Direttori Stefano Ambrosini e Franco Benassi
Giurisprudenza

Crediti postergati e compensazione: le conclusioni del Procuratore De Matteis.


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Articolo

Le somme non riscosse dai c.d. “creditori irreperibili” nella disciplina anteriore all’entrata in vigore della riforma delle procedure concorsuali (d.lgs. n. 5/2006)*


Francesco Bordiga

Data pubblicazione
04 giugno 2024

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Sommario: 1. Premessa. – 2. La disciplina della legge fallimentare prima della riforma del 2006. – 3. La disciplina introdotta dal d.lgs. n. 5/2006. – Il concorso dei creditori insoddisfatti sui “depositi” ex art. 117, comma 3, l. fall. vecchio testo. La posizione della giurisprudenza. – 5. Il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. come “deposito liberatorio” ai sensi dell’art. 1210 cod. civ. – 6.1. Il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. come “deposito nell’interesse di un terzo” – 6.2. (Segue) La decadenza prevista dall’art. 2, lett. c-bis., d.l. 16 settembre 2008, n. 143. Rifiuto del terzo di profittare della stipulazione e “Verwirkung”. – 7. Conseguenze dell’interpretazione proposta. – 8. Interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006.


1. Premessa

Alcune recenti sentenze della Suprema Corte[1] hanno posto il problema della disciplina applicabile alle (e dunque della “sorte” delle) somme non riscosse dai c.d. “creditori irreperibili” nelle procedure di fallimento e di amministrazione straordinaria[2] avviate prima dell’entrata in vigore della c.d. “Riforma organica delle procedure concorsuali”, attuata con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5[3].

La questione in esame, in sé già particolarmente complessa: (i) non risulta essere stata oggetto di trattazioni diffuse (probabilmente anche in ragione della mancanza di espresse disposizioni normative al riguardo e, più a monte, dell’erronea convinzione circa la non afferenza della stessa alla materia concorsuale); (ii) viene oggi a porsi in ragione del fatto che, contrariamente alla disciplina contenuta nella legge fallimentare del ’42, quella risultante dalla riforma organica sopra citata si occupa espressamente del problema, con una disposizione che, tuttavia, non pare “direttamente” applicabile alle procedure concorsuali avviate nel vigore della disciplina previgente (cfr. l’art. 150 del d.lgs. n. 5/2006, secondo cui “i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del […] decreto, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore”); (iii) è stata recentemente affrontata dalla giurisprudenza di merito con esiti contrastanti e, giunta, infine, al vaglio della Corte di Cassazione (che, come accennato, sulla stessa ha avuto modo di soffermarsi in tre diverse occasioni[4]), non ha ricevuto, neppure in quella sede, una compiuta definizione, avendo il Supremo Collegio, da un lato, chiarito alcuni profili controversi, ma, al contempo, posto (o indotto) dubbi di non poco momento.

Ciò premesso, e sia pure con i limiti sopra rappresentati, anticipiamo sin d’ora che, a nostro avviso, sebbene in assenza di una espressa disposizione intesa a regolare, nel vigore della legge fallimentare del ’42, le sorti delle somme depositate ex art. 117 l. fall. a “pagamento” dei creditori irreperibili, e nonostante gli esiti contrari recentemente espressi nelle citate pronunce della Corte di Cassazione, tali somme, ove non riscosse entro un termine di cinque anni dal deposito, ritornano (o, meglio, possono ritornare) nella sfera di disponibilità della curatela fallimentare, per essere fatte oggetto di riparto supplementare:

(i)     o in favore di quei soli creditori che ne abbiano fatto istanza (in termini sostanzialmente analoghi a quelli previsti oggi dal “nuovo” art. 117, commi 4 e 5, l. fall., come risultante a seguito della modifica introdotta con il d.lgs. n. 5/2006);

(ii)   o, sulla base di un diverso percorso interpretativo (ed eventualmente ricorrendo al disposto dell’art. 121 l. fall. e all’istituto della riapertura del fallimento), in favore di tutti i creditori del fallito diversi da quelli irreperibili.

Entrambe le ipotesi appena prospettate – pure questo va subito precisato – appaiono, a differenza delle conclusioni alle quali è da ultimo giunta la Cassazione, coerenti con una lettura “costituzionalmente orientata” della normativa fallimentare.

 

2. La disciplina della legge fallimentare prima della riforma del 2006

L’art. 117, 2° comma, l. fall., nella sua originaria formulazione, disciplinava il trattamento delle somme dovute, in sede di riparto finale, in favore dei creditori già ammessi al passivo della procedura, ma con riserva dell’avversarsi di una condizione sospensiva non ancora verificatasi, ovvero di quelli che non “si presentavano” o risultavano “irreperibili”.

Per i primi, la norma disponeva che, al momento della ripartizione finale dell’attivo, le somme già accantonate nelle more della procedura, dovevano essere depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato, affinché fossero versate agli aventi diritto al momento dell’avveramento della condizione ovvero fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori non ancora integralmente soddisfatti qualora la condizione non si fosse poi verificata o il suo avveramento fosse divenuto impossibile.

Si discuteva, al riguardo, sulle modalità concrete con cui, chiusa la procedura concorsuale, si sarebbe dovuto procedere al pagamento dei creditori condizionali ovvero, in caso di mancata verificazione della condizioni, degli altri creditori concorrenti: alcuni[5] hanno affermato che le somme destinate ai creditori condizionali dovevano essere depositate su libretti bancari intestati, congiuntamente, ai creditori e al curatore, mentre la destinazione finale delle stesse sarebbe stata operata direttamente dal debitore tornato in bonis, secondo le indicazioni a suo tempo fornite dal giudice delegato; altri[6], prospettavano la possibilità di costituire un libretto «nominativo-al portatore», intestato all’eventuale beneficiario, che il curatore avrebbe dovuto tenere in deposito fiduciario e consegnare poi all’avente diritto al momento del verificarsi della condizione; altri ancora, infine[7], sostenevano che i cessati organi della procedura avrebbero comunque conservato delle funzioni residue in ordine a tale distribuzione, configurandosi così una peculiare ipotesi di ultrattività degli organi della procedura fallimentare, dopo la chiusura della stessa. Il 3° comma della richiamata disposizione prevedeva, invece, che, le somme spettanti ai creditori che non si presentavano o erano irreperibili (per i soggetti, cioè, dei quali, nelle more della procedura, si fossero “perse le tracce”), avrebbero dovuto essere depositate presso un istituto di credito, valendo il certificato di deposito quale quietanza di pagamento.

Come accennato in premessa, dottrina e giurisprudenza dell’epoca non hanno dedicato particolare attenzione alla questione relativa al trattamento, da parte degli organi della procedura concorsuale, delle somme depositate in favore dei creditori irreperibili, ma non riscosse da questi ultimi. Veniva, infatti, osservato che, una volta effettuato il deposito, per le relative somme non si sarebbe più potuto porre il problema di una loro futura distribuzione concorsuale, avendole l’ufficio fallimentare già definitivamente trasferite, proprio attraverso il deposito medesimo, in favore degli aventi diritto, con conseguente liberazione della procedura da ogni obbligo e responsabilità nei loro confronti. Il deposito avrebbe generato, in altri termini, un rapporto di un credito-debito (tra la banca depositaria e il soggetto in favore del quale era stato effettuato il deposito) «che esula completamente dal procedimento fallimentare, per cui non v’è ragione di occuparsene ulteriormente, se non per precisare che», in mancanza di riscossione da parte dell’avente diritto, tale rapporto «finirebbe per prescriversi secondo le norme dei depositi bancari»[8].

Benché ritenuta estranea alla materia concorsuale, la sorte delle somme depositate ai sensi dell’art. 117, comma 3, l. fall. – inevitabilmente destinate, nella stragrande maggioranza dei casi, ad una indefinita latenza presso gli istituti di credito – poneva comunque interrogativi non irrilevanti; tanto più trattandosi di somme oggetto di depositi fruttiferi e considerato che, secondo la giurisprudenza dell’epoca[9], nel deposito bancario, la prescrizione decennale del diritto alla restituzione delle somme inizia a decorrere dal giorno della costituzione del rapporto, ovvero da quello dell’ultima operazione compiuta (ivi compreso, quindi, l’accredito degli interessi creditori).

Nel tentativo di ovviare agli inconvenienti appena segnalati, presso alcuni tribunali fallimentari si era affermata una prassi (se non contra, almeno) praeter legem, tale per cui, su disposizione del giudice delegato, il cancelliere apriva in favore dei creditori irreperibili un libretto di deposito giudiziario nominativo presso l’ufficio postale incaricato dell’apposito servizio[10]: l’avente diritto avrebbe così potuto rivendicare la somma presentando apposita istanza al giudice delegato o, se la procedura era già chiusa, al presidente del tribunale. In caso, invece, di mancata riscossione, trascorsi cinque anni dalla chiusura della procedura concorsuale, attesa la norma di carattere generale dettata in materia di depositi giudiziari (art. 164, d.m. 20 dicembre 1952), le somme confluivano in deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti (e, a seguito della cessazione di ogni attività relativa alla gestione operativa del servizio depositi da parte di quest’ultima, presso il M.E.F.: art. 2, 1° comma, d.m. Finanze 5 dicembre 2003), in attesa che l’avente diritto, sino alla scadenza dell’ordinario termine prescrizionale, ne potesse rivendicare la titolarità[11].

In altri termini, il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti (poi presso il M.E.F.) non provocava il definitivo incameramento delle relative somme nel bilancio dello Stato, ma soltanto l’affidamento della loro “gestione” ai soggetti a ciò deputati, in attesa che l’avente diritto, a tanto espressamente autorizzato con provvedimento dell’autorità che aveva a suo tempo disposto il deposito giudiziario, non ne reclamasse la titolarità entro lo spirare del termine di prescrizione ordinaria. Per ovviare alla disparità di trattamento tra depositi eseguiti nelle forme previste dall’art. 117, 3° comma, vecchio testo l. fall., da un lato, e depositi giudiziari, dall’altro lato, era poi intervenuta, in un primo momento, la disciplina dei c.d. “depositi dormienti” (d.P.R. 22 giugno 2007). Successivamente, tale disciplina è stata sostituita da quella contenuta nella l. 13 novembre 2008, n. 181 (di conversione del d.l. 16 settembre 2008, n. 143), che ha infine previsto l’attribuzione al «Fondo Unico Giustizia» (c.d. “F.U.G.”) degli importi «depositati presso Poste Italiane S.p.a., banche e altri operatori finanziari, in relazione a procedimenti civili di cognizione, esecutivi o speciali, non riscossi o non reclamati dagli aventi diritto entro cinque anni dalla data in cui il procedimento si è estinto o è stato comunque definito o è divenuta definitiva l’ordinanza di assegnazione, di distribuzione o di approvazione del progetto di distribuzione ovvero, in caso di opposizione, dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia» (art. 2, 2° comma, lett. c-bis), nonché delle somme «di cui all’art. 117 quarto comma del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, come sostituito dall’art. 107 del decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5» (art. 2, secondo comma, lett. c-ter).

Applicata ai depositi costituiti in ossequio al disposto del previgente 3° comma dell’art. 117 l. fall., la l. 13 novembre 2008, n. 181 è venuta di fatto a introdurre un termine decadenziale di cinque anni decorrenti dalla chiusura della procedura concorsuale, spirato il quale le somme depositate presso Poste Italiane S.p.a., banche o altri operatori finanziari, non possono essere più reclamate dai creditori “irreperibili” e – salvo l’interrogativo, ancora non esaminato e che forma oggetto dell’analisi, che su tali somme possa riaprirsi un concorso tra gli altri creditori del fallimento rimasti in tutto o in parte insoddisfatti – possono quindi confluire nel F.U.G.[12]. Tutto questo, secondo un meccanismo che, come subito vedremo, al netto dell’interrogativo predetto, in massima parte ricalca quello previsto oggi dal comma 4 dell’art. 117 l. fall., nel testo risultante a seguito della riforma organica delle procedure concorsuali.

 

3. La disciplina introdotta dal d.lgs. n. 5/2006

La nuova disposizione dell’art. 117 l. fall. ha introdotto, rispetto al passato, una serie di novità di sicuro rilievo. Anzitutto, essa prevede che, in sede di riparto finale, vengano depositate nei modi stabiliti dal giudice delegato, non solo le somme dovute ai creditori ammessi con riserva del verificarsi di una condizione sospensiva, ma pure quelle destinate in ipotesi ai soggetti la cui pretesa creditoria risulti soggetta ai contenziosi di cui agli artt. 96 comma 3, n. 3, 98 e 113, comma 1, nn. 3 e 4, per i quali manchi un provvedimento già passato in giudicato, di modo che tali somme possano essere o versate agli aventi diritto (una volta verificatasi la condizione o accertato con efficacia di giudicato il fondamento della pretesa creditoria), ovvero fatte oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori (in caso di mancato avveramento della condizione o di definitivo disconoscimento della pretesa creditoria giudiziale).

Riguardo, invece, alle somme depositate in favore dei creditori irreperibili, la nuova disposizione stabilisce (ai commi 4 e 5) che, decorsi cinque anni dal deposito, tali somme, qualora non riscosse dagli aventi diritto, possono essere richieste da altri creditori rimasti insoddisfatti. In tal caso, «il giudice, anche se è intervenuta l’esdebitazione del fallito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio […], dispone la distribuzione delle somme non riscosse in base all’art. 111 fra i soli richiedenti». In mancanza di richieste, le stesse somme verranno, invece, «versate a cura del depositario all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia».

Il legislatore della riforma fallimentare ha, quindi, espressamente previsto la possibilità di un ulteriore “concorso” dei creditori che non abbiano ricevuto piena soddisfazione delle loro ragioni nelle more della procedura, tanto sulle somme depositate in favore dei creditori “condizionali” o “controversi”, in caso, rispettivamente, di mancato avveramento della condizione o di disconoscimento giudiziale della loro pretesa (concorso che, quanto meno sulle somme destinate ai creditori condizionali era previsto anche dalla disciplina previgente), quanto su quelle destinate ai creditori irreperibili e non riscosse entro il termine di cinque anni dall’avvenuto deposito (fattispecie, quest’ultima, non espressamente contemplata, invece, dalla vecchia normativa), salva comunque la devoluzione delle stesse, per la parte non rivendicata da altri creditori insoddisfatti, “all’entrata del bilancio dello Stato”.

Può dirsi quindi che, per certi aspetti, la riforma della procedure concorsuali ha “allineato” la posizione dei creditori rimasti insoddisfatti con riguardo, da un lato, alle somme spettanti a quei soggetti i cui crediti sono soggetti a condizione o a contenziosi, ma per i quali la condizione sospensiva non si è più verificata o il contenzioso si è concluso con il disconoscimento della pretesa creditoria, e, dall’altro lato, alle somme spettanti ai creditori irreperibili: in ambedue le ipotesi prevedendo – sia pure in termini non perfettamente omogenei – la possibilità di un riparto supplementare (apparentemente destinato a tutti i creditori insoddisfatti, nella prima ipotesi, e circoscritto invece a solo quelli che abbiano fatto richiesta nel secondo caso).

 

4. Il concorso dei creditori insoddisfatti sui “depositi” ex art. 117, comma 3, l. fall. vecchio testo. La posizione della giurisprudenza

anto precisato, ci si può a questo punto interrogare – sommariamente ricostruita l’evoluzione della disciplina e fissate così le premesse del discorso – sulla possibilità di ammettere, e se sì con quali modalità, un concorso “supplementare” dei creditori rimasti insoddisfatti sulle somme destinate agli “irreperibili” e depositate ai sensi del previgente art. 117 l. fall., prima che le stesse siano devolute al F.U.G., in base al disposto della l. 13 novembre 2008, n. 181. Tale concorso, come detto, se risulta testualmente previsto dalla nuova disciplina, non era invece espressamente regolato dalla normativa previgente.

All’indomani della riforma del 2006, alcuni tribunali hanno dato all’interrogativo prospettato una risposta positiva, attribuendo ai riformati commi 4 e 5 dell’art. 117 l. fall. una valenza meramente interpretativa della disciplina previgente e ritenendo, perciò, applicabile, ad onta della disposizione transitoria contenuta nell’art. 150 del d.lgs. n. 5/2006, la “nuova” previsione a tutte le procedure di fallimento «siano ess[e] antecedenti o successiv[e] al 16 luglio 2006»[13]. Per quanto è noto, in alcune occasioni, sulla base dell’assunto appena svolto, si è anche proceduto alla distribuzione delle somme già depositate in favore dei creditori irreperibili[14].

La posizione della giurisprudenza è tuttavia, da ultimo, radicalmente mutata a seguito dei recenti arresti della Cassazione ricordati in premessa. Più in particolare, la prima pronuncia di Cass. n. 4514/2019, ha anzitutto affermato che «la possibilità di procedere alla redistribuzione delle somme accantonate […], prevista, nel regime previgente, soltanto dall’art. 117, comma 2 [n.d.r.: per i creditori sottoposti a condizione sospensiva non ancora verificata] e non era suscettibile di estensione in via interpretativa all’ipotesi contemplata dal comma 3 [n.d.r.: quella dei creditori irreperibili], avuto riguardo alla precisazione espressamente compiuta nel secondo periodo di quest’ultimo ed alla contiguità delle due disposizioni, la quale impediva di ricondurne la differente formulazione ad una mera svista od omissione del legislatore, in presenza, oltretutto, di discipline perfettamente coerenti con la diversa efficacia attribuita al deposito bancario in ciascuna delle due ipotesi contemplate». Questa diversità di disciplina non si tradurrebbe, secondo la Suprema Corte, «in una violazione delle regole del concorso dei creditori e, al tempo stesso, in una lesione della garanzia generica rappresentata dal patrimonio del debitore», perché «il versamento di tali somme presso l’istituto bancario, comportandone l’immediata e definitiva fuoriuscita dal patrimonio fallimentare e l’ingresso in quello dell’assegnatario, con effetto liberatorio nei confronti del fallimento, costituisce anzi concreta espressione del concorso e modalità di attuazione della garanzia patrimoniale, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza che, in caso di mancato ritiro da parte dell’avente diritto, il credito di quest’ultimo nei confronti dell’istituto bancario sia destinato ad estinguersi per prescrizione, dal momento che tale vicenda resta del tutto estranea al patrimonio fallimentare, incidendo esclusivamente su quello dell’assegnatario». Né dovrebbe giungersi a conclusioni differenti nel caso in cui le somme venissero depositate nelle forme dei depositi giudiziari in quanto, anche in questo caso, «ad estinguersi, per effetto della prescrizione o della devoluzione al Fondo unico giustizia, non [è] un diritto incluso nell’attivo del fallimento, ma il credito vantato dall’assegnatario nei confronti della banca o del gestore del servizio postale in conseguenza del deposito delle somme accantonate». Da ciò conseguirebbe, peraltro, che sulle somme depositate «i creditori non assegnatari non possono considerarsi titolari di alcun diritto, e non essendo pertanto configurabile, almeno nei loro confronti, una privazione della proprietà, nel senso previsto» dall’art. 1 del Primo Protocollo aggiuntivo alla CEDU.

Aggiunge, ancora, la Cassazione, che «la pluralità delle soluzioni ragionevolmente ipotizzabili per la risoluzione della problematica concernente la destinazione delle somme accantonate nel piano di riparto e non riscosse dagli assegnatari induce […] ad escludere che la mera adozione di differenti criteri da parte delle diverse discipline succedutesi nel tempo possa dar luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento tra creditori rimasti ugualmente insoddisfatti a seguito del riparto finale, in quanto […] l’inapplicabilità della disciplina introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006, art. 107, alle procedure concorsuali apertesi in data anteriore alla sua entrata in vigore costituisce espressione di una scelta discrezionale del legislatore, ispirata ad un discrimine temporale non arbitrario, rappresentando il decorso del tempo un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche».

Secondo la Suprema Corte, pertanto, l’intervenuta modifica dell’art. 117 l. fall., «con la conseguente attribuzione ai creditori rimasti insoddisfatti della facoltà di chiedere la redistribuzione delle somme precedentemente accantonate in favore dei creditori che non le abbiano riscosse o di quelli risultati irreperibili, non consente […] di ritenere esistente tale diritto anche nel regime previsto dal testo previgente».

Come anticipato, la pronuncia di Cass. n. 4514/2019, in seguito, trovato conferma in due successive decisioni.

La prima (Cass. n. 5618/2020) aggiunge ai rilievi sopra trascritti l’assimilazione – come vedremo niente affatto irrilevante – del deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, vecchio testo, al “deposito liberatorio” previsto dall’art. 1210 cod. civ. Al riguardo, il Supremo Collegio afferma che «nel regime originario della legge fallimentare […] il deposito delle somme fatto dalla procedura veniva a innestare un rapporto contrattuale in modo diretto corrente tra il creditore – non presentato o irreperibile – e l’istituto depositario. La richiamata “quietanza” rispondeva, quindi, al “pagamento” posto in essere dalla procedura a mezzo deposito liberatorio (come sostanzialmente intestato al creditore che si è disperso): con la medesima forza effettuale, cioè, di cui è dotato il deposito previsto dalla norma dell’art. 1210 c.c.»: con ciò apparendo «del tutto manifesta» la «simmetria tra la posizione del creditore, che (dopo avere fatto domanda di insinuazione) risulta disperso al tempo della distribuzione del ricavato, e la posizione del creditore messo in mora, secondo le regole del codice civile» (sulle conseguenze di tale assimilazione, v. infra, amplius, §§ 5-8). Secondo la pronuncia in esame, quindi, «nel regime poi sostituito dalla riforma del 2006 … le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento, né sono più nella disponibilità degli organi della procedura. Perché non sono più, prima di ogni altra cosa, di proprietà del debitore ex-fallito (così la disposizione di base dettata dall’art. [1210] c.c., comma 2: “eseguito il deposito... il debitore non può più ritirarlo ed è liberato dalla sua obbligazione”)».

La seconda sentenza (Cass. n. 7120/2020), richiamando il precedente di Cass. n. 29466/2018 (pronunciatasi in tema di concordato fallimentare), ha invece affermato che «il fallito tornato in bonis o i suoi aventi causa, ove a seguito della chiusura del fallimento avessero ritenuto che la somma versata ex art. 117, comma 3, l. fall. nel testo non più vigente dovesse essere loro restituita a seguito del decorso del termine di prescrizione decennale, non avrebbero potuto […] che adire il giudice ordinario in sede di cognizione, a motivo tanto della definitiva fuoriuscita della somma versata dall’ambito procedurale all’atto del deposito, quanto della mancanza di specifiche norme che prevedessero una ultrattività degli organi fallimentari a seguito della chiusura della procedura allo specifico scopo di dare destinazione alle somme non reclamate. In altri termini, una volta effettuato il deposito e chiuso il fallimento, il Tribunale fallimentare rimaneva estraneo alle sorti delle somme così destinate e, di conseguenza, non poteva assumere statuizioni che le riguardassero, tanto più con provvedimento avente natura decisoria».

Come si vedrà, le conclusioni cui giunge la giurisprudenza di legittimità non sono condivisibili. Proprio l’accostamento – questo sì corretto e condivisibile – dell’istituto previsto dal 3° comma del previgente art. 117 l. fall. alle norme generali dettate in tema di “deposito liberatorio” conduce, infatti, ad affermare che, decorso un certo tempo senza che il deposito venga richiesto da parte dei creditori irreperibili, le somme depositate possono senz’altro rientrare nella sfera di disponibilità della procedura concorsuale, sotto forma di diritto di credito nei confronti del depositario e con conseguente possibilità per gli altri creditori insoddisfatti di richiederne una ripartizione supplementare.

 

5. Il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. come “deposito liberatorio” ai sensi dell’art. 1210 cod. civ.

Per meglio chiarire l’affermazione appena svolta, merita approfondire ulteriormente la natura del deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006. La norma, come detto, prevede(va) che «per i creditori che non si presentano o sono irreperibili la somma dovuta è depositata presso un istituto di credito. Il certificato di deposito vale quietanza». L’inciso contenuto nel secondo periodo della disposizione trascritta – come del resto confermato anche da Cass. n. 5618/2020 – legittima l’assimilazione della funzione del citato deposito a quello previsto, nell’ambito del diritto civile generale, dall’art. 1210 cod. civ., nel contesto della disciplina della mora del creditore[15]. È previsto, infatti, che «se il creditore rifiuta di accettare l’offerta reale o non si presenta per ricevere le cose offertegli mediante intimazione, il debitore può eseguire il deposito» e che, «una volta eseguito il deposito, il debitore non può più ritirarlo ed è liberato dalla sua obbligazione».

Se, allora, il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, vecchio testo, l. fall., va inquadrato – come afferma anche la Cassazione – nella figura del deposito liberatorio previsto nell’ambito della disciplina dell’offerta reale, è in queste norme che vanno ricercate le regole che presidiano alla sorte delle somme destinate ai creditori irreperibili.

Rileva, perciò, in primo luogo, nell’ottica appena delineata, il disposto dell’art. 1213 cod. civ. che, da un lato, al comma 1, esclude la valenza liberatoria del deposito là dove il debitore, dopo averlo effettuato, lo ritira prima che lo stesso sia stato accettato dal creditore o prima che sia stato riconosciuto valido con sentenza passata in giudicato; dall’altro lato, al comma 2, legittima il debitore al ritiro del medesimo deposito anche dopo «l’accettazione […] o il passaggio in giudicato della sentenza che lo dichiara valido», purché il creditore lo consenta[16].

Alla luce di quanto precede, occorre allora interrogarsi sulla possibilità che il consenso al ritiro del deposito accettato o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato, previsto dall’art. 1213, 2° comma, cod. civ., possa essere equiparato – nel contesto di interesse – al comportamento inerte del creditore irreperibile.

La risposta a questo interrogativo non può prescindere dalla particolare natura del deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, vecchio testo, l. fall. e, in particolare, dalla previsione contenuta nell’art. 2, 2° comma, lett. c-bis, d.l. 16 settembre 2008, n. 143, secondo cui «le somme di denaro ovvero i proventi […] depositati presso Poste Italiane S.p.A., banche e altri operatori finanziari, in relazione a procedimenti civili di cognizione, esecutivi o speciali, non riscossi o non reclamati dagli aventi diritto entro cinque anni dalla data in cui il procedimento si è estinto o è stato comunque definito o è divenuta definitiva l’ordinanza di assegnazione, di distribuzione o di approvazione del progetto di distribuzione» confluiscono nel F.U.G. Tale disposizione, come detto, pone un termine di decadenza di cinque anni a carico dei creditori irreperibili per “accettare” il deposito: decorso questo termine, essi non hanno più diritto a ritirare le somme.

Ciò premesso, va allora ricordato che secondo la Cassazione, «il silenzio o l’inerzia […] possono essere interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito» solo nei «casi in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far salvo il suo diritto di credito» (Cass. 25 agosto 1999, n. 8891): in questo caso, il concreto esercizio del diritto a pretendere il pagamento delle somme depositate mediante richiesta al depositario.

Il comportamento inerte del creditore irreperibile che, conscio del termine di decadenza quinquennale, non si rivolga al depositario per ritirare le somme depositate a suo favore potrebbe, conseguentemente, essere considerato quale «manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto di credito» e, quindi, quale consenso al ritiro della somma depositata da parte del debitore.

Ne deriva che, in presenza di tale consenso tacito al ritiro del deposito, sorgerebbe in capo ai disciolti organi della procedura fallimentare (che agiscono nell’interesse della massa dei creditori) un diritto al ritiro del deposito e, quindi, a riacquistare la disponibilità delle somme depositate a favore dei creditori irreperibili, per destinarle al soddisfacimento delle pretese di altri creditori rimasti insoddisfatti.

 

6.1. Il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. come “deposito nell’interesse di un terzo”

Secondo una parte della dottrina il “deposito liberatorio” previsto dall’art. 1210 cod. civ. (e, quindi, se è vera la premessa, anche il deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006) è riconducibile allo schema del contratto a favore del terzo, perché la sua disciplina trova corrispondenza in quella dell’art. 1411 cod. civ., nonché in quella dell’art. 1773 cod. civ. in tema di cose depositate “anche nell’interesse di un terzo”[17]. Il “deposito liberatorio” si distinguerebbe dalle due fattispecie negoziali appena citate per il peculiare effetto di liberare lo stipulante dall’obbligazione. Ma, a questo riguardo, è stato osservato che tale particolarità non vale ad escludere l’equiparazione del deposito liberatorio al contratto a favore di terzo perché l’effetto della liberazione del debitore è previsto dalla legge in relazione alla particolare funzione assegnata dalla legge a tale procedimento, ricollegabile all’esistenza di una sentenza costitutiva di convalida del deposito (sostituita, nel contesto delle procedure concorsuali, dal provvedimento di ammissione al passivo), «la quale è prevista appunto al fine di produrre una conseguenza che il solo negozio non potrebbe di per sé provocare»[18].

Dalla qualificazione del “deposito liberatorio” – e, dunque, anche del deposito previsto dall’art. 117, 3° comma, vecchio testo, l. fall. a favore dei creditori cc.dd. “irreperibili” – quale contratto a favore del terzo derivano importanti conseguenze. L’art. 1411, 3° comma, cod. civ., infatti, dispone che «in caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto» (e, del resto, con riguardo al deposito effettuato anche nell’interesse di un terzo si è autorevolmente osservato che sarebbe inammissibile che «un soggetto estraneo al contratto [abbia] il potere illimitato di paralizzare, eventualmente all’infinito, il diritto del depositante alla restituzione», dovendosi, per contro, qualificare tale negozio come il contratto con cui «il depositante effettua un deposito con l'intento che il depositario consegni la cosa ad un terzo, se si verifica un determinato evento futuro e incerto, o che restituisca la cosa a lui medesimo, se quell’evento non si verifica»[19].

Applicando la norma appena citata, il “rifiuto” del creditore irreperibile di riscuotere la somma depositata nel suo interesse, comporterebbe l’effetto di far permanere la prestazione (: il pagamento della somma di denaro depositata) a beneficio dello stipulante (: la curatela fallimentare).

Resta, tuttavia, da verificare se il semplice decorso del tempo senza che il creditore ritiri le somme depositate possa integrare la fattispecie del “rifiuto” prevista dall’art. 1411, 3° comma, cod. civ.

 

6.2. (Segue) La decadenza prevista dall’art. 2, lett. c-bis., d.l. 16 settembre 2008, n. 143. Rifiuto del terzo di profittare della stipulazione e “Verwirkung”.

Secondo la dottrina, il rifiuto del terzo, menzionato dall’art. 1411, 3° comma, cod. civ., costituisce, in realtà, una vera e propria rinunzia ad esercitare il diritto di credito nei confronti del depositario[20]. Al riguardo, è noto che la giurisprudenza di legittimità ha ormai fatto propria – riconoscendone la validità nel nostro ordinamento giuridico – la teoria, elaborata dalla dottrina tedesca, della c.d. Verwirkung. In particolare, secondo la Cassazione, «il comportamento – interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. – del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva (vedi Cass. 28-04-2009 n. 9924). Che, poi, «di questo comportamento rilevi l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva, resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede, tutto ciò non importa ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio (in questi termini, vedi in motivazione, Cass. cit. n. 9924/2009 e relativi riferimenti a Cass. 15-3-2003 n. 5240, 26-2-2004 n. 3861, 26-6-2008 n. 13549 secondo cui il ritardo nell’esercizio del diritto può portare, nell’insieme delle specifiche circostanze, a ravvisare una tacita rinuncia alla situazione giuridica di vantaggio di cui si è titolari)» (così Cass. 8 aprile 2016, n. 6900).

Potrebbe allora concludersi nel senso che il comportamento del creditore irreperibile che trascuri di esercitare il diritto di riscuotere le somme depositate dal curatore, addirittura permettendo che operi il termine di decadenza quinquennale  previsto dall’art. 2, lett. c-bis., d.l. n. 143/2008, costituisca indice di una sua «tacita rinuncia alla situazione giuridica di vantaggio di cui […] è titolar[e]», con conseguente applicazione dell’art. 1411, 3° comma, cod. civ., che appunto dispone, in questo caso, che la prestazione rimanga a beneficio dello stipulante, cioè della curatela fallimentare. Ne deriva, quindi, che, anche seguendo l’impostazione appena descritta, i disciolti organi della procedura riacquisterebbero la disponibilità delle somme depositate a favore dei creditori irreperibili.

 

7. Conseguenze dell’interpretazione proposta

Sia che si faccia ricorso alla disciplina del “deposito liberatorio”, sia – e a maggior ragione – se si ritiene che tale figura di deposito sia riconducibile al contratto a favore del terzo, deve legittimamente concludersi nel senso che la prolungata inerzia dei creditori irreperibili nel riscuotere le somme depositate a loro favore faccia sorgere in capo al depositante (: la curatela) un diritto verso il depositario a pretendere la restituzione delle somme versate. E tali somme, analogamente a quanto prevedeva (e prevede oggi) l’art. 117, 2° comma, l. fall. con riguardo a quelle depositate a favore dei creditori “condizionali” rispetto ai quali la condizione non si è verificata o la cui verificazione è divenuta impossibile, dovrebbero essere oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori rimasti, in tutto o in parte, insoddisfatti. E del resto, in linea con tale conclusione, sembra porsi anche l’art. 2, 2° comma, lett. c-bis, d.l. n. 143/2008, là dove prevede che confluiscono al F.U.G. le somme «non riscoss[e] o non reclamat[e] dagli aventi diritto entro cinque anni dalla data in cui il procedimento si è estinto o è stato comunque definito».

Circa le modalità della prospettata ripartizione, potrebbe sostenersi (anche se, alla luce delle citate pronunce della Cassazione, non appare agevole sostenere tale argomentazione), in primo luogo, che trovi applicazione, in via analogica, il meccanismo oggi previsto dall’ultimo comma dell’art. 117 l. fall., secondo cui le somme non riscosse vengono ripartite «fra i soli richiedenti». Ne deriverebbe che, a seguito dell’istanza di uno o più creditori finalizzata a procurare il recupero delle somme non riscosse presso il depositario, queste dovrebbero essere oggetto di distribuzione, nel rispetto dell’ordine previsto dall’art. 111 l. fall., solo tra coloro che hanno presentato l’istanza. Appare, tuttavia, più plausibile che possa trovare applicazione (ancora una volta, in via analogica) la norma contenuta nell’art. 117, 2° comma, l. fall. (vecchio testo: ma la norma è riprodotta anche dopo la riforma del 2006), per cui tali somme dovrebbero essere oggetto di «riparto supplementare fra gli altri creditori»: cioè tutti i creditori ammessi al passivo diversi dagli irreperibili (essendo per questi ultimi maturata la decadenza quinquennale sopra ricordata). Ciò potrebbe avvenire:

(i)     o da parte dei disciolti organi della procedura che, secondo una parte della dottrina, conservano singole e determinate funzioni, quale quella di predisporre un riparto fallimentare supplementare[21];

(ii)   o ricorrendo, su istanza di qualunque creditore (o dello stesso debitore ritornato in bonis), all’istituto “generale” della riapertura del fallimento ex art. 121 l. fall. (come bene osservato, «l’istituto in parola rappresenta un’applicazione della regola per cui il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni, presenti e futuri, di cui agli artt. 2740 e 2741 c.c., dovendo la sopravvenienza di risorse essere gestita, in presenza di obbligazioni non soddisfatte a seguito della chiusura del fallimento […], in base alle regole della concorsualità, anziché secondo quelle dell’esecuzione individuale».

 

8. Interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006

Le conclusioni cui si è giunti sono, peraltro, imposte dalla interpretazione dell’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006, in un senso conforme alla Costituzione.

Se l’originario articolato delle legge fallimentare poteva, infatti, ammettere forti limitazioni del diritto dei creditori ad attuare, nell’àmbito del fallimento, la garanzia patrimoniale della propria pretesa anche in nome dell’interesse pubblico all’efficiente funzionamento della procedura ed alla rapida definizione della fase di eradicazione dell’impresa malata dal mercato, ciò non sembra però compatibile con la c.d. “Costituzione economica” che ha trovato ingresso nel nostro ordinamento nel 1947.

Non va dimenticato, infatti, che l’approvazione della legge fallimentare del 1942 si colloca in un’epoca nella quale l’architettura tipicamente individualistica in cui affondava le proprie radici la concezione ottocentesca dello Stato era stata da tempo messa in crisi. Essa aveva lasciato il posto al tentativo di superamento della centralità della proprietà in favore di un concetto di impresa che, secondo l’ideologia corporativa fascista, doveva essere funzionale al superiore interesse della Nazione sancito dalla “Carta del lavoro” del 1927[22].

La legislazione concorsuale del 1942 è quindi l’esito di un processo evolutivo (o, se si vuole, piuttosto, involutivo) che nasce negli anni ’30 del secolo scorso, basato sull’assunto per cui la crisi delle imprese «doveva essere affrontata con procedure che rapidissimamente, senza intralci da parte di chicchessia (nemmeno i creditori), dovevano portare alla liquidazione del patrimonio». In queste procedure il giudice aveva poteri decisori esclusivi e i creditori rimanevano sullo sfondo, quali destinatari passivi di un’attività di etero-tutela dei propri interessi sulla quale non avevano indirizzo né controllo[23].

Tuttavia, nonostante la legge fallimentare avesse posto la tutela dell’interesse pubblico al di sopra dei diritti del debitore e dei creditori, una volta entrata in vigore la Costituzione, che ha scelto – pur con certi limiti –  un sistema di economia di mercato e ha considerato inviolabile il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti soggettivi, essa non subì modifiche: almeno finché (dopo una serie di tentativi falliti negli anni) non è intervenuta la riforma del 2006 (preceduta dal più limitato intervento sul concordato preventivo nel 2005).

Il fatto che il legislatore del 1942 non avesse espressamente tenuto conto del legittimo interesse dei creditori rimasti insoddisfatti ad attuare la propria garanzia patrimoniale, ai sensi dell’art. 2740 cod. civ., sulle somme non riscosse dai creditori irreperibili – ciò che, forse, può trovare fondamento in un contesto come quello descritto – non significa necessariamente che l’assenza di una tutela del genere sia da ritenere compatibile con le norme (sopravvenute alla legge fallimentare) contenute nella Carta Costituzionale e, in particolare, con quella che viene definita la c.d. “Costituzione economica”.

Al riguardo, è stato osservato che il “credito” è tutelato dalla Costituzione sia dal punto di vista sostanziale, sia da quello processuale[24].

Sotto il primo profilo, rilevano sia il principio consacrato nell’art. 41, che protegge «una posizione individuale di vantaggio, e cioè quel diritto di iniziativa economica che trova nel diritto di credito (nella conservazione e attuazione dei crediti acquisiti) una fondamentale condizione di operatività»; sia quello fissato dall’art. 42, che si ritiene «capace di coprire con le sue garanzie [non solo il diritto di proprietà, ma anche] qualsiasi situazione soggettiva che rappresenti un valore patrimoniale per chi ne è titolare, anche se è un valore che non si esprime nel dominio di una res».

Sotto il secondo profilo, la Costituzione, con l’art. 24, tutela il credito nei confronti di discipline (come quella che verrebbe in rilievo se si interpretasse l’art. 117, 3° comma, l. fall. negando ai creditori insoddisfatti di beneficiare delle somme non riscosse spettanti agli irreperibili) «che, in vario modo, pregiudicano la (piena) azionabilità e la difendibilità in giudizio delle posizioni dei creditori di un’impresa insolvente».

A questo riguardo, si registrano, ad esempio, pronunce sentenze della Corte Cost., come la n. 539/1990 (e, ancor prima, la n. 102/1986) che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di determinati profili dell’art. 100 l. fall., nella parte in cui comprimeva entro limiti troppo stretti il diritto dei creditori concorsuali di opporsi all’ammissione tardiva di crediti. Ma nello stesso solco (per quanto con riferimento a profili di incostituzionalità di norme estranee alla legge fallimentare) si può apprezzare anche la sentenza n. 155/1994, che – sebbene abbia respinto la questione di illegittimità costituzionale – ha aperto uno spazio, per quanto limitato, alla possibilità di affermare, pur in presenza di una formale tutela giurisdizionale, la sua inadeguatezza a garantire in modo soddisfacente la posizione soggettiva tutelata (vero è che i creditori insoddisfatti godono di una tutela giurisdizionale, ma questa – se si interpreta l’art. 117 l. fall. escludendo la possibilità di beneficiare riparti aggiuntivi – può essere considerata non adatta a tutelare adeguatamente la loro posizione soggettiva di creditori). Con riguardo al profilo della tutela sostanziale (ancora una volta respingendo nel caso concreto il dubbio di incostituzionalità), la Corte afferma che è sì ammissibile che la legge sacrifichi diritti o valori meritevoli di protezione (come il diritto di credito) in nome della tutela di altri interessi; ma tale sacrificio è legittimo (dal punto di vista costituzionale) in tanto, in quanto risulti ragionevolmente giustificato dall’esigenza di proteggere anche altri valori e altre posizioni di interesse a loro volta (più) meritevoli di tutela costituzionale.

In altri termini, per verificare la costituzionalità di una norma che sacrifica il diritto dei creditori a soddisfare pienamente la propria garanzia patrimoniale sull’altare di altri interessi, occorre «idealmente porre su un piatto della bilancia tale sacrificio di posizioni individuali; e sull’altro piatto i valori e gli obiettivi che tramite quel sacrificio si vogliono salvaguardare (avendo anche riguardo a un principio di proporzionalità o adeguatezza, e cioè al grado in cui quel sacrificio – nella specifica intensità in cui esso volta a volta si manifesta – sia obiettivamente funzionale o necessario alla tutela di quei valori/obiettivi)»[25].

Ora, ritornando alla nostra questione, non sembra affatto che il sacrificio imposto ai creditori parzialmente insoddisfatti di non potere beneficiare del riparto aggiuntivo delle somme non riscosse dagli irreperibili sia compensato, adeguatamente e proporzionalmente, dal conseguimento di obiettivi e interessi maggiormente meritevoli di tutela e che trovano attuazione in principi costituzionali dotati di una forza quantomeno pari ordinata.

Non è certo sovraordinato all’interesse dei creditori dell’impresa insolvente quello dello Stato a conseguire le somme depositate con il meccanismo del F.U.G.: si dovrebbe altrimenti affermare che la liquidazione del patrimonio di un debitore insolvente risponde (anche) a un interesse pubblico estraneo all’organizzazione imprenditoriale e al mercato. Né può dirsi che l’obiettivo che voleva conseguire il legislatore fosse quello della più rapida chiusura dei fallimenti: sia perché le regole che presidiavano gli accantonamenti per i crediti sottoposti a condizione avrebbero comunque determinato un ritardo nella definizione del processo di fallimento; sia perché, se questo era l’obiettivo del legislatore, di certo la previsione dell’art. 117 l. fall. non si è dimostrata adeguata al raggiungimento dello scopo, se è vero – com’è vero – che in Italia abbiamo assistito a fallimenti che si sono protratti per più di una decina d’anni; infine, perché l’esigenza di portare a termine rapidamente le procedure fallimentari è stata tenuta ben presente dal legislatore della riforma del 2006, che tuttavia ha previsto espressamente il diritto dei creditori insoddisfatti a chiedere la ripartizione delle somme non riscosse dagli irreperibili. Infine, volendo tenere presente il contesto normativo dell’epoca, che non aveva preso in considerazione la “prassi” del deposito giudiziario e non conosceva le disposizioni del d.l. n. 143/2008, non si può certo affermare che il diritto dei creditori insoddisfatti potesse essere sacrificato a vantaggio di quello della banca depositaria che, secondo l’interpretazione più diffusa, avrebbe potuto incamerare definitivamente le somme depositate una volta prescritto il diritto del creditore irreperibile a richiederne il pagamento.

Le considerazioni che precedono non consentono quindi di interpretare l’art. 117, 3° comma, l. fall. (vecchio testo), anche sulla base della sua qualificazione quale “deposito liberatorio”, nel senso di privare i creditori insoddisfatti del diritto di ottenere una tutela giurisdizionale del proprio diritto all’attuazione alla garanzia patrimoniale generica costituita dal patrimonio del debitore su qualunque somma residui nell’ambito della liquidazione fallimentare.

Ne deriva che va necessariamente riconosciuto, in capo ai creditori insoddisfatti, il diritto a concorrere alla ripartizione delle somme non riscosse dai creditori “irreperibili” a favore dei quali erano state depositate. Diritto da attuarsi o nelle forme oggi previste dall’art. 117, 4° e 5° comma, l. fall., al quale si potrebbe attribuire valenza di attuazione, anche in via di interpretazione della disciplina abrogata dalla riforma del 2006, di un adeguato bilanciamento tra diversi interessi costituzionalmente garantiti; ovvero, comunque, ritenendo a questi fini adeguato il meccanismo già previsto nel vecchio testo dell’art. 117 l. fall. per la distribuzione delle somme oggetto di deposito a favore dei creditori “condizionali” nel caso di mancata o impossibile verificazione della condizione.


* Contributo sottoposto al comitato di valutazione e destinato alla rivista Quaderni di Ristrutturazioni aziendali.

[1] Cass. 22 novembre 2021, n. 36050; Cass. 26 novembre 2021, n. 37059

[2] Si deve, infine, ritenere che l’art. 117, 3° comma, l. fall. nel testo anteriore alla riforma del 2006 sia applicabile alle procedure di amministrazione straordinaria. Quanto alle procedure disciplinate dalla legge n. 95/1979, si osserva che l’art. 1, 3° comma, dispone che la procedura «è disciplinata, in quanto non diversamente stabilito con il presente decreto-legge, dagli articoli 195 e seguenti e dall’articolo 237 della legge fallimentare», tra i quali l’art. 213, rubricato “chiusura della liquidazione” prevede che «si applicano le norme dell’articolo 117». Avuto riguardo alle procedure disciplinate dalla d.lgs. n. 270/1999, l’art. 67 prevede che «le ripartizioni hanno luogo secondo le disposizioni degli articoli 110, secondo e terzo comma, 111, 112, 113, 114, 115 e 117, secondo e terzo comma, della legge fallimentare». Tale ultima norma trova applicazione anche per le procedure regolate dalla l. 18 febbraio 2004, n. 39 (c.d. “Legge Marzano”) in forza di quanto previsto dall’art. 8, secondo cui «per quanto non disposto diversamente dal presente decreto, si applicano le norme di cui al decreto legislativo n. 270, in quanto compatibili».

[3] Pubblicato in G.U.R.I. – Serie Generale, n. 12 del 16 gennaio 2006.

[4] Oltre alle decisioni sopra richiamata, cfr.: Cass. 14 febbraio 2019, n. 4514; Cass. 28 febbraio 2020, n. 5618 e Cass. 12 marzo 2020, n. 7120.

[5] G. Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1994, 467.

[6] A. Bonsignori, Della liquidazione dell’attivo, in Comm. Scialoja - Branca, Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1976, 351 ss.

[7] M. Montanari, I procedimenti di liquidazione e ripartizione dell’attivo fallimentare, Padova, 1995, 549

[8] Così: A. Bonsigniori, op. cit., 353; nello stesso senso, V.L. Cuneo, Le procedure concorsuali. Natura, effetti, svolgimento, Milano, 1988, 1288; F. Ferrara-A. Borgioli, Il fallimento5, Milano, 1995, 611; S. Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 378; G.U. Tedeschi, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, 579; ma, sul termine di prescrizione – rectius, oggi: decadenza – del diritto del beneficiario a chiedere il pagamento delle somme depositate, v. infra §§ 3, 7.

[9] V., ad esempio, Cass. 3 maggio 1999, n. 4389.

[10] Ai sensi dell’art. 2, R.D. 10 marzo 1910, n. 149; in alcuni casi, anche presso un istituto bancario: sulla equiparazione delle due modalità di deposito, v. la Circolare n. S/36-U 1492 del 20 agosto 1993, Aff. Civ. Segr. del Ministero della Giustizia.

[11] Alla prassi, di largo uso, si fa riferimento in AA.VV., Codice del fallimento, a cura di P. Pajardi, V ed., Milano, 2004, p. 947; in argomento, v. anche P. Genoviva, op. cit., p. 358 ss.

[12] Cfr. P. Genoviva, op. cit., p. 361.

[13] Cfr. la Circolare del Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Bologna in data 18 marzo 2008.

[14] Trib. Milano, 4 giugno 2018; Trib. Milano, 20-21 marzo 2019; Trib. Milano, 17 luglio 2019; indirettamente, Trib. Milano, 8 agosto 2016 ed esplicitamente Trib. Milano, sez. II, 18 ottobre 2016; Trib. Vicenza, 18 novembre 2019.

[15] La tesi è sostenuta, in primo luogo, da G. Cattaneo, sub art. 1210, in Della mora del creditore,in Comm. del cod. civ., a cura da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1973, p. 206, secondo il quale «un altro caso particolare di deposito liberatorio è previsto dal r.d. 16 marzo 1942 n. 267, in tema di fallimento» e «può avere luogo dopo che il giudice delegato abbia ordinato il riparto finale delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo».

[16] Con conservazione, in questo caso, del relativo effetto liberatorio: così G. Cattaneo, sub art. 1213, cit., 233; in senso conforme, G. Giacobbe, voce «Offerta reale (dir. priv.)», in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, § 20; contra U. Natoli-L. Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e “mora debendi, Milano, 1975, p. 196 s., secondo i quali, con il consenso al ritiro del deposito, rivivrebbe l’obbligazione originaria.

[17] Così, G. Cattaneo, op. cit., 188 ss.; in senso conforme, C.M. Bianca, Diritto civile. 4. L’obbligazione, Milano, 1998, 412; già G. Pacchioni-C. Grassetti (a cura di), Obbligazioni e contratti, Padova, 1950, 16; M. Giorgianni, Lezioni di diritto civile (1955-56), Varese, 1956, 131; contra A.Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, 200 ss., secondo il quale si tratterebbe della combinazione di un contratto di deposito con un contestuale contratto di accollo, tale per cui il depositario assumerebbe il debito del depositante verso il terzo, con conseguente liberazione del depositante.

[18] Così: G. Cattaneo, op. cit., 189.

[19] U. Majello, Custodia e deposito, Napoli, 1958, p. 325; in senso conforme A. Dalmartello - G.B. Portale, voce «Deposito (dir. vig.)», in Enc. dir., XII, Milano, 1964, § 29.

[20] Mirabelli, Dei contratti in generale, in Comm. del Cod. Civ., IV, 2, Torino, 1980 p. 347; O.T. Scozzafava, Contratto a favore di terzi, in Enc. Giur., IX, Roma, 1991, 6.

[21] C. Celoria-P. Pajardi, Commentario della legge fallimentare, I, Milano-Messina, 1960, p. 707 ss.; M.R. Grossi, Il nuovo curatore fallimentare, Milano, 2009, p. 320; E. Mattei, La ripartizione dell’attivo, in Crisi di impresa e procedure concorsuali, diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, Vicenza, 2016, 2, p. 2241; in giurisprudenza, Trib. Milano, 22 marzo 2017, in ilcaso.it, secondo cui – con riguardo alla disciplina riformata – il giudice delegato e il curatore restano in carica, anche quando il fallimento è stato chiuso per integrale ripartizione dell’attivo, al fine di procedere a un riparto supplementare di somme conseguite dopo la chiusura.

[22] Secondo cui «lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell'interesse della Nazione. – L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato»: cfr. L. Stanghellini, La genesi e la logica della legge fallimentare del 1942, in La cultura negli anni ’30, a cura di G. Morbidelli, Firenze, 2014, p. 165; sulla visione dell’impresa come comunità di Lorenzo Mossa, il quale la concepiva come «non più la proiezione di un soggetto e del suo dominio ma una comunità che veda coinvolte nel suo governo anche le forze del lavoro», e sul carattere di relativo isolamento di tale visione nel panorama italiano, v. P. Grossi, Itinerarii dell’impresa, in Quaderni fiorentini, XXVIII, Continuità e trasformazione: la scienza giuridica italiana tra fascismo e repubblica, 1999, 999 ss., ivi 1005 ss.

[23]  L. Stanghellini, op. cit., p. 172.

[24] V. Roppo, Tutela costituzionale del credito e procedure concorsuali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1999, p. 1 ss.

[25] Così V. Roppo, op. cit., p. 9.