfacimento attraverso qualsiasi forma dei creditori, «in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale» (art. 84, co. 1). Che questo obiettivo possa in concreto essere raggiunto conservando la gestione dell'impresa in capo allo stesso debitore, o invece mediante la cessione globale dell'attivo ad un terzo assuntore o, ancora, per tramite di una liquidazione disgregata dei beni, è assolutamente irrilevante ai fini dell'individuazione della funzione da attribuire al concordato preventivo che era, in passato, e rimane, anche a seguito della riforma, una funzione propriamente satisfattiva”.  

[22] S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in S. Pacchi, S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza, Bologna, 2023, 193.

[23] M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d'impresa, cit., 196.

[24] G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell'insolvenza, Torino, 2022, 96.

[25] E v., in luogo di altri, L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, cit., 9: “Tre forme sono ora predeterminate e disciplinate dal legislatore, mentre la quarta è una forma aperta”. Analogamente M. Arato, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano, cit., 495.

[26] Sul punto cfr. M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d'impresa, cit., 210, secondo il quale “le opportunità offerte al debitore sono vaste e non devono per forza incasellarsi negli schemi tipologici della liquidazione del patrimonio o della continuità aziendale”. Quanto al criterio cui attingere per individuare la disciplina di volta in volta applicabile a fattispecie non tipizzate, l’autore sostiene che “la soluzione è quella di applicare non già il regime più vicino alla fattispecie, ma di non applicare il regime più remoto”. Chi scrive, di contro, ritiene tale criterio non immune da un certa astrattezza e come tale di disagevole fruizione pratica, considerando invece preferibile far dipendere l’applicazione dell’art. 84, c. 4, da un elemento connotato da maggiore certezza qual è il contenuto del piano: se esso, a prescindere dal resto, prevede la liquidazione atomistica del patrimonio, le soglie percentuali della previsione anzidetta vanno rispettate e viceversa nel caso in cui, indipendentemente da garanzie, accolli e quant’altro, l’attività d’impresa prosegua in via diretta o indiretta.

[27] Cfr., ex aliis e da ultimo, A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 380; M. Spiotta, Evoluzione del diritto concorsuale e modello concordatario: unitarietà o pluralità?, in Fall., 2023, 872. Della tendenza delle rispettive discipline “a divaricarsi, sino a costituire figure pressoché autonome”, parla A. Jorio, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 190.

[28] S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in S. Pacchi, S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 194. E v. anche A. Nigro, D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 380.

[29] In argomento si veda, in particolare, A. Zorzi, Il concordato “atipico” nel codice della crisi, tra concordato con continuità aziendale e concordato liquidatorio, in ilcaso.it, 4 novembre 2019, cui adde, da ultimo, M. Spiotta, Evoluzione del diritto concorsuale e modello concordatario: unitarietà o pluralità?, cit., 872, che parla di “fattispecie caratterizzata dall’atipicità”.

[30] G. Fichera, Il concordato preventivo con continuità aziendale, in AA.VV., Commento al Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, nella collana “i quaderni di in executivis”, a cura di D’Arrigo-De Simone-Di Marzio-Leuzzi, 2019, 209 ss.

[31] M. Arato, Il concordato con continuità nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 860.

[32] M. Arato, op. ult. cit., 860.

[33] L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, cit., 9.

[34] Sostengono invece (pur senza motivare l’assunto) che alle forme concordatarie atipiche sia applicabile “il regime previsto per i concordati non in continuità” A. Nigro,  D. Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit. 383.

[35] Sul punto cfr. M. Arato, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano, cit., 496, il quale parla del “(probabilmente inconsapevole) risultato di agevolare l’approvazione e l’omologazione del concordato con assuntore e del concordato “atipico” a prescindere dal loro contenuto”.

[36] Per un puntuale quadro di sintesi delle novità v. P. F. Censoni, Il diritto della crisi e i nuovi concordati, in S. Ambrosini (a cura di), Assetti aziendali, crisi d’impresa e responsabilità della banca, cit., 98 ss.

[37] A. Audino, Sub art. 84, in A. Maffei Alberti (diretto da), Commentario breve alle leggi su crisi di impresa e insolvenza, Padova 2023, 576 ss.

[38] Sul punto cfr., di recente, S. Ambrosini, La gestione dell’impresa “in perdita” tra vecchia e nuova sistematica concorsuale, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 21 marzo 2023, 5, cui adde il bel lavoro di S. Pacchi, I canoni per la gestione dell’impresa nel codice della crisi e dell’insolvenza, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 26 aprile 2023.

[39] Sul tema si veda, da ultimo, il volume collettaneo La questione distributiva nel diritto della crisi e dell’insolvenza, a cura di D. Vattermoli, Pisa, 2023.

[40] In argomento cfr. l’ampia indagine di S. Bonfatti, Il sostegno finanziario alle imprese in crisi, Pisa, 2022. Da ultimo, cfr. i commenti agli artt. 99 e 101 di A. Irace e V. Santoro, in P. Valensise, G. Di Cecco, D. Spagnuolo (a cura di), Il codice della crisi. Commentario, cit., 594 ss.

[41] S. Ambrosini, Il nuovo concordato preventivo alla luce della “miniriforma” del 2015, in Dir. fall., 2015, I, 369.

[42] Sul tema, in luogo di altri, S. Pacchi, L’abuso del diritto nel concordato preventivo, in Giust. civ., 2015, 795 ss.; R. Amatore, L’ abuso del diritto nelle procedure concorsuali, in Officina del diritto, 2015, 52 ss., cui adde, più di recente, R. Santagata, Concordato preventivo “meramente dilatorio” e nuovo “Codice della crisi e dell’insolvenza”, in Dir. fall., 2019, I, 333 ss.; R. Rordorf, Il diritto esorbitante: abuso del diritto, abuso del processo, abuso del concordato, in Fall., 2020, 1199 ss. ove altri riferimenti.

[43] Cass. 15 gennaio 2020, n. 734, in Fall., 2020, 477 e ss., con nota di R. Brogi, Concordato con continuità e liquidazione dei beni: prevalenza qualitativa, prevalenza quantitativa o combinazione?

[44] Orientato in senso diverso, ma alla luce dell’originaria formulazione di cui al d.lgs. n. 14/2019, Trib. Milano, 28 novembre 2019, in ilcaso.it, secondo cui “il Codice della Crisi ha adottato un criterio di prevalenza che potrebbe definirsi "quantitativa attenuata" che se concentra, da una parte, il proprio orizzonte sulle modalità di creazione delle risorse da destinare ai creditori (liquidazione o ricavi della continuità) dovendo sempre "i ricavi attesi" essere superiori ai valori della liquidazione, dall'altra parte, amplia l'area semantica del "ricavato prodotto dalla continuità", facendovi rientrare il magazzino, nonché i rapporti contrattuali già in essere o già risolti nel passato, ma che proseguiranno o verranno rinnovati e, infine, i rapporti di lavoro”.

[45] V. Zanichelli, La nuova disciplina del concordato preventivo, Molfetta, 2019, 20-21.

[46] V. Zanichelli, La nuova disciplina del concordato preventivo, cit. Altri autori, prima ancora del varo del decreto legislativo delegato, avevano ammonito, in linea generale, circa il rischio per l’istituto concordatario di subire “una regressione (in termini di ragionevolezza e di fruibilità) verso un approdo persino deteriore rispetto a quello risultante dalla originaria disciplina del 1942; meglio dunque sarebbe lasciar decadere la legge delega e ripartire con un nuovo progetto, che – lungi dal contrastare la precedente e recente riforma (quella avviata a partire dal 2005) – si limiti a completarla, in direzione e nel rispetto dell’autonomia contrattuale del debitore e dei suoi creditori, cioè dei principali (ancorché non unici) portatori degli interessi meritevoli di tutela nella soluzione delle crisi d’impresa, che il giudice – garante della correttezza del procedimento – è chiamato ad agevolare nell’interesse generale dell’economia, non a contrastare” (P.F. Censoni, La “controriforma” della disciplina del concordato preventivo, in ilcaso.it, 11 aprile 2018, 29).

[47] Nello stesso senso G. Bozza, La tutela dei creditori nel concordato in continuità, cit., 32.

[48] Fra le applicazioni giurisprudenziali più recenti in materia v. Trib. Napoli, 21 febbraio 2024, in dirittodellacrisi.it, con postilla di A. Arlati, Profili di accesso al concordato di gruppo. In dottrina, per uno “sguardo” comparatistico all’insolvenza di gruppo nell’ordinamento germanico v., da ultimo, P. Agstner, N. de Luca, L’insolvenza di gruppo nel diritto concorsuale tedesco, in Dir. fall., 2024, I, 1 ss.

[49] Di cui parla, ad esempio, M. Arato, Finalità del concordato preventivo e tipologie di piano, cit., 497.

[50]  S. Ambrosini, Il concordato preventivo, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, IV, Torino, 2014, 242, ove altri riferimenti. Sul tema della percentuale si veda anche l’ampio e puntuale lavoro di V. Lenoci, Il concordato preventivo, in P. Cendon (diretto da), Trattato di diritto civile, Impresa e fallimento, Milano, 2016, 738-739.

[51]  A. Nigro, in AA.VV., Seminario a commento di Cass., S.U., 23 gennaio 2013, n. 1521, in Giur. comm., 2014, I, 236.

[52]  A. Gambino, ivi, 240.

[53] R. Sacchi, ivi, 226.

[54] R. Sacchi, ibidem.

[55] Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2019, n. 3863, in ilcaso.it.

[56] Ibidem.

[57] Ibidem.

[58] Trib. Roma, 16 ottobre 2008, in Dir. fall., 2009 II, 551. Sul tema specifico v. F. Macario, Nuovo concordato preventivo e (antiche) tecniche di controllo degli atti di autonomia: l’inammissibilità della proposta per mancanza di causa, in Banca, borsa, tit., II, 736 ss., cui sia consentito aggiungere S. Ambrosini, La domanda di concordato, in S. Ambrosini- P.G. Demarchi- M. Vitiello, Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, 60-62.

[59] S. Ambrosini, Accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza o a una procedura di insolvenza: iniziativa e procedimento unitario, in S. Pacchi, S. Ambrosini, Diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 144; nello stesso senso G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 120

[60]  S. Ambrosini, Brevi note sul soddisfacimento minimo dei creditori nel concordato preventivo, fra “causa concreta” e giudizio di convenienza (considerazioni de jure condito et condendo), in ilcaso.it, 14 febbraio 2019.

[61] Sul tema v., anche per riferimenti, A. Bassi, La «finanza esterna» nel concordato preventivo tra finanziamento del debitore e finanziamento della iniziativa, in Giur. comm., 2019, 181 ss.

[62] Secondo la Corte, “deve ritenersi che in tema di concordato preventivo, a norma dell'art. 160, comma 2, I. fati., il soddisfacimento parziale dei creditori muniti di privilegio generale possa trovare un fondamento giustificativo solo nell'incapienza del patrimonio mobiliare del debitore, sicché il soddisfacimento dei creditori chirografari non può che dipendere, in tal caso, dalla presenza di beni immobili (ovviamente per la parte che non è deputata a garantire i creditori che vantino un titolo di prelazione su di essi) o da liquidità estranee al patrimonio del debitore stesso”: così Cass. 8 giugno 2020, n. 10884, in Fall., 2020, 1071, con nota di G. D’Attorre, La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule.

[63] Cass., 27 dicembre 2019, n. 34539, in Fall., 2020, 1425, con nota di M. Cataldo, Partecipazione dei soci postergati al concorso dei creditori e ammissibilità di una proposta di concordato preventivo che ne preveda il pagamento.

[64] Cfr., nell’ordine temporale in cui sono apparsi, i contributi di S. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in G. Cottino (diretto da), Trattato di diritto commerciale, XI, 1, Padova, 2008, 42 ss.; L. D’Orazio, Il rebus delle classi dei creditori ed il controllo del tribunale, in Giur. mer., 2009, I, 139; F. Guerrera, Struttura finanziaria, classi dei creditori e ordine delle prelazioni nei concordati delle società, in Dir. fall., 2010, I, 720 ss.; G. D’Attorre, Concordato con continuità ed ordine delle cause di prelazione, in Giur. comm. 2016, ·I, 43; Id., La distribuzione del patrimonio del debitore tra absolute priority rule e relative priority rule, in Fall., 2020, 1072 ss.; G. Terranova, I concordati in un'economia finanziaria, in Dir. fall., 2020, I, 20. Contra A. Jorio, Sub Art. 160, in AA.VV., La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di A. Nigro, M. Sandulli, V. Santoro, III, Torino, 2010, 2048; G. Bozza, Il trattamento dei creditori privilegiati nel concordato preventivo, in Fall., 2012, 380; M. Fabiani, II Concordato preventivo, in Commentario del Codice Civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, a cura di Giorgio De Nova, Bologna 2014, 243 ss.; P. F. Censoni, Il concordato preventivo, in Trattato delle procedure concorsuali, a cura di A. Jorio e B.N. Sassani, IV, Torino, 2016, 152 ss.; D. Vattermoli , La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine, in Riv. soc., 2018, 858 ss.

[65]  Così G. P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, in dirittodellacrisi.it, 6 aprile 2022, 7.

[66] P. Vella, La nuova era della ristrutturazione preventiva nel codice della crisi e dell’insolvenza dopo l’attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023, cit., 25 ss.; L. Stanghellini, La tormentata attuazione della direttiva europea in materia di «quadri di ristrutturazione preventiva», ivi, 75 ss.

[67] S. Ambrosini, Qualche riflessione intorno al redigendo decreto correttivo: appunti in ordine sparso, in ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 16 gennaio 2024, 7.

[68] M. Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d'impresa, cit., 221.

[69] A. Audino, Sub art. 84, cit., 607

[70]  G. D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell'insolvenza, cit., 107.

[71] Sul punto, prima del varo del codice, D. VattermoliLa posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine, in Riv. soc., 2018, 858 ss.; in epoca successiva G. P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, cit., 7.

[72] E v. G. P. Macagno, La distribuzione di valore tra regole di priorità assoluta e relativa. Il plusvalore da continuità, cit., 14.

[73] L. Panzani, Le finalità del concordato preventivo, cit., 12.